HUSTON, John

Enciclopedia del Cinema (2003)

Huston, John (propr. John Marcellus)

Renato Venturelli

Regista, sceneggiatore e attore cinematografico statunitense, nato a Nevada (Missouri) il 5 agosto 1906 e morto a Middletown (Rhode Island) il 28 agosto 1987. Cineasta dalla forte personalità e dalla biografia leggendaria, fu circondato da una fama di ribelle anarcoide e di intellettuale amante dell'azione, della caccia e dell'avventura, che lo fece più volte accostare idealmente a E. Hemingway. Il tema conduttore della sua opera è stato tradizionalmente indicato nella rilettura amara e disincantata dell'epica individualista del cinema americano, spesso evocata attraverso un'impresa eccezionale che sfocia in una sconfitta: da qui le diverse interpretazioni cui sono stati sottoposti i suoi film, a seconda che l'attenzione privilegiasse lo scacco conclusivo o invece esaltasse il momento dell'esperienza avventurosa in sé. Questa impostazione tematica, vista con diffidenza dalla critica recente per il rischio di facili schematismi, è stata alimentata dalla stessa vita di H., artista dalla personalità irrequieta ed errabonda, che lasciò gli Stati Uniti per vivere a lungo in Irlanda e in Messico, e che volle imprimere toni avventurosi alla lavorazione di molti suoi film, girati spesso in America Latina, Africa, Asia, Europa (sulla vita leggendaria del regista nel 1990 è uscito White hunter, black heart, Cacciatore bianco, cuore nero, di Clint Eastwood, incentrato sull'ossessiva caccia all'elefante durante le riprese di The African Queen, 1951, La regina d'Africa). Inoltre il suo gusto per l'azione si accompagnò a uno spiccato interesse per prestigiosi soggetti letterari, che lo indusse a trasporre sullo schermo opere di celebri scrittori tra cui S. Crane, H. Melville, T. Williams, R. Kipling, J. Joyce. Oltre a numerose nominations, H. ottenne due Oscar nel 1949 per la migliore regia e per la sceneggiatura del film The treasure of the Sierra Madre (1948; Il tesoro della Sierra Madre).

Figlio dell'attore Walter Huston e della giornalista Rhea Gore, padre di Anjelica, Tony e Danny, ebbe una formazione legata all'ambiente teatrale frequentato dal padre e a quello giornalistico della madre. Tuttavia le esperienze che H. amava ricordare erano quelle individuali e vagabonde vissute durante la giovinezza, quando era stato pugile in California, cavallerizzo in Messico, squattrinato intellettuale nell'Europa degli anni Trenta, sulla scia della lost generation. Dopo un breve periodo in cui si dedicò al teatro e al giornalismo, cominciò a svolgere l'attività di sceneggiatore, scrivendo tra gli altri il western Law and order (1932) di Edward L. Cahn, Jezebel (1938; La figlia del vento) di William Wyler, High Sierra (1941; Una pallottola per Roy) di Raoul Walsh, Sergeant York (1941; Il sergente York) di Howard Hawks, The killers (1946; I gangsters) di Robert Siodmak. Esordì nella regia nel 1941 con The Maltese falcon (Il falcone maltese o Il mistero del falco), di cui scrisse anche la sceneggiatura, suscitando subito grande interesse. Pur essendo infatti la terza trasposizione del romanzo di D. Hammet, fu uno dei film che diedero il via al ciclo noir degli anni Quaranta e venne apprezzato per l'efficace definizione dei personaggi, l'ottima direzione degli attori, l'uso della profondità di campo e, più in generale, per l'abile controllo del racconto, fedele al romanzo originario ma anche ai temi prediletti del regista. Dopo il successo di The Maltese falcon, seguì un decennio particolarmente fortunato, in cui H. si affermò come uno dei grandi registi americani della nuova generazione. Nel periodo bellico realizzò documentari di notevole intensità drammatica (Let there be light, 1945, che rimase vietato per decenni), mentre nel dopoguerra diresse una serie di film che consolidarono la sua fama. The treasure of the Sierra Madre narra le imprese di tre cercatori d'oro e gli effetti devastanti che l'arricchimento ha su uno di loro; l'avventura viene vista in questo caso come discesa nel buio di una visione paranoica e il film fu esaltato per la concezione della vita come scacco beffardo; Key Largo (1948; L'isola di corallo), tratto da una pièce di M. Anderson, ebbe ancora una volta il suo punto di forza nella direzione degli attori, anche se in un contesto esplicitamente teatrale; We were strangers (1949; Stanotte sorgerà il sole) racconta invece l'impresa di un gruppo di patrioti cubani che, durante la dittatura del generale Machado, scavano un cunicolo per compiere un attentato: la loro azione non riesce, ma dal fallimento scaturisce comunque una rivolta. Il film con cui culminò questa fase fu The African Queen, mescolanza di commedia, dramma e avventura imperniata sulla coppia Humphrey Bogart-Katharine Hepburn; ma il capolavoro di H. in questo periodo della sua carriera resta The asphalt jungle (1950; Giungla d'asfalto), tratto da W.R. Burnett, prototipo di tutto il filone cinematografico incentrato sull'organizzazione di una rapina: al centro, il parallelismo tra l'impresa criminale e la città capitalista, entrambi fondati su una minuziosa organizzazione che pretende di prescindere dalla presenza umana.Con l'inizio degli anni Cinquanta cominciò invece la fase più controversa della carriera di H., criticato per atteggiamenti giudicati elusivi davanti al maccartismo e remissivi di fronte ai produttori, che in alcuni casi stravolsero i suoi film al montaggio (The red badge of courage, 1951, La prova del fuoco). Dopo aver partecipato a iniziative antimaccartiste, il regista preferì infatti lasciare gli Stati Uniti della caccia alle streghe per trasferirsi in Europa (ottenne la cittadinanza irlandese nel 1964), lavorando a produzioni culturalmente ambiziose, sebbene talvolta qualitativamente discontinue. Questa fase altalenante coincise con la revisione del cinema statunitense attuata dalla critica francese, che vide in H. uno dei personaggi di maggiore discordia, trattato con ostilità dai "Cahiers du cinéma" (Jacques Rivette lo definì 'illustratore', 'eterno ex sceneggiatore', 'dilettante') e invece difeso dalla rivista "Positif" e da un'importante monografia di Robert Benayoun. Le discussioni nei suoi riguardi proseguirono a lungo: negli Stati Uniti, venne esaltato da James Agee e confinato tra i registi sopravvalutati da Andrew Sarris, capofila della tendenza auteuriste; in Francia, Bertrand Tavernier si schierò tra i suoi difensori, mentre Jacques Lourcelles ne sottolineò il crescente disinteresse per l'intreccio a vantaggio dei personaggi e della progressiva interiorizzazione del tema dello scacco. Un nodo cruciale della critica hustoniana, comunque, riguardò la questione dell'assenza, vera o presunta, di uno 'stile' personale, per lo più collegata alle sue caratteristiche di narratore, pronto a mettersi al servizio della sceneggiatura, orientando le ricerche figurative in funzione del racconto (fu particolarmente attento all'uso del colore).Tra le opere realizzate negli anni Cinquanta vanno ricordate Moulin Rouge (1952), sulla vita di H. de Toulouse-Lautrec, e Moby Dick (1956), in cui H. rilesse il capolavoro di H. Melville adattandolo alle esigenze spettacolari e divistiche (la scelta discutibile di Gregory Peck come Achab) e sostenendo con forza la sua interpretazione del romanzo come 'grande bestemmia'. A questo periodo, però, risalgono anche fallimenti come il discusso Heaven knows, Mr. Allison (1957; L'anima e la carne), The Barbarian and the geisha (1958; Il barbaro e la geisha) o The roots of heaven (1958; Le radici del cielo).Gli anni Sessanta furono scanditi invece dal western The unforgiven (1960; Gli inesorabili), interessante più per la crudeltà di alcuni dettagli che per il tema razziale, dagli ambiziosi Freud (1962; Freud, passioni segrete) e The night of the iguana (1964; La notte dell'iguana) tratto da T. Williams, dai divertissements The list of Adrian Messenger (1963; I cinque volti dell'assassino) o Sinful Davey (1968; La forca può attendere), dalla spettacolare operazione di La Bibbia (1966) prodotta da Dino De Laurentiis. Due sono tuttavia i titoli più significativi del decennio, entrambi caratterizzati da una personale ricerca narrativa e imperniati su un gruppo di personaggi: The misfits (1961; Gli spostati) sceneggiato da Arthur Miller, è una malinconica riflessione sullo smarrimento di un'America al crepuscolo, mentre Reflections in a golden eye (1967; Riflessi in un occhio d'oro), tratto da C. McCullers, è ambientato in una base militare e costruito su un raffinato gioco di sguardi tra personaggi tormentati.Conclusa la fase più contrastata della sua carriera con A walk with love and death (1969; Di pari passo con l'amore e la morte) e l'acida spy story The Kremlin letter (1970; Lettera al Kremlino), H. andò incontro a una vecchiaia professionalmente feconda, con opere che lo consacrarono a una più unanime attenzione critica, nonostante il permanere di alti e bassi. Il film della svolta fu Fat city (1972; Città amara ‒ Fat city), dove il ritratto disadorno di un pugile perdente si presta a una più ampia riflessione sulla condizione umana. Gli anni successivi confermarono la ritrovata vena del regista, prima con il western The life and times of judge Roy Bean (1972; L'uomo dai sette capestri), dove il suo humour si mescola alle provocazioni dello sceneggiatore John Milius, poi con The man who would be king (1975; L'uomo che volle farsi re) tratto da R. Kipling: in entrambi i casi, H. tornò ad affrontare il tema dell'avventura con una rinnovata libertà inventiva e narrativa. Gli ultimi anni lo videro impegnato in uno straordinario crescendo: se in Under the volcano (1984; Sotto il vulcano) affrontò l'amato M. Lowry con risultati discutibili, con il precedente Wise blood (1979; La saggezza nel sangue) aveva avuto successo, in Prizzi's honor (1985; L'onore dei Prizzi) offrì un pungente ritratto della mafia italoamericana in chiave grottesca, e conThe dead (1987; The dead ‒ Gente di Dublino), da J. Joyce, realizzò il più sobrio, e misurato tra i suoi adattamenti letterari. Proprio alla lavorazione di questo film è dedicato un documentario (John Huston and the Dubliners, 1987, di Lilyan Sievernich) che mostra il regista per l'ultima volta sul set alle prese con la sua irriducibile battaglia per la vita e per il cinema. D'altra parte H. non fu solo regista e sceneggiatore ma anche eccellente attore in decine di film tra cui The cardinal (1963; Il cardinale) di Otto Preminger, che gli valse una candidatura all'Oscar e il Golden Globe come migliore attore non protagonista, La Bibbia, dove interpreta Noè, e soprattutto Chinatown (1974) di Roman Polanski, dove è il vecchio Noah Cross, patriarca incestuoso e dispotico.

Bibliografia

R. Benayoun, John Huston, Paris 1966 (nuova ed. Paris 1985).

G. Pratley, The cinema of John Huston, New York-London 1977.

M. Morandini, John Huston, Firenze 1980.

S. Hammen, John Huston, Boston 1985.

CATEGORIE
TAG

Profondità di campo

Dino de laurentiis

Bertrand tavernier

Cahiers du cinéma

Otto preminger