ENGELBERGA, imperatrice

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

ENGELBERGA (Enghelberga, Angelberga), imperatrice

François Bougard

Figlia del conte di Parma Adalgiso, consorte dell'imperatore Ludovico II, E. fu una delle sovrane più rappresentative dell'epoca carolingia. Nata probabilmente intorno all'830, apparteneva ad una delle più influenti famiglie dell'aristocrazia franca del Regno d'Italia dell'epoca di Lotario, quella dei Supponidi. Potrebbe aver passato una parte della sua giovinezza a Pavia, nel monastero di S. Marino, se si dà credito alla testimonianza fornita da un elenco di nomi femminili inserito nel Liber confraternitatum di Reichenau, abbazia alla quale S. Marino era affiliato per il tramite di quella di Zurzach (I). Geuenich). Poco tempo dopo il suo avvento all'Impero (aprile dell'850) Ludovico II sposò E., facendo cosi naufragare definitivamente il progetto d'alleanza matrimoniale franco-bizantina concepito da Lotario e dall'imperatrice Teodora nell'842.

Gli Annales Bertiniani testimoniano, nella notizia relativa all'anno 853, quanto Ludovico II si fosse mostrato mal disposto nei confronti di questo suo primo fidanzamento; va inoltre osservato che, a partire dall'843, il ritorno al culto delle immagini lo aveva seriamente compromesso.

La data stessa del matrimonio di E. con Ludovico II resta per noi molto incerta da stabilire. La nostra fonte principale in proposito è il documento relativo al "dotalicium" in favore di E., datato in Marengo il 5 ott. 851. La Pölnitz Kehr ha però dimostrato che questa data e frutto di una interpolazione; il diploma portava infatti in origine la data dell'anno 860, "anno imperii XI, indictione VIIII", poi corretto in "a. imp. II, ind. XIIII*. Alla luce di questo indiscutibile dato di fatto, due sono le ipotesi possibili: o quella giunta sino a noi è la nuova redazione di un documento precedente che sarebbe stata in seguito retrodatata, o il documento a noi noto fu scritto nell'860, quando la donazione fu realmente effettuata, e poi questa data fu corretta. La seconda ipotesi sembra la più probabile e trova forse una spiegazione se la si colloca nel contesto dei tentativi fatti dal re della Lotaringia Lotario II, fratello di Ludovico II, per regolarizzare la sua unione con Gualdrada (S. Konecny): tra le motivazioni avanzate allora dal vescovo Avvenzio per giustificare l'annullamento del matrimonio di quel sovrano con Teutberga figurava infatti l'esistenza di una "praetitulatio dotis" istituita dallo stesso Lotario I in favore di Gualdrada, alla quale suo figlio era notoriamente legato. Ludovico II poté allora cogliere l'occasione di legittimare allo stesso modo il suo legame con E., che gli aveva già dato due figlie, Gisla ed Ermengarda, prendendo cosi indirettamente la medesima decisione di suo fratello. Una indiretta conferma del carattere illegittimo della loro unione la si può cogliere dalla menzione marginale "De Angelberga" in un manoscritto probabilmente milanese della fine del sec. IX (oggi Berna, Bürgerbibl., cod. 363), accanto a questi versi di Servio: "Consuetudinis regiae fuit, ut legitimam uxorem non habentes aliquam licet captivam tamen pro legitima haberent, adeo ut liberi ex ipsa nati succederent". Comunque sia, la correzione della data del diploma relativo al "dotalicium" di E. rappresenta un'informazione preziosa sugli inizi della sua unione con Ludovico II.

Negli anni successivi all'850 non sembra che E. abbia svolto un ruolo di rilievo. Ella esce dall'ombra solo dopo la morte di Lotario I (29 sett. 855): nella primavera dell'856 la coppia imperiale fu ospitata per tre giorni a San Michele di Brondolo (Venezia) dai duchi Pietro e Giovanni, in occasione del rinnovo del patto con i " Venetici". Non è documentato, tuttavia, alcun reale intervento di E. negli affari del Regno d'Italia anteriormente agli anni Sessanta. La prima occasione di esercitare la sua influenza le fu offerta dall'arcivescovo di Ravenna, Giovanni. Questi, già fin troppo indipendente agli occhi di Roma., aveva provocato le lamentele dei suoi amministrati per la brutalità e l'ingiustizia del suo governo. Il papa Niccolò I, dopo averlo convocato a più riprese, fini per scomunicarlo (24 febbr. 861). Giovanni, che era in ottimi rapporti con la corte, si rifugiò allora a Pavia. In un primo tempo E. inviò messi al papa per intercedere in suo favore; dinanzi al rifiuto di Niccolò I, sollecitò l'intervento personale di Ludovico II, che non ottenne peraltro esito migliore. Solo dopo essersi recato a Roma davanti ad un sinodo speciale (nov. 861) Giovanni fu in grado di tornare nelle grazie del papa. Nonostante l'insuccesso del tentativo di E., l'episodio è molto illuminante circa il ruolo assunto dalla sovrana. Per tutto il regno di Ludovico II E. rivesti l'abito, tutto sommato tradizionale, del mediatore e del diplomatico; fatto più insolito, la coppia reale si servi regolarmente della separazione come strumento di governo, dato che E. veniva spesso lasciata in retroguardia per garantire la stabilità di una situazione politica, con una capacità di gestione reale seppure limitata.

L'864 rappresentò per E. una tappa importante nell'accrescimento del suo ruolo politico. Nel novembre dell'863 l'arcivescovo di Treviri, Gunter, e quello di Colonia, Teutgaudo, erano giunti a Roma per comunicare e giustificare il nuovo matrimonio di Lotario Il re della Lotaringia. Appena arrivati, furono convocati, giudicati e scomunicati. Abbandonata la città, andarono a perorare la loro causa presso Ludovico II, in quel momento impegnato in una campagna militare nella regione di Benevento. L'imperatore marciò allora su Roma portando con sé i due prelati (gennaio dell'864): le truppe si scontrarono con una processione ordinata da Niccolò I. Per protesta, il papa si rinchiuse in S. Pietro digiunando per due giorni e due notti. Ludovico II, colpito da febbre, mandò allora la consorte presso il pontefice. Sotto la garanzia di E. Niccolò I venne a trovare l'imperatore e insieme giunsero ad un accordo in virtù del quale i due arcivescovi poterono far ritorno alle loro sedi senza essere ulteriormente molestati. Più tardi, nello stesso anno, l'imperatore fu gravemente ferito in un incidente di caccia. La concomitanza dei due eventi diede senza dubbio modo a E. di rinforzare la sua influenza sulla corte e, in via più personale, sul marito: il primo della lunga serie di diplomi emessi a suo favore dopo il dotalicium data, non a caso, al novembre dell'864; altri dieci lo seguirono fino all'874, tutti solenni (più della metà degli atti di questo tipo sono destinati alla sovrana). Allo stesso modo, a partire dall'865, si moltiplicarono le richieste per il rilascio di diplomi a favore di suoi protetti - a cominciare dal fratello, il conte Suppone (II) -, introducendo cosi per la prima volta nella diplomatica carolingia in Italia una terza persona tra il sovrano ed i sudditi. Questa evoluzione procede parallela a quella dello stesso governo imperiale, sempre più personalizzato.

Il lungo soggiorno di Ludovico II e della sua consorte nell'Italia meridionale (866-872) permise a E. di consolidare definitivamente la sua posizione. Nel giugno dell'866 fu mobilitato l'esercito per andare a combattere contro i Saraceni. Nella marcia verso Benevento la coppia imperiale fu accolta con grande pompa a Montecassino dall'abate Bertario che aveva, tra l'altro, composto versi in onore della sovrana. L'insediamento, destinato a prolungarsi nel tempo, della corte nel Sud e la previsione di un itinerario molto movimentato rendevano necessario modificare alcuni ingranaggi del governo. La Cancelleria fu trasformata in modo da dipendere dal solo sovrano, i documenti redatti dietro sua personale iussio, secondo l'uso dei principi longobardi. Allo stesso modo la preminenza di E. fu istituzionalizzata: i diplomi le attribuiscono il titolo di "imperatrix", che sino a quel momento ella non aveva mai portato, e, ancor più, quello di "consors Imperii" nonché di "consors" e "adiutrix Regni".

Il titolo di "consors Regni" aveva forse fatto la sua prima apparizione nell'863, in un diploma di Niccolò 1 per il vescovo di Adria, la cui data è purtroppo incerta. L'idea di un "consortium" che unisse marito e moglie alla testa del potere imperiale non è di per sé originale, ma sembra trovare per la prima volta un'applicazione istituzionale, anche se sarebbe vano cercare un ambito specifico per le attribuzioni di E. (p. Delogu). Anche al di fuori delle manifestazioni di autorità della sovrana, fondate, in ultima analisi, solo sulla forza della sua personalità, se ne trova traccia nelle acclamazioni riportate da un manoscritto di Chieti, che uniscono E. a Ludovico II ("Angelberge imperatrici salus et vita"): questo tipo di associazione non è di per sé una novità, ma è interessante constatare come la fonte, che ci ha trasmesso tali "laudes" sia meridionale e dati senza dubbio all'866. Esistono anche tre tipi monetari beneventani battuti al nome congiunto di Ludovico II e di "Angilberga Imp.". Non ci si stupirà, dunque, se nell'867 il concilio riunito da Fozio a Costantinopoli per deporre Niccolò I acclamò insieme Ludovico e E., gratificati per l'occasione dello stesso titolo dell'imperatore greco: da parte del patriarca ciò significava tanto prendere atto della nuova posizione di E., quanto voler attirare i due sovrani alla sua causa.

L'imperatrice costituiva ormai uno schermo permanente tra Ludovico II e i suoi fedeli. Fu anche incaricata sempre di più delle relazioni con il Papato e con gli altri sovrani carolingi, dato che Ludovico II era interamente assorbito dalle sue continue campagne militari, mentre lei era più facilmente raggiungibile a Benevento, dove sembra risiedesse stabilmente, intrattenendo eccellenti rapporti con il vescovo di Napoli Atanasio (I).

Questi compiti non erano esenti da forme di ricompensa o da tentativi di pressione da parte degli interessati sotto forma di doni in denaro, oggetti preziosi o terre. Già agli inizi del settimo decennio del secolo il vescovo di Brescia, Notingo, le aveva inviato, da parte dell'abate di S. Gallo, un salterio glossato attualmente conservato nella Biblioteca comunale Passerini Landi di Piacenza (non si conosce la data esatta di questa donazione, ma si può supporre che Notingo, il quale mori nell'863, abbia portato il codice dal suo viaggio in Germania nell'859). Nell'867 Fozio incaricò gli emissari, inviati a presentare all'imperatore un esemplare degli atti del concilio di Costantinopoli, di consegnare doni a lei destinati perché inducesse il marito a deporre Niccolò I. Nell'868 Arsenio, vescovo di Orte e capo dei partito imperiale a Roma, fuggi a Benevento dopo che suo figlio Eleuterio, il 10 marzo, aveva rapito, per farla sua, la figlia che il papa Adriano II aveva avuto dal matrimonio contratto prima della sua ordinazione sacerdotale. Ammalatosi, il presule mori a corte dopo aver affidato il suo tesoro all'imperatrice. Nell'869 Lotario II, "multis petitionibus et muneribus", convinse E. a negoziare per suo conto un incontro con il papa a Montecassino, incontro al quale ella assistette e che mise fine al conflitto che opponeva quel sovrano a Roma a causa del suo divorzio (già nell'866 il re della Lotaringia aveva incaricato suo fratello Ludovico II di rimettere a E. i beni posseduti dall'abbazia di S.Lamberto di Liegi in Svizzera e in Italia). Lo stesso anno l'arcivescovo di Arles ottenne da Ludovico II e da E., "non vacua manu", l'abbazia di S. Cesareo. Nell'870 Ludovico il Germanico scrisse a E. chiedendole di intervenire presso Adriano II perché questi si degnasse di concedere il pallium arcivescovile di Colonia a Wilberto.

Nell'agosto dell'871 E. fu imprigionata, insieme con Ludovico II e con la loro figlia Ermengarda, in seguito alla rivolta degli abitanti di Benevento. Tutti e tre, liberati un mese più tardi, furono costretti a lasciare l'Italia meridionale promettendo che non avrebbero cercato di vendicarsi per la vicenda.

Gli Annales Bertiniani e il Chronicon Salernitanum forniscono due resoconti diversi dell'avvenimento, ma ambedue concordano nell'attribuire a E. gran parte della responsabilità della rivolta. Per il Chronicon, i suoi sarcasmi a proposito del'valore militare dei Beneventani avevano finito con l'esasperarli. Per gli Annales, ilprincipe di Benevento, Adelchi, sarebbe stato avvertito che Ludovico II, "factione uxons suae", meditava di deporlo e di mandarlo in esilio e lo avrebbe preceduto.

Sulla via del ritorno Ludovico II decise di assalire il duca Lamberto nelle sue terre di Spoleto. E. prosegui per Ravenna, dove l'imperatore aveva convocato l'assemblea generale, che fu dunque lei a presiedere e fu, questa, la più alta funzione che ella abbia svolto negli affari interni del Regno.

Poco dopo, al termine dell'871, i sovrani ricevettero a Pavia il vescovo di Capua Landolfo, venuto a chiedere aiuto contro la rinnovata minaccia saracena. Ludovico II, racconta il Chronicon Salernitanum, sedeva su un trono d'oro; l'imperatrice era al suo fianco. Malgrado l'opposizione di E., decisa a rendere umiliazione per umiliazione, Ludovico si lasciò convincere.

Ancora una volta Ludovico ed E. si divisero i compiti. Mentre l'imperatore ripartiva verso il Sud e approfittava del suo passaggio a Roma per farsi incoronare una seconda volta (18 maggio 872), E. avviò con Carlo il Calvo e con Ludovico il Germanico i negoziati per la successione all'Impero germanico. Gli incontri proposti a Carlo non ebbero luogo, ma E. poté incontrare Ludovico II il Germanico a Trento (maggio 872). In cambio della cessione a Ludovico II dei territori occupati in Provenza dopo la morte di Lotario II la Francia orientale, rappresentata da Carlomanno, ebbe l'assicurazione di ottenere l'eredità italiana. E. si spostò poi nel Sud, tanto più rapidamente, sembra, in quanto si era formato un partito contro di lei ("propter insolentiam suam", dicono gli Annales Bertiniani), in concomitanza col legame sorto tra Ludovico II e la figlia del conte Winigis, partito che era riuscito a persuadere l'imperatore ad inviarle un messaggio per ordinarle di restare nel Nord del Regno.

La realtà del fatto, per quanto scarsa fosse la benevolenza del cronista Incinaro (cfr. Annales Bertiniani) nei confronti di E., non sembra dubbia. A dopo tutto comprensibile che i "primores Italiae" non desiderassero che si ripetesse a Capua il caso di Benevento, nel quale, come si è visto, l'imperatrice aveva qualche responsabilità. Un'eco tardiva dell'animosità suscitata dalla sovrana è rappresentata dal racconto circostanziato delle profferte ardorose che ella avrebbe fatto al conte palatino "Tucbald" in assenza di Ludovico (Epitome chronicorum Casinensium). Piùseriamente, si sono ritenute rivelatrici dell'esistenza a corte di un gruppo assai critico verso il potere concesso a E. le formule di alcuni diplomi, di cui ella aveva beneficiato, ove si menzionano in maniera del tutto inconsueta il "tractatus", il "consilium" e l'"unanimitas" dei grandi dell'Impero. In realtà, questo consenso solenne dei principali fedeli dell'imperatore, attestato da tali formule, si giustifica innanzi tutto con ragioni giuridiche: esso era infatti necessario per il "dotalicium" (l'aristocrazia ebbe un suo ruolo anche nel matrimonio di Lotario II e in quello di Carlo il Semplice), per la devoluzione a E. del monastero imperiale di S. Salvatore a Brescia nell'868, per i due atti di conferma generale dei beni dell'imperatrice nell'870. Al contrario, l'assenza di queste formule in un testo altrettanto importante per il Fisco imperiale, come quello che nell'874 accordò a E. la facoltà di disporre liberamente di tutti i suoi beni, è forse indicativo di una mancanza di unanimità, a corte su questo argomento, cosa che potrebbe essere all'origine della corsa all'accaparramento delle sue terre iniziata dopo la morte di Ludovico.

Alla fine dell'873 Ludovico Il abbandonò l'Italia meridionale forse a causa di una carestia, lasciando sul posto E. per garantire in suo nome la sovranità franca su Capua e su Salerno, se non sull'insieme dei principati longobardi. L'imperatrice risiedette a Capua, sede del vescovo Landolfo, divenuto il principale consigliere dei sovrani franchi per gli affari del Sud. Landolfò non riusci tuttavia ad approfittare di questa sua posizione per imporre definitivamente a Salerno la sua autorità. Il presule fece imprigionare il principe di Salerno, Guaiferio, quando si presentò ad E. per chiedere la liberazione di suo figlio, tenuto in ostaggio. L'imperatrice, tuttavia, consenti che Guaiferio tornasse nei suoi domini, e quando si ricongiunse con Ludovico II nella primavera dell'874, gli ostaggi che ella mandò in esilio a Ravenna appartenevano sia alla famiglia di Landolfo, sia a quella di Guaiferio.

Nel maggio o nel giugno dell'874 ebbe luogo presso Verona un incontro tra Ludovico II, Ludovico Il il Germanico e il papa Giovanni VIII. Se, per quanto riguardava la successione dell'Impero, il colloquio non fece che confermare le decisioni prese a Trento nell'872, per E. esso rivesti un'importanza particolare: Ludovico II e il di lui zio, Ludovico il Germanico, la affidarono infatti alla tutela del pontefice, che accolse la sovrana sotto la sua protezione. In seguito, lei stessa si "diede" a S.Pietro. Cominciò allora una corrispondenza tra E. e Giovanni VIII, il quale non venne mai meno alla sua promessa, anche se le loro scelte politiche furono talvolta divergenti.

Il 12 ag. 875 Ludovico II mori presso Brescia. E. sembra aver esercitato in questa occasione una sorta di reggenza in attesa che venisse risolto il problema della successione al trono imperiale e, quindi, a quello di Pavia apertosi con la morte del marito, scomparso senza figli maschi. I grandi del Regno erano divisi tra la soluzione "occidentale" favorevole a Carlo il Calvo, figlio di Ludovico I il Pio e re dei Franchi occidentali, e quella "germanica" od "orientale", favorevole al re di Baviera, Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico. Sebbene Giovanni VIII, riprendendo alla fine la scelta del suo predecessore, invitasse Carlo il Calvo a venire a cingere la corona imperiale, E. e i suoi partigiani inviarono un emissario a Carlomanno: sul letto di morte, essi sostenevano, Ludovico II si era pronunciato con chiarezza a suo favore.

Si segue qui il racconto del Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma piuttosto che quello di Andrea da Bergamo, il quale vorrebbe che tutti fossero d'accordo nell'inviare un missus ad entrambi i re. I rapporti più che tesi tra E. e Carlo il Calvo indicano chiaramente, in realtà, quale fosse il partito dell'imperatrice.

Carlo il Calvo alla fine vinse. Incoronato imperatore a Roma nel Natale dell'875, il suo potere sul Regno d'Italia fu riconosciuto a Pavia nel febbraio dell'876; quindi Carlo Il rivalicò le Alpi, lasciandosi dietro il duca Bosone a governare il Regno. Dopo questo scacco, E. cercò dapprima una protezione sul lato orientale: il 19 luglio 876 Ludovico il Germanico, dopo l'approccio compiuto da due missi dell'imperatrice, emise in suo favore un diploma con cui le confermava l'insieme dei beni che Ludovico II le aveva concesso in usufrutto o in proprietà, nonché tutti quelli che ella aveva potuto acquisire per altre vie. Poi cominciò qualche tentativo di riavvicinamento al nuovo imperatore, - cui E. si dovette risolvere più perché spinta da necessità politiche che per sua volontà. Nella seconda metà dell'878 fu cosi celebrato alla corte di Berengario del Friuli (parente dei Supponidi) il matrimonio di Ermengarda con Bosone conte di Vienne.

L'avvenimento colpi fortemente i contemporanei: Incinaro, Reginone di Prúm e l'annalista di Fulda ne danno ciascuno un resoconto differente, ma hanno in comune il fatto di non menzionare mai il ruolo di E. - la cosa è particolarmente notevole in Incinaro di cui si può pensare non avrebbe mancato di sottolineare un'eventuale macchinazione dell'imperatrice e di un qualsiasi "partito tedesco". Come scrive l'arcivescovo di Reinis (cfr. Annales Bertiniani) il principale responsabile fu in realtà Berengario, per il quale questo matrimonio veniva a suggellare de facto una spartizione con Bosone del potere del Regno.

Nell'877 E. depose le armi e si ritirò dalla scena politica. Il 27 marzo Giovanni VIII le fece giungere una lettera con cui la consolava delle sue delusioni e l'incoraggiava a essere fedele all'imperatore, offrendole, nel caso ne avesse bisogno, di interporre i suoi buoni uffici presso di lui. Lo stesso giorno richiese a Carlo il Calvo di fare in modo che fosse restituito a E. il suo tesoro, che era stato fatto sparire da S. Salvatore a Brescia all'epoca del passaggio in Italia delle truppe del re dei Franchi occidentali. Nello stesso mese, a S. Salvatore, l'imperatrice fece redigere il suo testamento con il quale perfezionava la fondazione del monastero di S. Sisto a Piacenza e se ne attribuiva il governo temporale ("provisio"). Due missi di Carlo il Calvo, forse latori - a garanzia di riconciliazione - di un diploma in favore di E. oggi perduto, sottoscrissero l'atto, come pure fece Riccardo il Giustiziere -, che sostituiva in Italia il fratello Bosone rientrato in Francia. In base a questi documenti risulta chiaramente che l'imperatrice aveva vestito l'abito religioso, molto probabilmente nella sua fondazione di S. Sisto a Piacenza: a partire dall'877 è infatti regolarmente designata come "Deo dicata".

L'avvento di Carlomanno (settembre 877) fu evidentemente di un certo conforto per Engelberga. Il nuovo sovrano rilasciò non meno di quattro diplomi per il monastero di S. Sisto (uno di essi non ci è pervenuto) e prese nella sua cerchia il vescovo di Parma, Wibodo, uno dei principali "fideles" dell'imperatrice. Da parte sua, Giovanni VIII la tenne regolarmente al corrente del viaggio da lui compiuto in Francia nell'878 per ottenere aiuto contro Lamberto di Spoleto e contro i Saraceni; le diede notizie di Ermengarda e di Bosone, che lo avevano ricevuto ad Arles; al ritorno dal concilio di Troyes, la invitò a fargli visita al Moncenisio. Da questa corrispondenza si ricava tuttavia l'impressione che l'influenza di E. si fosse ridotta agli affari strettamente religiosi e anche in questo ambito la sua autorità sembra particolarmente limitata. Il papa celebrò volentieri le messe per gli anniversari in memoria di Ludovico II e le richiese di dare saggi consigli all'ecclesiastico che le recava la sua corrispondenza, ma quando ella intervenne perché fosse revocata la scomunica all'arcivescovo di Milano, Ansperto, non ottenne alcun risultato.

Nell'ottobre dell'879 Carlomanno, malato già da qualche tempo, rinunciò al Regno d'Italia in favore di Carlo III il Grosso. Nello stesso periodo di tempo Bosone riusci a farsi eleggere re di Provenza a Mantaille. La perdita di un potente protettore e l'usurpazione messa in atto dal genero sembrano aver privato E., nella stessa Italia, di gran parte dei suoi appoggi politici. Già all'inizio dell'anno Giovanni VIII si lamentava con il vescovo di Parma delle spoliazioni patite dall'anziana sovrana. Ma in ottobre cinque lettere del pontefice denunciano un brusco peggioramento della situazione: tre conti sono minacciati di scomunica se non restituiranno al più presto i beni sottratti a E.; altri cinque sono incaricati espressamente di proteggere le sue terre; il vescovo di Novara, Notingo, viene rimproverato per lo stesso motivo, mentre il papa conferisce la tutela di S. Sisto a Gisulfo, abate di S. Cristina in Corteolona. Ci si può chiedere se quest'ultima misura non sia stata suggerita al papa da Carlo il Grosso allo scopo di sorvegliare E., dato che Gisulfo era uno dei suoi familiari più influenti. Il nuovo re aveva tutte le ragioni per diffidare di E., della quale si sa - grazie a Giovanni VIII - che si era schierata dalla parte di Bosone. Rapidamente Carlo III prevenne possibili intrighi: se poco dopo la sua incoronazione a re d'Italia, avvenuta a Ravenna nel gennaio 880, prese ancora sotto la sua protezione i beni di un chierico della cerchia di E. e confermò alla vedova l'insieme dei suoi possedimenti, già alla fine dell'anno la sovrana si trovava relegata dall'altra parte delle Alpi, forse nel monastero di Zurzach.

La data della partenza di E. per l'esilio è discussa. Carlo il Grosso potrebbe aver condotto l'imperatrice con sé nella primavera dell'880, quando ritornò nel Nord dopo la sua incoronazione (L. M. Hartmann), o averla fatta trasferire da Piacenza a Zurzach da uno dei suoi missi in occasione del suo soggiorno in quella città, nel dicembre, quando vi trascorse il Natale (G. Pochettino). Due istituzioni religiose di Piacenza, Tolla, nel contado, e S. Antonino, la antica chiesa cattedrale, beneficiarono allora di diplomi, mentre S. Sisto, a quanto ci risulta, non ne ebbe alcuno.

Giovanni VIII, fedele agli impegni assunti nell'874, fece ogni sforzo per ottenere il ritorno di E. in Italia. In base alle assicurazioni verbali di Carlo il Grosso e facendosi garante della buona condotta dell'imperatrice, in marzo scrisse a Ludovico III, a Carlomanno II e a Ugo l'Abate, per la parte francese, agli arcivescovi, ai vescovi e ai conti, per la parte italiana, chiedendo che si facilitasse il suo ritorno. Tuttavia, un anno più tardi si rivolgeva ancora all'imperatrice Riccarda e a Liutvardo di Vercelli per far ricordare a Carlo III le sue promesse. La situazione si sbloccò nell'aprile dell'882: l'imperatore confermò a E. il possesso di una serie di curtes, prima di farla riaccompagnare in Italia dal vescovo di Vercelli all'inizio dell'autunno.

La datazione del ritorno di E. in Italia presenta gli stessi problemi di quella della sua partenza. La vicenda non era conclusa nel marzo dell'882 al momento dell'ultimo intervento di Giovanni VIII. Quanto alla data del diploma di conferma, Pavia, 17 aprile, è frutto di un ritocco. In realtà, quel documento fu probabilmente emanato in Germania dopo il ritorno dell'imperatore (cfr. l'introduzione di P. Kehr all'edizione dell'atto), cosa che tenderebbe a confermare la notizia fornita dagli Annales Bertiniani che collocano anche la missione di Liutvardo di Vercelli dopo il terzo soggiorno in Italia di Carlo il Grosso. Piuttosto che la primavera, si attese la soluzione definitiva dei problema di Bosone (Vienne cadde nel settembre dell'882) per rinviare con tutta tranquillità E. nel suo monastero italiano.

Durante gli ultimi anni di vita E. si occupò della difesa dei suoi beni essenzialmente a vantaggio di S. Sisto, cercando di ottenere garanzie da tutti i sovrani successivi, ai quali fece regolarmente giungere lettere redatte da chierici della sua cerchia. Nell'884 ottenne dal re di Francia Carlomanno II una conferma generale di tutte le sue proprietà (la collocazione di queste non è precisata, ma non si può trattare che di terre situate in Provenza). Nell'887 la morte di Bosone sembrò aprirle di nuovo le porte della corte imperiale: in febbraio fece intervenire il vescovo di Vercelli perché Carlo il Grosso concedesse un privilegio giudiziario a S. Salvatore a Brescia; in agosto fu l'abate Gisulfo a intercedere per una conferma solenne dei beni (il diploma è sigillato, come molti di quelli che furono redatti a S. Sisto, sul modello degli atti di Ludovico II). Nel maggio dell'888 E. dovette ancora all'intervento di Liutvardo un diploma concessole da Berengario. Nell'889, infine, grazie a Ermengarda, Arnolfo emanò per lei il primo dei suoi atti "italiani", l'ultimo ottenuto dall'imperatrice; ella mori infatti uno o due anni più tardi.

Il necrologio di S. Savino di Piacenza, che integra un elenco precedente di S. Sisto, riporta il nome di E. Sotto il 23 marzo, che rappresenta dunque, con ogni probabilità, il giorno di morte della sovrana. Poiché nel novembre dell'891 Ermengarda fece una donazione a S. Sisto in memoria di sua madre, quest'ultima dovette morire nell'890 o nell'891 (F. Neiske).

Le attività economiche di E., che fu senza dubbio una delle più ricche sovrane carolinge, meritano, cosi come la sua "gestione monastica", un esame particolare. Il "dotalicium" dell'860 le portava due "curtes", una nel contado di Modena, l'altra nel territorio di Reggio. Il suo testamento dell'877 ne enumera una quindicina, distribuite in otto contee o fines, senza peraltro fornire l'inventario esaustivo della sua fortuna (vi mancano, per esempio, le terre in Provenza che erano state cedute da Lotario II nell'866 e che nell'872 erano state accresciute da una precaria dell'abate di S. Maurizio). Tutte queste proprietà non le provenivano solo dalle elargizioni imperiali o dai donativi di quanti avevano voluto ringraziarla o avevano inteso guadagnarsi il suo favore. E. fece certamente acquisti personali; e spesso le riusci di concludere singoli contratti per l'acquisto di terre al costo minimo. Nell'865, ad esempio, il conte Ermenulfo le promise di lasciarle i suoi beni purché ella ottenesse da Ludovico II un diploma di conferma per il monastero di Massino. Nell'873, durante il suo soggiorno a Capua, il cappellano imperiale Ratcauso s'impegnò a venderle una parte delle sue terre al prezzo che avrebbe fissato il missus di E., se egli fosse riuscito a riottenerle in via giudiziaria. A tal fine l'imperatrice stessa presiedette, l'anno seguente, il placito in cui venne discusso il problema a Piacenza: sfortunatamente, invano. Per amministrare tutte queste proprietà, E. si valeva evidentemente di rappresentanti locali che formavano insieme con i suoi vassalli e con i chierici della sua cappella una corte organizzata: nell'864 Pietro, "famulus et minister" di E., prese possesso in suo nome della curtis di Guastalla , appena donata da Ludovico II; nell'877 uno dei suoi gastaldi, Martino, concesse in locazione livellaria una dipendenza della medesima proprietà; nell'885 un altro dei suoi "ministri", il diacono Adelmanno, e il giudice imperiale Adelberto, che E. impiegava come "advocatus", fecero un'altra concessione nello stesso luogo. E. seppe ricompensare i suoi amministratori: nell'874, ad esempio, fece ottenere una conferma di beni al gastaldo Gumberto, vassallo e ministerialis.

Come voleva la tradizione delle famiglie regnanti in Italia, E. dispose molto presto del monastero di S. Salvatore a Brescia, che era ad un tempo fonte di reddito e luogo di accoglienza per le figlie dei sovrani. Nell'861, alla morte della sorella di Ludovico II, che ne aveva avuto sin'allora il governo temporale, fu messa alla sua direzione Gisla, la figlia primogenita di Ludovico II e di E.; in caso di morte le sarebbe dovuta succedere la madre, come effettivamente avvenne nell'868. Fino al termine dei suoi giorni, E. adempi regolarmente al suo ruolo di intercessore in favore del monastero sebbene non gli dedicasse che una limitata attenzione.

La grande opera di E. fu la fondazione di S. Sisto a Piacenza, per la quale spiegò tutte le sue forze. La scelta della città fu dettata innanzi tutto da ragioni familiari: quando aveva sposato, verso la metà del sec. IX, la figlia del conte Vilfredo, il fratello di E., Suppone (II), aveva dato un centro alla zona di influenza della famiglia. Lui stesso possedeva una mansio nella città e terre nel contado, mentre E. aveva in Piacenza la sua curtis. L'imperatrice si assicurò il sostegno dell'autorità ecclesiastica locale, facendo innalzare il nipote Paolo, diacono a Piacenza, sulla cattedra episcopale della città (in un primo tempo, per raggiungere questo scopo si riusci a convincere il vescovo in carica a dare le dimissioni; ma, davanti alla vivace reazione di Niccolò I, si dovette attendere la morte del prelato). Poi, grazie ad una serie di acquisti e di permute con il Fisco e con privati - il già citato contratto con Ratcauso ne è un esempio - E. raccolse terreni intorno alla sua curtis e alla mansio di Suppone, a meridione della cinta muraria romana. Nell'870 Ludovico II accenna ai lavori di costruzione di S. Sisto che cominciarono dunque durante il suo soggiorno in Italia meridionale (da dove E. avrebbe portato le reliquie di s. Germano di Capua). Nell'874 Ludovico II affrancò la moglie da ogni preoccupazione di carattere giuridico, accordandole la piena disponibilità dei suoi beni, confermò le sue operazioni immobiliari e completò l'opera concedendole il diritto di modificare il sistema viario e le fortificazioni della città non solo, ma offrendole anche una buona parte dei materiali destinati all'edilizia pubblica del contado. Nell'877 le prime monache (non più di quaranta) si poterono installare negli edifici della nuova badia. La comunità, posta sotto l'autorità dell'arcivescovo di Milano, fu dotata della quasi totalità dei beni di E. che mise i suoi amministratori al suo servizio (nell'886, ad esempio, Martino, gastaldo dell'imperatrice, fece una concessione livellare per conto di S. Sisto). Era previsto che, alla morte di E., Ermengarda prendesse il suo posto alla guida del monastero a condizione che vestisse l'abito religioso, cosa che non avvenne. La prima badessa, Cunegonda, era probabilmente sorella di E.; pure la seconda, che portava anch'essa il nome di Engelberga, era evidentemente imparentata con lei.

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