ARIOSTO, Ludovico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ARIOSTO, Ludovico

Natalino Sapegno

Nacque a Reggio Emilia l'8 sett. 1474 da Niccolò e da Daria Malaguzzi Valeri. Il ramo degli Ariosti, da cui discendeva il padre, s'era trasferito da Bologna a Ferrara già prima del 1347, allorché Obizzo III d'Este aveva sposato la "bella Lippa" di quel casato, la quale conviveva con lui da molti anni e gli aveva dato ben tredici figli. Sicché ferrarese poteva ormai considerarsi la famiglia, e tra le cospicue della città per onori e cariche (in un atto del duca Borso è ricordata come "ornamentum et splendor" della corte estense); e "nobile ferrarese" amò definirsi poi sempre il poeta.

Dell'agitata carriera paterna dovettero risentire l'infanzia e l'adolescenza dell'A., che certo lo seguì nei frequenti e repentini trasferimenti, da Reggio a Rovigo, a Ferrara, a Modena, e poi nuovamente a Ferrara. Fra i quindici e i vent'anni frequentò nell'università i corsi di legge, di malavoglia e con scarso frutto. Solo nel '94, "dopo molto contrasto" (Sat., VI, 161-162), ottenne di seguire liberamente la sua vocazione dedicandosi tutto agli studi umanistici, sotto la guida di Gregori o da Spoleto. Furono allora gli anni della giovinezza gaia e dei facili amori, ma anche delle assidue letture e delle appassionate conversazioni, dei primi esercizi poetici e delle prime geniali amicizie con letterati e poeti, col cugino Pandolfo, con Alberto Pio da. Carpi, poi con Ercole Strozzi, con Pietro Bembo. Allora anche si stringe il forte nodo, che legherà poi sempre l'A., in una fitta trama di affetti e di consuetudini, alla vita della sua città, e l'altro, più complicato e contrastato, che lo terrà avvinto agli Estensi, i signori che avevano innalzato e protetto lui e la sua famiglia e le cui vicende erano d'altronde così strettamente intrecciate alle gloriose vicissitudini storiche e culturali della sua terra. Non per nulla, a costituire lo sfondo su cui germinerà e si svolgerà l'ampio respiro della poesia ariostesca, sta la sapiente politica culturale perseguita con coerenza dagli Estensi, fino a far di Ferrara uno dei centri più fervidi ed esemplari della civiltà rinascimentale, negli anni stessi che vedono la città duramente impegnata a difendere la sua difficile indipendenza minacciata da Venezia e dai papi in un'altema vicenda di guerre, non di rado rovinose, e di sottili contrasti diplomatici.

La scuola umanistica fondata dal veronese Guarino e illustrata da una lunga serie di discepoli sempre pronti ad avvicendare e armonizzare senza disagio gli ozi poetici e i negozi civili, fino ai due Strozzi, al Postumo, al Pigna; il culto della poesia volgare, praticata con disinvoltura di esperto mestierante da un Tebaldeo ovvero originalmente rinnovata da un Boiardo; la grandiosa impresa urbanistica iniziata da Ercole I e attuata da quell'architetto geniale che fu Biagio Rossetti; il gusto delle splendide e raffinate decorazioni, che richiama da ogni parte artisti famosi, dal Pisanello a Ruggero van der Weyden, da Iacopo Bellini al Mantegna e suscita la fioritura di un'insigne scuola pittorica locale, con Cosmé Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti, fino al Costa, al Grandi, al Dossi, al Garofalo; l'amore delle feste, degli intrattenimenti musicali, con la presenza e la collaborazione dei grandi polifonisti fiamminghi (Josquin du Pré, Jakob Obrecht); il fasto degli spettacoli, che segnano, a Ferrara appunto, le basi di un rinnovamento del teatro destinato a propagarsi rapidamente in Italia e poi in tutta l'Europa: sono le premesse e la cornice necessaria in cui si colloca naturalmente tanta parte dell'attività letteraria dell'A.; mentre le capacità espansive e il fascino di quella ricca e multiforme atmosfera di cultura spiegano i contatti e le soste più o meno lunghe presso la corte ferrarese di quasi tutti i maggiori letterati tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, dal Marullo, al Collenuccio, al Manuzio, al Bembo, e poi al Trissino, al Bandello, al Bentivoglio, a Bernardo Tasso, tutta quella fitta e vastissima trama di relazioni e di amicizie letterarie e mondane, che il casalingo Ludovico potrà poi registrare nelle ottave iniziali del XLVI canto del suo Orlando.Al servizio della corte egli era entrato assai presto, vivente ancora il padre (fin dal '94 era in grado di far prelevare a suo nome dai magazzini estensi stoffe e cibarie). Morto Niccolò nel 1500, la necessità di una sistemazione pratica divenne urgente in vista degli obblighi, che ricadevano su di lui come primogenito, di capo e amministratore di una numerosa famiglia. Della sollecitudine e dell'abilità con cui l'A. seppe adempiere ai suoi doveri di capofamiglia, rivelando doti di accorto e paziente massaio, provvedendo ad assistere amorevolmente la madre, ad accasare le sorelle senza intaccare l'eredità comune, e a collocare con onore i fratelli (Galasso e Alessandro, rispettivamente alle dipendenze del cardinale Cybo e del cardinale Ippolito d'Este; Carlo, in un'attività mercantile, nel Regno di Napoli), resta testimonianza nei suoi versi (Sat., I, 199-2 16; VI, 199-210) non senza una ben legittima compiacenza, ma anche con il senso dei sacrifizi e delle rinunzie che l'adempimento di quegli obblighi dovette comportare, troncando precocemente il corso della sua educazione umanistica (gli rimase poi fino all'ultimo la nostalgia dei mondo greco appena intravveduto) e distogliendolo dagli ozi letterari verso incombenze e impegni assai meno congeniali alla sua indole. Dal 1501 al 1503 accettò l'ufficio di capitano della rocca di Canossa, da cui scendeva di tempo in tempo a ricrearsi nelle ville del cugino Sigismondo Malaguzzi nei pressi di Reggio; poi, tornato a Ferrara, si decise a prender gli ordini minori e ad entrare come "familiare" al servizio del cardinale Ippolito, che presto lo compensava ottenendogli taluni benefici ecclesiastici, di scarso reddito per altro e complicato da beghe e liti interminabili.

L'A. aveva, nella sua prima giovinezza, vagheggiato probabilmente il sogno di assicurarsi in corte una sistemazione dignitosa e non soverchiamente impegnativa, sul tipo di quelle che ormai tradizionalmente si riserbavano a letterati e umanisti: di siffatte intenzioni rimane traccia in taluni esercizi di letteratura encomiastica, dall'epicedio per la morte di Eleonora d'Aragona, moglie di Ercole I, del 1493, all'epitalamio del 1502 per le nozze del duca Alfonso con Lucrezia Borgia, fino al capitolo rimasto interrotto nel 1504 sulle gesta di Obizzo d'Este, che è il suo primo tentativo nel genere epico.

Anche in seguito gli Estensi non disdegnarono di adoperare ai loro fini le attitudini letterarie dell'A., specie per l'allestimento di feste e la composizione di testi teatrali. Tuttavia il servizio presso il cardinale, uomo di azione energico e scaltro, ma scarsamente sensibile alla poesia e alla cultura, era ben lungi dal ridursi all'esercizio di una perizia letteraria, ovvero a funzioni di semplice rappresentanza: esso comportava invece difficili missioni diplomatiche, come quelle che portarono l'A. a più riprese a Roma, fra il 1509 e il '16, per patrocinare presso Giulio II e poi presso Leone X la causa dei signori ferraresi, dissipare i sospetti suscitati nella Curia dalla loro irrequieta politica filofrancese, placare l'ira del primo pontefice ovvero favorire le buone disposizioni del secondo a vantaggio dell'ambizioso cardinale, e anche incarichi pericolosi di esploratore e di corriere nelle tempestose vicende della guerra che fra il 1509 e il '13 devastò le terre del ducato, e di cui alcuni episodi salienti (l'assalto alla Polesella, la battaglia e il sacco di Ravenna) rimasero impressi nella memoria del poeta che dovette assistervi di persona.

Ma più ancora dei disagi legati ai viaggi sempre più frequenti e mal sopportabili da un uomo ormai quarantenne e malandato di salute, più dei pericoli in cui si trovava talora coinvolto nello svolgimento delle sue mansioni di fiducia, dovevano pesare come ragioni determinanti del malcontento crescente del poeta quelle altre che egli stesso espone nella prima Satira, diretta al fratello Alessandro: lo scarso apprezzamento da parte del cardinale delle sue doti più specifiche di scrittore e di umanista, sempre troppo scarsamente utilizzate e non mai adeguatamente retribuite; il fastidio di dover accettare giorno per giorno attribuzioni che gli parevan servili e umilianti o comunque per nulla conformi alla sua indole e ai suoi gusti. Di giorno in giorno cresceva in lui il desiderio di un'esistenza più raccolta e meno dispersiva; con gli anni, parallelamente all'accresciuta coscienza dei propri meriti, si faceva più impellente l'esigenza di una forma di vita che non lo costringesse troppo spesso ad allontanarsi "dal nido natio", che non lo distraesse dolorosamente dagli affetti più cari, la sua poesia e la sua donna. Il grande poema, in cui egli aveva ormai impegnato tutto sé stesso, intrapreso già prima del 1507, compiuto in una stesura provvisoria nell'estate del 1509, pubblicato nel '16 dopo un lungo lavoro di correzione e di lima attuato sfruttando al massimo le rare pause di quiete che i suoi obblighi e le quotidiane preoccupazioni gli consentivano, richiedeva sempre più le sue cure assidue, per essere ulteriormente ripulito nella forma, arricchito e ampliato nell'invenzione e nell'intensità dei movimenti fantastici e sentimentali, onde renderlo sempre più conforme alla vagheggiata perfezione.

Intanto, fin dalla primavera del '13, si era stabilito quel legame affettivo, che nella vita dell'A. tiene un posto fondamentale e quasi esclusivo, con Alessandra Benucci. Poco sappiamo (e poco peso dovettero avere anche per lui) intorno alle precedenti relazioni con una Maria, non meglio identificata, che gli fu compagna durante il capitanato a Canossa, e da cui gli nacque quel Giovambattista che ricorderà come figlio naturale nel suo testamento; oppure con una Orsola Sassomarino, da lui frequentata fra il 1508 e il '13, la madre di quel Virginio, che egli predilesse per il suo ingegno e la conformità dei costumi e della mente e, dopo averlo legittimato, educò con amorosa sollecitudine nel culto della poesia e della sapienza umanistica: umili donne, presto rientrate nell'ombra, e che non dovettero lasciare una traccia profonda nel suo animo. Altra cosa fu l'unione con Alessmdra, un vincolo maturato negli anni adulti, nella stagione della pienezza e dell'equilibrio sentimentale, e mantenuto vivo con reciproca inalterata fedeltà per un ventennio, anche se soltanto tardi, dopo il '28 (quando la Benucci era vedova già da tredici anni), l'A. s'indurrà a consacrarlo con un matrimonio, che anche allora sarà celebrato in segreto, di comune accordo, sia per conservare al poeta quei benefici ecclesiastici di cui godeva e che avrebbe perduto rinunziando apertamente al celibato, sia per mantenere a lei la tutela e l'usufrutto dei beni delle figlie nate dalle sue prime nozze con Tito Strozzi.

Il pretesto per sottrarsi alla "mala servitù" del cardinale venne nell'agosto 1517. Ippolito, creato vescovo di Buda, sollecitò tutti i suoi familiari a seguirlo nella lontana sede: molti fra essi tentennarono prima di accondiscendere all'ordine; l'A. rifiutò risolutamente, e fu licenziato. Pochi mesi dopo (già prima dell'aprile del '18) Ludovico entrava, come cameriere o familiare, tra gli stipendiati del duca Alfonso: "servitù" anche questa, ma di minor disagio e probabilinente più dignitosa. Cresceva in corte il prestigio del poeta. non migliorava invece la situazione economica, in modo tale da assicurargli, come avrebbe voluto, un largo margine d'indipendenza. Nel '19, l'eredità del cugino Rinaldo Ariosto, morto senza testamento e senza eredi diretti, non valse a sollevarlo; ché anzi lo costrinse a intraprendere una lunga e difficile lite per il possesso della bella tenuta delle Arioste a Bagnola, possesso a lui conteso, nientemeno, dalla camera ducale col pretesto del mancato pagamento di certi canoni. Quando poi i dissensi tra Ferrara e lo Stato pontificio degenerarono in guerra aperta, determinando la tesoreria ducale a ridurre dapprima e quindi a sopprimere gli stipendi dei cortigiani, la situazione finanziaria di Ludovico divenne addirittura critica. Si acconciò dunque, se pur di malavoglia, ad accettare nel '22 l'incarico del governatorato della Garfagnana. Fatto testamento e messi in ordine, per ogni evenienza, tutti i suoi affari, il 20 febbraio partiva per Castelnuovo.

In quella provincia montuosa e selvatica, da poco ritornata in possesso degli Estensi e tuttora infestata dai briganti e dalla violenza delle fazioni rivali, rimase, salvo qualche scappata a Ferrara per motivi d'ufficio o per incontrarsi con la Benucci, fino al marzo del '25; adoperandosi con saggezza e abilità (sebbene male assecondato, e talora impedito, dal duca) per ricondurre nel paese l'ordine e il rispetto della legge, e fronteggiando con pronti e opportuni provvedimenti le situazioni più incresciose, il pericolo della peste, la minaccia sempre incombente della carestia.

Di ritorno a Ferrara, col denaro messo insieme durante le fatiche del conunissariato, diviso tra i fratelli il patrimonio comune, si comperava una casetta in via Mirasole e provvedeva a riattarla e a sistemare a suo modo l'attiguo orticello. Realizzava così finalmente il suo sogno di un'esistenza semplice, sottratta nei limiti del possibile all'urgenza dei compiti e dei fastidi d'ordine pratico, tutta dedita al culto degli intimi affetti e della poesia. Le cariche pubbliche (tra il '28 e il '30 è addetto al Magistrato dei Savi, per l'anuninistrazione della giustizia) non sono tali da distrarlo troppo dal suo impegno. La sua presenza in corte è richiesta solo per circostanze eccezionali e di alto prestigio: nel '29 segue il duca a Modena, per scortare l'imperatore che si reca nello Stato del papa; nell'ottobre del '31 è ambasciatore presso Alfonso d'Avalos, capitano dell'esercito spagnolo, che l'accoglie con grande onore e gli offre una ricca pensione; nel novembre del '32 accompagna ancora il duca a Mantova, dove è ospite dei Gonzaga e torna a incontrarsi con Carlo V. L'occasione dei divertimenti carnevaleschi, fra il '28 e il '31, o l'altra delle feste per le nozze di Ercole d'Este con Renata di Francia, lo riportano di tanto in tanto ai suoi giovanili amori con il teatro: rielabora vecchie commedie e ne inventa di nuove; attende amorosamente a curare la regia degli spettacoli; sopraintende alla costruzione nella gran sala del castello di una scena stabile, che andrà purtroppo distrutta in un incendio alla fine del '32: grate fatiche, che sottolineano il prestigio e impegnano la bravura del letterato, ma non distolgono, se non temporaneamente, il poeta dal compito a cui si rivolgono ormai tutte le sue migliori energie. Giunge appena in tempo a vedere l'ultima stampa dell'Orlando, ampliato e corretto. Pochi mesi dopo, il 6 luglio del 1533, si spegne silenziosamente, alla soglia dei cinquantanove anni: il suo modo di vita è ormai così appartato e umbratile che la notizia della sua fine raggiunge la corte solo alcuni giorni più tardi. I funerali si svolgono senza pompa, secondo la sua espressa volontà, nella chiesa dei frati di San Benedetto. Dal 1801 le ossa sono tumulate nella sala maggiore della Biblioteca comunale ferrarese.

Una vita così scevra di spunti avventurosi e romanzeschi, così povera di atteggiamenti eroici, può anche suggerire, e ha di fatto suggerito, l'immagine di un carattere pigro, senza forti interessi inteuettuali, morali e politici, di una vocazione edonistica a volta a volta disturbata e contraddetta dall'urgenza di fastidiosi problemi pratici e di obblighi familiari e cortigiani assunti e sbrigati contro voglia. Rapportata al metro dell'alta poesia del Furioso, una tale vita pare, altrettanto naturalmente, postularne un'altra, più intima e vera, assorta e contemplativa, tramata di sogni e fantasie, in cui la mente si rifugia a lenire, anzi a obliare le miserie e le meschinità dell'esistenza quotidiana. Si è giunti così a raffigurarsi l'indole dell'A. in una disposizione distaccata, indifferente o addirittura scettica, sempre aliena dall'impegnarsi interamente nei problemi della vita e della cultura del suo tempo; e per contro la sua poesia come una sorta d'evasione e di fuga dalla realtà, un gioco, un divertimento che si attua in una sfera illusoria, in un totale abbandono a quell'ideale dell'arte, che solo sopravvive alla caduta di tutte le passioni e di tutte le fedi. Una siffatta interpretazione - che affiora di continuo nella storia della critica ariostesca, tocca il suo culmine nei romantici (e la sua formulazione più caratteristica nel De Sanctis) e sopravvive variamente sfumata e attenuata anche nell'esegesi più recente - contiene senza dubbio un nocciolo di verità: essa punta invero sul divario ineliminabile che intercede fra il mondo della poesia e quello delle cure e degli affetti pratici (divario non certo esclusivo dell'A., ma che in lui sembra assumere un rilievo più spiccato e quasi simbolico) e fra la poesia stessa del capolavoro e la letteratura più o meno felicemente esercitata negli scritti minori. Presa alla lettera tuttavia, questa definizione critica importa un'assurda contraddizione fra la biografia e l'opera letteraria, nonché fra i minori esercizi dello scrittore, tutti più o meno legati ai casi e alle necessità di un'esperienza esterna ed umile, e il poema che invece la distanzia e infinitamente la trascende. Per rendersi conto di questo assurdo in tutta la sua portata, basterà provarsi ad espungere mentabnente, in un'analisi del Furioso, il peso di quell'esperienza di uomini e di cose che l'A. attingeva nell'assidua e apparentemente dispersiva e banale vicenda dei suoi amori e delle sue amicizie, delle vaste relazioni inteuettuali, delle pratiche amministrative, dei maneggi diplomatici, e che poeticamente si traduceva in una conoscenza penetrante, acutissima, estremamente variegata e realistica dei caratteri e delle passioni, insomma dell'umana psicologia, e per un altro verso la presenza di quell'educazione tecnica e formale, di linguaggio e di stile, che il poema presuppone e le opere minori documentano nei singoli aspetti e nelle diverse fasi del suo svolgimento. Non è difficile accorgersi che, da una tale eliminazione, la sostanza umana del poema risulterebbe alla fine così rarefatta e depauperata, da rendere presso che impossibile la valutazione della grandezza di un'opera, che si presenta come esemplare e rappresentativa di un momento insigne della nostra civiltà e della nostra storia, laddove a quella stregua si ridurrebbe invece nei termini di un futile gioco dell'immaginazione, di un ambiguo ed ozioso svago di letterato. Proprio alla luce del Furioso è possibile, se mai, fondare le premesse di un giudizio più equo e più attendibile della vita e dell'indole del poeta e della sua minore attività letteraria nel campo della lirica, della satira e del teatro. Soltanto nel poema infatti la biografia trova il suo centro e il suo scopo, ostinatamente e coerentemente perseguito, al di là delle circostanze talora propizie e più spesso ostili, con animo tutt'altro che pigro, acquiescente ed evasivo, bensì pronto sempre a reagire e a sollevarsi sulla trama mediocre delle vicende quotidiane, da cui traggono alimento e in cui si maturano l'intelligenza e la moralità dell'A., quella sua concezione infinitamente saggia, tollerante, comprensiva e insieme disincantata delle cose e degli affetti. Ben lungi dal ridursi dunque, come pur fu detto, al "rovescio della sua poesia", la vita trova nella poesia il suo senso e il suo necessario coronamento; e, anche presa nei suoi elementi più esterni e mediocri, fornisce alla poesia a volta a volta la materia, lo stimolo e, più raramente, il punto d'attrito su cui si esercita una riflessione critica nient'affatto invadente, ma neppure mai disarmata. E' quanto alle opere minori, anch'esse non sono da valutare per sé' sì sempre allo specchio e in funzione dell'Orlando, di cui solo in piccola parte precedono e preannunziano, ma nella parte maggiore accompagnano e intervallano, a modo di pause distensive e di esperimenti e saggi nelle più diverse direzioni tematiche e stilistiche, la lunga e laboriosa composizione estesa all'incirca per un trentennio. Talché può dirsi che in esse sono da riconoscere, dispersi e isolati, tutti gli ingredienti affettivi e le componenti stilistiche che nel capolavoro ritornano fusi e usufruiti in una superiore armonia compositiva e poetica.

Opere. Carmina. - Nel gennaio del 1532, scrivendo al marchese di Mantova Federico Gonzaga per chiedergli di lasciar transitare attraverso il suo territorio con esenzione di dazio "quattrocento risme di carta" necessarie per la nuova edizione dell'Orlando, l'A. aggiungeva: "io fo pensier anco di stampare alcune altre mie cosette". Quali degli scritti minori avesse in animo di pubblicare non sappiamo, perché il progetto non ebbe alcun seguito, sicché tutto lo sparso materiale di autografi e apografi passato in possesso degli eredi o rimasto in mano di amici e conoscenti vide la luce soltanto postumo (tranne alcune edizioni non autorizzate e clandestine delle prime commedie, condotte su copioni apprestati per la recita e trafugati dagli attori). È comunque improbabile che il poeta pensasse a una raccolta ordinata delle poesie, sia in latino che in volgare, perché né le une né le altre, così come sono giunte a noi, si prestano in alcun modo a suggerire le linee di un canzoniere organicamente concepito, mentre forniscono piuttosto il quadro di un'attività estravagante e occasionale e si raccolgono in una tradizione tutt'altro che omogenea, non di rado aperta alle intrusioni di componimenti apocrifi o per lo meno dubbi.

Per i Carmina, i nuclei più saldi sono offerti da un manoscritto in buona parte autografo, oggi nella Comunale di Ferrara, e dall'edizione curata nel 1553 da G. B. Pigna sulla scorta di un originale perduto, che per molti testi rappresentava uno stadio di elaborazione più avanzata, ma sul quale l'editore umanista intervenne anche per conto suo con emendamenti e ritocchi. La sezione più compatta e più vasta della raccolta risale alla prima fase dell'attività del poeta, fra i venti e i trent'anni (solo pochi componinienti e quasi sempre brevi, epigrammi o epitaffi, appartengono a un'epoca più tarda) e rispecchia i diversi momenti di un'educazione soprattutto stilistica e tecnica, che pur lascia intravedere già' nella scelta stessa dei modelli e dei temi, il primo orientarsi delle preferenze, del gusto e dell'umanità dello scrittore.

Non meno dell'esperienza petrarchesca, che si svolgerà nelle rime, l'esercizio della poesia latina costituiva un passaggio obbligato nel tirocinio di un letterato cinquecentesco; e se la sua funzionalità, in rapporto al traguardo ideale dell'A. maggiore, risulta senza dubbio più indiretta e meno evidente, non è perciò meno essenziale. Si trattava anzitutto di acquisire e padroneggiare un patrimonio di favole, di situazioni affettive e di moduli formali, e di far reagire quella cultura poetica al paragone di una sensibilità personale. Il che importa la definizione di un ambito di temi e di autori congeniali, non troppo vasto, e tanto meno eclettico, ma ad ogni modo più esteso e curioso che per solito non si creda. L'Orazio delle Odi, Catullo e gli elegiaci sono senza dubbio i modelli più frequenti e prediletti, ma il tessuto delle immagini e dello stile rivela una base di letture più varie e non supefficiali: oltre Virgilio, anche Stazio, Plauto, Terenzio, i prosatori moralisti e, per alcuni epigrammi, l'influsso certo dei poeti greci dell'Antologia, conosciuti forse in traduzioni latine. Si trattava inoltre della faticata conquista di un decoro linguistico, di una misura di eleganza e di grazia, che soltanto poteva essere attinta dalla frequentazione paziente dei classici.

Una lettura che tenga conto della natura essenzialmente letteraria e riflessa dei Carmina, permetterà di scorgere la linea di un sicuro e costante progresso, dalle prime esercitazioni scolastiche, centoni di reminiscenze ancor grezze o facili variazioni in margine a uno spunto libresco, ai componimenti più tardi dove la cultura formale ormai assimilata sufficientemente e usufruita con maggior franchezza consente la nitida elaborazione di motivi sentimentali più genuini, nonché dell'arguzia nativa dello scrittore. È certo che nell'A. latino restò sempre un che di impacciato e di ruvido; non in lui cercheremo la disinvoltura e la consumata perizia umanistica, non dico di un Pontano e di un Sannazaro, ma neppure di un Cotta o di un Navagero o di un Bembo; e tuttavia è ben visibile nella serie dei testi il processo di un'arte che si viene via via maturando. Spesso anche la presenza di due redazioni successive di singole odi o epigrammi ci permette di seguire da vicino, e fin nelle minuzie, questo travaglio di perfezionamento formale: così per la giovanile ode a Filliroe (I e I bis), per l'epigramma sulla fanciulla che vende rose (XXXIII e XXXIV), per non pochi fra gli epitaffi (X e XI, XVI e XVI bis, LV e LV bis), dove si avverte ben chiaro l'intento di raggiungere una stesura sempre più squisita e concettosa, un più felice accordo di pensieri e parole. Talora, attraverso questa cura di pazienti ritocchi, si fa strada anche una nota più personale, il segno di un sorriso e di una malinconia che sono già in tutto ariosteschi (LVIII, XLIX, LXIII), o anche si tentano i modi discorsivi e sciolti della confessione autobiografica (VII, LIV), sulla linea che si svolgerà appieno nelle Satire e nei proemi di taluni canti dell'Orlando: spunti e presentimenti di una poesia minore, che fiorisce nelle pause e ai margini di una lenta e pacata sperimentazione stilistica, sul terreno di una vivace esperienza affettiva.

Rime. - Anchedelle rime volgari dell'A., come dei Carmina, non esiste un corpus ordinato dall'autore, che ci fornisca un criterio sicuro per vagliarne l'autenticità e la lezione. Le fonti più attendibili di cui possiamo disporre sono le raccolte contenute in due codici della Comunale di Ferrara e la stampa postuma curata da Iacopo Coppa modenese nel 1546, che rappresenta, come pare, una tradizione indipendente rispetto a quella conservata dai manoscritti, e in cui già si insinua qualche componimento apocrifo o per lo meno dubbio. Alcuni capitoli erano comparsi già prima, a pochi anni dalla morte dello scrittore, in edizioni clandestine di cerretani; e più tardi il Giolito aveva accolto alcuni sonetti e madrigali nelle sue antologie della lirica del '45 e del '47; altre rime infine, autentiche o variamente attribuite al poeta, furono rintracciate e divulgate da eruditi del Sette e dell'Ottocento.

È probabile che l'A. svolgesse nella prima gioventù, parallelamente e contemporaneamente, la sua duplice esperienza di lirico in latino e in volgare (l'epicedio in morte di Eleonora d'Aragona, moglie di Ercole d'Este, risale all'autunno del '93); in seguito, dal 1504 in poi, le "rime" dovettero prendere a poco a poco il sopravvento sui "metri", senza che mai tralasciasse del tutto la consuetudine delle une e degli altri fin oltre i cinquant'anni d'età. Vero è bensì quello che già ebbe a notare il Carducci, che "l'Ariosto nella sua gioventù scrisse, se non solamente in latino, certo più spesso e meglio in latino che non in italiano"; e quanto al "meglio", si può aggiungere che il giudizio resta nel complesso valido, per il poeta lirico, anche al di là dei limiti assegnati all'esperienza in stretto senso giovanile. Nelle rime invero il processo di assimilazione e di educazione si svolge tutto su un piano meramente formale, e non si estende, come avveniva per i modelli classici, a un repertorio di temi e di situazioni rivissute con immediata adesione sentimentale. Non si dice perciò che esso risulti meno importante ed essenziale al fine ultimo della conquista di un linguaggio altamente intonato, omogeneo, rivolto ad attuare quell'ideale di eleganza aurea e insieme spontanea, classica e vitale, che sarà dei Furioso. Per questo rispetto, lo studio attento e prolungato della lingua del Petrarca e l'industria dell'artiere volonteroso, che si adopera a sperimentarne e riprodurne singoli modi e strutture lessicali e sintattiche, hanno certo un significato che sarebbe impossibile sopravvalutare. Mentre, anche in una prospettiva di storia cultunde, il petrarchismo dell'A., a mezzo fra gli esemplari del tardo Quattrocento, e specialmente dei vicini Tebaldeo e Boiardo, e la riforma del Bembo, da cui è piuttosto sfiorato che domi nato, occupa un posto tutt'altro che trascurabile. Ma è altrettanto certo che l'A. non aderisce mai interamente alla sostanza poetica, tutta introspettiva, del Petrarca, e gli rimane pressoché estranea quella volontà di assoluta stilizzazione dei dati psicologici. La sua ricerca tende invece chiaramente a spostarsi sul piano di una psicologia più caratterizzata e definita in una tipologia più ricca e più varia, più cordiale ed espansiva, già pronta a risolversi in moduli di figurazione e di racconto. Tanto è vero che i momenti migliori delle rime sono quelli in cui il ricordo o la contemplazione si effondono in canto o si obbiettivano in descrizioni e narrazioni (son. XIII, XVII, XX, XXXV).

Se l'esperienza petrarchesca costituisce comunque un momento essenziale nel tirocinio stilistico dell'A., come di ogni letterato del Cinquecento, dei tutto marginale e sporadico riesce per ora l'influsso dell'opposta tradizione giocosa e realistica, che pur s'avverte nei due sonetti contro il fattore del duca, Alfonso Trotti (XXXIX, XL), e che lascierà qualche traccia anche nelle Satire, e persino nel Furioso (per es., nell'episodio di Gabrina).

Sempre nella direzione delle Satire, ma orientata più specificamente verso la ricerca di un tono colloquiale, che include l'espansione affettiva e la riflessione moralistica, risulta assai più notevole l'esperienza dei capitoli in terza rima, che anche quantitativamente tengono gran posto nel canzoniere dell'A. e ne costituiscono la sezione più fortemente segnata da un'impronta personale, nei temi come nel linguaggio. Proprio qui, dove l'influsso del Petrarca si attenua (quando non pure s'invilisce in meri espedienti di artificio strutturale, sulla scia dei petrarchisti quattrocenteschi, come nei capitoli XIX, XXIII, XXV e peggio nel XXVII), l'A. trova la sua misura più genuina e una varietà di spunti e di intonazioni in cui meglio si esprime la sua ricca, mobile e concreta umanità. Certe aperture di paesaggio di una freschezza luminosa e cordiale nell'XI e nel XII, o anche certi spunti di confessione e di moralità, nel V e nel VI, nel X e nel XV, appena accennati in un tono spoglio di eloquenza e di polemica, sono tra le cose più felici dell'A. minore. Nei ternari composti più tardi, anche la lingua, lo stile, perfino :il movimento metrico denunciano l'esperienza già in atto del poeta dello Orlando e delle Satire; e non è un caso se uno di essi, il XIII, poté passare quasi intatto, con le lievi correzioni imposte dal trasferimento delle terzine in ottave, nel XLIV canto dei poema.

Satire. - Nei Carmina e nelle rime l'attenzione e l'intenzione dello scrittore sono, almeno all'inizi o, prevalentemente formali; nelle Satire, e in parte nelle commedie, l'interesse sembra invece spostarsi tutto verso il contenuto e, segnatamente nelle prime, verso l'immediatezza autobiografica. Sarebbe per altro pericoloso insistere troppo su questo contrasto, che ha tutt'al più un valore di orientamento generico. Già nell'esperienza lirica, latina e volgare, è infatti evidente la tendenza a evadere dai limiti di una pura esercitazione tecnica e stilistica e ad accogliere in misura crescente gli spunti e i suggerimenti di una realtà psicologica e di una riflessione morale, sia pure mediate e tenute a freno da una chi ara, ma non troppo rigorosa esigenza di decoro unianistico. D'altra parte la tendenza a considerare le Satire come un riflesso immediato dell'indole, degli affetti e dei gusti dello scrittore, lo sfogo degli aspetti più umili e quotidiani della sua umanità, una sorta di diario o di "epistolario versificato", ove veniamo in contatto e "conversiamo con un Ariosto in veste da camera", è del tutto illusoria; anche se proprio sul fondamento di una siffatta illusione si è costituita in gran parte la diffusa simpatia dei lettori romantici per questo gruppo di componimenti, nonché l'opinione dei critici tutti concordi a considerarli come la più riuscita fra le opere minori del nostro. Anche le Satire sono un'opera concepita con intenti esplicitamente letterari, dove il tono stesso mediocre e conversevole dello stile non è indice di scrittura spontanea e corrente, si un segno fra i molti di fedeltà al modello prescelto, che è l'Orazi o dei Sermoni e delle Epistole. Né d'altronde l'atteggiamento dello scrittore è qui propriamente quello di chi racconta alla buona i casi della sua vita, e non si preoccupa minimamente di mettersi in posa e tanto meno di atteggiarsi in contrasto con i costumi del suo tempo; è vero invece che la personalità del protagonista riceve quasi dovunque una sorta di trasfigurazione letteraria, tendente a rivestirla di panneggiamenti decorosi, se pur senza solennità, e digni tosi, senza ostentazione; e che dappertutto al tranquillo narrare s'accompagna l'amara constatazione dei vizi, dei difetti, dei disordini della società contemporanea, e quindi uno spirito di riflessione morale, non sdegnosa né violenta, anzi per lo più sottintesa e contenuta da un bonario sorriso, ma non mai del tutto assente. È da aggiungere, se mai, che, fra le opere minori, le Satire son proprio quella che ha ricevuto maggiori cure, una rifinitura più attenta e minutiosa, quella cioè che si presenta con una fisionomia più compatta ed organica, vale a dire più letterariamente elaborata e conchiusa. La redazione più matura, e da considerarsi come definitiva, è quella che ci è conservata in un codice della Comunale ferrarese, apografo con correzioni dell'autore e pertanto elevabile a dignità d'autografo (già malamente usufruito dal Doni per la stampa giolitina del 1550, e poi rivalutato e preso a fondamento dagli editori modemi, a cominciare dal Molini e dal Tortoli); mentre sulle fasi redazionali anteriori ci illuminano, per due delle satire, un codice senese, e, per tutte, l'editio princeps pubblicata da Francesco Rosso da Valenza a Ferrara nel 1534.Composte tutte in un periodo di tempo ben delimitato, negli anni che corrono fra la rottura con il cardinale Ippolito e il ritorno a Ferrara dopo il commissariato a Castelnuovo - anni di dure prove e di amari contrasti, che segnano una fase di crisi nella vita e nella moralità del poeta, destinata a riflettersi anche nel processo di elaborazione dell'Orlando - le Satire rappresentano un'esperienza unitaria sul piano del sentimento come su quello dello stile.

Occorre pertanto non dare un rilievo soverchio e arbitrario agli elementi autobiografici, spogliandoli della loro coloritura letteraria, e prestarsi docili invece a riconoscere in ciascun componimento il tentativo tenace di rinnovare il difficile tono oraziano di un moralismo senza punte e senza accensioni violente di sdegno e di una riflessione che non pretende mai a generalizzare troppo e ama tenersi stretta all'esperienza concreta e quotidiana. La prima satira (autunno 1517), composta quando rifiutò di seguire il cardinale in Ungheria e intitolata al fratello Alessandro e a Ludovico da Bagno, si risolve in una ferma difesa della dignità e dell'indipendenza dello scrittore, che mal volentieri s'adattava a piegarsi ai più ilmili servigi della vita di corte, e in un proposito polemico contro chi aveva mostrato di sapere così poco apprezzare i suoi meriti e il suo ingegno poetico. La seconda (novembre-dicembre 1517), indirizzata al fratello Galasso prima di mettersi in viaggio per Roma, descrive a vivaci colori la corruttela della Curia e condanna la politica nepotistica dei pontefici. La terza (maggio 1518), al cugino Annibale Malaguzzi, è una pacata riflessione sulla necessità di tenere a freno ambizioni e desideri (perché nel mondo è impossibile, per quanto si salga, raggiungere una felicità che appaghi pienamente) e sulla illusione vana di chi spera di ottenere dai potenti una liberalità disinteressata. La quarta (febbraio 1523), scritta a Sigismondo Malaguzzi durante il commissariato in Garfagnana, è tra tutte forse la meno moralisticamente intonata, ma neppure ad essa è estraneo un atteggiamento polemico contro chi lo costringeva a starsene lontano dalla sua donna e dai cari studi, in un paese selvaggio, fra unapopolazione turbolenta. La quinta, indirizzata come la terza ad Annibale Malaguzzi e composta nell'occasione delle nozze di lui con Lucrezia Pio (la datazione è incerta, e le opinioni degli studiosi oscillano fra il '19 e il '23), discorre con garbo umoristico e con realistica saggezza del matrimonio e della vita coniugale. La sesta (1524-25), diretta al Bembo perché gli procuri un precettore greco per il figlio Vi rginio, è in parte una cruda rappresentazione dei vizi degli umanisti, e in parte uno sfogo contro la malasorte e la tirannia degli uomini, che non gli avevano permesso di farsi negli anni migliori quella compiuta educazione letteraria che era nei suoi voti. La settima infine (marzo-aprile '24), esponendo al Pistofilo, segretario del duca Alfonso, le ragioni per cui il poeta non si sente di accettare l'incarico di ambasciatore presso il papa, insiste ancora sul suo desiderio di lasciare al più presto gli aspri sassi e la genta inculta della Garfagnana e sulla nostalgia di una vita modesta e raccolta, a Ferrara, accanto al suo duomo e fra i suoi libri e non lontano dalla sua Alessandra.

Questo vario contenuto morale e polemico s'intona, nei singoli componiinenti, pur con varia gradazione, all'umore discreto e temperato dell'A., per cui la moralità non è mai oratoria né pedantesca, e la polemica di rado si fa scoperta e quasi in nessun punto animosa e acre. Il discorso si snoda in particolari pittoreschi, con ritratti disegnati in punta di penna, rappresentazioni icastiche, indugi scherzosi e pause narrative, favole, apologhi, evocazioni autobiografiche. Talora anche il tono apparentemente svagato ed estroso si fa più intimo e cordiale, più bonario e persino un poco pettegolo, e si piega ad esprimere i piccoli sfoghi quotidiani dello scrittore contro il destino e la cattiveria degli uomini, le sue nostalgie, le sue modeste aspirazioni, i suoi gusti semplici e schivi, e anche, ma solo in parte e non senza ritegno, i moti più delicati e segreti del suo cuore. Ne vien fuori, non propriamente un ritratto del poeta, nella sua immediatezza, sì un'esposizione della sua moralità, tutta tramata di esperienze concrete, ma già composta e distanziata nella memoria e letterariamente elaborata alla luce di quei modelli classici, verso cui l'A. si sentiva portato per una naturale affinità di tendenze e di preferenze.

Il modello oraziano è anche il limite ideale che presiede alla struttura, alla sapiente volubilità, ai modi conversevoli, all'intonazione dominante del discorso poetico nelle Satire; un limite appunto, in cui solo a tratti si assesta e si placa una materia, di per sé risentita e sofferta, e non contemplata fin da principio con il superiore distacco dei saggio epicureo. Proprio nell'attrito fra un'esperienza realistica di vicende e di affetti personali e il proposito di tradurla e filtrarla nei meditati schemi di un esemplare moralismo, per conferirle un significato generale e dunque una maggior validità poetica, si configura la tonalità specifica delle Satire ariostesche; e la natura stessa del linguaggio, con la sua energica e fitta trama di immagini e di locuzioni sempre concrete, sapide, pittoresche, fino ai limiti della caricatura, un linguaggio "comico" che si richiama in parte alla tradizione dei rimatori borghesi e più spesso al grande modello dantesco (nella sua densità e nel suo vigore icastico e narrativo, ben s'intende, e non nel suo largo volo metafisico e simbolico). Questa robustezza nuova e concretezza lessicale, il ritmo rapido e intenso della sintassi narrativa e figurativa, insieme con l'ampio orizzonte dell'esperienza psicologica, che già tende a superare l'avvio polemico per fissarsi in una ideale tipologia, sono gli elementi che maggiormente risaltano a una lettura delle Satire, e quelli che più aiutano a intendere la ricca umanità e taluni aspetti stilisti ci del capolavoro.

Commedie. - L'esperienza teatrale dell'A. non è' come quella delle Satire, circoscritta in un giro breve di anni, bensì si prolunga nel tempo fino a coincidere press'a poco con quella dell'Orlando, dalla prima ideazione del poema all'ultima redazione a stampa; se si ti en conto della perduta Tragedia di Tisbe, si risale addirittura all'adolescenza dello scrittore e se ne deduce il segno di una vocazione e di una predilezione antiche e non mai venute meno fino alla vigilia della morte. È, possibile per altro indicare due momenti distinti, in cui questo gusto del teatro prende maggior rilievo, favorito probabilmente da circostanze esteriori: fra il 1507 e il '10, quando l'A. scrive e pubblica le due prime commedie in prosa, la Cassaria (rappresentata a Ferrara nel marzo del 1508) e i Suppositi (messi in scena nel febbraio del 1509), e inizia la prima stesura in versi del Negromante, rimasta interrotta a causa della guerra allora sopravvenuta; poi di nuovo dal '28 al '31, quando elabora le redazioni verseggiate della Cassaria e dei Suppositi, rifà il Negromante con aggiunte e miglioramenti, compone la Lena e si dedica con fervore alle cure della regia. Nel lungo intervallo che intercede fra questi due momenti, si collocano nel '18 la composizione degli Studenti, abbandonati a mezzo il quarto atto e rimasti incompiuti (fino a che, dopo la morte del poeta, provvederanno a ultimarli e metterli in circolazione, col titolo rispettivamente di Imperfetta e di Scolastica, il figlio Virginio e il fratello Gabriele), e nel '20 il completamento della prima redazione del Negromante, destinato a una rappresentazione che poi non ebbe luogo alla corte del papa Leone X. Quanto alla fortuna che le commedie dell'A. trovarono nell'ambiente culturale contemporaneo, stanno a dimostrarla le edizioni clandestine della Cassaria e dei Suppositi, pubblicate entrambe subito dopo la rappresentazione nel 1509, sulla traccia dei copioni ad uso degli attori, nonché i numerosi manoscritti superstiti nelle biblioteche di Ferrara, Modena, Ravenna e Firenze. Dagli autografi ariosteschi, procurati al Dolce da Virginio, derivarono invece le stampe postume della Lena (1551) e delle due redazioni del Negromante (1535 e 1551), e indirettamente l'editio princeps giolitina, a cura dei Porcacchi, di tutto il teatro (1562). Il rapido estendersi poi di quella fortuna dall'Italia all'Europa tutta risulta dalle versioni e imitazioni che assai presto delle commedie ariostesche si fecero in Francia, per opera di Jean Pierre de Mesmes (1552) e di Jean de la Taille (1568), e in Inghilterra, a cura di George Gascoigne (1566).

Il giudizio concordemente ostile della critica romantica ottocentesca e poi di quella neoidealistica deve esser limitato e temperato, non solo in una prospettiva di storia culturale, col riconoscimento dell'importante funzione storica che l'A. esercitò fornendo i primi esempi di una commedia regolare e dando in tal modo l'avvio al teatro italiano e poi a quello europeo del Rinascimento, si anche, da un punto di vista più preciso, con un giusto apprezzamento delle qualità letterarie e dell'impegno anzitutto tecnico, e poi anche umano e morale, dello scrittore. Occorre dire che le prove dell'A. autore, regista, e talora persino attore, comico, nacquero da una passione concorde dell'ambiente e dei suo poeta: dall'amore vivissimo, cioè, fin dagli ultimi decenni del Quattrocento, della corte ferrarese per le feste e gli spettacoli capaci ad un tempo di rallegrare gli occhi e lo spirito e di appagare le esigenze non volgari di un pubblico colto e raffinato, e dal gusto, fortissimo nell'A. in ogni tempo, per il teatro amato e sentito in tutti i suoi aspetti e nella sua multiforme e complessa realtà, come esperienza letteraria e come effimero divertimento, come episodio della vita cittadina e cortigiana e come specchio bonario e scherzoso di quella vita attraverso la riflessione morale e la satira. A questo amore e a questo gusto si aggiunga il proposito di restaurare il teatro comico nella sua antica dignità' sottraendolo alla rozzezza delle plebi e riconducendolo alla chiarezza e alla regolarità dei modelli classici: proposito umanistico, ma non astratto né cerebrale, anzi congeniale all'educazione del nostro e aderente agli spiriti e alla cultura di tutto il secolo. E non è poi vero che le commedie rimangano estranee, non diciamo all'alta fantasia, ma al sentimento e all'intelligenza dell'A.; perché in fondo, nelle parti più vive e meglio riuscite, esse si riportano a quell'ispirazione moralistica riflessiva e satirica, da cui scaturiscono anche le Satire (sebbene in queste ultime con un'impronta tanto più personale e cordiale, e in quelle invece calata in schemi alquanto rigidi e un po, ruvidamente polemici). La scelta stessa del metro, fissatasi, dopo un primo tentativo di stenderle in prosa, in quell'endecasillabo sdrucciolo che è sembrato sempre così artificioso e infelice - imposto, si diceva, dal proposito intellettualistico di rendere almeno approssimativamente in volgare il ritmo e l'andamento quasi prosastico dei trimetri giambici della commedia romana - risponde a un'esigenza non dei tutto esterna di decoro, di uniformità linguistica e di freno stilistico (come risulta da un confronto fra i testi più antichi e quelli più recenti); e si dovrà aggiungere che lo scrittore pose tutta la sua attenzione, anzi la sua bravura, per conferire a quel verso ingrato e difficile andamenti facili e piani, quasi di prosa e di naturale conversazione, adeguando gli espedienti formali al tono unüle, familiare, e ad ogni modo non poetico, della materia e alle esigenze del genere, così come egli lo intendeva. Del resto è importante, per la storia letteraria, che l'A. perseguisse fin dal principio il consapevole proposito di dare una "nova commedia", com'egli dice nel prologo della Cassaria, pur attenendosi nell'invenzione dei suoi "vari giuochi" all'esempio dei latini; e che questo proposito si facesse con gli anni sempre più chiaro e risoluto, nella scelta dell'ambiente, dei temi, degli episodi. Del che è prova non tanto il fatto che la scena, la quale nella Cassaria è collocata a Metellino (a Sibari, nella redazione in versi), sia trasportata in un ambiente più familiare e più realistico, a Ferrara e a Cremona, nelle commedie successive; quanto piuttosto l'altro fatto, più sostanziale ed intrinseco, che, fra le maglie degli intrighi complicatissimi modellati sugli schemi classici, penetri in misura sempre maggiore un contenuto umano e cittadino, pittoresco e a volte pettegolo, la vita vissuta insomma e direttamente osservata con occhio curioso e malizioso: poco ancora nei Suppositi, ma già moltissimo nel Negromante, vasta satira dell'umana sciocchezza in balia di furbi impostori, e più nella Lena, commedia assai ricca di quadretti d'ambiente ferrarese.

La maggior debolezza artistica delle commedie nasce essenzialmente dal divario fra la trama congegnata con i procedimenti che diverranno tipici del teatro comico del Rinascimento, imitando e contaminando le fonti di Plauto e di Terenzio, con non rari apporti tematici e formali della novellistica toscana, e il contenuto reale di passioni e di situazioni, che stanno a sé, senza un necessario legame con l'intreccio complicato delle vicende e senza la capacità di pervenire a una costruzione coerente dei caratteri dei personaggi. Donde il groviglio estremo, fino all'assurdo, e l'evidente inverosimiglianza degli argomenti, l'uso degli espedienti più convenzionali, gli sbalzi e le discordanze delle invenzioni, del tono, e anche del linguaggio, che, specie nelle due prime commedie, tocca a tratti gli estremi della caricatura, del lazzo e addirittura del gergo furbesco. Ma è chiaro anche il progresso che, per questo riguardo, si avvera nelle prove più tarde, con una notevole semplificazione delle strutture e dei modi espressivi, a tutto vantaggio dello scavo psicologico e di una più accorta caratterizzazione del personaggio. Ma, a prescindere dal significato culturale e storico, e anche dai momenti più vivi e letterariamente riusciti (qualche pagina di energica polemica morale o di arguta rappresentazione satirica; qualche figura ritratta in modo efficace, come il Corbolo della Lena), le commedie dell'A. meritano attenzione, ai fini di una miglior valutazione della sua personalità artistica, se non altro per il gusto, che esse rivelano, della peripezia e dell'intrigo, dei colpi di scena e delle trovate inventive, dell'astratto gioco scenico insomma, gusto che tornerà nell'Orlando, con tanto maggior vigore fantastico, s'intende, e limpidezza e precisione costruttiva.

Altre opere minori. - Degli altri scritti che ci sono rimasti dell'A., non ha importanza letteraria il cosiddetto Conto de contadini, che èu n puro registro di spese; e aliene da un preciso proposito di elaborazione artistica sono anche le Lettere, tutte legate all'occasione immediata ovvero alle necessità dei rapporti sociali, dove sarebbe vano cercare spunti di poetica e accenni men che superficiali all'attività dello scrittore, e scarsissimi sono anche i momenti di ripiegamento sulla sua vita intima e privata. Appena qualche raro spiraglio vi si apre di tempo in tempo, illuminando fuggevolmente singoli aspetti e atteggiamenti di un'indole sempre restia a confessarsi e meno che mai a idoleggiarsi e accamparsi in primo piano. Nell'assenza di una mediazione artistica, subentra il naturale ritegno dell'uomo a temperare e smussare le note più personali. Spiccano fra le altre per numero e per qualità le lettere scritte al duca durante il commissariato in Garfagnana: specchio di una coscienza suscettibile e dignitosa, schietta e combattiva, che insorge e si esprime con la massima spontaneità in modi anche stilisticamente vigorosi e risentiti.

Di una prosa più letterariamente elaborata, affine nella ricerca di vivacità e di colorito quasi caricaturale a quella delle prime commedie, offre un saggio l'Erbolato, sproloquio scherzoso sulla medicina e sui medici, messo in bocca a un Antonio Faentino (che sarà da identificare probabilmente con Antonio Cittadini da Faenza, professore nello Studio ferrarese): ma si tratta di un esercizio mediocre e abbastanza insipido.

A metà strada fra la vita e la letteratura si collocano le due Ecloghe in terzine, di cui la prima, dialogata, si riferisce alla tragedia scoppiata in seno afia famiglia estense fra il 1505 il 1506 (la congiura ordita da don Giulio e da don Ferrante contro Alfonso e il cardinale Ippolito, e la dura repressione che le tenne dietro con la condanna a morte dei principali congiurati e la prigionia a vita dei due fratelli cadetti), e l'altra introduce Mantova a piangere la morte di un fiorentino (verosimilmente Giovanni delle Bande Nere, spentosi colà appunto nel 1526).

In una sfera di interessi esclusivamente letterari ci portano infine i diversi frammenti di episodi narrativi in ottave, che, sebbene non inclusi poi nell'Orlando, furono ideati dapprima come parti integrative del poema, dallo Scudo della regina Elisa alla Storia d'Italia e ai Cinque Canti; ma di questi si dovrà far cenno più utilmente in relazione appunto alla genesi e alla composizione del capolavoro.

Orlando Furioso. - Il gusto della letteratura epi co-romanzesca era di casa alla corte degli Estensi, fin dal sec. XIV, e aveva dato, nell'estremo scorcio del Quattrocento, il suo frutto più splendido nell'Innamorato del Boiardo. Era naturale che nella scia di quel gusto si orientasse abbastanza presto anche la fantasia dell'A., nella ricerca di una struttura e di un ritmo congeniali, adatti cioè a circoscriverla in una precisa misura di materia e di stile e insieme tali da consentirle un margine larghissimo di libertà inventiva e di situazioni affettive. L'A. non toccava ancora i trent'anni quando, aggiungendosi alla spinta della cultura ambientale anche lo stimolo giovanile di un proposito encomiastico e cortigiano, abbozzava il primo tentativo, subito abbandonato, di poesia epica con il capitolo sulle gesta di Obizzo d'Este, dove la protasi ("Canterò l'arme, canterò gli affanni D'amor...") già preannunzia temi e modi di una concezione poetica ormai vicina a sbocciare. Allora appunto, nel 1504 o poco più tardi, dovette nascere l'idea e iniziarsi la stesura del Furioso: e non è strano che il poema nuovo si presentasse dapprima, alla mente dei vicini e contemporanei e dello stesso autore, come una semplice continuazione, nella trama e nelI'architettura, dell'opera rimasta interrotta del Boiardo: ancora nel luglio del 1509 il duca Alfonso, scrivendone ad Ippolito, la designava appunto come la "Gionta a lo Innamoramento de Orlando". Certo nel febbraio del 1507 la composizione doveva esserne ormai avanzata, e tutto il piano del libro predisposto in ogni sua parte, se, trovandosi a Mantova in quell'epoca, l'A. poteva esporre a Isabella Gonzaga la "narrazione de l'opera" e probabilmente leggergliene qualche episodio, facendole trascorrere due interi giorni "non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo". Compiuto nel 1509 il poema in quaranta canti, dovette attendere ancora sei anni (durante i quali la 9tesura primitiva fu sottoposta a un minuto lavoro di correzione formale) prima di apparire a stampa, in Ferrara, nell'aprile del '16. Il successo immediato e vastissimo del fibro fece sì che l'edizi one fosse esaurita già nel '20. Nel febbraio dell'anno seguente usciva la seconda edizione, assai vicina alla precedente nell'aspetto esterno (immutato vi rimaneva il numero dei canti e la disposizione degli argomenti, salvo qualche spostamento o sostituzione di singole ottave), ma tutta riveduta nella lingua e nello stile, nell'intento di sopprimere i residui dialettali e le dissonanze e durezze di costrutto, con l'occhio fisso a quell'ideale di toscanità letteraria, che il Bembo andava proprio in quegli anni costituendo e propugnando. Questo travaglio di perfezione artistica e l'influsso della riforma bembesca sono anche più evidenti nella terza edizione del '32, dove i canti sono diventati quarantasei (con l'aggiunta degli episodi di Olimpia, della rocca di Tristano, di Marganorre e delle avventure di Ruggero e Leone), e tutto lo stile è portato a un grado supremo di rifinitura e di splendore. Di cui tuttavia l'A. non doveva sentirsi ancora soddisfatto, se è vero che riprese a lavorarvi per migliorarlo pur negli ultimi mesi, che ancora gli ri masero, di vita.

Alle "longe vigilie e fatiche", che il libro gli aveva imposto, alludeva l'A. nella lettera scritta nell'ottobre del '15 al doge di Venezia per ottenere i privilegi e l'esclusiva di stampa; dove pur lo presentava modestamente come un'"opera in la quale si tratta di cose piacevoli e delettabili de arme e de amore", composta "per spasso e recreazione de Signori e persone di animi gentili e madonne", e infine divulgata "per solazo e piacere di qualunche vorà e che se deletterà de legerla": parole ripetute quasi identiche in un'altra lettera allo stesso doge, tredici anni più tardi, per ottenere condizioni non diversamente favorevoli alla progettata ultima ristampa dell'opera "riconzata e riformata in molti loci" non senza nuovo dispendio di "fatica". Il tono modesto di queste dichiarazioni - che riducono l'Orlando, nella sua genesi e nel suo intento soggettivo, come pure nella sua funzione oggettiva, nei limiti di un puro "divertimento" - rispecchia l'estrema discrezione dello scrittore e la sua ritrosia costante ad esporre in termini razionali la poetica implicita nel capolavoro, ma non esclude di certo una lucida coscienza della sua novità e della sua grandezza. La stessa discrezione apparente e la stessa sostanziale sicurezza di concepimento e di indirizzo formale si ripetono anche nel rapporto di dipendenza e di differenziazione dal modulo boiardesco. Il proposito iniziale di riprendere e continuare fedelmente le invenzioni, i personaggi, le situazioni create dal Boiardo, si risolve subito in un adattamento e in una scelta di quella ricca e frondosa materia secondo i gusti nuovi e più delicati della società del primo Cinquecento. L'estro appassionato energico pittoresco, con qualcosa di grezzo e d'incondito, del signore di Scandiano cede il passo ad un'ispirazione lucida e pacata, tranquilla e armoniosa, senza urti e senza risalti: dove le figure perdono ogni peso e corposità e tendono a fissarsi in tipi ideali, le passioni cessano d'apparir sanguigne e prepotenti, si raffinano e si chiarificano, contemplate dall'alto e sistemate in una visione della vita di gran lunga più vasta, più complessa e più organica. L'attenzione dello scrittore sembra essersi spostata tutta quanta dalla materia allo stile: dove al Boiardo importano soprattutto la meraviglia e la stranezza dei casi, il rilievo delle situazioni e delle avventure, il ritmo del racconto, e insomma il contenuto fantastico in sé stesso; per l'A. invece le vicende e la trama diventano un pretesto, e noi lo sentiamo intento a cogliere, oltre i fatti, piuttosto l'atmosfera che li circonda e li trasfigura. Gli è che quella materia dell'Innamorato, nel Furioso ha già cessato di essere un contenuto immediato ed urgente della fantasia, è già una materia libresca, o poetica che dir si voglia, filtrata attraverso il piacere sottile di un lettore pronto a cogliere e far vibrare gli spunti e gli accenti conformi al suo gusto e alla sua indole.

Nell'identico modo e con identici risultati si istituisce il rapporto fra l'alta fantasia ariostesca e tutti i diversi apporti che in essa confluiscono dall'esperienza letteraria personale dello scrittore e dalla cultura circostante. Quegli elementi di arguta moralità e di pacata riflessione, quegli spunti di affettuosa ironia e di scherzo, che costituiscono i momenti migliori delle Satire e, in parte, delle commedie; quella vivacità e concretezza descrittiva e quel calore abbandonato e schietto di sentimenti, che s'effonde in alcune liriche latine e volgari; quella ricca materia di figure e vicende umane, felicemente osservate e ritratte nelle commedie con un gusto vivo e profondo degli intrighi e delle peripezie; quel tono infine di superiore e sorridente equilibrio dello scrittore di fronte a sé stesso e al mutevole oggetto della sua arte, che risulta da tutte le opere minori dell'A.: tornano anche nel capolavoro bensì, ma come elementi secondari di una composizione troppo più vasta e aerata, dove nessuno di essi è in grado di acquistare una posizione predominante e di accentrare in sé l'ispirazione poetica, e tutti insieme, e non soli, cospirano a intessere i fregi di una tela infinitamente più mutevole e varia e librata in un'atmosfera più chiara e meno terrestre.

A una non diversa funzione strurnentale adempiono gli stimoli fantastici offerti al poeta dalle sue letture. Si direbbe che l'immaginativa dell'A. abbia sempre bisogno di prender le mosse da uno spunto letterario e da un'invenzione altrui. Quasi tutti, se non proprio tutti, gli episodi maggiori del poema si offrono a prima vista come variazioni di vecchi temi, riprese di situazioni già fissate e definite nella poesia classica; senza che convenga qui accennare neppure al ricco repertorio di fantasie e situazioni offerte da quei romanzi cavallereschi del Medioevo, che all'A. dovevano apparire divertenti bensì, ma quasi una materia informe e grezza che attendesse ancora il poeta capace di farla vivere con la sua arte. Occorre tener presente, chi voglia intenderne davvero la qualità e il tono, questa genesi umanistica della grande poesia ariostesca: quel suo nascere e crescere, lentamente e sicuramente, dall'incontro di un'esperienza umana consumata e alleggerita dagli anni e dalla felicità di un sereno temperamento, con le calme e riposate letture in una stanza appartata e lontana dai rumori del mondo; quei fantasmi poetici e letterari, che si spiccano dalle pagine di un libro lungamente vagheggiato, e subito prendon corpo e si librano a nuovi voli, accompagnati e frenati dal sommesso commento di uno spirito riflessivo ed arguto; quel gusto di abbandonarsi al sogno e insieme conservare intatta la coscienza di sognare, ché infine si tratta di un mondo di pura immaginazione, del mondo inventato dai poeti, tanto più bello e ricco di fascino quanto meno è vero, della verità piatta e pedestre di tutti i giorni. Ma questa genesi umanistica della poesia ariostesca non è da intendere nel senso di un criterio limitativo: in essa il procedimento tipico dell'umanesimo quattrocentesco è capovolto: non si tratta più di adottare le formule degli antichi per nobilitare e travestire una realtà umile e spregiata, sì tutt'al contrario di estrarre dalla poesia del passato la sostanza di umanità sempre viva e risentita con animo moderno; non di idealizzare letterariamente la vita, ma di restituire alla vita il contenuto di una grande esperienza letteraria. Il che importa anche qui un criterio di scelta, di adattamento e di ricreazione, che adegui quella materia culturale e libresca alle esigenze di una fantasia assolutamente originale e nient'affatto passiva.

In questa luce dev'essere intesa anche l'accettazione da parte dell'A. della materia cavalleresca: accettazione che non implica un moto di adesione sentimentale ingenua, quale ancora si avverte in un Boiardo, e neppure un atteggiamento di divertita parodia borghese come nel Pulci, e tanto meno di polemica ripulsa, di scetticismo e di derisione; ma nasce piuttosto dalla scelta consapevole e calcolata di un diaframma letterario, che è veramente il più adatto a consentire, nella libertà sconfinata degli orizzonti spaziali e delle invenzioni sceniche, il margine massimo possibile all'espressione della dialettica infinitamente varia e imprevedibile, mobile e articolata, delle umane passioni. Rispetto a questa materia, e tenuto conto del suo valore meramente strumentale e in certo senso indiretto, l'impegno dell'artista rinascimentale potrà tutt'al più rivelarsi in un'esigenza di ordine interno, di costruzione nitida e lineare, che ne rispetti tiittavia la natura estrosa e arditamente fantastica. Non è facile riassumere la trama del Furioso, caratterizzata proprio dall'infinita molteplicità e dall'incessante svariare degli episodi e delle vicende, che l'A. aduna nel suo poema. E tuttavia questo ha una struttura anche esteriore assai più compatta ed organica, a paragone dell'Innamorato o del Morgante, perché il poeta tiene con salda mano tutti i fili delle sue avventure e dei suoi personaggi, e li maneggia con un accorto gioco di inaspettate interruzioni, di improvvise riprese e di sapienti alternative. Senza essere rigidamente unitaria, secondo le regole astratte imposte dalla poetica della seconda metà del secolo, l'azione si raccoglie pure con sufficiente chiarezza intorno a tre nuclei essenziali: l'amore di Orlando per Angelica; la guerra fra i saraceni e i cristiani presso Parigi; e l'altro contrastato amore fra Ruggero e Bradamante. Di questi tre motivi, il primo è quello che assume maggior rilievo e risuona nella prima parte del libro con accenti più intensi e appassionati, finché raggiunge il suo culmine nell'episodio della pazzia di Orlando, quando il paladino scopre che la sua Angelica ha sposato il saraceno Medoro; il secondo costituisce lo sfondo epico della narrazione e solo a tratti balza in primo piano, accentrandosi nella possente figura di Rodomonte; il terzo infine è il più scialbo, e risponde in parte ad un fine cortigiano (perché dalle nozze della sorella di Rinaldo con il discendente di Ettore avrà origine la stirpe degli Estensi), ma non è privo neppur esso di una sua atmosfera di tenerezza e di commozione, se pur meno evidente e più modesta di tono. Intorno a queste tre storie di più ampio e seguitato sviluppo molte altre se ne svolgono, che nel complesso del quadro serbano una funzione secondaria ed episodica, e pur son trattate con la stessa amorosa precisione e finitezza delle principali: come la pietosa e drammatica avveptura di Olimpia, il gentile amore di Fiordiligi e Brandimarte, l'eroica devozione di Medoro e Cloridano, la tragica vicenda di Zerbino e Isabella, gli scenari meravigliosi e incantati dell'isola di Alcina e del castello d'Atlante, e tante altre favole e invenzioni nünori, sulle quali non gioverebbe insistere, in un minuto e fastidioso elenco. L'unità' in tanta varietà tematica, è assicurata soprattutto dalla presenza costante di un'accorta regia, che armonizza i contenuti e i toni, diversi in un ritmo altemo, ma sempre controllato e obbediente a una profonda norma musicale: il poeta, che ha bisogno di "molte fila" per ordire la sua "gran tela" (XIII, 81), si comporta "come fa il buono Sonator sopra il suo instrumento arguto, Che spesso muta corda e varia suono, Ricercando ora il grave, ora l'acuto" (VIII, 29); ma appunto in quel "ricercare", in quell'abile e pur spontaneo gioco di contrappunto tematico e tonale, egli attinge la misura naturale della sua poesia.

Questa unità del poema, non precostituita, ma conquistata di volta in volta dentro e oltre i suggerimenti dell'invenzione romanzesca, non immobile e chiusa, bensì aperta e mossa, per meglio aderire alla ricchezza, alla varietà, alla contradditorietà intima, insomma all'armonia dialettica del reale, è la forma spontanea in cui si riflette la concezione rinascimentale della vita, nel momento della sua piena e splendida maturità come affermazione di un ordine umano e naturale, senza residui metafisici, tutto affidato al gioco libero e spregiudicato dell'intelliggenza, della volontà e degli istinti. La materia vera del Furioso non sta infatti in quel tessuto di favole e di avventure, nell'intreccio esteriore delle vicende, sì nella multiforme vita affettiva che dall'animo del poeta si riflette divisa e moltiplicata nei singoli personaggi ed episodi, diffondendo su tutti una luce uguale e pacata. Tra i vari affetti campeggia e predomina l'amore, che è il movente e l'oggetto di gran parte delle azioni principali e secondarie e di quella stessa che dà il titolo al poema: l'amore inteso sempre in un modo schiettamente sensuale, come contemplazione voluttuosa e godimento della bellezza femminile, non turbato da morbose complicazioni, ignaro di tormenti e di crucci che non sian quelli naturalissimi che derivino dalla crudele ripulsa dell'amante o dalla gelosia, eppure non superficiale né gretto, e capace di variamente atteggiarsi e di assumere volti e movenze diverse, ora appassionato e denso di tragedia (come nella storia di Orlando e in quella di Isabella), ora tenero e patetico (in quelle di Olimpia e Fiordiligi), impetuoso in Rinaldo, gaiamente volubile e avido di piacere in Doralice. E, accanto all'amore, la varia galanteria, l'anunirazione devota (che non esclude un tono di compatimento nella considerazione della fragilità e dell'incostanza femminili) della bellezza della donna, vagheggiata nella gentilezza e nella spontaneità dei suoi gesti, nel sapore istintivo e fresco dei suoi affetti, nello splendore statuari o delle sue forme. E poi il culto dell'amicizia integra e fedele fino alla morte (Orlando e Brandimarte, Cloridano e Medoro); il senso della gentilezza cavalleresca, nobile e ardita, cortese e votata al sacrificio (Zerbino); l'ammirazione, mista a spavento, della violenza superba ed eroica, ma rovinosa e cieca come le forze della natura (Rodomonte); infine - che è un altro dei motivi fondamentali del poema - il gusto vivissimo delle avventure strane, romanzesche e spettacolose: battaglie sanguinose, duelli terribili, improvvisi colpi di scena, ambienti incantati e fiabeschi, viaggi e peripezie, mostri e giganti, fate e maghi, giardini palazzi e città su sfondi esotici e remoti.

Tutti questi sentimenti vivono intensamente nel cuore del poeta. L'A. è invero ben lungi dal ridursi a quel puro artista che altra volta si volle vedere in lui: a quel letterato un po, ozioso che si astrae dalla vita per chiudersi nel gradevole cerchio delle sue immaginazioni e giocare con una materia alla quale rimane nel fondo dell'anima indifferente. Vero è tuttavia che nessuno di quei sentünenti, neppure l'amore e il gusto delle avventure, riesce a dominare veramente su tutti gli altri e a riempire di sé tutto il poema. Si sente che ciascuno di questi affetti ha una radice profonda nel poeta; eppure tutti appaiono come smorzati e velati, immersi in una rete di rapporti e di condizionamenti reciproci, contemplati da un occhio che li segue con simpatia ma non si immedesima mai totalmente in essi, e tutti li accoglie ma non si abbandona e conserva di fronte a ciascuno di essi il suo equilibrio superiore e la sua libertà. Cosicché si è portati a dar ragione, almeno in parte, a quei critici che hanno insistito più o meno vagamente sull'ironia ariostesca, ovvero al Voltaire che osservava che l'autore dell'Orlando, "sempre padrone della sua materia, la tratta scherzando". Il che è vero solo a patto che si attribuisca a quello "scherzare" il suo significato più vero e più intimo e non lo si riduca a una disposizione scettica e tanto meno canzonatoria; e si veda in quell'ironia ciò che essa è in effetto, e cioè un atteggiamento di sereno distacco del creatore di fronte alla materia della sua creazione. A dare questo senso di sorridente distacco e quel tono di velatura e smorzatura degli affetti, che è poi il tono caratteristico della poesia ariostesca, concorrono molti e diversi accorginienti. Uno dei quali consiste in quel gioco sottile, cui s'è già accennato, di interruzioni, di riprese, di altemative, che non è soltanto un avvicendarsi di episodi, ma di toni diversi, per cui la commozione, quando sta per traboccare, si spegne nel sorriso, e la giocondità, quando minaccerebbe di sfrenarsi, degrada senza stonature e dissonanze nel patetico e nel drammatico e il comico si affianca al tragico, il grottesco al sublime, la rappresentazione realistica alla trasfigurazione lirica. E un altro èil frequente intervenire del poeta, specie all'inizio di ciascun canto, con le sue riflessioni morali e il suo buon senso arguto, che suscita, nel bel mezzo del sogno, la consapevolezza di sognare. E un altro ancora consiste nella rinuncia a una psicologia troppo insistita, a una caratterizzazione autonoma, nel senso del romanzesco modemo, dei personaggi e degli ambienti, che invece vengono definiti per tratti rapidi e compendiari, piuttosto nella loro qualità tipica che non nella loro particolarità, non staccati sullo sfondo ma immersi nel flusso continuo del racconto.

Donde il tono ambiguo, e difficilissimo a definirsi, del mondo creato dalla poesia ariostesca, che ha per un verso una nettezza di disegno, una precisione di particolari, una dovizia di colori, insomma un senso di immediata realtà, che ti rammenta l'evidenza e la plastici tà della pittura contemporanea, e per un altro verso ti appare come una trama di meravigliose fantasie e di labili sogni.

Quel tono di suprema misura, di moderata letizia e di sorridente saggezza, quell'atmosfera illuminata da una luce uguale e pacata, in cui tutti gli aspetti della vita, gai e tristi, si dispongono l'uno accanto all'altro senza che nessuno prenda speciale risalto e tutti insieme contribuiscono a creare la multiforme armonia delle cose, trovano la loro espressione perfetta nell'ottava ariostesca, che fluisce così calma e piena, in sé stessa compiuta, senza urti, senza stridori, senza improvvisi mutamenti di tono, con un suo ritmo così agevole e sciolto da poter essere confuso con i modi dimessi della prosa narrativa, mentre a guardar bene appare il ritmo stesso e la musica dell'etemo fluire delle cose. Pur collocandosi in una lunga e illustre tradizione, che va dal Boccaccio al Poliziano, al Pulci e al Boiardo, questa ottava ariostesca si rivela una creazione nuova, che si distacca da tutti gli esempi precedenti e attua per la prima volta, nell'ambito di una data struttura metrica, la piena fusione del discorso poetico con il metro e la coincidenza del periodo logico con il periodo strofico.

Nella forma come nella sostanza dell'ispirazione, il poema dell'A. è l'espressione più completa degli spiriti, della moralità, delle tendenze artistiche del prinio Cinquecento. Nello stile realizza quelle esigenze di decoro, di eleganza, di nùsura, che erano l'aspirazione più intima del gusto maturato nella disciplina umanistica, e le realizza in maniera libera e spontanea, non ancora impacciata e irrigidita dalle regole e dagli impedimenti che sorgeranno di poi attraverso lo studio e l'interpretazione canonica della poetica aristotelica. Nella lingua, mediante il lento e costante processo di raffmamento, che si rivela a un'analisi paziente e minuta delle correzioni dall'una all'altra stesura fino a quella definitiva, tende alla conquista di una medietà esemplare, di un equilibrio perfetto di modi familiari e aristocratici, che rifiuta da un lato le voci e le strutture idiomatiche e dall'altro quelle arcaiche auliche o latineggianti, il colorismo dialettale e l'artificio letterario. Nella sostanza dell'ispirazione infine, è il frutto di una visione della vita libera e serena, tutta umana e mondana, espansiva e cordiale, che è appunto la concezione instaurata dall'umanesimo e dal rinascimento, colta nel momento della sua pienezza e del suo splendore, senza turbamenti né incrinature, prima che lo spirito, rotta per sempre quell'illusione di equilibrio supremo, si ripiegasse nuovamente su di sé ad ascoltare la voce del dubbio e dell'inquietudine insorgente o a mortificarsi sotto il cilicio di una disciplina esteriore.

Qualche presentimento di quell'inevitabile declino e di una crisi ormai incombente già si avverte ai margini della composizione stessa dell'Orlando, in quei frammenti d'invenzioni narrative che l'A. rifiutò, e di cui merita d'esser ricordato soprattutto quello che va sotto il titolo di Cinque Canti. Sia esso da collocare cronologicamente, come propone il Segre, accanto alle tardive e quasi tutte infelici interpolazioni inserite nell'ultima redazione del poema, ovvero, come sembra più probabile secondo la convincente ipotesi del Dionisotti, in rapporto alla fase di stanchezza e di scontento polemico che accompagna la seconda stesura e ha il suo riflesso letterario nelle Satire, certo è che nella materia greve e aspra, nel tono cupo e stinto, nel rilievo conferito ai temi della vendetta, della malvagità e del tradimento, vi si sente un'ombra di gusto già prebarocco e controriformistico. È merito dell'A. aver saputo salvaguardare con gusto sicuro la coerenza umana e poetica del Furioso, rinunciando a inserire nel corpo del poema questo episodio nato da un'ispirazione cosi diversa, amareggiata e torbida.

Il moltiplicarsi delle edizioni, delle imitazioni, degli adattamenti dialettali e di tono popolaresco, le traduzioni in francese (di Jean des Gouttes, 1543, in prosa; di Jean Fornier, 1555, in versi), in inglese (di John Harington, 1591), in spagnolo (di Jeronimo de Urrea, 1549), la rapida fioritura dei commenti, delle illustrazioni parziali, perfino delle interpretazioni allegoriche, stanno ad attestare l'enorme fortuna nel sec. XVI, in tutta l'Europa, dell'Orlando. Superato senza troppa difficoltà lo scoglio delle polemiche che, tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, si agitarono tra le opposte schiere dei partigiani dell'A. e del Tasso nel nome delle regole del poema epico, questa fortuna è proseguita nei secoli seguenti, attraendo nel suo fascino uomini come Montaigne e Galileo, La Fontaine e Voltaire, Lessing e Goethe, Foscolo e Hegel e De Sanctis, fino a Carducci e a Croce, assurgendo a poco a poco dal piano dell'ammirazione istintiva a quello della ragionata valutazione critica e del giudizio storico.

Edizioni: Per la bibliografia delle edizioni di tutte le opere dell'A. è fondamentale il repertorio di G. Agnelli e G. Ravegnani, Annali delle edizioni ariostee, Bologna 1933: da integrare con le giunte di L. Negri, in Arch. stor. lombardo, s. 7, LXI (1934), pp. 605-615, e di G. Fatini, in Giorn. stor. d. letterat. ital., LI (1933), pp. 126-129, nonché, per quanto riguarda l'opera maggiore, con il Catalogo della mostra bibliografica per le celebrazioni ariostesche (a cura di B. Fava e D. Prandi), Reggio Emilia 1951.

Le tre successive redazioni dell'Orlando sono rappresentate rispettivamente dalle edizioni di Ferrara, per maestro Giovanni Mazocco del Bondeno, 1516; Ferrara, per G. B. da la Pigna, 1521; e Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, 1532: tutte e tre riprodotte diplomaticamente in L'Orlando Furioso secondo le stampe del 1516, '21 e '32, a cura di F. Ermini, Roma 1909. Del solo testo definitivo esiste l'eccellente edizione critica: Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti, Bari 1928, cui si aggiunge ora, con l'apparato accuratissimo di tutte le varianti redazionali l'Orlando furioso, edizione critica a cura di S Debenedetti e C. Segre, Bologna 1960. Per la storia interna del testo e l'analisi dei procedimenti stilistici dell'autore è da consultare l'esemplare riproduzione dei Frammenti autografi dell'Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti, Torino 1937; per i progettati ampliamenti dell'opera, poi abbandonati: E. Piermarini, Un episodio inedito dell'Orlando furioso, in Pegaso, II (1929), pp. 169 ss., e l'edizione critica dei Cinque canti, a cura di C. Segre, in Opere minori, Milano-Napoli 1954, pp. 581-754. Fra i commenti moderni del poema, integrali o parziali (oltre le chiose, ancora utili, dei cinquecentisti S. Fornari, G. B. Pigna, G. Ruscelli, O. Toscanella, A. Lavezuola) sono da citare quelli di A. Panizzi (Londra 1834), G. Casella (Firenze 1877), A. Romizi (Milano 1900), P. Papini (Firenze 1903), P. Nardi (Milano 1926), R. Palmarocchi (Firenze 1931), G. Raniolo (Firenze 1933), A. Marenduzzo (Milano 1933), N. Sapegno (Milano 1940 ), W. Binni (Firenze 1942), R. Ramat (Città di Castello 1943), L. Pi etrobono e C. Spada (Firenze 1946), E. Zanette (Torino 1951), M. Marti (Roma 1954); ottimo il commento integrale di L. Caretti nell'edizione delle Opere, che sarà citata subito.

In mancanza di un'edizione critica che comprenda tutti gli scritti dell'A. (le ultime imprese editoriali in tal senso - Venezia, Pitteri, 1766; Venezia, Remondini, 1798; Trieste, Lloyd austriaco, 1857 - sono ormai invecchiate e di scarso giovamento), la raccolta moderna più ampia e più attendibile per la cura del testo e la serietà del corredo esegetico è quella dei due volumi di Opere, a cura di L. Caretti e C. Segre, Mi lano-Napoli 1954 (che contiene, fra l'altro, la citata ristampa critica dei Cinque canti a cura del Segrè e quella delle Satire secondo il testo fissato da S. Debenedetti, oltre il poema, tutte le poesie certe italiane e latine, quattro commedie e un'ampia scelta dell'epistolario). Per le poesie latine si può ricorrere al volume Lirica, a cura di G. Fatini, Bari 1924, e ai Carmina, a cura di E. Bolaffi, 2 ediz., Modena 1938; per le rime, alla cit. Lirica, a cura del Fatini; per il teatro, alle Commedie, a cura di M. Catalano, 2 ediz., Bologna 1940. Delle Satire l'ediz. più sicura è quella testé ricordata del Debenedetti, nella silloge milanese Caretti-Segre; ma si possono consultare ancora le Satire, a cura di G. Tambara, Livorno 1903, e a cura di G. Fatini, Firenze 1933. Si aggiungano l'Erbolato, tra le Opere minori scelte e commentate da G. Fatini, Firenze 1915, pp. 1-19, e il Conto de' contadini, pubbl. da A. A. Bernardy, in Atti e Mem. d. Deputaz. ferrarese di storia patria, XXV (1924). Per l'epistolario, la raccolta più ampia è nelle Lettere di L. A., a cura di A. Cappelli, 3 ediz., Milano 1887 (ma, per quanto riguarda i criteri testuali discutibili e la bibliografia dei reperimenti successivi di altre lettere, e resto non molto importanti, cfr. la nota del Segre, nella citata raccolta di Opere minori, pp. 1185-88).

Bibl.: Oltre il repertorio ormai antiquato di G. J. Ferrazzi, Bibliografia ariostesca, Bassano 1881, si vedano: N. D. Evola, Bibliografia ariostesca 1920-32, in Leonardo, n. s., IV (1933), pp. 191-196; G. Trombatore, Gli studi ariosteschi, in Leonardo, V (1929), pp. 135-139; G. Fatini, Bilancio del centenario ariostesco, ibid., n. s.,V (1934), pp. 102-111; G. Petronio, Rassegna di letteratura ariostesca, in Ateneo veneto, CXXV(1934), pp. 111-117; G. Avanzi, Per una bibliografia degli scritti intorno all'A., in Atti e Mem. d. Deputaz. di storia Patria per l'Emilia e la Romagna, sez. di Ferrara, II (1944), pp. 83-91; T. Ascari, Studi ariosteschi dell'ultimo decennio (1945-1954), in Atti e Mem. d. Accad. di scienze e lettere ed arti di Modena, s.5,XIII (1955), pp. 78-115; G. Fatini, Bibliografia della critica ariostesca, Firenze 1958. Pregevoli, anche per ricchezza di informazione, i quadri panoramici di W. Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca 1951; R. Ramat, La critica ariostesca dal secolo XVI ad oggi, Firenze 1954; A. Borlenzhi. Ariosto, Palermo 1961.

Per la biografia, è fondamentale l'eruditissimo repertorio di M. Catalano, Vita di L. A. ricostruita su nuovi documenti, Genève 1930-31. Tra gli studi particolari più recenti son da ricordare: G. Sforza, Documenti inediti per servire alla vita di L. A., in Monumenti di storia patria delle province modenesi, Modena 1926; G. Fusai, L'A. poeta e commissario in Garfagnana, Arezzo 1933; Id., L'A. in Garfagnana e le sue relazioni con la repubblica di Lucca, Lucca 1937; D. Fava, Nuovi documenti sul governo di L. A. nella Garfagnana, in Atti e Mem. d. Deputaz. di storia patria per l'Emilia e la Romagna, IV (1938-39), pp. 229-237. Per la ricostruzione dell'ambiente storico e culturale, giovano sempre: E. G. Gardner, The King of Court Poets. A Story of the Works, Life and Times of L. A., London 1906; G. Bertoni, L'Orlando furioso e la Rinascenza a Ferrara, Modena 1919; H. Hauvette, L'A. et la poésie chevaleresque à Ferrare au début du XVI.me siècle, Paris 1927; inoltre, A. Piromalli, La cultura a Ferrara al tempo dell'A., Firenze 1953; S. Pasquazi, Rinascimento ferrarese, Caltanissetta 1957. Non inutilmente si ricorrerà infine ai profili compendiosi di A. Lazzari, La vita e le opere di L. A., 2 ediz., Livorno 1937; G. Bertoni, L. A., Roma 1925; A. Scolari, A., Firenze 1930; M. Bonfantini, A., Lanciano 1935; G. Fatini, A., Torino 1938; E. Petrini, A., Brescia 1952; M. Marti, L. A., Milano 1966.

Sui Carmina:G. Carducci, La giovinezza di L. A. e la poesia latina a Ferrara, in Opere, XIII, pp. 115-374; G. Pesenti, Storia del testo dei carmi latini dell'A., in Rendic. d. Ist. lombardo, s. 2, LVII (1924), pp. 120-135; A. Gandiglio, Contributo alla revisione del testo dei carmi ariostei, in Annuario del Liceo Nolfi di Fano, 1924-25; Id., Intorno al testo di alcuni carini latini dell'A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., LXXXVIII (1926), pp. 194-200; G. Bertoni, Il codice ferrarese dei Carmina di L. A., in Arch. romanicum, XVII(1933), pp. 619-658.

Sulle poesie italiane: G. Fatini, Per un'edizione critica delle rime di L. A., in Rass. critica d. letterat. ital., XV (1910), pp. 19-54; Id., Sulla fortuna e l'autenticità delle liriche di L. A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., suppl. n. 23, 1924; Id., Le rime di L. A., ibid., suppl. n. 25, 1934; A. Salza, Studi su L. A., Città di Castello 1914, pp. 2, 5-98; e per l'interpretazione della prima egloga, R. Bacchelli, La congiura di don Giulio d'Este, 3 ediz., Milano 1958.

Sulle Satire:C.Bertani, Sul testo e sulla cronologia delle satire di L. A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., LXXXVIII (1926), pp. 256-281; LXXXIX (1927), pp. 1-36; G. Trombatore, A. minore, Firenze 1936; S. Debenedetti, Intorno alle Satire di L. A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., CXXII(1945), pp. 109-130; C. Grabher, La poesia minore dell'A., Roma 1947 (tratta anche dei Carmina e delle rime).

Sulle commedie: G. Carducci, L'A. e le sue prime commedie, in Opere, XIV, pp.1-56; Gli Studenti, a cura di A. Salza, Città di Castello 1915; V. De Amicis, L'imitazione latina nella commedia italiana del XVI secolo, 2 ediz., Firenze 1897; G. Marpillero, I Suppositi di L. A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., XXXI(1898), pp. 291-310; Id., I tre elementi della Lena di L. A., in Fanfulla della domenica, XX (14 ag.1898); Id., La Scolastica di Ludovico e Gabriele A., ibid., XX(16 ott. 1898); Id., Il Negromante di L. A., in Giorn. stor. d. letterat. ital., XXXIII (1899), pp. 303-339; I. Sanesi, La Commedia, 2 ediz., Milano1954, pp. 221-241; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, II, Firenze 1940, pp. 47-65; C. Grabher, Sul teatro dell'A., Roma 1946.

Sui Cinque canti: C. Segre, Studi sui Cinque Canti, in Studi di filologia italiana, XII(1954), pp. 23-75; Id., Appunti sulle fonti dei Cinque Canti, in Rass. d. letterat. ital., LVIII (1954), pp. 413-420; C. Dionisotti, Per la data dei Cinque Canti, in Giorn. stor. d. letterat. ital., CXXXVII(1960 ), pp. 1-40

Sul problema delle fonti dell'Orlando: G. B. Bolza, Manuale ariostesco, Venezia 1866; A. Romizi, Le fonti latine dell'Orlando furioso, Torino 1896; P. Raina, Le fonti dell'Orlando furioso, 2 ediz., Firenze 1900;D. Bonomo, L'Orlando furioso nelle sue fonti, Bologna 1953.

Sulla poesia dell'Orlando: U. Foscolo, Poemi narrativi, in Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno, Firenze 1958; V. Gioberti, Pensieri e giudizi sulla letteratura, a cura di F. Ugolini,Firenze 1867, pp. 304 ss.; F. De Sanctis, La Poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, Bari 1954; Id., Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo e N. Saregno, Torino1958, pp. 493-538; G. Carducci, Saggio su l'Orlando furioso, in Opere, XIV, pp. 57-116; G. A. Cesareo, La fantasia dell'A., in Critica militante, Messina 1907; B. Croce, A., 5 ediz.,Bari 1952; L. Ambrosini, Introduzione al Furioso, in Teocrito Ariosto minori e minimi, Milano 1926; A. Momigliano, Saggio su l'Orlando furioso, Bari 1928; G. Raniolo, Lo spirito e l'arte dell'Orlando furioso, Milano 1929; G. Fumagalli, L'unità fantastica del Furioso, Messina 1933; A. Baldini, Ludovico della tranquillità, Bologna 1933; Id., Ariosto e dintorni, Caltanissetta 1958; A. Zottoli, Dal Boiardo all'A., Lanciano 1934; E. Carrara, I due Orlandi, Torino 1935; M. Chini, L'A. innamorato, Torino 1936; W. Binni, Metodo e poesia di L. A., Messina 1947; R. Spongano, L'ironia nell'Orlando furioso, in La prosa di Galileo e altri scritti, Messina 1949; R. Battaglia, L. A. e la critica idealistica, in Rinascita, VII (1950), pp. 41-50 ; F. Catalano, L'episodio di Olimpia nell'Orlando furioso, Lucca 1951; R. Ramat, L'Orlando furioso, in Per la storia dello stile rinascimentale, Messina1953; G. De Blasi, L'A. e le passioni, in Giorn. stor. d. letterat. ital., CXXIX(1952), pp. 318-362; CXXX(1953), pp. 178-203; A. Piromalli, Motivi e forme della poesia di L. A., Firenze 1954; E. Zanette, Conversazioni sull'Orlando furioso, Pisa 1958; L. Caretti, A. e Tasso, Torino 1961, pp. 14-44.

Sull'elaborazione tecnica del poema, la lingua e lo stile: M. Diaz, Le correzioni dell'Orlando furioso, Napoli 1900; G. Lisio, Il canto I e il canto II dell'Orlando furioso. Testo critico comparato, Milano 1909; F. A. Debenedetti, L'arte di L. A. nell'Orlando furioso, Bologna1925; T. Spoerri, Renaissance und Barok bei Ariosto und Tasso, Bern 1932; M. Markiel Jirmounsky, Notes sur les trois rédactions du "Roland furieux" do l'Arioste, in Humanisme et Renaissance, III(1936), pp. 429-446; G. Contini, Come lavorava l'A., in Esercizi di lettura, Firenze 1947; G.De Robertis, Lettura sintomatica del primo dell'Orlando, in Paragone, I (1950 ), n. 4, pp. 12-17; N.Cappellani, La sintassi narrativa dell'A., Firenze 1952; E. Bigi, Petrarchismo ariostesco, in Da Petrarca a Leopardi, Milano 1954; B. Migliorini, Sulla lingua dell'A., in Saggi linguistici, Firenze 1957

Sulla fortuna dell'A. all'estero son da vedere anzitutto gli articoli, usciti a cura di G. Bertoni, nell'Italia che scrive, dal maggio aldicembre 1933 (di F. Picco per la Francia, A. Parducci per la Spagna, F. Olivero per l'Inghilterra, L. Vincenti per la Germania, M. Brahmer per la Polonia); inoltre: P. Toldo, Quelques notes pour servir à l'histoire do l'influence du Furioso dans la littérature française, in Bulletin italien, IV (1904), pp. 49-61, 103-118, 190-201, 281-293; A.Benedetti, L'Orlando furioso nella vita intellettuale del popolo inglese, Firenze 1914; S. Keiser, Contribution à l'étude do la fortune littéraire do l'A. en France, Leida 1933; J.Lavaud, Los imitations do l'Arioste par Desportes, Genève 1936; T. F. Casson, A. and the English Poets, Manchester 1937; A Cioranescu, L'A. en France des origines à la fin du XVIII.me siècle, Paris 1939; G. M. Bertini, Studi e ricerche ispaniche, Milano 1942; O. Macrì, A. e la letteratura spagnola, in Letterature moderne, III (1952), pp. 515-543; E. Bottasso, Le commedie di L. A. nel teatro francese del Cinquecento, in Giorn. stor. d. letterat. ital., CXXVIII(1951), pp. 41-80; R. Lebègue, Le succès en Franco des femmes de l'Orlando furioso, in Umanesimo e scienza politica, Atti del Congresso internazionale di studi umanistici, Milano1951, pp. 517-520; A. Parducci, La fortuna dell'A. nel teatro spagnolo, in Giorn. stor. della lett. ital., suppl. n. 26, 1937; W. Wiesner, Ariost im Lichte der deutschen Kritik, Basel 1941.

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