Socialismo

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Socialismo

Maurizio Degl'Innocenti

Il termine e il problema delle origini

Anche se sarebbe più corretto parlare di 'socialismi' (più che di 'socialismo') per la varietà e l'evoluzione, nel XIX e nel XX secolo, delle dottrine e delle pratiche riassumibili sotto quel concetto, in generale si può definire il socialismo come un progetto e movimento di riforma della società nella libertà che, finalizzato all'estensione dei diritti di uguaglianza politici e sociali, pone al centro di una pratica solidaristica l'etica del lavoro e della persona umana e privilegia finalità e comportamenti collettivi contro l'esasperato utilitarismo individuale o di gruppo proprio del mercato capitalistico.Le origini del socialismo sono state cercate perfino nell'antichità classica, suggerendo che l'idea della comunità fraterna sia stata elaborata sul modello dei concetti di 'eunomia', o fruizione egualitaria dei beni, e 'isonomia', o uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. È stato pertanto rappresentato come protosocialista lo stesso Platone, per le sue formulazioni di un generico comunismo integrale all'indomani della guerra del Peloponneso. A maggior ragione furono rintracciati prodromi di socialismo in talune prospettive di rigenerazione collettiva presenti nel confucianesimo, nel taoismo, nell'islamismo, e soprattutto nel cristianesimo delle origini, prima che diventasse la religione ufficiale del Sacro Romano Impero.

Anche se è controversa l'attribuzione al cristianesimo degli aspetti egualitari del pensiero greco, è un fatto che l'immagine del 'Gesù socialista' ebbe larga fortuna, in particolare tra Ottocento e Novecento. E ancora, furono colte anticipazioni del socialismo nell'invocazione dell'avvento del regno di Dio attraverso la trasformazione dell'ordine sociale e soprattutto nei movimenti millenaristici, per lo più a sfondo rurale, che con la crisi del sistema feudale si formarono in Inghilterra, in Boemia e in Westfalia, fino al movimento dei diggers e dei livellatori nel XVII secolo. L'idea della città ideale, fondata su un comunismo di ispirazione umanitaria ma ancor più religiosa, trovò espressione nel XVI e nel XVII secolo nelle utopie di Tommaso Moro e di Tommaso Campanella, e nel secolo successivo nelle teorie di Gabriel Bonnot de Mably, di Morelly e dell'abate Jean Meslier. Nella seconda metà del XVIII secolo l'idea di uguaglianza sociale si secolarizzò con la proclamazione dei diritti dell'uomo in nome della ragione, della quale il socialismo fu presentato come l'evoluzione più logica sul piano sociale ed economico. Cosicché la congiura degli Eguali di Babeuf del 1796 - descritta in un saggio fortunato da Filippo Buonarroti nel 1828 - fu assunta come inizio autentico del 'programma comunista' della soppressione della proprietà privata e della comunione dei beni e del lavoro. Babeuf impersonò la figura del cospiratore rivoluzionario capace di guidare la massa con l'esempio e con la propaganda verso la società nuova, inaugurando una concezione dell'élite rivoluzionaria che avrebbe avuto seguaci in Blanqui, nell'ala più radicale del cartismo inglese, in alcuni protagonisti della Comune di Parigi e perfino in Lenin. D'altra parte, nelle istanze libertarie ed egualitarie della Rivoluzione francese così come nel tessuto associativo e sindacale inglese furono ricercate le basi del socialismo democratico inteso come movimento di riforma nella libertà, anche in riferimento ai valori della civiltà europea.

In termini cronologici, invece, le origini del socialismo vanno collocate tra gli anni venti e trenta dell'Ottocento, vale a dire quando le parole 'socialista' e 'socialismo' passarono dal linguaggio teologico o giuridico, in relazione all'origine contrattualistica o socialis dello Stato o alla socialitas umana, al linguaggio politico e poi, dal decennio successivo, al vocabolario comune per indicare una dottrina, un movimento, un comune sentire rivolti alla costruzione di una nuova organizzazione societaria o comunitaria del lavoro e, più in generale, della vita collettiva, in contrapposizione al disordine competitivo, all'individualismo egoistico, alla diseguaglianza sociale e allo sfruttamento del lavoratore attribuiti al "vecchio mondo immorale" (Owen) e/o al sistema capitalistico. Contemporaneamente prendeva corpo l'auto- o etero-rappresentazione del movimento, con la proiezione e l'interpretazione delle origini dettate dai mutevoli indirizzi culturali e dalle circostanze pratiche: l'esegesi dei 'profeti' e degli anticipatori va dunque collocata solo in questo capitolo.

L'idea societaria e il movimento operaio

Il paese della prima rivoluzione industriale e della liberalizzazione del mercato del lavoro fu anche quello di incubazione del socialismo, termine con il quale vennero indicati gli esperimenti pratici e le teorie di Robert Owen (1771-1858) - un capitano d'industria di New Lanark in Scozia - e dei suoi seguaci, per lo più in simbiosi con il concetto di associazione e in alternativa a quello di individualismo. I presupposti si ravvisano già, alla fine del Settecento, nelle denunce degli effetti negativi dell'industrializzazione da parte di riformatori agrari e sociali come William Ogilvie e Thomas Spence, e soprattutto Thomas Paine; e non meno nelle istanze propugnate da William Godwin a favore di un associazionismo fondato sui legami di parentela e sul vicinato in opposizione all'autoritarismo dello Stato. Owen, che derivò da Godwin (e soprattutto da Helvétius) la teoria dell'influenza dell'ambiente sul carattere umano, propagandò in A new view of society, or essays on the principle of the formation of human character, 1813, e in New moral world, 1835-1844, un "sistema di cooperazione generale" o "nuovo mondo morale" laico e solidale, fondato sul trinomio "verità, lavoro e scienza". Teorizzò così la creazione di villaggi comunitari, composti in media da 500-2000 persone, finanziati dalle parrocchie e dalle contee con la tassa sui poveri, da capitalisti filantropi o dalle stesse associazioni operaie; in tali villaggi il lavoro sarebbe stato remunerato in base all'assunto, ricavato dall'economia classica, che "l'unità di misura naturale del valore è, in linea di principio, il lavoro umano". Dopo un primo esperimento filantropico a New Lanark Owen ne promosse un altro nel 1825 nell'Indiana, negli Stati Uniti, con la comunità di New Harmony, che ebbe però risultati deludenti. Tornato in Inghilterra nel 1829, si pose alla testa del movimento sindacale tentando l'integrazione della società cooperativa di consumo con la trade union, il cui sviluppo fu favorito dalle leggi del 1824-1825 sulle associazioni operaie. Ma l'iniziativa più ambiziosa di Owen, la Grand National Consolidated Trade Union, ebbe vita effimera e fu disciolta nel 1834.

Negli anni venti e trenta l'owenismo ebbe comunque larga diffusione anche a seguito di un'efficace propaganda (realizzata con una media annua di due milioni e mezzo di opuscoli tra il 1839 e il 1841) e lasciò tracce così profonde da far individuare in esso le origini delle attitudini pragmatiche e moderate del movimento operaio inglese.Con Owen condivisero la teoria economica classica del valore i cosiddetti 'socialisti ricardiani', che ebbero un'influenza rilevante sullo stesso Marx. Tra essi Thomas Hodgskin sostenne in Labour defended against the claims of capital (1825) che in regime capitalistico la salvezza per i lavoratori era nell'organizzazione autonoma di resistenza, la sola capace di mettere in crisi la legge del 'prezzo naturale del lavoro' che lo eguagliava alla pura sussistenza. Si accostarono al movimento cooperativo e sindacale di ispirazione oweniana John Gray e William Thompson, che fu il primo a usare il termine 'plusvalore' (An inquiry into the principles of the distribution of wealth, 1824; Labour rewarded, 1827).La mancata concessione del voto ai lavoratori nel 1832, il malcontento suscitato dalla legge sui poveri del 1834 che negava il sussidio agli abili, e infine la campagna per la riforma delle fabbriche promossa nei distretti industriali furono all'origine, tra il 1836 e il 1848, del cartismo, la più vasta agitazione di ceti operai e popolari che abbia interessato l'Inghilterra (e l'Europa) nel XIX secolo.

Attraverso la petizione popolare esso si propose di ottenere una 'Carta del popolo', tra i cui punti più qualificanti era il suffragio universale maschile. Il cartismo non manifestò caratteri autenticamente socialisti anche se tra i promotori, per lo più appartenenti allo strato superiore dei lavoratori qualificati e autodidatti come i tipografi e i sarti, vi furono oweniani come William Lovett e Henry Hetherington. Tuttavia esso favorì la presa di coscienza di classe del movimento operaio inglese inaugurandone le grandi agitazioni di massa, e diventò un punto di riferimento essenziale nella tradizione democratica del socialismo europeo. Fallita una prima agitazione nel 1838-1839, il movimento conobbe una ripresa negli anni quaranta (il 'decennio della fame'), con un rinnovato gruppo dirigente nel quale risultarono più influenti socialisti e fautori della 'violenza fisica' (in alternativa alla sola 'violenza morale') come James Bronterre O'Brien, Julian Harney e l'irlandese Feargus O'Connor. Dopo il rigetto delle petizioni del 1842 e del 1848 i gruppi cartisti residui assunsero connotati più apertamente socialisti. O'Brien pubblicò la prima parte di The rise, progress and phases of human slavery (1849), in cui tracciò un parallelo tra la schiavitù antica di tipo patrimoniale e quella moderna di tipo salariale, prospettando nella rivoluzione, violenta o pacifica, il solo mezzo per ottenere la libertà dell'uomo. Qualche rilievo ebbe la riorganizzata National Charter Association, la cui direzione passò da O'Connor a Ernest Jones e a Harney, con orientamento più marcatamente internazionalista.

Nel 1850 Harney si adoperò perché i membri della Society of Fraternal Democrats, creata nel 1846, si associassero al gruppo dei blanquisti e di Karl Marx, di cui tradusse il Manifesto sul "Red republican", per costituire la Lega universale dei comunisti rivoluzionari, con le parole d'ordine "dittatura del proletariato", "rivoluzione permanente", "comunismo" come "forma finale di organizzazione della società umana". Negli anni cinquanta però Jones ebbe maggiore forza all'interno del sindacato e successivamente di un movimento di pressione che contribuì alla riforma elettorale del 1867. Tra l'altro egli rilanciò la tesi della nazionalizzazione della terra, già prospettata nel piano agrario cartista dopo il 1842, per collocarvi la manodopera urbana disoccupata ("colonie in patria").

In opposizione alle agitazioni per le 'le carte del popolo' del 1848, sorse il movimento del socialismo cristiano per iniziativa di esponenti della Chiesa d'Inghilterra come Frederick Denison Maurice e Charles Kingsley, e dell'avvocato John Malcolm Forbes Ludlow, che aveva seguito in Francia le iniziative di Blanc e Buchez. L'intento dei socialisti cristiani era quello di unire fraternamente lavoratori e ceti abbienti mediante l'organizzazione della produzione. Organo del movimento fu "Politics for the people" (1848), poi "The Christian socialist" (1850-1851), e infine "The journal of association" (1852). Mentre Ludlow fondò piccole associazioni operaie di produzione, di ispirazione cristiana, Thomas Hughes si dedicò al movimento sindacale e Edward Vansittart Neale al movimento cooperativo laico, dirigendo a lungo la segreteria della Cooperative Union, nell'obiettivo comune di creare un movimento associativo di tipo nuovo che coinvolgesse, attraverso il sindacato e la cooperazione, produttori e consumatori.

La maggior parte delle cooperative locali e di produzione fallì, e il cointeressamento del sindacato non fu soddisfacente, tanto che il gruppo di Ludlow e Maurice rinunciò al cooperativismo per dedicarsi alla politica sanitaria e alla istruzione operaia fondando nel 1854 il Working men's college a Londra. Neale continuò invece il suo impegno nella cooperazione di consumo, nella quale era destinata al successo, a Manchester, la North of England cooperative whole sale society, poi organismo commerciale centrale per tutto il paese.Insieme all'Inghilterra fu la Francia l'altro 'paese del socialismo', favorito dal precedente della grande rivoluzione che aveva scosso il principio stesso di proprietà e posto la democrazia politica come condizione di quella sociale. Furono chiamati per primi 'socialisti' i seguaci di Claude-Henri Saint-Simon (17601825), di origine nobile ma caduto in rovina economicamente. A lui Émile Durkheim ha attribuito addirittura la qualifica di 'padre del socialismo', nonché del positivismo, ma già Mazzini aveva definito il saintsimonismo "la più avanzata manifestazione dello spirito di novità che ha soffiato nel nostro secolo" ed Engels gli aveva riconosciuto un ruolo importante nella diffusione e nella sistemazione delle idee del socialismo non strettamente economico.

In saggi come L'organisateur (1819-1820), Du système industriel (1821-1822), Catéchisme des industriels (1823), Saint-Simon sostenne che sarebbe stata la scienza, più che la politica, a risolvere il problema sociale lasciato aperto dalla Rivoluzione francese. E applicando al mondo morale il principio di attrazione universale teorizzato da Newton nella fisica, attribuì all'industrializzazione, se opportunamente coordinata, il passaggio pacifico dall'età organica dei "secoli cristiani" all'età "positiva". Al dominio degli oisifs, cioè dei ceti parassitari (aristocratici, militari e redditieri), si sarebbe così sostituito quello dei savants e degli industriels o produttori, cioè dei possessori delle conoscenze scientifiche nonché degli imprenditori e degli operai, impegnati insieme a conseguire lo sviluppo nell'ordine e nell'unità armonica della società, a beneficio fisico e morale della "classe la plus nombreuse et la plus pauvre". Ne sarebbe conseguito un "nuovo cristianesimo", non più basato sui dogmi teologici, bensì sulla verità scientifica (Nouveau christianisme, 1825).

Tali principî furono ripresi, specialmente tra il 1830 e il 1832, dagli eredi più diretti di Saint-Simon come Olinde Rodrigues, Prosper Enfantin e Saint-Amand Bazard. Essi rappresentarono la storia dell'umanità come l'evoluzione dall'antagonismo di forze contrapposte e dallo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo (schiavo-padrone nell'età antica, servo-signore nell'età medievale, operaio-padrone nell'età borghese) all'associazione, nella quale tale sfruttamento sarebbe stato eliminato. In quest'ultima fase i mezzi di produzione sarebbero stati socializzati con l'abolizione dell'eredità, mentre ai privati sarebbe rimasta la proprietà dei beni di consumo. La socializzazione dei mezzi di produzione non si sarebbe confusa con la comunione dei beni, perché ciascuno avrebbe avuto secondo le capacità e le opere (disuguaglianza nella ripartizione). Una discussa evoluzione di tali teorie in senso tecnocratico e misticheggiante si ebbe nel pensiero di Enfantin, mentre nei discepoli della seconda generazione - come il tipografo autodidatta e laico Pierre Leroux - si manifestò un più spiccato interesse per le organizzazioni autonome di lavoratori. L'eredità del sansimonismo correlò il socialismo in Francia (e in Belgio) al positivismo, alleato della Scienza e del Progresso. Ma esso ebbe rilevanza anche nella promozione di un ceto imprenditoriale nel settore mobiliare e delle grandi infrastrutture negli anni del Secondo Impero.

Per la sua fiducia nell'industrialismo Saint-Simon apparve come l'anticipatore della teoria della società industriale e della occupational community, elaborata poi da Durkheim, o, addirittura, dell'economia pianificata.L'altro rappresentante della 'grande utopia' socialista nel periodo della Restaurazione fu Charles Fourier (1772-1837), proveniente da una famiglia di commercianti. Nei saggi Théorie des quatre mouvements (1808), Traité de l'association domestique et agricole (1822), Le nouveau monde industriel et sociétaire (1829) e La fausse industrie (1835-1836), Fourier teorizzò quattro stadi della storia umana (selvaggio, patriarcale, barbarico e della civiltà); nella successione dalla condizione razionale e 'passionale' (lavoro e amore) alla civilisation ("il mondo alla rovescia") le istituzioni avrebbero allontanato le passioni e il matrimonio soffocato l'amore, mentre la coercizione sociale e l'organizzazione del lavoro avrebbero reso quest'ultimo noioso, incerto e alienante e l'"anarchia commerciale" avrebbe impedito al salariato di partecipare ai benefici dello sviluppo. Alla civilisation Fourier contrappose la società di Armonia, articolata in piccole comunità, autosufficienti e pertanto sottratte alla competizione, organizzate in falansteri, grandi edifici sociali costruiti per la vita collettiva, dove il lavoro sarebbe stato svolto alternativamente da gruppi divisi per età e genere, e retribuito in relazione al rendimento, al talento e al capitale.

La nuova società pertanto sarebbe risultata dalla giustapposizione di comunità autosufficienti e autonome, dedite prevalentemente all'agricoltura, alla trasformazione dei prodotti della terra e alla produzione dei beni di consumo. Per il suo rifiuto dell'industrialismo fu attribuita a Fourier una visione arcaica, ma la sua critica radicale del sistema capitalistico fu anche valutata con favore. In tempi più recenti sono state riconsiderate positivamente la sua denuncia degli aspetti repressivi della civiltà, l'apertura alla vita istintuale - quasi un'anticipazione della pedagogia moderna e perfino della cultura ecologica - nonché la progettualità degli insediamenti, prefigurazione della moderna urbanistica. La scuola societaria o fourieriana degli anni trenta e quaranta ebbe solo in apparenza un'influenza minore di quella sansimoniana. Vantò fortunati divulgatori come Victor Considérant e conobbe un successo duraturo nella cooperazione, specialmente di produzione, con Michel Derrion, Philippe Buchez e Jean-Baptiste Godin.

Assai più eclettico fu il comunismo comunitario di Étienne Cabet (1788-1856), nato da una famiglia di artigiani, pubblicista e redattore del giornale "Le populaire", esule a Londra dopo il 1834. Nel noto saggio Voyage en Icarie (1842), ispirato all'Utopia di Tommaso Moro adattata a un ambiente industriale, si pronunciò per l'abolizione della proprietà privata e per il lavoro obbligatorio in grandi aziende pubbliche meccanizzate, coniando lo slogan fortunato: "Tutti hanno il dovere di lavorare lo stesso numero di ore al giorno, secondo i propri mezzi, e il diritto di ricevere una parte uguale di tutti i prodotti, secondo i propri bisogni".

Negli anni quaranta in Francia (dove Cabet era tornato nel 1841) 'comunismo' era in qualche modo assimilato a cabetismo o a icarianesimo, anche nell'ultima versione ispirata a una sorta di cristianesimo primitivo (Mon crédo communiste, 1845; Le vrai christianisme suivant Jésus-Christ, 1846).La questione della centralità del 'diritto al lavoro' nella società moderna fu sollevata soprattutto da Louis Blanc (1811-1882), autore di L'organisation du travail (1839, 1848¹⁰). Critico nei confronti delle ipotesi comunitarie, egli attribuì allo Stato, reso "amico del popolo" con il suffragio universale, il coordinamento di un sistema di aziende pubbliche: gli ateliers sociaux, autonomi nella gestione, finanziati da un prestito statale gratuito, e resi più competitivi delle imprese private, con il cointeressamento operaio alla produzione. Nella rivoluzione del 1848 Blanc assunse una posizione di rilievo, diventando presidente della Commissione del Lussemburgo, ma gli ateliers nationaux, simili alle fabbriche di carità, non ebbero fortuna. Il fallimento di tale indirizzo determinò un sostanziale allontanamento dei lavoratori dall'idea repubblicana; lo stesso Blanc fu esule in Inghilterra e quando tornò in Francia assunse una posizione defilata, tanto da non aderire alla Comune.

E tuttavia nella storia del socialismo (grazie anche all'influenza cartista) egli, pur non essendo stato un dottrinario, fu considerato come il primo teorico dell'interventismo statale e per la sua visione graduale e pacifica della via al socialismo fu ritenuto perfino l'anticipatore della socialdemocrazia.Agli antipodi della corrente 'statalista' o 'governativa' rappresentata da Blanc si trova l''anarchismo positivo' di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Egli riteneva il mondo fondato su principî universali di contraddizione o antagonismo, e di interazione o reciprocità, la cui espressione più compiuta era da individuarsi nella famiglia e, sul piano produttivo, nel libero scambio delle merci regolato dai valori creati dal lavoro, secondo la teorizzazione dei socialisti ricardiani e di Owen. In una serie di saggi - dal celebre Qu'est-ce que la proprieté? (1840) dove definì la proprietà un furto, a Système des contraddictions économiques, ou philosophie de la misère (1846), De la justice dans la révolution et dans l'Église (1858), De la capacité politique des classes ouvrières (1865) - teorizzò un'organizzazione dal basso, autogestita sul piano economico e amministrativo da individui, gruppi e comuni organizzati su basi federative, ma con il sostegno di una banca popolare, nella quale le retribuzioni fossero proporzionali al successo personale o alla composizione della famiglia. Rifiutando la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, compresa la terra, Proudhon delineò una società a carattere artigiano e contadino (dal cui ambiente egli stesso proveniva), basata sui piccoli produttori e sulla conservazione della famiglia patriarcale, in cui la donna avesse un ruolo subordinato.

E tuttavia egli e i suoi seguaci non solo ebbero largo successo in Francia negli anni cinquanta e sessanta, ma rimasero i referenti più accreditati di tutte quelle correnti del movimento socialista che si richiamarono all'antiautoritarismo, al mutualismo e al federalismo; in questo ambito Proudhon fu considerato uno dei padri del movimento anarchico o anarco-sindacalista. La polemica stessa in cui lo impegnarono Marx ed Engels contribuì a rafforzare tale opinione.Al di fuori dell'Inghilterra e della Francia, cioè dei paesi delle rivoluzioni borghesi (industriale e politica), gli sviluppi del socialismo furono più tardivi e stentati. In Germania, il socialismo si diffuse inizialmente solo in ambito culturale e tra gli esuli politici. Così, dalla metà degli anni quaranta prese corpo il movimento del 'vero' socialismo, o socialismo tedesco, come corrente filosofica della sinistra hegeliana, i cui esponenti più noti furono Karl Grun e Moses Hess, mentre nel 1834 era stata fondata a Parigi una Lega dei proscritti (Bund der Geatchen), di tendenza democratico-repubblicana, trasformatasi nel 1836 in Lega dei giusti e infine, nel 1847 a Londra, in quella Lega dei comunisti che commissionò a Marx nel 1847 la redazione del Manifesto, uscito nel febbraio dell'anno successivo. Influenzati dalla sinistra hegeliana e dalla frequentazione degli esuli, a contatto con la classe operaia inglese ma in una prospettiva internazionalista, Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) enunciarono una concezione materialistica della storia vista come il succedersi di fasi segnate dall'antagonismo di due classi in base ai rapporti di produzione. L'esasperazione delle antinomie, in ultimo tra borghesia e proletariato, avrebbe infine prodotto una rivoluzione dalla quale, per la prima volta nella storia dell'umanità, sarebbe scaturita una società senza classi, in cui "il libero sviluppo di ciascuno fosse la condizione per il libero sviluppo di tutti".

Pur prevedendo in tempi brevi la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, Marx si astenne dal fornire un quadro esaustivo dello stadio finale, ammettendo tuttavia la necessità di misure giuridiche ed economiche corrispondenti alla "costituzione del proletariato in classe dominante", e si limitò a definire "socialista" la fase di transizione al comunismo; nel 1852 introdusse la nozione di "dittatura del proletariato" poi precisata dopo la Comune. Ai comunisti assegnò la funzione di 'avanguardia' dei partiti operai nella lotta contro la borghesia dove questa fosse dominante, e in alleanza con essa, contro l'aristocrazia, nei paesi meno sviluppati. Il Manifesto fu nell'immediato privo di influenza pratica, ma la ebbe enorme in seguito (fu definito "il vangelo del socialismo moderno"), come parte qualificante di un corpus di scritti - fra cui il primo volume del Kapital, tirato in mille copie nel 1867 esaurite solo nel 1871 (il secondo e il terzo volume furono editi a cura di Engels nel 1885 e nel 1894; il quarto a cura di Karl Kautsky nel 1895) - che era destinato a incidere profondamente sul movimento socialista, a partire dagli anni ottanta e per oltre un secolo. Marx definì "scientifico" il suo socialismo per differenziarlo da quello, precedente al Manifesto, che chiamò "utopico" ritenendo quest'ultimo indirizzato alla ricerca di rimedi sociali "al di fuori del movimento operaio" e prescindendo dalla questione del potere, nel presupposto che di volta in volta la scienza, l'atto di volontà o addirittura il comportamento onesto e filantropico potessero dar vita a nuovi sistemi sociali più o meno fantasiosi.

L'affermazione successiva del marxismo all'interno del movimento operaio contribuì a consolidare questa immagine negativa del socialismo precedente al Manifesto, fino a inglobarvi le posizioni di Blanc e perfino di Proudhon. La periodizzazione e le categorie interpretative di Marx divennero poi di uso comune. Né cambiò la sostanza il fatto che in sede storiografica si tentasse una correzione parziale di tale valenza negativa introducendo la categoria di 'protosocialismo', che si voleva calato nella realtà del proprio tempo, limitando invece la qualifica di 'utopismo' alle teorie e alle pratiche cooperativistiche-associative che tendevano alla progressiva giustapposizione di realizzazioni molecolari, per riscrivere dal basso l'intera teoria delle relazioni sociali; oppure ancora distinguendo tra gli utopisti per eccellenza, o 'grandi utopisti', cioè i capiscuola come Saint-Simon, Owen, Fourier, Cabet, e i discepoli, più solleciti alle sperimentazioni. In realtà, i socialisti cosiddetti utopici del XIX secolo dovrebbero essere piuttosto considerati dei riformatori sociali che, al di là dei progetti ambiziosi e dei tentativi falliti, non mancarono di lasciare tracce profonde nella cultura e nella realtà politica, associativa, mutualistica, sindacale e cooperativa del tempo, spesso con risultati duraturi. Gli stessi Marx ed Engels non possono essere considerati fuori da questo contesto.Nel trentennio successivo al 1848, col favore di una fase economica propizia e, fino al 1873, del rialzo dei prezzi, si registrò una forte spinta all'organizzazione sindacale (la 'prassi operaia') mediante la quale furono erette le prime difese contro lo sfruttamento generalizzato della manodopera e conseguiti i primi elementi di una legislazione sociale nonché, sia pure tra forti ostacoli, la garanzia del diritto di coalizione (in Inghilterra fu rilevante al riguardo l'esito positivo dello sciopero degli edili londinesi nel 1859). Il movimento dei lavoratori diventò un nuovo soggetto, riconosciuto.

La testimonianza più significativa fu la costituzione della Associazione Internazionale dei Lavoratori (o Prima Internazionale) il 28 settembre 1864 alla St. Martin Hall di Londra, dopo gli incontri promossi dai sindacati inglesi e dalle società operaie francesi in occasione dell'Esposizione internazionale di Londra nel 1862. Negli statuti e soprattutto nel preambolo (Indirizzo alla classe operaia), a cui dette un contributo decisivo Marx, si affermò che l'emancipazione della classe operaia doveva essere opera della classe stessa, a cominciare dalla liberazione dalla soggezione economica, fonte di ogni servitù. Tuttavia, pur nel condiviso clima di solidarietà internazionale, vi si palesarono subito prospettive assai diverse: i sindacati inglesi ricercavano garanzie contro il crumiraggio, mentre le società francesi mettevano in primo piano il mutualismo e il sistema del credito gratuito, e quelle belghe il libero pensiero. I primi congressi (Ginevra, 1866; Losanna, 1867) furono dominati dalla delegazione francese, nella quale era forte l'influenza dei proudhoniani contrari alla pratica dello sciopero. La sconfitta del proudhonismo (congresso di Bruxelles, 1868) coincise con la piena legittimazione della lotta di resistenza e soprattutto con la svolta a favore della collettivizzazione, per la quale risultò decisivo l'appoggio del belga César de Paepe (1842-1890).

Al successivo congresso di Basilea (1869) fu riaffermato il duplice obiettivo della collettivizzazione della terra e della promozione delle 'società di resistenza nei vari corpi di mestiere'. Intanto una nuova e più agguerrita opposizione al marxismo veniva da parte dei seguaci dell'esule russo Michail Bakunin (1814-1876), che negarono al Consiglio generale di Londra la prerogativa di imporre disciplina e politica alle sezioni nazionali e locali, per le quali reclamarono invece la piena autonomia. Il contrasto tra Bakunin e Marx fu dirompente e aprì tra socialisti (e poi comunisti) e anarchici una divaricazione che non si sarebbe più ricomposta. Il primo predicò l'abolizione dell'ereditarietà dei beni, laddove il secondo puntò sulla soppressione della proprietà privata in quanto tale; l'uno concepì i partiti operai come fattori di burocratizzazione e di subordinazione allo Stato per il tramite della legislazione sociale, l'altro li considerò essenziali nella via al socialismo. Ma il dissenso fondamentale fu su due punti ulteriori: il primo era rappresentato dal problema dello Stato, che i seguaci di Bakunin volevano distruggere in tutte le sue forme (come del resto la religione, per l'autoritarismo dogmatico), non escludendo neppure il ricorso al terrorismo, laddove nella strategia marxista la conquista del potere, per via rivoluzionaria o democratica, rimase obiettivo centrale; il secondo punto riguardava l'individuazione dei soggetti rivoluzionari, in quanto gli anarchici coinvolgevano anche gli strati più emarginati della società, come i contadini poveri, gli artigiani in rovina e gli studenti, mentre i socialisti puntavano sugli operai, specialmente di fabbrica, come classe generale.

La tradizione bakuniana o anarchica o libertaria trovò consensi più diffusi in Spagna, in Italia, nella Svizzera francese, nel Belgio vallone, ma non sarebbe corretto vedere in ciò l'aspetto qualificante di un presunto socialismo mediterraneo.Il problema dello Stato si pose in maniera tanto chiara quanto drammatica nel marzo 1871 con la Comune di Parigi, una sollevazione popolare più o meno spontanea, dettata anche da motivi patriottici - forse l'ultima 'giornata' nella tradizione rivoluzionaria del 1789 - alla quale parteciparono ceti operai, artigiani e piccolo-borghesi. L'Internazionale vi fu estranea e manifestò la sua solidarietà solo a eventi accaduti. Bakunin fu sollecito a cogliervi "la negazione audace e netta dello Stato" e, per l'"azione spontanea delle masse", "l'istinto socialista". Marx la interpretò come il primo esperimento di "governo della classe operaia", ma ne ricavò anche l'ammonimento a non spezzare l'unità della nazione, "potente fattore della produzione sociale". Nonostante la brevità dell'esperienza (settantadue giorni) e la modestia delle realizzazioni socialiste, la Comune (con la precedente sconfitta francese a Sedan) ebbe conseguenze notevoli in Europa e in seno all'Internazionale stessa, anche se è eccessivo affermare che rappresentò la discriminante tra 'il socialismo di ieri' e quello 'di oggi'. Essa accelerò la spinta tradeunionistica dei sindacati inglesi e contribuì a trasferire il centro di gravità del movimento socialista dalla Francia alla Germania. Nell'immediato, il fallimento della Comune esasperò i contrasti tra i seguaci di Marx e di Bakunin, e se il primo riuscì a far espellere il secondo al congresso dell'Aja del 1872, fu tuttavia costretto a spostare la sede dell'Internazionale a New York decretandone così la fine (1876). Pur nella brevità e nelle vivaci polemiche che ne caratterizzarono la vita, l'Internazionale fornì un'importante esperienza di impegno intorno a una concezione di lotta più definita e omogenea, contribuendo a radicare l'identità collettiva, tanto che tutte le successive analoghe iniziative ne rivendicarono la continuità.

Il partito nazionale dei lavoratori e l'integrazione politica

A partire dalla fine del XIX secolo le vicende del socialismo furono contrassegnate dall'affermazione e dalla vitalità di due soggetti apparentemente distanti o addirittura antagonistici, ma in realtà connessi: la classe operaia e la nazione. L'interesse della Seconda Internazionale, costituita nel 1889 da partiti nazionali per o della classe operaia, si volgeva a entrambi.La costituzione del partito operaio e/o socialista, sollecitata dall'allargamento del suffragio e dall'insorgente società di massa, rifletteva innanzitutto la grande frattura sociale tra manodopera e capitale, tra ceti subalterni e leaderships tradizionali e/o borghesi, in una fase di rafforzamento dello Stato-nazione, di integrazione del mercato e di un più marcato ruolo dello Stato nell'economia e nella società. Per certi versi essa si poneva come punto d'approdo dell'evoluzione del proletariato dalla condizione di 'rango inferiore', di 'plebe', di 'gente comune' o di 'ceto lavoratore operaio' a quella di 'classe lavoratrice', il che aveva posto in primo piano il rapporto tra coscienza e organizzazione, quest'ultima intesa anche come completamento della personalità del singolo. Il partito, insieme al sindacato (generale e centrale), fu così la risposta al nuovo tipo di conflittualità sociale determinatosi alla fine del secolo, che reclamava da un lato modalità più complesse e 'aperte', e comunque più organizzate - la pratica diffusa dello sciopero, il richiamo alle otto ore lavorative reso ricco di suggestioni dalla festa del primo maggio, il rivendicato controllo del collocamento, la più generale definizione del contenzioso, a cominciare dal contratto collettivo (in Inghilterra dal 1890) -, mentre dall'altro richiedeva iniziative più decisamente orientate al compromesso sociale (legislazione sociale, uffici del lavoro, istruzione).

L'affermazione e l'articolazione concreta del partito, dunque, dipesero dal congiunto rapporto con i centri propulsivi del sistema capitalistico e con la democratizzazione di quello politico. La perifericità rispetto ad essi facilitò l'affermazione del partito-avanguardia presentatosi come tale per la classe, per di più intesa come classe generale, guida all'istruzione e al reclutamento, ma ancor più alla rivoluzione; in determinate condizioni ciò sollecitò la subordinazione dello Stato al partito e, successivamente, la sua trasformazione in regime. Viceversa, la vicinanza determinò l'evoluzione del partito socialista in un partito elettorale di massa, che si definì nella mobilitazione e nell'inquadramento di vasti strati popolari ai margini o al di fuori della cittadinanza politica tradizionale, assumendo da allora un ruolo importante nell'evoluzione dei sistemi democratico-rappresentativi e in ogni caso svolgendo un'accentuata funzione di socializzazione politica nella propaganda di nuovi fini collettivi. A tale scopo il partito si indirizzò all'interno verso la creazione di un vasto apparato - in buona parte finanziato dalle quote sociali e articolato in sezioni particolari nonché in comitati o uffici a struttura gerarchico-piramidale - e all'esterno verso l'interrelazione con istituzioni o associazioni di sostegno e collaterali.

Nella tipologia del 'grande partito', classista ma aperto alla confluenza di ceti piccolo- e medio-borghesi, che rimase la più emblematica del socialismo europeo, alla proiezione elettorale si sovrapposero l'attitudine educativa, che esaltava la funzione importante della dottrina nel radicamento dell'obbligazione politica, ma anche l'attività di sostegno a strutture di solidarietà e a organismi vari di partecipazione. Come luogo dell'aggregazione e della mediazione di nuovi interessi sociali, o della canalizzazione delle tensioni e dunque dell'istituzionalizzazione della 'nuova' conflittualità, esso finì per ricoprire un ruolo essenziale ai fini della stabilizzazione/destabilizzazione del sistema politico-istituzionale, delineando nel complesso, ma non in modo lineare e senza soluzioni di continuità, un'evoluzione da 'associazione' e 'movimento' a 'istituzione', da 'forma' esterna ed extraparlamentare a funzione centrale del sistema politico rappresentativo di massa, da istituto a fondamento classista a partito dello sviluppo sociale. Infine, facendo riferimento specifico alla fase di insediamento, decisiva per il codice genetico di un partito, occorre sottolineare che il partito 'secondo internazionalista' rappresentò il superamento definitivo del settarismo cospirativo e del corporativismo e del regionalismo 'primo internazionalista' assumendo, nella separazione dagli anarchici e poi dai sindacalisti rivoluzionari, il metodo democratico come mezzo per la piena espressione del movimento operaio, e ne collocò la prospettiva in una dimensione politica nazionale, portando con ciò la lotta a ridosso dello Stato per la conquista e la gestione del potere. Inoltre, identificando nella classe operaia la protagonista consapevole della propria emancipazione, autonoma e distinta dalle altre forze politiche, il partito socialista postulava anche un collegamento - e in taluni casi una vera e propria divisione dei compiti - con il sindacato, centro di organizzazione dei lavoratori intorno alla difesa di interessi corporativi.

La Seconda Internazionale nacque appunto con questa duplice anima: politica (e democratica) e corporativo-operaia. E tale duplice registro fu adottato da tutti i partiti operai o socialdemocratici che si costituirono nel giro di una quindicina d'anni, adattandosi alle tradizioni e agli ambienti, con il criterio dell'adesione ora collettiva, ora individuale. Nei partiti della Seconda Internazionale fu rituale la professione di marxismo in vista della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, ma furono ugualmente importanti la pratica riformista e la partecipazione alla lotta parlamentare e al governo delle amministrazioni locali, tanto che i consensi elettorali furono presi a misura del successo politico. Dopo la fine delle ipotesi catastrofiche di fine secolo e i successi elettorali e sindacali dovuti a una congiuntura favorevole, l'alba del nuovo secolo sembrò quella dell''epoca socialdemocratica'. Sulla spinta dell'industrializzazione e dei progressi scientifici, dell'urbanesimo e della diffusione dell'istruzione, il vecchio mondo aristocratico e individualista parve destinato a crollare di fronte ai crescenti successi del socialismo il cui edificio, come si teorizzò al congresso dell'Internazionale a Stoccarda nel 1907, poggiava saldamente su tre pilastri: il partito, il sindacato e il movimento associativo e cooperativo.Il primo partito nazionale fu fondato in Germania, dove il mondo del lavoro si andò organizzando intorno all'Arbeitsverein con obiettivi tradeunionistici e culturali.

Proprio rivendicando l'autonomia dei lavoratori dalle formazioni politiche borghesi, nel presupposto che a essi spettasse il rinnovamento etico e sociale di uno Stato hegelianamente inteso come pernio della vita pubblica, fu creato nel 1863 a Lipsia da Ferdinand Lassalle (1825-1864) l'Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein (ADAV). Lassalle considerò la borghesia un'unica massa reazionaria e, richiamandosi alla 'legge ferrea dei salari', giudicò inutili gli scioperi per proporre piuttosto la creazione di cooperative di produzione che competessero efficacemente sul mercato con le imprese capitalistiche, così da assicurare in modo pacifico e legale il passaggio a un nuovo ordine sociale conforme a giustizia, con la garanzia di uno Stato conquistato politicamente con il suffragio universale e diretto. Grande comunicatore, egli diventò assai popolare tra i lavoratori tedeschi, con forme di culto personale, finché non venne ucciso in duello nel gennaio 1864. Gli succedette alla presidenza del partito l'avvocato Johann Baptist von Schweitzer, direttore di "Der Sozial-Demokrat", il quale pur nella confermata fedeltà allo Stato prussiano fu più sensibile all'azione sindacale. In contrapposizione ai lassalliani nel 1869 fu fondata a Eisenach la Sozialdemokratische Arbeiter Partei (SDAP), che si richiamò all'Internazionale affermando la simultaneità dell'azione politica con quella sindacale. Ne furono promotori il tornitore autodidatta August Bebel (1840-1913), futuro autore del celebre Die Frau und der Sozialismus (1883), che ebbe una cinquantina di edizioni, e il pubblicista emigrato Wilhelm Liebknecht (1826-1900), i quali dalle iniziali posizioni antiprussiane per la creazione della 'grande' Germania democratica in alleanza con le forze borghesi, si erano gradualmente avvicinati a Marx, anche per la frequentazione delle sezioni tedesche dell'Internazionale fondate da Philipp Becker. Nel 1875 i due partiti si fusero al congresso di Gotha, con un programma che fu criticato da Marx per le concessioni fatte ai lassalliani sui concetti della 'fratellanza dei popoli', della 'legge ferrea' dei salari, della borghesia come unica massa reazionaria, della cooperazione di produzione.

Le critiche di Marx non ebbero influenza pratica (l'ebbero semmai nello sviluppo successivo del pensiero leninista). L'organizzazione del partito, finalmente democratico e sociale, ne uscì consolidata, tanto che nelle elezioni del 1877 conseguì il 9% dei voti, mentre le iniziative a favore della cultura operaia e la stessa unità sindacale risultarono fortemente stimolate. Dal 1878 il partito subì la legislazione antisocialista voluta da Bismarck, che ne proibì giornali, sedi, congressi, ma ne ammise la partecipazione alle elezioni, cosicché rimase in piedi una struttura per fiduciari. In ogni caso restò più che mai attivo il movimento sindacale: l'imponente sciopero dei minatori da esso organizzato nel 1889 contribuì a far abrogare la legislazione di emergenza (1890). Alle successive elezioni i socialdemocratici ottennero un milione e quattrocentomila voti (oltre il 20%) acquistando un'autorità indiscussa in tutto il movimento socialista internazionale. Grande influenza ebbe anche la rivista teorica "Neue Zeit" diretta dal 1883 al 1917 da Karl Kautsky (1854-1938), al quale fu attribuito, con la paternità delle categorie 'marxisti' e 'marxismo', un ruolo fondamentale nell'assunzione del pensiero di Marx a 'dottrina ufficiale del partito', anche e soprattutto ai fini della egemonia politica e ideologica nelle lotte interne.

Il concetto stesso di 'socialdemocrazia', nato nel senso della tradizione del 1848, acquisì definitivamente la duplice valenza classista e 'democratico-sociale', cioè di 'completo dominio del popolo', contro lo sfruttamento e contro il privilegio, per l'eguaglianza e per la libertà. Il programma del partito approvato al congresso di Erfurt del 1891, preparato da Kautsky con il consenso di Engels, indicò gli obiettivi della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, dell'utilizzazione di ogni strumento di lotta legale e in particolare di quella parlamentare per l'emancipazione dei lavoratori, del sostegno alla lotta di resistenza sindacale. Ne uscì delineato così un partito di classe e di massa. Il programma di Erfurt diventò un punto di riferimento essenziale per tutti i partiti della Seconda Internazionale, di cui la socialdemocrazia tedesca fu l'asse portante: come disse Engels, essa "appariva come la massa più numerosa, più compatta, la forza d'urto decisiva dell'esercito proletario internazionale". In effetti, nel 1912-1913 il sindacato, diretto da Karl Legien, vantò due milioni e mezzo di iscritti; nelle elezioni del Reichstag del 1912 la SPD ottenne oltre quattro milioni di voti (34,8% del totale) e 110 seggi; i membri del partito, fondato sulle sezioni territoriali e finanziato dalle quote individuali, raggiunsero un milione.

Ma nel sistema politico-istituzionale imperiale tale forza restò politicamente 'isolata' o 'separata', cosicché, al fine di superare tale isolamento in connessione al tramonto delle ipotesi catastrofiche, già a cavallo del secolo non mancarono posizioni volte alla 'revisione' del programma, che mettevano in discussione alcuni punti centrali del pensiero di Marx, in particolare sulla proletarizzazione dei ceti medi e sulla concentrazione progressiva delle ricchezze, sullo Stato come strumento operativo nelle mani delle classi dirigenti e sulla dittatura del proletariato. Se ne fecero interpreti Georg von Vollmar (1850-1922), favorevole al 'riformismo di Stato' e alla piccola proprietà contadina, e soprattutto Eduard Bernstein (1850-1932), nutrito di filosofia neokantiana e vicino alla scuola economica marginalista, che in Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) propose di trasformare la SPD in un "partito di riforme socialiste e democratiche" in quanto "erede del liberalismo per il suo contenuto spirituale", confutando la tesi della proletarizzazione dei ceti medi e della dittatura del proletariato ("il movimento è tutto"). Difesero l'ortodossia marxista Bebel e Kautsky, autore di Die Agrarfrage (1899), Bernstein und sozialistische Programm (1899), Die soziale Revolution (1902) e Der Weg zur Macht (1909).

Negli anni successivi, dopo la prima Rivoluzione russa del 1905 e soprattutto dal 1910, emersero critiche alla 'ortodossia di centro' anche da sinistra, in particolare da Herman Goster, Anton Pannekoek, Alexander L. Helfand detto Parvus, e soprattutto da Rosa Luxemburg (1870-1919) secondo la quale, nell'ipotesi di una crisi rivoluzionaria determinata dalle presunte contraddizioni dell'età dell'imperialismo, occorreva piuttosto educare la classe operaia perché si rendesse spontaneamente protagonista della rivoluzione di massa, evitando così anche il pericolo dell'autoritarismo presente sia nel partito burocratico che nelle leaderships professionali (come quelle, rivoluzionarie, teorizzate da Lenin nel Che fare? del 1902). La SPD respinse ufficialmente il revisionismo al congresso di Dresda del 1903, ma la prassi sindacale e di tipo parlamentare portò ugualmente a una crescente integrazione politica e sociale, sancita dal voto favorevole ai crediti di guerra nell'agosto 1914. Per taluni però fu un'integrazione 'in negativo' perché, al di là dei miglioramenti materiali per i lavoratori, non fu tale da superare le condizioni politiche discriminatorie messe in atto dalle forze conservatrici dell'Impero, cosicché la socialdemocrazia avrebbe cercato e coltivato la sopravvivenza come 'corpo separato' o 'Stato nello Stato', nel culto dell'organizzazione e nella vigilanza sull'ortodossia dottrinaria. In ogni caso nell'evoluzione da partito 'della rivoluzione' a partito dello sviluppo e 'nazionale', la SPD riuscì a legarsi stabilmente alla classe operaia e a radicare nella società l'immagine di una forza di progresso.

Sul modello tedesco di partito socialdemocratico di massa si riorganizzò la socialdemocrazia austriaca, al congresso di Hainfeld del 1889, sotto la guida di Victor Adler (1852-1918). Saldamente insediata nelle aree industriali, essa fu protagonista di lotte democratiche di massa, come quella del 1905 per il suffragio universale, ottenuto infine nel 1907, e assunse posizioni di grande originalità sul problema nazionale, fin dal congresso di Brünn del 1899, quando fu posto l'obiettivo della trasformazione dell'Austria in "Stato democratico federale delle nazionalità", con ampi riconoscimenti all'autonomia personale e culturale, su cui scrissero Karl Renner (1870-1950) in Der Kampf der oesterreichischen Nationen um der Staat (1902) e Otto Bauer (1882-1938) in Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1907).La questione nazionale e con essa quella della democratizzazione dello Stato furono al centro anche della storia del socialismo belga, diviso in fiammingo e vallone. Nel 1884 fu fondato il Parti Ouvrier Belge (POB), in cui confluivano circoli, sindacati e cooperative. L'obiettivo politico più rilevante fu la conquista del suffragio universale, per il quale il partito promosse grandi scioperi nel 1886 e nel 1892. Con l'allargamento del suffragio il POB ottenne, nel 1894, 27 deputati, tra i quali Édouard Anseele, in rappresentanza dell'area socialista fiamminga che ruotava intorno al Vooruit di Gand (cooperativa di consumo), ed Émile Vandervelde (1866-1938), prolifico divulgatore del socialismo positivista.

In Francia il movimento socialista si riprese molto tardi dalla sconfitta della Comune, senza più recuperare tuttavia il ruolo propulsivo dei decenni precedenti. Comunque esso costituì pur sempre un terreno di incubazione politica di notevole interesse, sollecitato dal tradizionale rapporto con la Repubblica ad affrontare la questione decisiva delle alleanze con le forze politiche 'affini', nonché per l'attenzione da sempre rivolta al fattore culturale ed educativo nei processi di trasformazione della società di massa. Non ultimo, la Francia fu negli anni ottanta, insieme al Belgio, l'area di diffusione dell''operaismo': per la prima ne furono simboli la bourse du travail e il sindacato di mestiere, per l'altro la maison du peuple e la cooperativa di consumo. Nel 1883 fu costituito da Paul Lafargue (1842-1911) e da Jules Guesde (1845-1922) il Parti ouvrier con un'organizzazione centralizzata, largamente ispirata al marxismo. I 'possibilisti' di Paul Brousse gli contrapposero un partito fondato su strutture locali e con l'obiettivo della trasformazione graduale dello Stato in senso decentrato, in alleanza con la borghesia liberale. Proprio i due gruppi, in concorrenza, assunsero l'iniziativa della costituzione della Seconda Internazionale a Parigi nel 1889. Ma la 'litigiosità' interna continuò a indebolire fortemente il movimento politico nei confronti di quello sindacale, che viceversa andò rafforzandosi fino alla fondazione della Confédération Générale du Travail a Limoges nel 1895. Nel movimento sindacale si affermò una corrente maggioritaria favorevole all'action directe, influenzata da Fernand Pelloutier e poi da Hubert Lagardelle e da Georges Sorel (1847-1922), autore di L'avenir socialiste des syndicats (1898) e Réflexions sur la violence (1908).

Il sindacalismo rivoluzionario e l'anarco-sindacalismo, che si diffusero nei paesi dell'Europa meridionale, si contrapposero al cosiddetto marxismo della Seconda Internazionale (partito di tipo socialdemocratico e lotta politico-parlamentare; centralizzazione dell'organizzazione sindacale e legislazione sociale), privilegiando lo sciopero come strumento di educazione della coscienza di classe e riservando allo sciopero generale la funzione di emancipare la classe operaia fino all'atto decisivo dell'espropriazione, così da consentire ai lavoratori (i 'produttori') di pervenire alla gestione delle imprese. La crisi boulangista e l'affaire Dreyfus fecero precipitare i contrasti fra i gruppi socialisti in tema di alleanze con i repubblicani e i radicali. Quando, nel giugno 1899, il socialista Alexandre Millerand entrò nel gabinetto borghese di Waldeck-Rousseau per difendere le istituzioni repubblicane da un possibile colpo di Stato della destra e per introdurre la scuola laica di Stato, si creò una divaricazione tra i 'guesdisti', contrari a ogni collaborazione con la borghesia, e gli 'indipendenti' di Jean Jaurès (1859-1914), al riguardo più possibilisti, divaricazione che rimase incolmabile fino al 1905, quando per i buoni uffici dell'Internazionale le diverse componenti si unificarono nella Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO).Il problema sollevato dal caso Millerand, relativo all'appoggio (ministerialismo) o addirittura alla partecipazione (ministeriabilismo) dei socialisti a governi a maggioranza borghese, interessò tutti i partiti aderenti all'Internazionale, con modalità diverse dettate nei vari paesi dalle effettive prospettive di trasformazione delle società borghesi liberali in società democratico-parlamentari. Proprio sul sostegno o meno alla 'svolta liberale' inaugurata da Giovanni Giolitti agli inizi del secolo, si verificò in Italia la prima irriducibile frattura nel Partito Socialista che, sotto la guida di Filippo Turati (1857-1932), direttore della "Critica sociale" dal 1891, era stato fondato a Genova nel 1892, con un programma ispirato a quello di Erfurt.

Il contrasto, che si mantenne sotto diverse vesti fino all'avvento del fascismo, si verificò tra la componente gradualista e riformista di Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati e poi dei dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), costituita nel 1906, e quella intransigente e rivoluzionaria di Arturo Labriola e di Enrico Ferri, dalla quale poi si scissero i sindacalisti rivoluzionari di Alceste De Ambris. Rispetto al socialismo delle aree industrializzate e a tradizione liberale e a quello tipico delle aree rurali e a regime autocratico, il socialismo italiano si collocò in una posizione mediana, con larga approssimazione più vicino a quello francese dopo la Comune o a quello spagnolo per il ruolo sociale della Chiesa e l'anticlericalismo, la frequente difformità di indirizzo tra sindacato e partito, il protagonismo delle campagne e gli squilibri regionali, la permanenza di una vasta area sovversiva (in Spagna gli anarchici ebbero basi di massa nonostante l'opposizione del Partito Socialista Obrero Español, PSOE, fondato nel 1888 da Pablo Iglesias).Nell'Europa centrorientale e meridionale, dove i processi di integrazione politica furono ancora più lenti, la penetrazione socialista divenne significativa solo alla fine del XIX secolo, con un primo insediamento nei centri urbani lungo i canali dell'emigrazione. Tipica figura di profugo socialista fu il bulgaro Christian G. Rakovskij, che in Svizzera fu in contatto con Plechanov e in Germania con Liebknecht, e che al congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 rappresentò la Serbia e in quello di Stoccarda del 1907 la Romania. In Bulgaria fu costituito nel 1891 un partito nazionale, poi Partito socialdemocratico bulgaro del lavoro (BRSPD), dal 1903 diviso tra i 'larghi', favorevoli alla collaborazione con la borghesia, e gli 'stretti', ad essa contrari. In Serbia il partito fu costituito nel 1903. In Polonia il Polska Parti Socjalistyczna, fondato da Jósef Pilsudski nel 1892, tenne il primo congresso a Varsavia nel 1894: pur nella professione di internazionalismo, perseguì la realizzazione di uno Stato indipendente e democratico.

Le associazioni operaie di lingua jiddish si organizzarono invece nel 1887 in un Bund come parte del movimento socialista russo.Anche in Russia il socialismo restò a lungo diffuso nella cerchia di una piccola intelligencija, una minoranza rivoluzionaria ed elitaria che si opponeva all'aristocrazia e alla Chiesa ortodossa. Dall'estero Aleksandr Herzen indicò una strada al socialismo che, partendo dall' esperienza del mir, consentisse di superare o di evitare lo stadio capitalistico. Pëtr Lavrov, fondatore a Parigi di "Vpered", la rivista teorica del populismo, predicò la necessità di 'andare al popolo', cioè alle masse contadine, e assegnò un ruolo determinante all'intellettuale rivoluzionario. Un tema che fu ripreso, in una prospettiva insurrezionale e addirittura terroristica, da Bakunin, da Sergej G. Nečaev, da Pëtr N. Tkǎcev, e poi, nella prospettiva bolscevica, anche da Lenin. Erede del populismo fu il Partito socialista rivoluzionario costituito nel 1901. La diffusione del marxismo in Russia conobbe il filtro non solo del pensiero populista, ma anche del Gruppo di liberazione del lavoro, fondato a Ginevra nel 1883 da Georgij Plechanov (1857-1918), Pavel Aksel'rod e Vera Zasulič, che furono in contatto con Marx ed Engels e con gli esponenti socialdemocratici tedeschi, anch'essi allora in esilio in Svizzera. Dall'incontro tra gruppi di emigrati e settori della classe operaia di Mosca e di San Pietroburgo, di Kiev e di Odessa, nacque a Minsk nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico russo, con un programma che recuperò la tradizione populista rivoluzionaria, respingendone però i metodi terroristici, e attribuì al proletariato industriale il compito della rivoluzione. Nel 1903 il partito si divise tra menscevichi (minoritari) e bolscevichi (maggioritari).

I primi, con Plechanov e J. Cederbaum detto Martov (1873-1923), si professarono marxisti 'occidentalisti', cioè convinti che allo zarismo sarebbe dovuto succedere un regime democratico-borghese prima di giungere al socialismo; i secondi, con Lenin, sostennero la tesi del passaggio immediato dalla rivoluzione democratica alla dittatura del proletariato e dettero vita a un partito di rivoluzionari di professione.Nelle aree più sviluppate o prive delle fratture sociali e politiche tipiche dell'Europa centrorientale e meridionale, la penetrazione del marxismo fu assai più stentata o praticamente assente. In Inghilterra, per esempio, dopo il crollo del cartismo l'attività politico-partitica rimase a lungo modesta, specialmente se confrontata con i vistosi successi della cooperazione e del sindacato, che nel 1868 fondò il Trades Union Congress (TUC) e, dopo lo sciopero del 1889, ricevette ulteriore impulso dal 'nuovo unionismo', cioè dall'organizzazione di nuove fasce di lavoratori dei trasporti, del carbone e dell'industria, semispecializzati e manovali (un milione e seicentomila iscritti nel 1892, che avrebbero raggiunto i quattro milioni e mezzo nel 1914). Il movimento operaio inglese cercò piuttosto l'alleanza con i radicali e soprattutto con i liberali, per l'allargamento dei diritti politici e per una più incisiva legislazione sociale e di tutela del lavoro, dando vita a quella tattica lib-lab (liberal-labour) contro la quale con scarso successo si opposero la Social Democratic Federation, fondata da H. Mayers Hyndman nel 1881, e la Socialist League, promossa nel 1884 da William Morris (1834-1896), di ispirazione marxista. Influenza notevole ebbe invece il gruppo di pressione, costituito tra gli altri da Sidney Webb e Beatrice Potter, George Bernard Shaw, George Wells, raccolto nella Fabian Society (1884), che intese promuovere un socialismo pragmatico e gradualista, come attestava la scelta della denominazione stessa con il riferimento al generale romano Fabio Massimo il Temporeggiatore.

Il volume Fabian essays in socialism, del 1889, circolò in due milioni di copie, preparando il terreno culturale per i partiti non marxisti come l'Independent Labour Party di Keir Hardie (1856-1915), fondato nel 1893, e poi, nel 1890, per il Labour Representation Committee, da cui ebbe origine nel 1906 il Labour Party, che già nelle prime elezioni ottenne 26 seggi parlamentari. Esso costituì il modello del partito a struttura indiretta, basata cioè sull'adesione di gruppo, poi modificata dal riconoscimento di una quota politica individuale facoltativa per gli aderenti alle Trade Unions (Trade Unions act, 1913) e in seguito, nel 1918, dall'esplicita ammissione dell'iscrizione individuale.Nei Paesi Scandinavi le origini del movimento socialista si legarono ai rapporti che emigranti, studenti e pubblicisti, come August Palm o Holtermann Knudsen, stabilirono con la socialdemocrazia tedesca. Il movimento socialista ebbe una iniziale diffusione nei centri urbani, innestandosi sulla tradizione corporativa artigiana, ma ben presto allargò il consenso popolare agitando i grandi temi politico-istituzionali: le riforme elettorali in Svezia, la riforma costituzionale in Danimarca (1916), la questione dell'indipendenza della Norvegia nel 1905. Nel complesso, però, il movimento sindacale (e anche cooperativo) mantenne una posizione predominante.

Ciò fu particolarmente evidente in Svezia dove il partito, fondato nel 1889 da Hjalmar Brainting (1860-1925), condivise a lungo con il sindacato le strutture di base, ma anche gli obiettivi politici di fondo: furono le Lands Organizationen a indire lo sciopero generale per il suffragio universale nel 1902, e fu il partito, con i suoi 35 deputati nel 1905 e 73 nel 1914, a far approvare dal Parlamento le assicurazioni contro la vecchiaia, le malattie e la disoccupazione, facendo leva sulla recuperata capacità di mobilitazione sindacale dopo il grave insuccesso dello sciopero generale dell'estate 1909 indetto in risposta a una serrata padronale. Il Partito socialdemocratico o laburista diventò il più importante in Finlandia fin dal 1907, in Svezia dal 1914, in Danimarca dal 1924 e in Norvegia dal 1927. In Inghilterra e in quasi tutti i Paesi Scandinavi i laburisti e i socialisti si fecero dunque sostenitori di un'evoluzione in senso sociale del sistema liberaldemocratico, del resto assai più avanzato che altrove, presupponendo che lo Stato, permeato con un'azione graduale e dal basso, o sottoposto a un'efficace pressione da parte delle organizzazioni dei lavoratori, potesse assumere un ruolo 'amico' fondamentale. Nella gerarchia che si stabilì allora in Europa tra sindacato e partito fu il primo a precedere il secondo e a determinarne la natura organizzativa.Fuori dal Vecchio Continente, con la parziale eccezione di alcuni dominions inglesi, il socialismo stentò a penetrare, per lo più tramite l'emigrazione europea, e ancor più a radicarsi, anche limitatamente ai centri urbani e alle aree minerarie (come in Cile).

In Giappone, nella seconda parte dell'era Meiji, si costituirono gruppi e partiti ('socialisti orientali', 'conducenti di ricsciò', 'amici del popolo', 'semplici', 'per lo studio del socialismo'), dalla vita breve e stentata, anche per le continue persecuzioni, dediti prevalentemente all'istruzione e alla propaganda attraverso la stampa. Tuttavia la partecipazione del tipografo Sen Katayama al congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 e ancor più la condanna della guerra russo-giapponese da lui espressa insieme al russo Plechanov, conferirono al movimento notorietà internazionale. Dall'America Latina ebbero una rappresentanza nei lavori dell'Internazionale solo l'Uruguay e l'Argentina, dove nel 1894 era stato costituito un Partito socialista da Alfredo Palacios e da Juan Baudista Justo. Il caso più significativo era comunque rappresentato dagli Stati Uniti, che si apprestavano a diventare la massima potenza industriale e 'la terra promessa del capitalismo', senza avere neppure i pesanti condizionamenti dei vecchi regimi di cui soffriva la società europea, e dunque erano apparentemente i destinatari dei più ambiziosi progetti sociali, come del resto avevano inteso i primi profughi socialisti seguaci di Fourier, Owen, Cabet e poi di Lassalle e Marx. Ma non si può certo dire che i risultati fossero pari alle attese, nonostante gli iniziali modesti successi conseguiti con la costituzione di un Socialist Labor Party nel 1877, che negli anni novanta trovò nuovo slancio sotto la guida di Daniel De Leon (1852-1914); poi di una Social Democracy, nel 1897; e infine di un Socialist Party of America nel 1901.

Né risultò decisivo ai fini dell'insediamento il fiancheggiamento di organizzazioni sindacali come il Noble Order of Knights of Labor negli anni settanta e ottanta, o le Trades and Labor negli anni novanta - dopo il vano tentativo di penetrazione nella più potente American Federation of Labor di Samuel Gompers - o gli Industrial Workers of the World; e neppure lo straordinario successo di opere come Progress and poverty (1879) del radicale Henry George e di Looking backward (1888) di Edward Bellamy o l'attrazione esercitata su scrittori come Jack London e Upton Sinclair. Nel momento della massima espansione, il 1912-1913, il Socialist Party of America vantava meno di 120.000 iscritti e il suo candidato alle elezioni presidenziali, Eugene Debbs, ottenne il 6% dei consensi. Il 'fallimento' del socialismo negli Stati Uniti fu attribuito a molteplici fattori: il sistema politico istituzionale presidenziale bipartitico imperniato sulle primarie e sulla rilevanza della 'macchina elettorale'; l'influenza dei democratici dopo l'elezione alla presidenza di Thomas Woodrow Wilson (come più tardi negli anni trenta di Franklin Delano Roosevelt); l'isolamento del movimento, chiuso nell'ambiente dell'emigrazione; le caratteristiche della classe operaia formatasi per stratificazioni successive e divisa per segmenti, e dunque non omogenea; e soprattutto la grande mobilità della società americana che avrebbe impedito la stratificazione delle classi.

Tale insuccesso fu considerato la riprova della superiorità del capitalismo sul socialismo e ancor più dei limiti del marxismo, specialmente nelle società complesse e aperte. Per contro, l'accento posto sulla vocazione imperialistica degli Stati Uniti come valvola di sfogo della conflittualità interna, e, quindi, come decisivo fattore di contenimento dell'area di diffusione del socialismo, non sembrò avere uguale rilievo.Nell'età della Seconda Internazionale il socialismo aveva acquisito le caratteristiche di movimento di massa: nel 1912 i partiti aderenti vantavano 3,4 milioni di iscritti (contro i 7,3 milioni di soci delle cooperative e i 10,8 milioni di sindacalizzati) e circa 12 milioni di elettori, e disponevano di una rete di 200 grandi quotidiani. Era tuttavia un movimento che sembrava presupporre uno sviluppo lineare della società e la pace internazionale. La guerra mondiale ne segnò il collasso, dimostrandone l'incongruità rispetto al compito che esso si era dato di difendere la pace in nome della solidarietà di classe, ma al tempo stesso ne accelerò l'integrazione politica. Nel 1914, con pochi dissensi tra i quali quello del Partito Socialista Italiano, i socialisti tedeschi, austriaci e francesi votarono i crediti di guerra, con la motivazione di dover difendere il principio di nazionalità e di voler abbattere gli uni l'autocrazia zarista, gli altri l'imperialismo e il militarismo tedesco.Tra le due guerre l'area della democrazia e del socialismo arretrò di fronte all'espansione del fascismo e delle politiche autoritarie in Italia, Germania, Austria e Spagna, nonché in Portogallo, Ungheria e Romania.

In tali paesi socialismo e democrazia condivisero una identica sorte, si compenetrarono ulteriormente, e tale identificazione costituì un'eredità importante per le leaderships costrette all'emigrazione e per le generazioni successive. Ma il socialismo subì anche la sfida del comunismo, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 e la creazione il 2 marzo 1919 della Terza Internazionale, la quale nel giugno 1920 varò ventuno punti per l'ammissione, tra i quali il più qualificante fu la creazione di un partito accentrato e disciplinato che combattesse in via prioritaria le vecchie leaderships socialiste per affermare la sua superiore autorità. I comunisti diventarono così i nemici implacabili dei regimi democratici e dei partiti socialisti, dando vita a propri partiti (in Italia nel gennaio 1921), fino ad accusare gli ex compagni di 'socialfascismo', cioè di essere la componente più moderata e più 'opportunista' della controrivoluzione. Queste polemiche, ancora persistenti negli anni dell'ascesa al potere del nazismo, furono superate solo con la politica dei fronti popolari dopo il 1935. Al Komintern si oppose l'Internationale Ouvrière et Socialiste, ricostituita a Berna nel 1919 e poi ufficialmente ad Amburgo nel 1923 (IOS), sulla base della conferma della via democratica e parlamentare al socialismo nei paesi a sviluppo capitalistico, e dunque della denuncia del totalitarismo bolscevico. Il tentativo dei socialdemocratici austriaci di unificare socialisti e comunisti con l'Internazionale due e mezzo fallì quasi subito e i più confluirono nell'IOS, di cui ricoprì la carica di segretario fino al 1939 Friedrich Adler (1879-1960).

Rimase comunque viva un'area centrista, che, pur respingendo il metodo bolscevico per i paesi avanzati, ne ammise tuttavia la possibilità in quelli sottosviluppati o autocratici, come era stata la Russia zarista, o nell'ipotesi della difesa da attacchi interni ed esterni. In seguito 'i centristi', come del resto non pochi intellettuali di sinistra, furono pronti a concedere al regime sovietico almeno il beneficio d'inventario per l'avvio di una direzione pianificata dell'economia e per i progressi conseguiti tanto nella politica di industrializzazione quanto nello sviluppo dell'istruzione e dei servizi sociali (cfr. Sidney e Beatrice Webb, Soviet communism: a new civilization?, London 1935).Nonostante l'arretramento, è stata collocata nel periodo tra le due guerre la definitiva sedimentazione ('cristallizzazione') socialdemocratica. Nel 1931 i partiti aderenti alla IOS vantavano oltre 6 milioni di iscritti, 26 milioni di elettori, più di 1.300 deputati, e una rete di oltre 360 organi di stampa.

Anche nei paesi che sarebbero stati poi investiti dalla reazione fascista o autoritaria, l'area del precedente consenso elettorale socialista acquisito nel primo dopoguerra risultò in qualche modo consolidata, destinata cioè a confermarsi nelle prime elezioni 'libere' dopo il 1945. Altra questione è quella dell'uso del potenziale socialdemocratico. Per molti esso non fu pari all'obiettivo di difendere la democrazia là dove era minacciata (o per contro di indirizzare in senso sovietico le presunte potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra), e tantomeno di affrontare con una cultura economica di lungo periodo la crisi del 1923-1924 e soprattutto del 1929, nel perdurante pregiudizio che fosse impossibile riformare la società capitalistica. In realtà non mancò allora la ricerca di strade nuove: con i socialdemocratici Richard von Moellendorf, Rudolf Wissel e Otto Neurath, questi ultimi anche in relazione al disegno dello Stato 'organico' di Walther Rathenau, nonché con Georges Douglas H. Cole e Rudolf Hilferding, si mirava alla parziale socializzazione delle imprese, nell'ambito di un'economia 'governata' ma rispettosa di ampi spazi di autogestione; Louis De Brouckère teorizzava la "democrazia industriale" e il "controllo operaio" (Le contrôle ouvrier), mentre i guild socialists inglesi affermavano la primogenitura dell'economia e della società sulla politica nell'ambito di una concezione pluralistica dei rapporti sociali. Albert Thomas rilanciò in Francia la tesi della 'presenza nella nazione' in relazione allo sviluppo della produttività, e il belga Henri de Man (1885-1953), che era stato critico severo del marxismo in nome di un socialismo nazionale, etico-volontaristico e socio-psicologico in Au-delà du marxisme, 1927, teorizzò in Le socialisme constructif, 1933, un'economia mista sottoposta a un "piano del lavoro" nazionale, che fece adottare al POB alla vigilia della guerra. L'influenza del 'planismo' di de Man fu grande in Olanda e in Svizzera, e in taluni ambienti del socialismo inglese e francese favorevoli alla "économie dirigée" e alla "évolution constructive" ("néosocialisme").

Al di là dei risultati immediati, per la verità modesti, la pratica di economia mista o diretta maturata tra le due guerre era destinata a incidere nel lungo periodo, entrando a far parte del codice genetico del socialismo occidentale, di volta in volta come risposta alle crisi cicliche o meno, come correttivo degli 'eccessi' della libera concorrenza, come volano rispetto agli squilibri del mercato, addirittura come sinonimo di servizio pubblico impiegato per combattere le ineguaglianze e per consolidare la coesione nazionale.Il punto centrale fu che in molti paesi i socialdemocratici andarono allora al governo, per lo più di coalizione, e indipendentemente dai risultati conseguiti perfezionarono il processo di integrazione politica e sociale avviato alla fine del secolo precedente. In tale situazione quasi tutti promossero la revisione dei programmi originari (un'esperienza che invece mancò al socialismo italiano, prematuramente disperso dal fascismo e costretto all'esilio). Dopo la proclamazione della Repubblica in Germania, nel novembre 1918, furono eletti presidente e cancelliere in un governo di coalizione i leaders della SPD, Friedrich Ebert (1871-1925) e Philipp Scheidemann (1865-1939), forti del 38% dei voti conseguiti nelle elezioni dell'Assemblea costituente il 19 gennaio 1919, nonostante l'opposizione mossa dai 'socialisti indipendenti', costituitisi nel 1917, e dalla Lega spartachista, la cui rivolta fu repressa nel sangue.

Esclusa dal governo del Reich dal 1923 al 1928, la SPD restò al governo in coalizione nella Prussia, nel Baden, nell'Assia e in Amburgo con buoni risultati in campo amministrativo, scolastico e urbanistico (in particolare con Walter Gropius e il Bauhaus di Weimar), e tornò al cancellierato nel 1928 con Hermann Müller (e Hilferding, ministro delle Finanze) prima di essere spazzata via dal nazismo.Anche in Austria i socialdemocratici risultarono il partito più forte. Presidente della Repubblica, cancelliere e ministro degli Esteri furono eletti rispettivamente Karl Seitz, Karl Renner e Otto Bauer. Renner fu anche capo dello Stato nel 1945-1950. Se la SPD avviò la revisione del programma al congresso di Görlitz (1921) delineando già allora 'il partito di tutto il popolo', i socialdemocratici austriaci, fedeli custodi dell'unità del partito, nel congresso di Linz del 1926 abbandonarono definitivamente la teoria della dittatura del proletariato per ammettere la violenza a solo scopo difensivo. Grande autorevolezza, anche all'estero, acquistò il piccolo gruppo degli 'austromarxisti', già noto per le precedenti posizioni sulla questione nazionale e ora impegnato, in particolare con Bauer (Der Weg zum Sozialismus, 1919), a delineare una rivoluzione politica per via democratica attraverso un processo lento di socializzazione dei rapporti di produzione. La socialdemocrazia austriaca ottenne risultati rilevanti con la legislazione sociale promossa tra il 1918 e il 1920 dal ministro Ferdinand Hanusch, e soprattutto nell'amministrazione della città di Vienna, una delle esperienze di governo della città culturalmente e socialmente più feconde in tutto il Novecento. Nel febbraio 1934, dopo una repressione sanguinosa a Vienna, il governo reazionario di Dolfuss distrusse la socialdemocrazia austriaca e con essa il regime democratico. La lotta al fascismo fu alla base della politica dei fronti popolari inaugurata dopo il 1935 in quei paesi dove la presenza comunista era consistente, e in Spagna si realizzò nella sfortunata difesa della Repubblica.

L'esperienza più significativa si ebbe in Francia quando, nel 1936, il Front populaire portò al governo una coalizione presieduta dal socialista Léon Blum (1872-1950), il quale ebbe però vita difficile tanto che si dimise già nel giugno 1937. La politica del fronte popolare fu poi messa in crisi dal patto di alleanza tra Hitler e Stalin nel 1939; fu ripresa solo nella Resistenza e ancora negli anni 1945-1947 in Italia e in Francia, ma costituì un precedente importante anche per i progetti di democrazia popolare nell'Europa orientale (1945-1949).Nei paesi dell'Europa del nord, i partiti socialisti portarono a compimento l'integrazione politica e sociale assumendo responsabilità di governo significative. In Inghilterra il Labour Party da terzo partito divenne in pochi anni il primo, conquistando nel 1918 il 24% dei voti validi, e nel 1929 il 37%. Con l'aiuto dei liberali riuscì a dar vita nel gennaio 1924 al primo governo presieduto da un laburista, Ramsay Mac Donald (1866-1937), e a un secondo nel 1929. In entrambi i casi l'esperienza ebbe risultati molto modesti, ma rivestì un grande valore simbolico anche in Europa. Il programma del 1918 a favore della generalizzazione del minimo vitale e della gestione democratica e decentrata delle industrie nazionalizzate, finanziata con una forte leva fiscale, fu rivisto nel 1928, dopo l'insuccesso dello sciopero generale per la nazionalizzazione delle miniere (1926), con una diversa e più intensa attenzione ai problemi di politica estera e di politica sociale sotto il titolo significativo: The Labour and the Nation. Dopo il fallimento dei governi Mac Donald il Labour rimase all'opposizione per nove anni, ma nel 1940 fu chiamato da Winston Churchill nel governo di unità nazionale. All'interno dei dominions britannici, si sviluppò un sistema di Welfare State in Nuova Zelanda, dove il Labour Party, diretto da Michael Savage (1872-1940), giunse al governo nel 1935 con il 46% dei voti e vi restò fino al 1949. Fin dal 1938 esso creò un servizio sanitario nazionale gratuito con il Social security act. In Australia, dove era presente un forte movimento sindacale (nel 1914 un iscritto ogni nove abitanti), il Labour Party assunse la direzione del governo federale nel 1910, ma fu travagliato da polemiche e divisioni interne; dette poi vita a un nuovo governo presieduto da J.H. Scullin (1876-1953), nel 1929, nel momento economico più difficile. Nelle elezioni del 1931 subì una pesante sconfitta, da cui però si riprese negli anni quaranta. I risultati più rilevanti e più duraturi verso il Welfare State tuttavia furono conseguiti in Svezia, dove il leader socialdemocratico Karl H. Branting prima partecipò al governo nel 1917, poi fu eletto primo ministro nel 1920-1923 e nel 1924-1925.

Ma la vera svolta avvenne dopo la formazione di un governo in alleanza con il partito dei contadini, presieduto da Per Albin Hansson, il quale inaugurò la cosiddetta 'politica del focolare', che prospettava una società priva di aspri antagonismi di classe, volta a ricercare la piena occupazione con investimenti pubblici finanziati da una severa politica fiscale. Nelle elezioni del 1936 i socialdemocratici ottennero il 46% dei voti. In Danimarca il leader del Partito socialdemocratico, Thorvald Stauning, fu a capo di un governo di coalizione nel 1924, poi nel 1929 e ancora nel 1933. In Norvegia i socialisti formarono governi di coalizione nel 1928 con Christopher Hornsrud, e nel 1935 con Johann Nygaardsvold. L'esperienza scandinava parve addirittura definire una propria via al socialismo la quale, all'interno dell'accettata società capitalista e dunque intervenendo sui meccanismi di redistribuzione del reddito piuttosto che su quelli della produzione, in un clima di solidarietà sociale conciliasse, empiricamente e gradualmente, libertà, giustizia, sicurezza e stabilità.

L'affermazione della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra

Il 'socialismo nazionale' nel Terzo Mondo.Durante la guerra contro il fascismo quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa occidentale, in patria e in esilio, sostennero i governi di unità nazionale, privilegiando la nazione e la democrazia rispetto alla classe e all'anticapitalismo. Nei decenni successivi rinunciarono, dopo che lo avevano già fatto nella pratica, all'idea stessa della violenza e della rivoluzione per la conquista del potere, e pervennero definitivamente a un concetto più maturo di socialismo, inteso come un ideale sociale ed economico inseparabile dal metodo democratico assunto come mezzo e come fine. I partiti socialisti europei, inseriti compiutamente nel cosiddetto mondo libero, perseguirono una opposizione assoluta al totalitarismo, che negli anni della guerra fredda identificarono nel comunismo per la sua aggressività ideologica e politica; ciò li portò ad accogliere la protezione militare della NATO, sia pure in un'ottica difensiva e non trascurando mai di incentivare le politiche di distensione e di disarmo controllato. Fu esemplare a questo riguardo l'assunzione della carica di segretario generale della NATO dal 1957 al 1961 da parte di Paul-Henri Spaak (1899-1972), leader dei socialisti belgi, che aveva già ricoperto le cariche di presidente del Consiglio nel 1938-1939, di ministro degli Esteri nel 1938-1949 (lo fu anche nel 1961-1969). I partiti socialisti si trasformarono da partiti di classe, per la difesa degli interessi dei lavoratori dipendenti, in partiti di popolo, per perseguire una prospettiva di più generale benessere, e sostituirono all'idea della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio come primo presupposto del socialismo quella dell'espansione del pubblico controllo delle imprese e della pianificazione democratica al fine di garantire la crescita e la distribuzione equa delle risorse, delineando con ciò un'economia mista fra pubblico e privato.

Nel 1951 a Francoforte tali concetti furono posti a fondamento della Dichiarazione dei principî del socialismo democratico della ricostituita Internazionale socialista che, nel passaggio dalla fase della propaganda a quella delle realizzazioni, prese atto che in molti paesi il 'capitalismo non controllato', prevaricatore dei diritti dell'uomo a favore di quelli della proprietà, lasciava il campo a un regime economico nel quale l'intervento dello Stato o il possesso collettivo dei mezzi di produzione conseguivano progressi considerevoli nella creazione di "un nuovo ordine sociale". L'Internazionale si rivolse ai popoli dei paesi sottosviluppati proponendo il socialismo come arma di lotta per la conquista dell'indipendenza nazionale e per il conseguimento di uno standard di vita più elevato, contro le oligarchie indigene e lo sfruttamento neocoloniale. Essa individuò nel comunismo non solo un grave fattore di divisione e di arretramento del movimento operaio, ma un avversario pericoloso che a torto si richiamava al socialismo ('socialismo reale') perché rigidamente dogmatico e per giunta "incompatibile con lo spirito critico del marxismo" e indirizzato all'esasperazione dei contrasti di classe nell'interesse della dittatura di un partito unico, strumento di un "nuovo imperialismo". Il socialismo (democratico) si definì dunque come "un movimento internazionale" che fondava i propri convincimenti, fossero ispirati dal marxismo o da principî religiosi o umanitari, sul comune obiettivo di costruire "un sistema di giustizia sociale, di vita migliore, di libertà e di pace".

Dalla constatazione che lo sviluppo delle scienze e della tecnica aveva dato all'umanità la possibilità di distruggere se stessa, ma anche di migliorare continuamente la propria condizione di vita, esso ricavò la conferma che la produzione non potesse essere lasciata al libero gioco delle forze economiche ma dovesse essere 'pianificata', sia pure nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone umane. Un aggiornamento di tali principî di fronte alla mondializzazione economica fu fatto con la Dichiarazione di Stoccolma al congresso dell'Internazionale del 19-22 giugno 1989, con l'accentuazione delle motivazioni democratiche, la valorizzazione del ruolo dell'uomo e della donna, e una maggiore attenzione alla solidarietà tra il Nord e il Sud dei popoli della terra ("una nuova società democratica mondiale").In Inghilterra, nel 1945, il Labour Party, ottenuta la maggioranza in Parlamento, avviò una vasta politica di Welfare State, largamente ispirata alle idee di William Henry Beveridge e di John Maynard Keynes, al fine di garantire la protezione generale, solidale e socialmente equa contro la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e la vecchiaia, e promosse un impegnativo programma di nazionalizzazioni nelle industrie di base (ferrovie e trasporti, acciaio, carbone).

Ricacciato all'opposizione nel 1951, il Labour ebbe un'evoluzione profonda dopo la sconfitta della sinistra interna di Aneurine Bevan e poi di Michael Foot. Ne fece fede il saggio The future of socialism, scritto da Anthony Crosland nel 1956, nel quale si sosteneva che il fondamento del socialismo era sociale più che economico, cioè volto a conseguire una più equa distribuzione delle ricchezze e un più razionale sistema educativo per ridurre le differenze di classe e la povertà, piuttosto che a interferire sui diritti di proprietà dei mezzi di produzione o addirittura a esasperare gli interessi di classe. A tali principî si ispirò la nuova leadership laburista negli anni 1955-1963, sotto la guida di Hugh Gaitskell (1906-1963), e poi, tra il 1963 e il 1976, di Harold Wilson. Con una campagna a favore della politica dei redditi e della 'rivoluzione tecnica e scientifica', in cui riecheggiavano le tesi non solo di Keynes e di Schumpeter ma anche di Burnham e di Galbraith, i laburisti tornarono al governo nel 1964-1970 e poi ancora nel 1974-1976 e, dopo le dimissioni di Wilson, con James Callaghan nel 1976-1979. Fece seguito un lungo periodo di opposizione, rotto infine dalla clamorosa vittoria elettorale del 1° maggio 1997, che ha portato al potere Tony Blair e ha attribuito al Labour 419 seggi su 659.In Svezia i socialdemocratici detennero il potere ininterrottamente per mezzo secolo (dal 1932) con Hansonn, Tage Erlander e Olof Palme (1927-1986), e per molti decenni in Norvegia e in Danimarca per poi alternarsi al potere con l'opposizione conservatrice. Il socialismo scandinavo accentuò l'obiettivo della coesione nazionale come proiezione del solidarismo dalla 'culla alla tomba', e della funzionalità fondata sulla 'parità delle occasioni' più che sull'uguaglianza.

In Germania l'evoluzione della SPD ebbe la sua consacrazione al congresso di Bad Godesberg, nel 1959, con la rinuncia al marxismo. Nel presupposto che una moderna società industriale non possa essere governata da un principio uniforme, il congresso delineò i tratti di un'economia mista e di una società fortemente pluralistica. L'istanza originaria della collettivizzazione venne tradotta nell'esigenza del controllo pubblico, e per la prima volta ci si dichiarò per la protezione e la promozione della proprietà privata e si accettò esplicitamente la logica della libera competizione economica tra pubblico e privato con la parola d'ordine "libertà finché possibile, pianificazione finché necessaria". Furono poste così le condizioni perché la SPD accedesse al governo nella grande coalizione con i democristiani negli anni 1966-1969, e poi tra il 1969 e il 1974 assumendo il cancellierato con Willy Brandt (1913-1992), già sindaco di Berlino negli anni 1957-1964 e poi ministro degli Esteri. Brandt avviò il processo di distensione con l'URSS e con la Repubblica Democratica Tedesca (Ostpolitik), e quando venne sostituito dal compagno di partito Helmut Schmidt, negli anni 1974-1982, si dedicò all'Internazionale socialista dilatandone l'area di intervento e rafforzandone il prestigio.In Austria il processo di secolarizzazione del partito fu portato a compimento negli anni cinquanta. Nel 1960 il presidente del partito, Bruno Pitterman, ebbe a dichiarare che "la professione di fede nel marxismo per i socialisti di oggi è una questione privata esattamente come la professione di una religione". I socialdemocratici dettero vita a una grande coalizione con i democristiani nel 1959-1966, sotto la guida di Bruno Kreisky (1911-1990) che, dopo aver ricoperto la carica di ministro degli Esteri nel 1959-1966, venne eletto cancelliere nel 1970.Anche in Francia i socialisti alla fine della guerra assunsero le massime cariche dello Stato con Vincent Auriol (1884-1966), primo presidente della IV Repubblica dal 1947 al 1954, e con Paul Ramadier, primo ministro di un governo tripartito, con la partecipazione dei comunisti, fino al maggio 1947.

Dal 1946 al 1968, sotto la guida di Guy Mollet (1905-1975) che aveva sconfitto la corrente di destra di Blum, favorevole a una più radicale revisione programmatica in nome di un umanesimo socialista, la SFIO si collocò come la troisième force tra comunisti e gaullisti. Essa tornò in primo piano solo nel 1956-1957 con il governo Mollet. Quest'ultimo però fu travolto dalla crisi algerina e di Suez lasciando aperta la strada alla soluzione della V Repubblica. Il socialismo francese piombò, come in passato, in una fase critica di divisioni e di polemiche interne da cui uscì solo con il congresso di Epinay del giugno 1971, sotto la guida di François Mitterrand (1916-1996). Con la firma del programma comune delle sinistre nel giugno 1972, Mitterrand pose le condizioni della scalata alla presidenza della Repubblica, che infine ottenne nel 1981 e poi ancora nel 1988, nel primo caso trascinando al successo elettorale i socialisti che formarono un governo con la partecipazione dei comunisti, nel secondo in coabitazione con il governo Chirac. Nel giugno 1997 le elezioni anticipate hanno sancito una nuova vittoria socialista, che ha portato alla formazione del governo presieduto da Lionel Jospin.

In Italia la revisione programmatica dei socialisti fu più lenta e si compì con la svolta autonomista e democratica del 1956 e soprattutto con i governi di centro-sinistra degli anni sessanta. La vicenda socialista fu qui dominata dai rapporti con il più forte partito comunista del mondo occidentale, rapporti che determinarono nel 1947 la scissione tra il Partito Socialista di Pietro Nenni (1891-1980) e il Partito Socialista Democratico Italiano di Giuseppe Saragat (1898-1988), e nel 1964 quella dell'ala sinistra che dette vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP); nonché con la Democrazia Cristiana, grande partito di centro di ispirazione cattolica. Partito di cerniera del sistema politico nonostante le dimensioni modeste (10-14% dell'elettorato), e dunque con un forte potere di coalizione, il PSI assunse un ruolo di primo piano negli anni ottanta, sotto la dinamica segreteria di Bettino Craxi, che fu presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987, e con la popolare presidenza della Repubblica di Sandro Pertini (1896-1990) tra il 1978 e il 1985; anche per questo subì i contraccolpi più pesanti nella crisi della cosiddetta 'prima Repubblica' negli anni 1992-1994, fino alla frantumazione in piccoli gruppi la cui sopravvivenza è stata resa difficile dal passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario.Mentre negli anni ottanta il 'consenso socialdemocratico' si indeboliva per la prima volta nei paesi centroeuropei e scandinavi (dove l'elettorato era stabilmente oltre il 35%), nei paesi dell'Europa meridionale esso si andava affermando in maniera vistosa. Oltre alla Francia e all'Italia, i casi più significativi furono quelli dei paesi usciti da regimi autoritari: in Grecia il Panellino Sosialistiko Kinima (PASOK) di Andréas Papandreu andò al governo nel 1981; in Spagna il PSOE di Felipe Gonzales nel 1982; in Portogallo il Partido socialista di Mario Soares nel 1983. Al governo per molti anni (anche nel decennio successivo), questi partiti esercitarono un ruolo importante di stabilizzazione sociale consolidando le nuove istituzioni democratiche e portando a compimento l'inserimento dei propri paesi nella Comunità Europea. Al tempo stesso essi spostarono il baricentro dell'area di diffusione del socialismo dai centri tradizionali dell'Europa centro-occidentale, scandinava e britannica all'Europa meridionale, tanto che si è parlato di un socialismo mediterraneo, caratterizzato da un più accentuato pragmatismo e dalla tendenza al leaderismo. Oltre alla compiuta integrazione politica e sociale dei partiti socialdemocratici nell'Europa occidentale, e tralasciando l'esperienza del socialismo reale nei paesi dell'Est (riconducibile però alla storia del comunismo, ivi compreso quello non allineato e autogestionario della Iugoslavia), l'altro fatto nuovo del secondo dopoguerra fu lo sviluppo del socialismo nel Terzo Mondo in condizioni molto diverse da quelle della 'culla europea'.

Si affermò l'idea che nella seconda metà del XX secolo la rivoluzione, o il grande mutamento, appartenesse alla campagna piuttosto che alle fabbriche e alla città, e si collegasse ai processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e di formazione di nuovi Stati indipendenti, che si affermavano per lo più dopo lunghe e sanguinose guerre di liberazione contro le antiche potenze coloniali. Il 'modello socialista' sembrò rappresentare meglio le esigenze della modernizzazione e dello sviluppo rispetto a quello del capitalismo industriale e finanziario, e parve in grado di soddisfare la ricerca da parte delle élites dominanti, spesso guidate da un leader carismatico, di un'identità sociale e culturale che superasse in senso comunitario e al tempo stesso nazionalistico le divisioni tribali, etniche e religiose. Esso di solito si identificò nella prospettiva della nazionalizzazione delle industrie di base e nella creazione di partiti-regime.Così, in Egitto, Giamāl 'Abd an-Nāṣir (Nasser, 1918-1970), che salì al potere nel 1952 con un colpo di Stato militare e assunse tutti i poteri nel 1954 con il titolo di rais e poi come presidente della Repubblica, dopo la crisi di Suez del 1956 intensificò la lotta contro il capitale straniero avviando una politica di nazionalizzazione di larghi settori dell'economia e promuovendo la riforma agraria. Egli fece dell'Egitto una delle nazioni guida del non allineamento, indicando al Terzo Mondo il socialismo nazionale come la terza via allo sviluppo rispetto al socialismo reale dei paesi dell'Est e al capitalismo occidentale. In Siria, nel 1953, fu fondato il partito Ba'th come "movimento nazionale, populista e rivoluzionario" impegnato nel conseguimento dell'unità araba, della libertà e del socialismo. Il nazionalismo non era qui circoscritto a uno Stato arabo in particolare, ma esteso al 'popolo arabo' nel suo complesso, di cui si rivendicava la crescita spirituale e materiale, in una visione laica, non religiosa né tribale. Il Ba'th andò al potere in Siria nel 1970, con un colpo di Stato diretto da Hafiz Assad. Si è parlato poi di 'socialismo algerino' con Ahmed Ben Bella e con Houari Boumedienne, e negli anni sessanta di 'socialismo tunisino' con al-Habib Burghiba.

In Africa, tra le diverse ideologie della liberazione e del potere, ebbe un ruolo significativo la concezione del 'socialismo africano' e della 'negritudine' dello scrittore francofilo Léopold Sédar Senghor, capo di Stato dell'ex Senegal francese dal 1960 al 1980. Ispirandosi al pensiero comunitario e umanistico premarxista francese (ma anche di Léon Blum), Senghor parlò di una 'terza' rivoluzione, dopo quella capitalista e comunista, destinata a esaltare l'apporto dei popoli di colore alla nuova 'civiltà planetaria'. Partendo da una valutazione negativa dell'assimilazione coloniale egli riscoprì le tradizioni autoctone e l'anima collettiva negra, non in contrapposizione ma a completamento dei valori universali della civiltà europea. Fautore di una concezione dirigistica e di 'una dittatura democratica' fu invece Sekú Turé, presidente della Guinea dopo l'indipendenza conseguita nel 1958. Convinto assertore di un 'socialismo panafricano' (e non nazionale) fu infine il capo di Stato prima del Tanganica (1962) e poi della Tanzania (1964) Julius Nyerere. Cattolico, dopo avere compiuto gli studi in Inghilterra questi delineò un progetto di socialismo fondato sull'espansione della tradizionale famiglia allargata, allo scopo di pervenire a una comunità in cui la proprietà privata venisse limitata e fosse concessa la libertà di espressione, ma non l'organizzazione del dissenso. Un'ulteriore applicazione di una democrazia dirigista nazionalista, legata al non allineamento internazionale, è riconducibile a Sukarno (1901-1970), primo presidente dell'Indonesia nel 1945. Un esempio raro (a parte l'eccezione giapponese) di una dinamica democratico-parlamentare per l'accesso al governo fu dato in Cile nel 1970 dall'elezione alla presidenza della Repubblica di Salvador Allende (1908-1973). Alla testa della coalizione di Unidad Popular, composta da socialisti, comunisti, radicali e cattolici di sinistra, egli governò per tre anni prima di essere rovesciato da un colpo di Stato militare.

Verso il XXI secolo

Al suo XX congresso del 9 settembre 1996, a New York, l'Internazionale socialista ha vantato l'adesione di oltre 140 partiti membri rispetto ai 110 nel 1992 (20 nel 1951 e 40 nel 1976). I partiti che si riconoscevano nell'Internazionale socialista erano al governo in 13 paesi su 15 della Comunità Europea. Nell'Europa orientale erano diventati complessivamente la prima forza politica, dopo la conversione degli ex partiti comunisti e l'efficace opposizione ai nuovi nazionalismi etnici. Fuori dell'Europa erano al governo in Giappone, Pakistan, Nepal, India, Cile, Giamaica, Costa Rica, Columbia e in moltissimi paesi dell'Africa. Anche se l'Internazionale si configurava come un luogo di incontro di partiti sulla base di criteri di adesione abbastanza larghi (conformità agli ideali di democrazia, sviluppo, pace; consistenza reale; gestione interna democratica), la sua crescita attesta pur sempre che il socialismo era, più che mai dopo il crollo del comunismo, una grande forza evocatrice in tutto il mondo. L'espansione geografica del socialismo sembrava finalmente concretizzarne l'aspirazione universalistica, presente fin dalle origini, e l'ambizione di farsi interprete dei processi di democratizzazione dei paesi già governati da regimi dittatoriali o totalitari. L'esito di tale sfida, tuttora in corso, coinciderà con le possibilità di affermazione nel Terzo Mondo dei valori di tolleranza, di rispetto della persona, di uguaglianza dei diritti politici e sociali propri della civiltà occidentale, ma anche di efficaci politiche di sviluppo, in grado tra l'altro di disinnescare la 'bomba' demografica.

Più difficile è prevedere quante delle esperienze del socialismo nazionale nelle aree di sottosviluppo preludano a un'effettiva nuova via che valorizzi le risorse indigene e con ciò arricchisca anche il modello socialdemocratico originario nella globalizzazione delle relazioni economiche e sociali.Eppure, nei paesi europei e anglosassoni, cioè nell'area storicamente propulsiva del socialismo, si sono fatte oggi più frequenti le voci sulla vetustà o addirittura sul declino della socialdemocrazia. La mondializzazione economica e la rivoluzione tecnologico-informatica, l'esplosione demografica e la pressione immigratoria, le politiche di risanamento dei bilanci pubblici mettono in discussione il 'compromesso' socialdemocratico su cui sono stati fondati il Welfare State e il keynesismo, e perfino la tradizionale struttura a tre stadi imperniata sul rapporto partito-sindacato-associazionismo collaterale. Più correttamente si dovrebbe parlare di conclusione di un ciclo, fondato sul binomio classe operaia-nazione, iniziato oltre un secolo fa, nell'epoca dell'industrializzazione diffusa. Nel codice genetico del socialismo (europeo) il futuro apparteneva al lavoro dipendente, del quale il proletariato di fabbrica sarebbe stato il nucleo aggregante e significativo, tanto più perché destinato a diventare più omogeneo, più diffuso, più acculturato e più consapevole.

Era un socialismo che faceva riferimento al lavoro manuale, e quando si rivolgeva ad altri ceti (impiegati, quadri, intellettuali, contadini) li coinvolgeva in quanto, nei comportamenti e nelle attitudini, si rendevano 'popolo' o 'proletariato'. Nelle società postindustriali, il futuro appartiene al terziario avanzato, sempre più informatizzato, piuttosto che al settore secondario. E rispetto al lavoro, una volta termine di partenza e di arrivo della vita, uno spazio crescente viene assunto dal tempo di non lavoro o 'libero'. D'altra parte l'affermazione preponderante dell''io' e del privato sul pubblico parrebbe imporsi sulle pratiche di socializzazione e classiste, e perfino comunitarie. La trasformazione del partito socialdemocratico da partito di classe in partito catch-all ('pigliatutto') fa temere che ne vengano minate irrimediabilmente le 'radici sociali' e vanificato il potere mobilitante dell'ideologia.

Sono ridimensionati gli itinerari tipici di acculturazione della massa dei lavoratori (quartieri, luoghi di ritrovo, linguaggio) che rendevano omogenea la classe; e lo stesso processo produttivo tende a 'individualizzarsi', con la flessibilità, il decentramento e l'informatizzazione. Il frazionamento degli interessi facilita la promozione di movimenti monotematici e di gruppi di pressione, mentre diviene più incisiva la presenza di organismi politico-economici e monetari sovranazionali: il partito nazionale di grande apparato e di massa, in grado di intermediare la domanda, per giunta inarticolata, registra una costante, inarrestabile flessione. La percezione della chiusura di un ciclo pare comunemente avvertita, cosicché per il socialismo sul finire del XX secolo si parla sempre più di un passaggio dalle nazionalizzazioni al mercato; dalla fiducia nel progresso lineare alla prospettiva di uno sviluppo compatibile o sostenibile; dallo statalismo alla valorizzazione delle associazioni non profit e alla responsabilità dei cittadini; dalla lotta contro l'ingiustizia sociale a quella contro l'esclusione e contro presunte nuove ineguaglianze, quali quelle prodotte nelle città dal degrado ambientale, dalla diffusione della droga, dalla criminalità organizzata e dall'immigrazione. L'obiettivo è quello di portare la cittadinanza al livello della quotidianità. Ai socialisti è affidato il compito, davvero difficile e dall'esito incerto, di adattare ai problemi attuali il modello ricevuto dai padri in un secolo di lotte per l'uguaglianza dei diritti e per la protezione sociale dell'individuo.

(V. anche Comunismo; Marxismo; Operai; Proletariato; Riformismo; Rivoluzione; Utopia).

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