FALCONE, Aniello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FALCONE, Aniello

Giuseppe Scavizzi

Nacque a Napoli il 15 nov. 1607 da Vincenzo e Giovanna de Luca (De Dominici, 1743, p. 70, fornisce la data errata del 1600).

Il padre Vincenzo aveva bottega d'indoratore e fu ripetutamente console dell'"arte delli indoratori" fino alla morte che avvenne il 3 giugno 1648 in casa del figlio; doveva essere benestante dato che possedeva un vasto comprensorio di case nella strada della Sellaria (Prota Giurleo, 1951). Altri fratelli e parenti del F. erano egualmente artisti.

Molti documenti riportati in luce principalmente da Faraglia (1905), Saxl (1915 e 1939-40) e Prota Giurleo (1951) ci permettono di seguire la vita di questo pittore attraverso gli anni: nel 1636 teneva accademia di nudo con Matteo di Guido e Onofrio Masturzo (Saxl, 1915); nel 1638 assumeva Onofrio Giustiniano come assistente (Prota Giurleo, 1951); nel 1639 Luca Forte e Agostino Beltrano erano testimoni al suo matrimonio con Orsola Vitale, figlia del pittore Filippo. Una figlia nacque al F. nel 1646, ma doveva essere già morta nel 1650 quando venivano menzionati invece, in un atto relativo a una eredità di Filippo Vitale, gli altri tre figli Vincenzo, Antonio e Caterina (Prota Giurleo, 1951). Nel 1651 risiedeva nel palazzo del principe di Tarsia (Saxl, 1915). Ammalatosi, il 14 luglio 1656 il F. faceva testamento (Faraglia, 1905): dalle proprietà ch'egli lasciava in quell'occasione ai vari membri della famiglia si deduce che la sua attività era stata redditizia. L'assenza di notizie dopo la data del testamento fa pensare che il F. morisse poco dopo, probabilmente di peste, come tanti altri pittori napoletani in quello stesso anno (anche per la morte De Dominici, 1743, p. 77, fornisce la data errata del 1665); secondo Dalbono (1876; vedi anche Saxl, 1939-40) sarebbe stato interrato nella chiesa del Carmine Maggiore.

Il F. ebbe grande successo presso i massimi collezionisti napoletani del tempo come i Caracciolo principi d'Avellino e i suoi tre maggiori committenti: Cesare Firrao principe di Sant'Agata, Gaspare Roomer e Ferrante Spinelli principe di Tarsia. Gli Spinelli possedevano 50 quadri di lui; quanto al Roomer, nel 1647 gli richiedeva una serie di Battaglie dalla Gerusalemme Liberata, poi inviate in Fiandra e ora perdute, e intorno alla stessa data gli faceva dipingere la galleria della sua villa a Barra. Fantasioso appare il racconto del coinvolgimento del F. nella rivolta di Masaniello e nella Compagnia della morte, gruppo di artisti che combattevano per la rivoluzione di giorno e dipingevano di notte, leggenda creata da De Dominici (1743, p. 77) e amplificata in epoca romantica (Saxl, 1939-40). È invece possibile che dopo il 1647 il F. abbia conosciuto a Roma il Borgognone e poi abbia brevemente soggiornato e lavorato a Parigi, secondo quanto riporta sempre il De Dominici (1743).

L'affermazione del De Dominici (p. 71) che il F. fu allievo di G. Ribera può essere accettata, e certo concorda con l'orientamento realista del giovane pittore. La Maestra di scuola, che è in genere considerata la sua opera più antica (ill. in Spinosa, 1989, n. 732), pur nella ripresa del simbolismo rinascimentale, ci dà un'immagine perspicace di verità ambientale, di analisi sottile sia dell'umanità dei personaggi sia del rapporto che lega questi fra loro. L'influenza del primo decennio napoletano del Ribera è leggibile nel volto della maestra e nei libri; però vediamo anche una cultura ampia e diversificata, che il F. probabilmente si fece direttamente a Roma sul caravaggismo a passo ridotto dei bamboccianti, e un vigore chiaroscurale che richiama anche il giovane D. Velázquez (Longhi, 1950). Un indubbio successo dovette aprirgli la strada per commissioni importanti quali le due tele del Prado con Gladiatori e Soldati romani nel circo, parte di una serie di composizioni con storie antiche commissionate ai massimi artisti romani e napoletani del tempo da Filippo IV per il palazzo del Buen Retiro a Madrid.

Il legame ancora stretto col Ribera fa preferire per queste tele una datazione entro il 1638, quando un vasto lotto di opere simili giunse a Madrid (Brown-Elliot, 1980), alla datazione più tarda spesso proposta. Qui comunque lo stile del F. assume un tono monumentale: il dispiegamento di figure a fregio, lo studio accurato dei nudi, i movimenti e le proporzioni calcolate dei cavalli indicano una ripresa classica, con riferimenti a N. Poussin e F. Duquesnoy oltre che al classicismo bolognese. Questo aspetto "accademico" - che qui bene si combina con lo straordinario naturalismo dei nudi (gli sfondi in entrambi i quadri sono di D. Gargiulo) - diverrà una caratteristica dell'arte del F., come è testimoniato dai suoi molti studi di figura e dal fatto che fin dal 1636, e probabilmente per un lungo periodo, egli tenne nel suo studio accademia di nudo.

La svolta verso il classicismo romano-bolognese si consolidò agli inizi del quinto decennio. In questa svolta viene anche in superficie, in forma sempre più forte, il neo-venetismo portato a Napoli, oltre che dalle opere di Poussin, da G. B: Castiglione intorno al '35, con echi di una vasta gamma di esperienze romane (A. Sacchi, P. F. Mola, F. Cozza). Il Riposo in Egitto nella sacrestia del duomo di Napoli (una versione più piccola è in collezione privata a Napoli), firmato e datato 1641, mostra una bellissima combinazione di verismo caravaggesco, pittoricismo neoveneto e classicismo bolognese. Le Storie del Vecchio Testamento, affrescate nella cupola della cappella di S. Agata in S. Paolo Maggiore per Cesare Firrao nel 1641-42, sono eseguite, come ben dice De Dominici (1743, p. 74), con maniera "dolce, ma robusta e ben fondata nel disegno"; la sintesi di naturalismo e di classicismo - visibile questo nel modellato ampio delle forme e nel paesaggio - richiamano l'opera di M. Stanzione e di A. Gentileschi (documenti in Novelli Radice, 1974; gli affreschi includono Boas e Rut, Abigail e Davide, Ritorno dalla terra promessa e Debora e Barac, rappresentanti rispettivamente le quattro virtù Benignità, Liberalità, Abbondanza e Grazia divina). Gli affreschi della villa già Roomer e ora Rodinò di Miglione a Barra, riscoperti di recente e probabilmente eseguiti intorno al 1647, riflettono il Poussin neoveneto del quarto decennio (cinque comparti di una volta con Ritrovamento di Mosè, Mosè fa sgorgare l'acqua, Attraversamento del Mar Rosso, Battaglia di Israeliti e Amalachiti, Serpe di bronzo). Gli affreschi della sacrestia del Gesù Nuovo infine, del 1652, condividono i caratteri stilistici di quelli più antichi (S. Michele scaccia gli angeli ribelli e Scene della vita di s. Ignazio, fra le quali l'Assedio di Pamplona oltre a due figure di S. Pietro e S. Paolo; documenti in Novelli Radice, 1974; Rizzo, 1984).

È difficile dire se il F., partito da un'esperienza naturalistica e poi mossosi in direzione classicheggiante, sia tornato negli anni della maturità al naturalismo, oppure abbia alternato modi diversi in opere cronologicamente vicine. Certo è che esistono di lui opere che riflettono un realismo più marcato e un'inclinazione più spiccata verso il genere, e che potrebbero essere state eseguite negli stessi anni delle opere sopra citate. La Cacciata dei mercanti dal tempio del Prado ci offre un primo piano con una natura morta veramente superba e ritratti degni di un Velázquez in tono minore. Il Concerto, anche del Prado, parimenti sfoggia un senso degli oggetti straordinario pur nel pittoricismo squisito della materia; il cesto di fiori vi è stato attribuito a P. Porpora. L'Elemosina di s. Lucia, a Capodimonte, mostra varietà di gesti, espressioni e costumi in un esterno reso con toccante verismo. Eppure queste tre opere sono datate variamente dal '40 (l'Elemosina da Longhi, 1950, indietro fin dentro il quarto decennio del secolo) agli ultimi anni del pittore, e, secondo alcuni, rifletterebbero lo stile di A. Le Nain conosciuto in Francia (Causa, 1972; De Vito, 1982). Questa oscillazione delle datazioni dimostra probabilmente che il F. alternò modi più o meno naturalistici a seconda delle occasioni, ma che nell'animo rimase sempre un pittore realista e che produsse opere come queste durante tutta la sua carriera.

Più che realista, il F. fu essenzialmente pittore di genere, e a differenza di molti suoi contemporanei napoletani preferì specializzarsi in quadri da cavalletto di contenuto secolare per collezionisti privati; il gusto per il genere pervade tutta la sua opera, incluse certe sue composizioni religiose come l'Elemosina di s. Lucia, sopra citata.

È incerto se abbia dipinto nature morte. In un inventario del 1732 si descrive una sua natura morta, fatta in collaborazione con Luca Forte (Mormone, 1962), e dal Bottari (1966) il F. è stato addirittura identificato con il cosiddetto Maestro di palazzo di S. Gervasio, ipotesi però in genere non accolta. Rimane il fatto che egli sicuramente collaborò con L. Forte e forse, come si è detto, col Porpora. Il genere che rese famoso il F. fu quello delle battaglie, nel quale eccelse tanto da guadagnarsi l'epiteto di "Oracolo delle battaglie", e che gli attirò i favori dei collezionisti europei per tutto il Sei e Settecento. Egli certo non creò il genere, che gli pervenne dalla tradizione manieristica (Cavalier d'Arpino, A. Tempesta) e forse anche da quella rinascimentale (Saxl, 1939-40, insiste sulla conoscenza di Leonardo), alle quali la critica antica e moderna hanno sempre legato le prime sue opere; ma lo rinnovò profondamente. Le sue composizioni, che sono ispirate ai soggetti più diversi (storie dal Vecchio Testamento, dalla Gerusalemme liberata, dalle crociate; scene di guerre fra Turchi e Cristiani e scene tratte probabilmente dalla cronaca contemporanea), rendono lo spirito della lotta in un modo diretto e realistico; anche se in genere rappresentano il culmine dell'azione, esse sorvolano completamente sugli elementi retorici tradizionali o sull'esaltazione eroica dei personaggi. Come osservò Saxl (1939-40), il F. ci offre una visione né eroica, né drammatica della battaglia, con uno stile né epico, né tragico; questo deriva dal fatto, aggiungiamo noi, che le battaglie del F. non hanno origine nella cultura letteraria ma in una realtà vissuta, per la quale la guerra era parte dell'esperienza quotidiana (a questo proposito è irrilevante se poi, come è stato dibattuto, il F. abbia o non abbia avuto della guerra un'esperienza diretta).

Le battaglie del F. sono classicamente composte, con sapiente alternanza di masse di soldati e paesaggi, di luci e di ombre. Dentro questa cornice indubbiamente artificiale, e in forma decantata, il F. ci offre scene di una verità quasi quotidiana: moti naturali di cavalli e cavalieri, intensi ritratti, costumi ben descritti; le figure hanno modellato pieno e essenziale, e le cose vi sono trattate come in una natura morta; diversi paesaggi sono riconoscibili e sono infatti stati identificati con luoghi del Napoletano (Alabiso, 1988 e 1989). Per molte di queste composizioni la datazione è difficile, ma l'evoluzione del F. è chiara. Le prime battaglie (come quella del Louvre, firmata e datata 1631) sono caratterizzate da una relativa semplicità compositiva, una delineazione essenziale delle componenti, con vaste masse indistinte di combattenti, entro sfondi paesistici limitati; l'intonazione vi è scura, gli effetti di luci e ombre drammatici; i tipi umani vi sono ordinari e il dettaglio rivela l'ascendenza velázqueziana. Già nella Battaglia di Ebrei e Amalachiti di Capodimonte, del 1635 circa, la composizione si fa più affollata e complessa, con una migliore relazione fra primi piani e sfondi e più sottile articolazione dei vari episodi, con analisi di stati d'animo, gesti ed espressioni individuali. Le battaglie posteriori denotano stile ancora diverso, con tonalità più chiare, in armonia con la vena più descrittiva, forme più levigate e quasi stanzionesche nel modellato elegante, più numerosi episodi e dettagli. La Battaglia firmata e datata 1646 in collezione privata di Milano (De Vito, 1982) e quella simile a Schleisshem mostrano una ricchezza di tipi espressivi ricercata intenzionalmente. Il Saccheggio di Ithaca (NY; Alabiso, 1989), di questi stessi anni, egualmente mostra grande varietà di episodi in un paesaggio ampio: un caduto denudato e derubato, una donna rapita, del bottino trafugato mentre l'esercito nel fondo entra nella città devastata dalle fiamme. Nella Battaglia di cavalieri spagnoli in coll. privata a Napoli (Alabiso, 1984) vi è una minuziosa descrizione dei cannoni, dei barili di polvere, di cavalli e costumi di una ricchezza quasi barocca; lo sfondo vi è stato identificato in un monte del Beneventano. In questi anni (1645-50) spesso il F. tratta la battaglia non nello svolgimento ma in preparazione, con cura naturalistica nel descrivere ogni dettaglio (De Vito, 1982): nella Battaglia del Museo nazionale di Stoccolma il conflitto vero e proprio è sospinto nella lontananza; la vera anima del quadro è nelle figure dei cavalieri che occupano la parte centrale del primo piano con le loro forme statiche, monumentali, scultoree, e le rocce che campeggiano nel centro raccogliendo la luce della sera.

Che le scene del F. siano composte con cura e che la loro costruzione sia mediata è dimostrato dall'importanza che per lui ebbe il disegno, come già era riconosciuto dal De Dominici (1743, p. 78) che possedeva molti suoi fogli. Il F. inseguì sulla carta la realtà della vita, e ancora oggi possiamo vedere nel taccuino della Biblioteca nacional di Madrid o in molti altri fogli come egli accuratamente registrasse volti di giovani, nudi, immagini di cavalieri, dettagli del paesaggio. Ma sulla carta egli costruiva anche le sue composizioni, come si vede dal grande numero di studi preparatori ancora esistenti per i singoli dettagli o per intere composizioni delle sue battaglie, disegni ch'egli seguì fedelmente quando passò al quadro. Un gruppo di fogli con immagini di rovine classiche e paesaggi mostra consonanze con il gusto del pittoresco dei pittori fiamminghi. La sua tecnica preferita era la sanguigna, e il suo stile ancora una volta poteva unire reale e ideale: "e vi son figure ... toccate di lapis rosso così dolcemente, che molti le han credute di Andrea Sacchi; dappoiche egli seppe unire il forte del Ribera, col dolce e nobile stile di Guido" (ibid., p. 78).

È dibattuto il peso che il F. ebbe nell'arte napoletana. Anche se ora si ridimensiona il suo ruolo di diffusore a Napoli dello stile dei bamboccianti, che era parso determinante negli studi degli anni '50, non si può negare che il F. ebbe un ruolo guida per un largo gruppo dì artisti di lui poco più giovani. Molti di questi artisti passarono direttamente per il suo studio come allievi (S. Rosa, C. Coppola, A. De Lione, P. Del Po, P. Porpora, D. Gargiulo, a non considerare figure veramente minori quali M. Masturzo, Matteo di Guido, G. Trombadori e forse altri); molti ne furono semplicemente influenzati, come N. De Simone e A. Beltrano soprattutto agli inizi del quinto decennio. Il problema dell'influenza del F. è in parte offuscato da un grande numero di scambi attributivi che risalgono addirittura al secolo XVIII e che tuttora lo riguardano; la contiguità maggiore appare verificarsi con A. De Lione, al quale sono a volte attribuite opere di peso come gli affreschi di Barra (Novelli Radice, 1976) e un certo numero di Battaglie nelle quali il neovenetismo comune ai due pittori è più in evidenza.

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