9 maggio 1978: lo schiaffo a Paolo VI. Storia e fallimento della mediazione vaticana per la liberazione di Aldo Moro

Cristiani d'Italia (2011)

9 maggio 1978: lo schiaffo a Paolo VI. Storia e fallimento della mediazione vaticana per la liberazione di Aldo Moro

Miguel Gotor

Le tre cerimonie, i due corpi del re

Il modo migliore per raccontare questa storia è cominciare dalla sua fine, ossia dalla descrizione dei solenni funerali di Aldo Moro, officiati il 13 maggio 1978 dal cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, nella basilica di S. Giovanni in Laterano alla presenza di Paolo VI. Il papa, stanco e sofferente, vuole «in questo modo onorare la memoria dello statista scomparso e dare un segno del suo particolare affetto alla nazione italiana»1 e, rompendo un protocollo plurisecolare, eccezionalmente ha accettato di presenziare a una messa in suffragio fuori dalle mura vaticane come segno di rispetto per un uomo «a lui unito da vincoli di profonda amicizia», come scrive «L’Osservatore romano». Alla fine del rito il pontefice prende la parola per pronunciare una dolente omelia con voce querula e affannosa davanti a un catafalco vuoto. Ad ascoltarlo, la plumbea sfilata di autorità istituzionali e di uomini politici asserragliati dietro i banchi della basilica come tanti manichini insaccati nei loro vestiti neri: «uno spettacolo che aveva qualcosa di medievale, come se si potesse assistere in Tv allo schiaffo di Anagni o alle umiliazioni di Clemente VII», avrebbe commentato il critico Cesare Garboli, rievocando, nel 1980, lo spettacolo teatrale di «un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta»2.

Lo schiaffo di una doppia umiliazione fondata su una duplice assenza: quella del corpo di Moro e dei suoi famigliari più stretti, la moglie Eleonora e i quattro figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni, i quali hanno scelto di ottemperare alle ultime volontà che ‘papà’ aveva espresso in una lettera a Benigno Zaccagnini il 24 aprile 1978: «per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore»3. Tra i parenti del defunto sono presenti solo i fratelli alla ricerca di un’impossibile mediazione con le autorità ecclesiastiche e con quelle di governo e di partito, con un mondo d’impegno e di relazioni che per tutta la vita è stato quello del loro congiunto. Gli ultimi contatti con la Santa Sede, un intervento del cardinale Poletti in persona presso la moglie Eleonora per propiziarne l’intervento alla cerimonia, sono falliti4. La famiglia, pur nella mortificazione di dover rispondere negativamente a una richiesta del papa, è irremovibile nelle sue posizioni, ferma al lapidario comunicato rilasciato alle 17.30 del 9 maggio 1978: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia».

Nel suo intervento Paolo VI si rivolge direttamente a Dio con una preghiera che ha voluto scrivere di suo pugno, uno dei testi più alti dell’omiletica novecentesca, un’invocazione, un rimprovero, un grido di dolore creaturale che il vicario di Cristo rivolgeva direttamente al Padre per interrogarne il silenzio in cui lo stesso pontefice sembrava faticare a scorgere un disegno provvidenziale:

«Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!»5.

Il corpo di Moro è altrove e quel giorno si celebra un rito in cui molti hanno metaforicamente intravisto la fine di un modo di essere della Repubblica italiana e dei suoi rapporti con la Chiesa cattolica. Quell’assenza evoca il parricidio consumato e forse, come è stato scritto con l’enfasi tipica dei reduci, «il suggello della fine di una rivoluzione»6. Certo, si tratta di un fatto simbolico molto forte: tanti potenti riuniti intorno a uno spazio vuoto. Ancora Garboli è in grado di trovare le giuste parole per definire quello strappo generazionale e al tempo stesso comunitario, quando rivela che dalla strage di via Fani in poi ha incominciato a farsi strada dentro di lui «una strana ossessione. Due società di segno opposto, entrambe clandestine, unite da un mostruoso rapporto speculare, immagino che si combattano nel nostro paese senza incontrarsi mai. Le vedo, qualche volta quando s’incontrano, spargere inchiostro come due seppie che si dissolvono in una grande e unica macchia scura»7.

Una grande e unica macchia scura, che unisce mentre divide. Tra il papa e la famiglia di Moro, per esempio, resterà un solo segno di candore a fare da tramite, il testimone di un semplice rosario di legno, dono personale di Paolo VI, che, a quanto pare, la moglie ha voluto intrecciare tra le mani del marito prima della tumulazione nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina8. Moro è stato seppellito in questo borgo alle porte di Roma nel pomeriggio del 10 maggio, dopo una breve e commovente funzione celebrata dal parroco locale nella chiesa di S. Tommaso9. Sotto una pioggia fitta e una nebbia umida che sale densa dal Tevere sottostante, il corteo di familiari, amici e collaboratori del defunto si è snodato tra le vie di Torrita seguito dalla comunità del paese che aveva imparato a conoscere Moro nelle occasioni in cui egli si recava lì per ritemprarsi dalle fatiche di un’azione politica cui aveva concesso tutto se stesso. Il cancello del cimitero è già chiuso quando arriva il presidente del senato Amintore Fanfani, che non ha voluto violare il carattere privato della cerimonia. Oggi sappiamo, grazie al racconto di un testimone oculare, che Fanfani aveva chiesto al segretario della Dc Benigno Zaccagnini di poter partecipare ai funerali ottenendo un rifiuto secco e deciso: «No! Sei libero, ma se vai ti denuncio ai probiviri e ti faccio espellere dal partito!», un episodio inedito in grado di rivelare tutta la potenza della frattura umana e politica consumatasi in quei drammatici giorni dentro la Democrazia cristiana10.

Ma le liturgie, con le loro scenografie pregne di significati, non sono finite. Il 16 maggio 1978 la famiglia di Moro promuove la celebrazione a Roma di una messa presso la basilica del Sacro Cuore di Cristo Re. Questa volta è la moglie Eleonora a salire sul pulpito da dove chiede di pregare con voce emozionata ma ferma:

«Per i mandanti, gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto; per quelli che per gelosia, per viltà, per paura, per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente; per me e i miei figli perché il senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono, preghiamo».

Le parole della vedova sono scelte con cura e pungono come aghi. La messa è ufficiata dal teologo urbinate don Italo Mancini, dal padre servita Davide Maria Turoldo e dal presbitero don Gianni Baget Bozzo, tre sacerdoti, la cui presenza in quel luogo non è casuale, perché in quei 55 giorni più di tanti altri si sono spesi, con le parole e con le opere, per ottenere la liberazione dell’ostaggio. E la famiglia lo sa. La cerimonia si svolge in un’atmosfera particolare ed è stata espressamente voluta dai figli di Moro e dai loro amici del movimento cattolico «Febbraio ’74», che hanno contribuito a fondare. Si prega, si canta, si suonano con la chitarra e con i tamburi canzoni vecchie e nuove in un clima che reca con sé l’inconfondibile impronta delle note, dei ritmi e dei colori degli anni Settanta, dei movimenti di base, dei cattolici del dissenso, del rinnovamento cristiano, dell’impegno sociale, dell’ansia spasmodica di un mondo migliore. La cerimonia di S. Giovanni in Laterano, con i suoi paramenti e conflitti di precedenza giocati sul filo della ragion di Stato e della diplomazia, è lontanissima. I figli dell’uomo politico hanno voluto rendere omaggio al padre, consapevoli che un altro Moro aveva sempre convissuto insieme a quello paludato, stretto nelle grisaglie e negli obblighi del potere. Un uomo attento a quanto si muoveva nella società, fra i giovani soprattutto, che amava incontrare, riunire, ascoltare, magari a tarda sera e senza preavviso, al termine di una giornata passata a frequentare i piani alti della politica. È come se nel corso di quella cerimonia la decade dei Settanta chiedesse di sopravvivere a se stessa con tutta la sua feroce e dolce ambiguità. E grazie a quel rito di pacificazione e di resurrezione vi riuscisse, nonostante i lutti e le violenze prodotte, perché in quel turbine di speranze e di tempeste erano cresciuti anche i figli di Moro e i loro amici, i quali desideravano testimoniare la propria diversità culturale e politica11. Una differenza che non era stata soltanto in grado di resistere all’incubo della lotta armata, ma anche di prevalere su di essa, senza smarrire le ragioni di rinnovamento e di riforma civile che avevano accompagnato il più lungo decennio del secolo breve.

I tre scenari cerimoniali sommariamente descritti, pur nella loro diversità, rimandano tutti alla dimensione di tragico smarrimento che accompagnò l’intera vicenda del sequestro e della morte di Moro. Per quanto riguarda Paolo VI, il dramma fu reso ancora più acuto per l’impasto di relazioni personali che univano il papa all’uomo politico defunto e a sua moglie, sin dalla fine degli anni Trenta, ai tempi in cui Moro era presidente dell’associazione dei giovani universitari cattolici, Eleonora lavorava nell’organizzazione e Giovanni Battista Montini rivestiva il ruolo di assistente spirituale della Fuci. La tragedia, dunque è pubblica, ufficiale, politica, ma è anche privata, personale e umana in un intreccio di piani destinati ad accelerare il deperimento psico-fisico del pontefice che morirà il 6 agosto 1978 a Castel Gandolfo, segnato anche da quella sciagura.

Dire papa significa evocare il capo della Chiesa cattolica; dire Chiesa cattolica, però, vuol dire un mondo largo e complesso, stratificato e diversificato al suo interno, pieno di ispirazioni e aspirazioni differenti che è difficile ridurre a unità senza forzare l’effettivo corso degli avvenimenti o sovrapporre le lenti dell’ideologia a quelle del movimento storico. Durante il sequestro, pertanto, si ebbe, accanto all’impegno di Paolo VI e della famiglia pontificia, anche una mobilitazione del fronte ecclesiastico che organizzò diverse iniziative, il più delle volte scoordinate tra loro, ma percorse da un campo di tensioni interiori che riflettevano, inevitabilmente, la spaccatura fra il cosiddetto partito della fermezza e quello della trattativa in cui si divise in quei giorni il mondo politico e l’Italia civile.

Sulle posizioni pubbliche assunte dalla Chiesa cattolica durante i 55 giorni del rapimento di Moro si è già scritto a sufficienza in sede memorialistica e storiografica: dagli interventi del papa all’appello dei vescovi, dalla mobilitazione della Caritas internationalis a quella diAmnesty international, dai tentativi di alcune personalità del mondo cattolico come Giuseppe Lazzati, Corrado Corghi, Giuseppe Dossetti, padre Turoldo, Baget Bozzo, di porsi come intermediari per favorire un esito favorevole della trattativa al progetto generoso avviato dai padri serviti e da quelli rosminiani, insieme con i vescovi Clemente Riva, Luigi Bettazzi e Alberto Ablondi, di offrirsi in ostaggio al posto del prigioniero12. In questa sede, piuttosto, vale la pena di focalizzare l’attenzione sulla figura di Paolo VI per provare a ricostruire ciò che egli tentò di fare non pubblicamente, ma in segreto, per salvare Moro. Una dimensione ineludibile, ma di difficile accertamento non solo per una deficienza documentaria che forse il trascorrere dei decenni riuscirà a sanare solo in parte, ma anche per le inevitabili condizioni di riservatezza e dunque di oralità in cui l’azione del papa si esplicò concretamente. Ma che merita lo stesso di essere approfondita poiché, ovviamente, condizionò le prese di posizione pubbliche del pontefice e, di conseguenza, il brulicare confuso e frammentario, almeno all’apparenza, delle ulteriori iniziative ecclesiastiche.

Il «papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo» scrisse Moro in una lettera mutila di una pagina, e quindi non firmata, recapitata dai sequestratori il 5 maggio 1978 tramite il giovane sacerdote don Antonello Mennini13. L’errore più grave sarebbe quello di voler trasformare in un giudizio storiografico l’impressione del prigioniero, necessariamente influenzata dalle condizioni di cattività e dalla manipolazione delle notizie che egli riceveva dall’esterno. Tuttavia, la difficoltà più gravosa è un’altra, ossia resistere alla tentazione di farlo, imboccando una via breve e all’apparenza comoda, quella che induce ad abbracciare la vittima contro il potere del «palazzo». Una strada che condurrebbe in un vicolo cieco, al di fuori dell’intelligenza di questi avvenimenti, che raccontano piuttosto di un campo di serrate contrattazioni e di acute tensioni tra Paolo VI e il presidente del consiglio Giulio Andreotti, tra il Vaticano e il governo italiano. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima che i maestri di cerimonie di entrambi i fronti avrebbero occultato con la dovuta prudenza la trama di quei negoziati e conflitti14. Lo fecero, come sempre, grazie a una gestione simbolica dello spazio rituale di carattere risarcitorio e pattuito15. Nella cornice liturgica della basilica di S. Giovanni, infatti, tutta la scena era lasciata al pontefice affinché potesse esercitare la sua funzione spirituale di delega dell’autorità civile, mentre in verità celebrava la più sonora delle sue sconfitte16. Al di là della suadente postura neoguelfa, come sempre corroborata da robusti fermenti antipolitici utili a farsi largo consensualmente nel mondo culturale italiano, che vede nelle immagini di quei funerali la vittoria simbolica del Vaticano su una classe politica italiana sbandata e corrotta, la questione effettiva sul piano storico è un’altra. A ben guardare, nessuna retorica della supplenza è lecita: in quei 55 giorni si svolse uno scontro sordo, in cui le ragioni personali e umanitarie di Paolo VI vennero progressivamente deluse: questo dice il reale movimento storico con lo scintillio dei suoi rapporti di forza, tanto visibili come segreti. Il governo italiano finì per prevalere, garantendo equilibri interni e internazionali giudicati politicamente imprescindibili, e mostrò, mai come in quella circostanza in cui fu in vigore uno stato di eccezione non dichiarato, una sovranità forte, efficiente e terribile sul piano politico e militare. Siamo certi che Paolo VI, con quella voce tremula e angosciata in limine vitae, ne fosse perfettamente consapevole. Come anche lo erano quei manichini dallo sguardo livido e asciutto compresi in preghiera, in realtà uomini e dirigenti politici in carne e ossa, che rivelavano le forme e i gesti dei principi rinascimentali.

La trattativa segreta

A partire dal confronto delle testimonianze scritte e orali di due autorevoli membri della famiglia pontificia, il segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, e il suo collaboratore, padre Carlo Cremona, è ormai possibile ricostruire con ragionevole attendibilità la complessa trattativa riservata dispiegata dalla Santa Sede per giungere alla liberazione di Moro e, su un piano più indiziario, gli effettivi contenuti della stessa. Pochi giorni dopo il rapimento del presidente della Dc, Paolo VI invitò Macchi a prendere contatto con don Cesare Curioni. Costui, conterraneo del papa e suo amico da molti anni, svolgeva dal 1947 il ruolo di cappellano del carcere di S. Vittore a Milano ed era stato nominato nel 1976 alla carica di ispettore generale dei cappellani in Italia. Nelle intenzioni di Paolo VI, Curioni avrebbe dovuto individuare un canale utile, interno o esterno al mondo dei penitenziari, in grado di favorire il pagamento di un riscatto in cambio della libertà di Moro. Secondo l’assistente di Curioni, monsignor Fabio Fabbri, testimone oculare del fatto, il papa, nella notte tra il 21 e il 22 aprile 1978, arrivò a chiamare il cappellano nella sua casa di campagna in Lombardia per consultarsi sul contenuto del messaggio che da lì a qualche ora avrebbe rivolto ai brigatisti17. Macchi e Cremona rivelarono il nome di Curioni soltanto nel 1997, ossia subito dopo la morte del sacerdote, per non infrangere un patto di riservatezza da lui stesso chiesto dal momento che, secondo l’interpretazione di Andreotti, egli non desiderava essere convocato dalla magistratura italiana18.

Grazie alla testimonianza diretta del teologo Gianni Gennari si sa che dell’iniziativa di Paolo VI erano stati messi al corrente sia il segretario della Dc Zaccagnini sia il segretario particolare di Enrico Berlinguer, Tonino Tatò19. È ormai accertato che Curioni provò a percorrere due strade e il papa ne fu sempre informato tramite il suo segretario personale Macchi. Anzitutto, egli contattò l’avvocato difensore dei brigatisti rossi, Edoardo Di Giovanni, il quale rivelò, già alla fine degli anni Settanta, che un prete di nome «Angelo Curione» ‒ del tutto verosimilmente alias del nostro Cesare Curioni ‒ lo aveva interpellato per verificare se la Chiesa potesse fare qualcosa per salvare Moro avvicinando qualcuno dei suoi assistiti. In secondo luogo, Curioni avrebbe contattato un sedicente brigatista, di cui non conobbe mai il nome, che, in base alla recente rivelazione del suo assistente Fabbri, incontrò più volte di persona a Napoli. Una conferma indiretta di questi abboccamenti è stata fornita anche da Macchi, il quale, nel 2003, asserì che i rapporti allacciati da Curioni, «sia all’interno del carcere sia all’esterno», avevano avuto inizio subito dopo il sequestro Moro ed erano entrati nel vivo dopo il messaggio di Paolo VI ai brigatisti del 22 aprile. Secondo la testimonianza di Macchi, i sequestratori si erano impegnati a consegnare Moro a Curioni che sarebbe stato condotto dai sequestratori nel «carcere del popolo», ma la versione ufficiale diffusa a operazione compiuta avrebbe dovuto far credere che il rilascio fosse avvenuto in realtà entro lo spazio extraterritoriale dello Stato della Città del Vaticano. Tale versione è stata confermata anche da Fabbri, ossia dal principale collaboratore di Curioni.

A proposito dell’ottimismo che accompagnò fino all’ultimo queste trattative esistono due ulteriori testimonianze, l’una riferita al presidente del consiglio Andreotti e l’altra direttamente a Paolo VI: nel primo caso è stato il ministro dell’Interno Francesco Cossiga a dichiarare che, la sera dell’8 maggio, Andreotti, dopo avere saputo che il Vaticano aveva stabilito un contatto, «se ne uscì con uno: “Speriamo bene”», ma non ritenne opportuno condividere con lui le ragioni di tale auspicio20. Nel secondo caso, vi è la ben più loquace e reiterata testimonianza di padre Cremona, per il quale, negli ultimi giorni del sequestro, crebbe l’ottimismo fra i più stretti collaboratori del papa. Nel 1991 egli raccontò che, nel corso della giornata dell’8 maggio, la cerchia dei più stretti assistenti di Paolo VI fu messa in allarme perché avrebbe potuto ricevere una telefonata in cui si annunciava l’accettazione della proposta da parte delle Br e l’avvio delle procedure per la liberazione dell’ostaggio. Anche il pontefice attese trepidante fino all’ultimo la felice notizia e «i patti erano che qualcuno avrebbe dovuto visitare immediatamente Moro nella sua prigione e portargli il conforto del papa»21. Nel 2003, nel corso di un’intervista radiotelevisiva, Cremona ha ribadito l’episodio e ha aggiunto che coloro i quali dovevano garantire la liberazione di Moro recandosi nella «prigione del popolo» erano Curioni o Mennini. Inoltre, tra i destinatari della telefonata era stato fatto anche il suo nome, sicché Cremona, su richiesta di Macchi, trascorse la mattina del 9 maggio accanto al telefono in attesa della lieta novella22. Invece, sempre secondo la testimonianza resa da Cremona nel 1991, la mattina del 9 maggio qualcuno chiamò in Vaticano da una località imprecisata per giustificare «il fallimento della sua mediazione». Tale versione è stata ripetuta dal sacerdote alla vigilia della sua morte, nel corso di un’intervista del 2003 in cui confermava che a ricevere la telefonata era stato proprio lui. Il «misterioso interlocutore» lo chiamò da Firenze e gli disse che «era saltato tutto, che doveva lasciare Roma perché i suoi compagni avevano minacciato di ucciderlo»23. Secondo Macchi, «probabilmente», la proposta di rilascio dietro pagamento fu rigettata dall’«ala più dura delle Br» e anche per Fabbri è possibile che ci sia stato un contrordine impartito da una fazione brigatista a un’altra24.

La convergenza di tali testimonianze, per quanto distanti dai fatti sul piano temporale, e l’autorevolezza degli interlocutori, inducono a ritenere che effettivamente Curioni riuscì a stabilire un contatto con un sedicente brigatista da lui incontrato più volte a Napoli, anche se non siamo in grado di sapere se costui fosse la stessa persona che il 9 maggio telefonò per annunciare il fallimento del piano, fino all’ultimo ritenuto possibile, anzi accompagnato dal crescente ottimismo della famiglia pontificia.

L’idea di Paolo VI di attivare il responsabile dei cappellani delle carceri italiane era opportuna perché partiva dal condivisibile presupposto che, nel mondo delle prigioni, potessero circolare notizie utili a conoscere informazioni circa il rapimento di Moro. Del resto, in questo campo l’azione ecclesiastica era di provata efficacia perché non si basava soltanto sull’iniziativa di un singolo, ma poteva contare su una fitta rete di sacerdoti distribuiti capillarmente sul territorio nazionale che quotidianamente esercitavano il loro servizio pastorale nell’assistenza ai detenuti. Questi cappellani non solo avevano il vantaggio di poter rispondere a un unico vertice istituzionale come Curioni, ma sovente godevano di una pregressa fiducia dei carcerati, di cui alleviavano la quotidiana sofferenza, e avevano la preziosa possibilità di trincerarsi dietro il vincolo del segreto confessionale, qualora un giorno le autorità giudiziarie italiane avessero chiesto loro conto delle modalità con cui una determinata informazione era stata raggiunta.

A distanza di decenni dai fatti, è possibile provare a individuare, almeno a livello indiziario, alcuni contenuti di questa trattativa occulta che le Brigate rosse, nei loro comunicati ufficiali, si affrettarono più volte a smentire, come è inevitabile e comprensibile che facessero. In primo luogo, denaro, tanto denaro. Per quanto riguarda la vicenda del riscatto si è sempre ripetuto apoditticamente che le Brigate rosse non si mostrarono mai interessate a una simile proposta. Una versione ribadita in coro dai militanti della stessa organizzazione a partire da quando furono prima incarcerati e poi politicamente sconfitti. Basti qui ricordare, però, che lo stesso nucleo dirigente brigatista, soltanto tre anni dopo, quando era ancora libero e forte, non ebbe alcuna difficoltà ad accettare un’ingente somma in cambio della liberazione del politico democristiano napoletano Ciro Cirillo. Non è necessario segnalare gli utilizzi che un’organizzazione dedita alla lotta armata può fare dei soldi di un riscatto: acquistare armi, appartamenti, documenti falsi, corrompere uomini per ottenere informazioni e finanziare la vita dei suoi militanti clandestini. Naturalmente, se si fa una trattativa riservata non è necessario pubblicizzare di avere ricevuto del denaro in cambio della liberazione del rapito. Anzi, chi detiene l’ostaggio ha la forza di imporre condizioni segrete proprio su questo punto, che a livello propagandistico rischierebbe di ledere la purezza rivoluzionaria dei sequestratori.

D’altronde, al di là delle dichiarazioni ufficiali del governo, sempre ispirate in pubblico a un principio di fermezza che implicava il rifiuto di ogni negoziato per non cedere al ricatto brigatista tanto più odioso e insostenibile dopo l’uccisione in via Fani di cinque esponenti delle forze dell’ordine, l’intenzione di Paolo VI di pagare una somma in denaro fu, almeno all’apparenza, tollerata dall’esecutivo italiano. In effetti, il 3 aprile 1978, nel corso di una riunione a palazzo Chigi dei cinque segretari dei partiti che sostenevano la maggioranza, comunisti compresi, Andreotti ottenne il loro consenso sull’opzione del riscatto. È verosimile che il presidente del consiglio saggiò sul punto i suoi interlocutori soltanto dopo essersi assicurato della serietà e della praticabilità dell’iniziativa vaticana, un ulteriore indizio in grado di rivelare che la Santa Sede iniziò a percorrere questa strada sin dai primi giorni dopo il rapimento di Moro. Come abbiamo visto, l’iniziativa di Paolo VI si protrasse fino alla vigilia della morte dell’ostaggio nella convinzione di avere imboccato la strada giusta, l’unica concretamente percorribile. Nei suoi diari, Andreotti la seguì passo passo e, per esempio, il 25 aprile sostenne che Macchi aveva discusso con lui l’idea di un riscatto ritenendola attuabile insieme con l’eventuale scarcerazione di un detenuto straniero (si parlò di un cileno) ed escludendo invece le ipotesi di una liberazione dei terroristi o di un salvacondotto per i sequestratori di Moro25. Il colloquio con Macchi aveva toccato in tutta evidenza aspetti operativi dettagliati che denotano, a quella data, il grado raggiunto dall’avanzamento del piano, in quanto il presidente del Consiglio annotava «Danaro: sì (tenendo conto del presunto tentativo con Schlesinger-Banca Popolare di Milano)». Andreotti si riferiva in modo cautelativo al tentativo esperito da Piero Schlesinger, allora presidente dell’istituto di credito in questione, che, secondo un’informativa del Sisde, aveva avuto per due volte un contatto con un presunto brigatista, il quale aveva prospettato un negoziato su base economica di cinque milioni di dollari, rivelatosi poi un tentativo di estorsione26. Pochi giorni dopo, Andreotti annotava: «Monsignore assicura che continueranno nella ricerca» nonostante si fosse compreso che le Br «non vogliono intermediazioni né denaro», ma il 5 maggio avvertiva l’occasione di puntualizzare a futura memoria: «se fosse questione di denaro, sia noi che il Vaticano saremmo all’altezza», adombrando quindi la possibilità di un intervento diretto del governo. Nella circostanza il presidente del consiglio forniva anche la notizia che un deputato israeliano aveva pubblicamente offerto dei soldi per la liberazione di Moro e che Macchi gli aveva chiesto «approfondimenti» in merito alla proposta27. Si trattava del ricco imprenditore e parlamentare della Knesset, Shmuel Flatto-Sharon che, a quanto sembra, mise a disposizione in quelle ore un fondo di venti milioni di dollari, la metà da consegnare subito e il saldo entro dieci giorni28.

Per quanto concerne il pagamento di un riscatto, Andreotti, consultata la maggioranza, diede, all’inizio di aprile, l’assenso del governo. Almeno formalmente. E si sottolinea questo passaggio perché certo il presidente del Consiglio non aveva lo spazio politico necessario, dopo avere definito e pubblicamente sostenuto la linea della fermezza, di opporsi anche riservatamente al pagamento di un riscatto, altrimenti sarebbe stato sospettato dai suoi colleghi di governo e di partito di volere con tale comportamento la morte di Moro. Bisogna, però, considerare che il pagamento di un’ingente somma di denaro a una forza che pratica l’omicidio politico e la lotta armata pone serissimi problemi di carattere pratico e istituzionale: per esempio, è necessario avere la certezza che i soldi vadano nelle giuste mani, quelle che effettivamente detengono l’ostaggio, e soprattutto si deve mettere in conto una crescita esponenziale della potenza d’urto militare degli avversari, quindi altri morti, soprattutto tra le forze dell’ordine, e il ripetersi di altri rapimenti a scopo estorsivo. Proprio per questo motivo, di solito, i pagamenti in denaro, in un teatro di conflitto politico, sono destinati ad avvenire senza essere mai pubblicizzati. A questo proposito è utile avere presente che le Brigate rosse vissero con i proventi del riscatto dell’armatore Piero Costa, circa un miliardo e mezzo, dal 1976 al 1982 e che la cifra raccolta dal Vaticano era di molto superiore. Inoltre, in vicende emergenziali come queste il potere esecutivo è sempre condizionato da quello militare e sensibile alle sue pressioni. Sotto questo profilo, pur mancando prove documentarie, è probabile che i vertici dei servizi segreti, entrambi occupati da due generali dei carabinieri, e i principali esponenti delle forze armate e dei nuclei dell’antiterrorismo fossero decisamente contrari al pagamento di un riscatto. Piuttosto è credibile che costoro, nell’ambito di una mentalità militare convinta di trovarsi in guerra contro le Brigate rosse, ritenessero il sacrificio di un uomo politico un prezzo da pagare drammatico, ma preferibile rispetto all’esborso di un riscatto plurimiliardario che avrebbe trasformato i loro uomini nei principali bersagli della lotta armata.

In secondo luogo, è assai probabile che il negoziato segreto abbia riguardato il mancato arresto di un brigatista, di cui sarebbe stata favorita la fuga all’estero. Un’ombra di questa trattativa è contenuta in una frase di una lettera che Moro scrisse il 28 aprile alla Democrazia cristiana. Oggi sappiamo che di questa missiva furono redatte tre versioni, ma il passo in questione compare in ognuna di esse e quindi superò il vaglio dell’occhiuta censura brigatista, che controllò il testo rigo per rigo29. L’affermazione è da sempre ritenuta inspiegabile e colpì, da subito, l’attenzione di Bettino Craxi30, proprio in quelle ore impegnato a trovare una soluzione positiva al dramma di Moro31:

«In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui»32.

La sorpresa dei commentatori, fra cui si ricordano le acute parole di Leonardo Sciascia33 e quelle del brigatista Alberto Franceschini, il quale, in base al comunicato delle Brigate rosse del 24 aprile 1978, sarebbe stato uno dei terroristi da liberare, si spiega con il fatto che, fino a quel momento, la questione dello scambio di prigionieri ‒ a livello ufficiale e propagandistico ‒ aveva sempre preso in considerazione l’eventualità di scarcerare brigatisti già detenuti. In questa occasione, invece, Moro faceva riferimento a persona ancora libera, che sarebbe dovuta andare in esilio e non in galera in cambio della sua scarcerazione34. Inoltre, colpisce il riferimento diretto e parenetico a Paolo VI, che sembra sottendere ulteriori e scomparsi contatti sulla questione e che è presente nella versione della missiva recapitata, ma assente in quella che non fu inoltrata.

Tre dati di fatto inducono a ipotizzare che il brigatista in questione potesse essere stato Alessio Casimirri. Anzitutto, egli è figlio di due cittadini dello Stato del Vaticano e proviene da una famiglia legata al papa da generazioni. Suo padre, Luciano Casimirri, è stato il capo ufficio stampa della Santa Sede fino al 1977, lavorando per trent’anni al fianco di tre pontefici, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Inoltre, il nonno materno del brigatista, Tommaso Labella, ha ricoperto cariche amministrative presso la Santa Sede per quasi cinquant’anni, fino al 1957.

Inoltre, è lo stesso Casimirri, nel 1998, un anno dopo la morte di Curioni e la divulgazione del nome del sacerdote da parte di Macchi e Cremona, ad avere rivelato a un giornalista che, una decina di giorni dopo il sequestro di Moro, le Brigate rosse avevano «congelato» la sua posizione in quanto egli era stato interrogato dai carabinieri, messi sulle sue tracce proprio dai genitori35. L’ipotesi che i militari avessero intercettato Casimirri proponendogli di collaborare all’operazione del pagamento del riscatto potrebbe essere avvalorata dal fatto che, da tempo, l’autorità giudiziaria romana sospettava, senza essere riuscita a dimostrarlo, che egli fosse stato contattato dall’allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino e da lui utilizzato con imprecisate funzioni all’interno delle Brigate rosse e poi passato alla gestione del Sismi36. Delfino, che ufficialmente non si è mai occupato del rapimento Moro, nel maggio 1978, dunque subito dopo l’infausta fine del sequestro, fu costretto a lasciare l’Italia per svariati anni perché il Sismi lo avvertì che le Brigate rosse volevano ucciderlo37. Anche Casimirri, secondo la testimonianza resa nel 1994 da Valerio Morucci, sarebbe stato espulso dalle Brigate rosse, insieme con la moglie Rita Algranati, per motivi sconosciuti38.

In terzo luogo, la ragione che induce a guardare con interesse alla figura di Casimirri è il fatto che egli sia stato l’unico brigatista condannato per la strage di via Fani e l’omicidio di Moro a essere sfuggito ai rigori della giustizia. Il caso vuole che questo destino sia stato da lui condiviso a lungo con la moglie, anche lei presente sul luogo dell’eccidio, rimasta latitante fino al gennaio 2004. I due giovani, che insegnavano ginnastica in una scuola privata di Roma, non furono coinvolti nell’inchiesta giudiziaria relativa al caso Moro fino al 16 febbraio 1982, ma, esattamente il giorno prima che la magistratura emettesse un mandato di cattura nei loro confronti, si resero irreperibili iniziando una pluridecennale latitanza. Al di là della questione pur rilevante delle origini della ‘soffiata’ che permise loro di sottrarsi alla giustizia, nel 1987 un appunto del Sisde a loro dedicato spiegava: «Fonte confidenziale attendibile ha riferito che i noti brigatisti Casimirri Alessio e Algranati Rita si troverebbero in una missione cattolica dell’Africa centrale. Il loro espatrio sarebbe stato favorito dall’intervento di un soggetto che opera in Vaticano probabilmente legato da vincoli di parentela al Casimirri»39. L’anno seguente un’altra fonte vicina agli ambienti dell’estrema sinistra comunicava ai servizi segreti che i due erano stati aiutati nella fuga dai genitori che avevano svolto un ruolo decisivo con «imprecisate autorità del Vaticano» ed erano rimasti in contatto con loro. Entrambe le informative del Sisde avevano come concreto risultato investigativo quello di allontanare gli inquirenti dalle tracce di Casimirri, il quale nel 1986 si era sposato con un’altra donna, ma in Nicaragua, e aveva così conseguito, proprio nell’anno in cui venivano inoltrate le informative, la cittadinanza di quel paese e la conseguente garanzia di non essere estradato in Italia. Ma al tempo stesso le informazioni erano assolutamente veritiere per quanto riguardava quella che, nel frattempo, era diventata la sua ex moglie. Infatti Rita Algranati, dopo essere stata anche lei in Nicaragua fino al 1983, si era effettivamente stabilita nel cuore dell’Africa, ossia in Angola e poi in Algeria, ove avrebbe vissuto indisturbata fino all’arresto nel 2004. In Nicaragua Casimirri si legò a doppio filo con il regime sandinista e nel 1993 ricevette la visita di agenti del Sisde, con i quali collaborò alla ricostruzione di alcuni particolari riguardanti la strage di via Fani e la gestione del sequestro Moro40. Il governo italiano, ovviamente, ha più volte richiesto l’estradizione del brigatista rosso con l’argomento giuridico che quando egli si era sposato con la cittadina nicaraguense aveva usato un falso nome ed era in realtà ancora legittimamente sposato con la Algranati. Tuttavia, le autorità del paese latinoamericano hanno sempre fatto prevalere la difesa del principio di nazionalità su qualsiasi altra considerazione di carattere etico-civile. Negli anni in cui i sandinisti hanno lasciato il potere in Nicaragua, è sembrato che fosse più agevole ottenere l’estradizione di Casimirri dal nuovo governo, ma di fatto non si sono mai ottenuti risultati concreti. In tali delicati frangenti, l’ex brigatista ha sempre rilasciato alla stampa dichiarazioni in cui annunciava, nel caso fosse stato consegnato alla giustizia italiana, clamorose rivelazioni riguardo al sequestro Moro e «sugli appoggi di cui ho sempre goduto in Italia»41. Per apprezzare il valore ricattatorio di tali affermazioni e gli ambienti cui erano indirizzate è sufficiente notare che, un mese dopo l’arresto della sua ex moglie Algranati, Casimirri ha concesso un’intervista a un giornale nicaraguense, in cui ha mostrato la foto che lo ritrae adolescente accanto ai genitori, ai nonni e a Paolo VI nell’atto di officiare la sua prima comunione. Egli, con una punta di autocompiacimento, ha raccontato all’avido cronista di quando giocava nei giardini vaticani, tra guardie svizzere e alti prelati, e una volta si era imbattuto addirittura nella candida figura di Giovanni XXIII che lo aveva bonariamente rimproverato per il chiasso che stava facendo42.

Insomma, la biografia e i comportamenti degli ultimi trent’anni di Casimirri inducono a ritenere che, nei giorni del sequestro Moro, la Santa Sede sia segretamente riuscita ad aprire non solo una trattativa sul riscatto, ma anche un canale riservato con un vero brigatista in libertà, cresciutogli, come abbiamo visto, letteralmente in casa. Una collaborazione in cambio di un salvacondotto giudiziario, che, nonostante l’azione non sia andata a buon fine, avrebbe garantito ugualmente a Casimirri dei benefici in cambio dell’impegno da lui profuso in quei drammatici frangenti, a causa degli imbarazzanti segreti di cui comunque era venuto a conoscenza e in forza dei suoi rapporti privilegiati con le più alte sfere del Vaticano.

Come si diceva, la sorpresa dei commentatori rispetto al brano della lettera di Moro si spiega con il fatto che, fino a quel momento, la questione dello scambio dei prigionieri aveva sempre riguardato dei detenuti. Ma se la vicenda, in realtà, avesse interessato un brigatista ancora in libertà, è del tutto chiaro che lo statuto di cittadino vaticano di Casimirri avrebbe facilitato di molto l’operazione. Peraltro Moro aveva tutta la sensibilità giuridica, diplomatica e costituzionale per comprenderlo e quindi impegnarsi al massimo per favorire una simile soluzione. Quando egli, in una delle sue prime lettere, scrisse «la chiave è in Vaticano, che deve essere stato però duramente condizionato dal governo», è verosimile che volesse alludere proprio al ruolo di terziarietà e, al tempo stesso, di extraterritorialità di quello Stato. Il Vaticano infatti avrebbe potuto costituire un prezioso cuscinetto diplomatico per agevolare la trattativa e impedire l’irrigidimento dei fronti contrapposti. Del resto, è elemento ormai noto, per quanto nel 1978 fosse ancora riservato, che, ai tempi del sequestro del magistrato Mario Sossi nel 1974, la Santa Sede era già stata segretamente coinvolta nella trattativa attraverso il cardinale Sergio Pignedoli. Moro, che ai tempi del rapimento di Sossi era ministro degli Esteri, citava nelle sue lettere per ben tre volte il nome di questo porporato e sempre come canale per arrivare «con mani sicure e rapide» al papa. In una missiva il prigioniero faceva riferimento proprio a Pignedoli esprimendo il sibillino convincimento che egli «dovrebbe avere qualche buon ricordo» e ritornava più volte sulla vicenda Sossi con il pretesto di polemizzare con Paolo Emilio Taviani, ossia il ministro degli Interni di allora.

Inoltre nel 1975 il fratello di Moro, il magistrato Alfredo Carlo, fu coinvolto in un negoziato segreto per ottenere la liberazione del giudice Giuseppe Di Gennaro, sequestrato dai Nuclei armati proletari, una trattativa che poté contare sulle garanzie di extraterritorialità fornite dal Vaticano. Sia il caso Sossi, sia quello Di Gennaro erano noti sin nei dettagli al prigioniero per ragioni di carattere politico e personale. Eppure, come è stato osservato dallo stesso Alfredo Carlo Moro, è sorprendente che il fratello non gli abbia indirizzato alcuna missiva e non si sia riferito mai alla vicenda avvenuta soltanto tre anni prima e che l’ostaggio conosceva per filo e per segno43. Ma, come è noto, sussistono seri dubbi sulla completezza dell’epistolario di Moro giunto sino a noi: per esempio, il 7 ottobre 1978 il giornalista de «la Repubblica» Giorgio Battistini scrisse che nel covo di via Monte Nevoso a Milano era stata trovata copia dattiloscritta di una missiva di Moro «a Raimondo Manzini, amico di Moro ed ex direttore dell’Osservatore romano», di cui ancora oggi, ufficialmente, non vi è traccia44.

Un terzo elemento del ‘pacchetto’ concernente la trattativa segreta potrebbe avere effettivamente riguardato la liberazione di prigionieri stranieri. Sempre rispetto all’idea che il Vaticano potesse costituire una risorsa essenziale sul piano giudiziario e diplomatico, occorre sottolineare come Moro, in una delle sue lettere a don Mennini, ufficialmente non giunta a destinazione, facesse uno schizzo di piazza della Minerva a Roma scrivendo:

«On. Renato Dell’Andro. Può essere all’albergo Minerva (mi pare proprio si chiami così, tutto di fronte alla chiesa) o al Ministero della Giustizia o infine alla sede del Gruppo D.C. a Montecitorio. Se per dannata ipotesi, avessi sbagliato il nome dell’albergo, sappi che i due alberghetti di cui si tratta sono così Chiesa Minerva Questo a destra è Dell’Andro.»45.

L’ultimo periodo era inserito fra le righe, aggiunto in un secondo momento, con scrittura piccola e confusa, come il disegno. Si è davanti a uno dei luoghi più enigmatici di tutto l’epistolario, perché Moro definiva «dannata» l’ipotesi di avere sbagliato il nome dell’albergo Minerva: l’aggettivazione era del tutto fuori luogo ed evidentemente, avendo egli in precedenza offerto ben tre alternative di recapito di questa lettera, si esprimeva in questi termini proprio per focalizzare l’attenzione sull’albergo in questione, che, però, improvvisamente quanto illogicamente, si sdoppiava diventando «due alberghetti», con tanto di piantina aggiuntiva. L’incongruenza è resa ancora più evidente dal fatto che il «Grand Hotel de la Minerve» può essere definito in tanti modi, ma mai con il diminutivo di «alberghetto» e non si trova affatto «tutto di fronte alla chiesa», ma alla sinistra della sua ampia facciata, come appare evidente a chi conosce e frequenta quei luoghi. L’ipotesi che tale inserimento volesse contenere un messaggio in codice è plausibile. Infatti, «tutto di fronte alla chiesa» della Minerva si trova la facciata cinquecentesca della sede extraterritoriale dell’Accademia pontificia, ossia della scuola diplomatica del Vaticano, alla quale don Mennini venne invitato a iscriversi proprio nei giorni del sequestro46. È verosimile che il prigioniero, attivando lo scarto semantico fra un suntuoso albergo e due «alberghetti», volesse approfittare dell’occasione per concentrare l’attenzione del tramite della missiva (don Mennini) e del destinatario del messaggio accluso (Dell’Andro) proprio verso un luogo tanto significativo sul piano delle relazioni internazionali e in considerazione del fatto che in passato Dell’Andro era stato suo consigliere giuridico e diplomatico, su una vicenda non certo secondaria: ossia quella che aveva portato alla definizione del cosiddetto «Lodo Moro», un accordo segreto stipulato il 19 ottobre 1973 tra Moro, allora ministro degli Esteri, e i rappresentanti dell’Olp, nei giorni in cui infuriava la guerra dello Yom Kippur tra Israele ed Egitto47. Il patto prevedeva la salvaguardia del territorio nazionale italiano dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della liberazione dei militanti palestinesi arrestati in Italia e la tolleranza da parte dell’autorità del nostro Stato nei riguardi del passaggio di armi e di munizioni destinate al Medio Oriente.

Il «Lodo Moro» regolò una serie di episodi ripetutisi nel tempo che implicarono la liberazione riservata e illegale di vari militanti palestinesi per ragioni di sicurezza dello Stato. Tra i consiglieri giuridici che Moro utilizzò nella circostanza sono stati indicati, oltre a Dell’Andro, anche Giuseppe Manzari e Leopoldo Elia48. Il 28 gennaio 1977 era stato proprio Dell’Andro, in qualità di sottosegretario alla Giustizia, a rispondere, a nome del governo, a un’interpellanza parlamentare del deputato socialdemocratico Luigi Preti e a un’interrogazione del liberale Raffaele Costa che riguardava questo delicato argomento. In seguito a un attentato contro l’ambasciata siriana a Roma, i due intraprendenti e informati onorevoli chiesero se fosse vera l’esistenza «di accordi segreti fra il Governo italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi che stabilirebbero, per i terroristi, libertà d’azione contro ambasciate o consolati esteri a condizione che vengano risparmiati gli obiettivi italiani; circa i terroristi colti in flagrante in Italia gli stessi accordi stabilirebbero la liberazione senza processo dopo pochi giorni di carcere»49. Dell’Andro negò decisamente l’esistenza di «alcun trattato o intesa di sorta (peraltro ancor meno configurabile) con un movimento politico che non reclama esso stesso la qualifica di Stato o di Governo, che comporti l’impegno da parte italiana a rilasciare gli autori di atti terroristici compiuti nel nostro paese».

Sia chiaro: l’uomo di governo in quel momento faceva in pieno il suo dovere che era quello di tutelare un accordo sottoposto al vincolo del segreto, ma il 29 aprile 1978 fu chiamato in causa direttamente da Moro prigioniero delle Brigate rosse come testimone dei patti medesimi:

«Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo Stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi. Io non penso che si debba fare, per ora, una dichiarazione ufficiale, ma solo parlarne di qua e di là, intensamente però»50.

Come si può apprezzare, Moro insisteva sull’analogia tra il suo caso e quello della libertà di prigionieri politici stranieri catturati sul suolo italiano e, forse, tra le righe indicava a Dell’Andro la sede della diplomazia vaticana. Un luogo che, evidentemente, per l’ostaggio costituiva un punto centrale del problema a cui non poteva fare esplicito riferimento nelle lettere per non violare obblighi di riservatezza nazionali ed esteri. Il prigioniero tornava sull’argomento in modo allusivo anche in una missiva al capogruppo della Dc Flaminio Piccoli («Non mi dilungo, perché so che tu capisci queste cose», «E tu che sai tutto, ne sei certo informato»)51 e a Erminio Pennacchini, allora presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui Servizi di informazione e di sicurezza e sul segreto di Stato, «che è buon testimone» e «sa tutto (nei dettagli più di me) ed è persona delicata e precisa»52.

Come è agevole constatare, si tratta di destinatari sceltissimi e di messaggi carichi di prudenti sottintesi che rivelano una contezza della trattativa segreta allora in corso da parte di Moro di cui non si conoscono i contenuti specifici, ma di cui si percepisce l’effettiva esistenza, come il frinire di una cicala di cui si avverte distintamente il suono, ma non si riesce a individuare la presenza. Come vedremo, il dato più significativo di questa corrispondenza è il convincimento di Moro che il Vaticano fosse condizionato dal governo proprio su questi temi.

Da Castel Gandolfo a Palazzo Caetani

Le Brigate rosse, il 15 aprile 1978, distribuirono un comunicato nel quale annunciavano che «l’interrogatorio del prigioniero è terminato» ed «Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte». Come era inevitabile, una simile dichiarazione contribuì ad accelerare l’iniziativa di Paolo VI per cercare una soluzione negoziale e positiva del sequestro mediante il pagamento di un riscatto.

Alle 8.12 di mattina di sabato 15 aprile il segretario di Moro Nicola Rana telefonò al giurista Giuliano Vassalli, amico di antica data, collega e avvocato della famiglia dell’uomo politico, già deputato del Partito socialista. Nel corso della conversazione, Vassalli rispose con queste parole a una domanda di Rana: «come io le avevo detto, ieri ero a Firenze e sono tornato tardissimo e già questa mattina dovevo essere a Castel Gandolfo dove ci sono quelle riunioni», lasciando trapelare, con quel plurale, l’idea che si trattasse di un fatto non occasionale e di cui il suo interlocutore fosse a conoscenza. Poi Rana chiedeva se, in caso di ulteriori sviluppi, egli avesse voluto accettare di prendere un contatto per le trattative. Vassalli rispose che non lo aveva mai fatto prima e dunque non si sentiva la persona adatta, ma si offriva per una consulenza in merito. Rana rispondeva di rendersi conto del problema, ma sottolineava che «la richiesta parte da una spontanea simpatia di tutti» nei suoi confronti53. Di tutti, ossia, come vedremo, in particolare di Moro.

Che a Castel Gandolfo, località in cui si trovano la residenza estiva del papa e altre proprietà della Santa Sede che godono del privilegio della extraterritorialità, si tennero nella primavera del 1978 incontri riservati riguardanti il sequestro Moro, lo rivela anche un’altra intercettazione telefonica, effettuata nel primo pomeriggio del 24 aprile. In questo caso fu interessata l’utenza del vice parroco di S. Lucia, Mennini, figlio trentenne di un alto dirigente laico dello Ior e impiegato da Moro per recapitare alcune lettere nel corso della sua prigionia. Una donna chiese di lui, si informò se avesse saputo dell’ultimo comunicato brigatista e gli venne risposto che il giovane sacerdote era assente, in quanto si trovava a Castel Gandolfo54.

Sulle riunioni svoltesi a Castel Gandolfo scese da subito una coltre di assoluto riserbo che solo da poco tempo è andata diradandosi. Infatti, soltanto nel 2004, l’ormai anziano monsignor Fabbri ha rivelato di avere visto con i propri occhi durante il sequestro delle banconote accatastate a Castel Gandolfo corrispondenti a dieci miliardi di lire che dovevano servire a pagare il riscatto per ottenere la liberazione di Moro55. Una rivelazione tardiva quanto significativa, poiché lega con certezza quegli incontri, di cui erano a conoscenza anche Vassalli, Rana e don Mennini, con l’operazione organizzata dalle più alte sfere del Vaticano. Che la questione fosse assai delicata lo rivela anche una delle ultime intercettazioni al telefono di don Mennini. Il sacerdote, parlando con un monsignore alle ore 14.15 del 9 maggio, dunque poco tempo dopo che il ritrovamento del cadavere di Moro era divenuto di dominio pubblico, comunicò al suo interlocutore che «l’hanno ammazzato» e che «andrà da lui perché ha da dirgli dei segreti»56. Interrogato sul contenuto specifico di questa telefonata, il 2 giugno 1978 e il 12 gennaio 1979, don Mennini ha testimoniato che stava parlando con il suo padre spirituale Heinrich Pfeiffer, gesuita e docente di storia dell’Arte cristiana presso l’Università Gregoriana, «di questioni non attinenti ai fatti per cui è processo, ma che riguardavano il mio futuro di sacerdote», in quanto gli era stato proposto di entrare nell’Accademia pontificia per frequentare la scuola di diplomazia vaticana57. Egli, incidentalmente, confermò anche di avere ricevuto in altra circostanza da monsignor Marcello Rossetti, una telefonata in cui il futuro protonotario apostolico gli aveva parlato «dell’intervento del Santo padre per salvare la vita di Moro»58. Se si considera il testo della relazione di sintesi dell’intercettazione operata dall’ufficiale di polizia, l’eccezionale contesto temporale in cui la telefonata avveniva, l’acclarato ruolo di messaggero svolto da don Mennini nel corso del sequestro e il fatto che anch’egli partecipasse alle riunioni di Castel Gandolfo, la sua reiterata affermazione davanti all’autorità giudiziaria italiana appare improbabile e il concetto di «segreti», da confessare al proprio padre spirituale, è assai più verosimile che si riferisse alla vicenda di Moro conclusasi tragicamente da appena qualche minuto. Allora don Mennini non poteva certo immaginare che il proprio «futuro di sacerdote» – che tanto, a suo dire, l’avrebbe preoccupato in quei drammatici momenti – sarebbe stato davvero brillante. Il viceparroco di S. Lucia, infatti, fu effettivamente avviato dalla Santa Sede alla carriera diplomatica e operò nel corso della prima metà degli anni Ottanta presso le rappresentanze pontificie dell’Uganda e della Turchia per poi essere richiamato a Roma nel 1986 presso la Segreteria di Stato. Dopo quattordici anni di impegno curiale, nel 2000, fu nominato arcivescovo titolare di Ferento per essere inviato prima come nunzio apostolico in Bulgaria e poi dal 2002 presso la Federazione Russa.

Per quanto riguarda Vassalli, egli, in una lettera indirizzata a chi scrive, in data «21 marzo 2008 (Venerdì santo ed equinozio di primavera...)» di cui mi autorizzava esplicitamente a fare pubblico utilizzo in ulteriori approfondimenti sulla vicenda, teneva a sminuire il suo ruolo nella circostanza e specificava che le riunioni di Castel Gandolfo di cui era rimasta traccia nell’intercettazione, avvenivano in un edificio usato dal ministero della Giustizia «con una calma e una riservatezza che certo non sarebbero stati possibili in quei tempi nei locali di via Arenula tra professori e magistrati incaricati di studiare i più acuti problemi della lotta al terrorismo sotto i profili giuridici». Egli precisava che tali riunioni, convocate prima del 16 marzo, furono due o tre in tutto, ma «con le iniziative del Vaticano quella nostra presenza a Castelgandolfo non ha a che vedere». Nella missiva Vassalli ribadiva di non essere stato «interpellato dall’ambiente del Vaticano, pur essendosi monsignor Montini (quando era sostituto alla Segreteria di Stato e collaboratore del Sommo Pontefice Pio XII) interessato in modo rilevante alla mia sorte nella primavera del 1944». Il giurista concludeva la lettera ricordando il suo impegno in quei 55 giorni nell’individuare un prigioniero dello Stato italiano che avesse il profilo giuridico più idoneo («libertà provvisoria o soprattutto grazia presidenziale») per essere liberato in cambio di Moro e «nella messa a punto esatta dei problemi giuridici e dei precedenti: liberazione di almeno cinque palestinesi negli anni precedenti per evitare imminenti attacchi in Italia, scambio di prigionieri tra Cile e Urss, e soprattutto dottrina e giurisprudenza tedesche nei casi Lorenz, Schleyer e altri». Al di là della smentita di merito è significativo che Vassalli abbia confermato di essersi occupato durante il sequestro Moro di problemi attinenti il terrorismo e la liberazione di ostaggi italiani e stranieri a pochi metri dal luogo in cui il Vaticano stava svolgendo le sue trattative e aveva raccolto il denaro. Un dato di fatto che si spiegherebbe solo con la necessità di stabilire delle modalità di comunicazione e di consultazione rapide e de visu, ossia non telefoniche e dunque intercettabili dall’autorità giudiziaria, fra Vassalli e l’entourage vaticano.

Il coinvolgimento di Vassalli nel negoziato segreto, come mostra la richiesta proveniente da Rana nella telefonata intercettata il 15 aprile 1978 in cui il segretario di Moro accennava a una «simpatia di tutti» verso la sua persona, è importante anche per un secondo motivo. Infatti, il ruolo svolto dal giurista in quei frangenti è direttamente collegabile a una missiva del prigioniero alla moglie giunta a destinazione il 6 aprile.

«Si può fare qualche cosa presso: Partiti specie D.C., la più debole e cattiva, i movimenti femminili e giovanili, i movimenti culturali e religiosi. Bisogna vedere varie persone, “Leone” più Zaccagnini, Galloni, Piccoli, Bartolomei, Fanfani, Andreotti vorrà poco impegnarsi e Cossiga. Si può dire ad Ancora di lavorare con Berlinguer: i comunisti sono stati durissimi, essendo essi in ballo la prima volta come partito di governo. Il Vaticano “va ancora sollecitato anche [per] le diverse correnti interne, si deve chiedere che insista sul governo italiano”. Tempi di Pio XII che contendeva ai Tedeschi il giovane Prof. Vassalli, condannato a morte. Si dovrà ritentare»59.

Bisogna ritentare. Ma ritentare cosa? Per capirlo, era necessario conoscere molti dati sottintesi: Vassalli, che durante la Resistenza aveva collaborato con i servizi segreti americani nella Roma occupata, era stato liberato nel 1944 nell’ambito di un negoziato segreto fra il Vaticano e i nazisti che avrebbe portato alla resa delle truppe tedesche in Italia. Infatti, nel maggio 1944, Pio XII ebbe un’udienza riservata con il generale delle SS Karl Wolff, comandante supremo delle forze tedesche nel nord Italia, al quale chiese, come prova della serietà delle sue intenzioni di pacificazione, la liberazione di un partigiano. E il pontefice indicò il nome di Vassalli per l’amicizia del suo defunto fratello, l’avvocato Francesco Pacelli, con il padre di Giuliano, l’insigne giurista Filippo, che aveva lavorato attivamente alla stesura del Concordato fra Stato e Chiesa nel 1929. Fu così che il professor Vassalli, trentaquattro anni dopo quei fatti, almeno dalla metà di aprile in poi, divenne un protagonista occulto della vera trattativa, quella segreta, che unì in quei giorni la Santa Sede e i congiunti di Moro che riponevano in lui incondizionata fiducia.

Una chiave interpretativa tra le righe che il prigioniero avrebbe ripetuto nella sua prima lettera a Paolo VI, quella ufficialmente non recapitata, di pochi giorni dopo, allorquando si augurava con l’augusto destinatario che «si ripeta il gesto efficace di SS. Pio XII in favore del giovane Prof. Vassalli, che era nella mia stessa condizione»60. Anche qui, un passo illogico, perché la condizione, a parte la comune, ma troppo ovvia prigionia, era all’apparenza completamente diversa per contesto storico, situazioni e orientamento ideologico dei protagonisti. Illogico, ma pregnante perché il principale collaboratore e consigliere di Pio XII nel negoziato del 1944 che portò alla liberazione del giovane partigiano era stato proprio Montini, ossia il destinatario della missiva, come anche Vassalli, ancora nel 2008, non poteva dimenticare, dovendo a quell’intervento e a quella prudenza la salvezza di una vita che sarebbe stata lunga e feconda.

Tuttavia, non possiamo esimerci dal ricordare che quel modello di liberazione, storicamente determinato, effettivamente avvenuto e che Moro esplicitamente proponeva all’attenzione dei suoi non secondari interlocutori (la moglie e il pontefice), era gravitato nel 1944 intorno a via Caetani, tra il palazzo Antici-Mattei e palazzo Lovatelli, distanziati cinquanta metri l’uno dall’altro. Nel libro di memorie Una spia a Roma, prefato da Giuliano Vassalli, Peter Tompkins, agente segreto dell’Oss a Roma durante l’occupazione tedesca, ha raccontato di essersi rifugiato a lungo in una stanza segreta di palazzo Lovatelli e ha fornito la documentazione fotografica di alcuni sotterranei dello stabile in cui nascondeva armi e carte che non dovevano cadere in mano del nemico61. L’allora ventiquattrenne Tompkins aveva la sua base operativa proprio nel palazzo Lovatelli, dove incontrava regolarmente Franco Malfatti di Montretto (a cui Moro avrebbe indirizzato un’altra missiva), e aveva assunto come nome di copertura quello di «Federico Caetani», il fratello immaginario del suo carissimo amico, l’italo-americano «Camillo Caetani», duca di Sermoneta e suo compagno di studi presso l’Università di Harvard, abitatore dell’altro palazzo, situato nelle immediate vicinanze. Una scelta fatta per onorare la memoria del giovane amico, caduto in Grecia nel 1941, ma anche perché era essenziale per lui «assumere l’identità di una persona di cui conoscessi bene la famiglia, il personale di servizio e le proprietà»62.

Ora, è difficile credere che possa essere stata una pura coincidenza che una ventina di giorni dopo questi messaggi, Moro sia stato lasciato beffardamente cadavere proprio davanti a palazzo Caetani, da chi, evidentemente, aveva letto quelle lettere, le aveva sapute interpretare non solo nel loro dettato esplicito, ma nel secondo livello di comunicazione tra le righe che celavano e, scegliendo quel luogo di riconsegna dell’ostaggio, aveva voluto dileggiare il tentativo di liberazione ordito dal pontefice e miseramente fallito.

Secondo il giornalista Pecorelli, che scrisse già il 16 gennaio 1979 un articolo con il suo solito stile allusivo, ma dall’eloquente titolo Vergogna Buffoni!, ecco cosa sarebbe avvenuto nell’ultima fase del sequestro Moro:

«A questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i fedayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? presso un comitato? presso un santuario?), i “carabinieri” (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio»63.

Non sappiamo. Ma una cosa è certa: l’impronta di palazzo Caetani è già presente nelle lettere dalla prigionia e costituisce una traccia documentaria sicura, ben prima che quel luogo si tramutasse nel punto in cui Moro fu abbandonato non libero, ma cadavere, a un passo dalla salvezza.

«I buoni samaritani» e «il sentiero oscuro dei ladroni»: il falso comunicato del Lago della Duchessa

Il 18 aprile 1978 venne diffuso un falso comunicato delle Brigate rosse che annunciava la morte di Moro e che costrinse le stesse Brigate rosse a inviare una foto del prigioniero dimostrando così che egli era ancora in vita. A distanza di oltre trent’anni dai fatti due cose sono state acclarate: l’autore del falso comunicato fu Antonio Chichiarelli, un esperto falsario di quadri con comprovati contatti sia con la malavita sia con i servizi segreti italiani64. Inoltre, l’idea di produrre un messaggio apocrifo che obbligasse le Brigate rosse a fornire una prova dell’esistenza in vita dell’ostaggio fu avanzata dal magistrato Claudio Vitalone che l’avrebbe voluta organizzare sotto l’egida e il controllo dell’autorità giudiziaria65. La sua proposta però venne ufficialmente rifiutata, anche se, in tutta evidenza, orecchie sensibili e attente decisero di realizzarla lo stesso utilizzando una figura non direttamente riconducibile alle istituzioni. Nel 2006 anche il consulente inviato dal governo americano durante il sequestro Moro, Steve Pieczenick ha confermato che il falso comunicato fu escogitato dall’antiterrorismo italiano66.

A proposito del messaggio del lago della Duchessa rivestono un certo interesse due recenti dichiarazioni di Andreotti. Il senatore a vita, finalmente liberato dalla decennale odissea giudiziaria riguardante l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli e ovviamente al corrente delle dichiarazioni fornite dal magistrato Vitalone nel corso di quel processo in merito all’idea di produrre un falso comunicato, ha incominciato a intervenire sull’argomento. Le sue affermazioni, che differiscono l’una dall’altra su un aspetto centrale, hanno però in comune un elemento significativo, ossia quello di legare, per la prima volta in modo esplicito e dalla viva voce di un autorevole protagonista, il falso comunicato del lago della Duchessa con la trattativa messa in atto dall’emissario del Vaticano Curioni. Si tratta di una novità di rilievo perché nel 1981, quando Andreotti pubblicò il suo diario relativo al periodo del sequestro Moro, collocò l’inizio delle trattative dal 25 aprile in poi (quindi dopo il falso comunicato del 18 aprile) e, diversamente da quanto fa oggi, non mostrò mai la benché minima perplessità circa l’attendibilità del canale aperto dalla Santa Sede, la cui durata temporale e l’autorevolezza delle personalità coinvolte sembrano essere il miglior segnale della sua serietà e concretezza.

In un’intervista del settembre 2003 l’ex presidente del Consiglio ha affermato che un terrorista detenuto, «un certo signor X», aveva fatto sapere che «avrebbe potuto fare da intermediario per il pagamento della somma» e che il contatto arrivava dal carcere milanese di S. Vittore67. Per dimostrare di non essere un volgare impostore, costui aveva sostenuto che il comunicato del lago della Duchessa del 18 aprile era un falso e che loro, le «vere Br», lo avrebbero smentito, collocando quindi necessariamente la proposta del misterioso interlocutore tra il pomeriggio del 18 aprile e l’intero giorno successivo dal momento che la smentita delle Br arrivò a mezzogiorno del 20 aprile. Si tratta di un episodio credibile, di cui non c’è motivo di dubitare anche perché Curioni, al vertice dei cappellani di tutte le carceri italiane, è verosimile che avesse attivato molteplici canali pur di ottenere il maggior numero di informazioni possibili. Il fatto che si trattasse di un detenuto milanese esclude per ovvi motivi che questo intermediario potesse identificarsi con quel sedicente brigatista che Curioni, secondo la testimonianza del suo segretario Fabbri, incontrò a Napoli in diversi luoghi pubblici durante il sequestro Moro.

Il 9 maggio 2004 Andreotti, nel corso della presentazione di un libro di Maria Fida Moro, ha fornito un’ulteriore versione68. Egli ha affermato che un sedicente brigatista, di cui però non veniva più detto che era in stato di detenzione, aveva addirittura preannunciato l’uscita del comunicato del 18 aprile, quello che annunciava la morte di Moro, sostenendo tuttavia che non bisognava spaventarsi perché la notizia era falsa. Questa rivelazione è assai più impegnativa della precedente: anzitutto perché è temporalmente collocabile prima del 18 aprile e in secondo luogo in quanto, dopo il falso comunicato del lago della Duchessa, che fu subito accompagnato da un diffuso scetticismo, era del tutto prevedibile una successiva reazione di smentita da parte dei brigatisti. Che avvenne il 20 aprile con un comunicato in cui si attribuiva la responsabilità del depistaggio del 18 aprile proprio ad «Andreotti e i suoi complici», perché si era trattata di una «lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica» e non c’era dubbio «che la sceneggiata recitata dai vari burattini di Stato ha la sua sapiente regia».

In base a questi avvenimenti è del tutto illogico che il «signor X» detenuto avesse utilizzato un argomento tanto fragile per accreditarsi davanti a un interlocutore che, non dimentichiamo, aveva la responsabilità di gestire svariati miliardi per conto del papa e doveva decidere se consegnarglieli o no in cambio della liberazione di Moro. Al contrario sarebbe stato ben più efficace se il sedicente brigatista, come lo stesso Andreotti ha rivelato nel 2004, avesse anticipato l’uscita di un documento delle Brigate rosse annunciante la morte di Moro e allo stesso tempo, per tranquillizzare l’emissario vaticano, avesse detto di essere certo che la notizia era falsa. Infatti, una volta uscito quel comunicato, come avvenne la mattina del 18 aprile, egli avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo che si prefiggeva, cioè affermarsi agli occhi dei mediatori di Paolo VI come referente credibile, effettivamente in contatto con i brigatisti di cui era addirittura in grado di anticipare le mosse e di conseguenza come l’unico tramite sicuro a cui poter affidare l’ingente somma di denaro in gioco. Dieci miliardi di lire, l’equivalente, al prezzo di mercato del tempo, di circa 600 appartamenti come il covo di via Gradoli69.

Dal momento che il falso comunicato del lago della Duchessa è stato redatto da Chichiarelli, sul piano logico se ne deduce che solo l’autore materiale dell’apocrifo, o persona a lui strettamente legata, poteva avere la certezza intorno al 16-17 aprile di prevedere le mosse che egli stesso in quelle ore stava escogitando e di annunciarle per farsi dare il denaro dall’emissario del Vaticano la volta in cui il comunicato fosse effettivamente uscito, ossia a partire dalla tarda mattinata del 18 aprile70. Da ciò dunque si evince con ragionevole certezza che l’interlocutore di Curioni in quei giorni fu Chichiarelli o, al massimo, un suo complice da lui informato del progetto, che indossava i simulati panni del brigatista dissidente o favorevole alle trattative per impedire che quell’ingente somma di denaro raccolta autonomamente dal Vaticano e solo tollerata dal governo italiano finisse davvero nelle mani sbagliate: non tanto le sue, ma quelle delle Brigate rosse, che con quei soldi avrebbero finanziato la lotta armata in Italia per il successivo decennio. Il Vaticano, però, notoriamente fornito di servizi informativi tra i più efficaci del mondo, non cadde nella trappola e si rifiutò di pagare.

Un’ulteriore conferma incrociata alle dichiarazioni di Andreotti del 2003-2004, che legano il falso comunicato della Duchessa alle trattative segrete condotte dal Vaticano, viene da monsignor Fabbri, il collaboratore di Curioni di allora. Egli ha dichiarato che l’interlocutore di Curioni per dimostrare la propria attendibilità gli mostrò, in tempi diversi, due fotografie del presidente della Dc a suo dire scattate durante la reclusione nel carcere del popolo. La seconda era la stessa allegata dai brigatisti al comunicato numero sette con la copia de «la Repubblica» del 19 aprile, ma purtroppo Fabbri sostiene di non ricordare un particolare decisivo, ossia se il fatto fosse avvenuto prima o dopo il 20 aprile, vale a dire quando i brigatisti divulgarono quella foto71. In ogni caso entrambe le immagini furono giudicate inattendibili dalle gerarchie ecclesiastiche, o comunque non sufficienti a dimostrare l’esistenza in vita di Moro e dunque a procedere al pagamento del riscatto. L’emissario della Santa Sede si muoveva dunque con i piedi di piombo anche perché non era persuaso dell’effettiva identità del suo interlocutore che si presentava come un brigatista, ma poteva essere, come i fatti in seguito hanno dimostrato, in contatto non solo con i servizi segreti italiani, ma anche con la cosiddetta banda della Magliana.

Ora, sulla scorta di queste riflessioni, è possibile sostenere con un sufficiente grado di attendibilità che il presunto brigatista che telefonò il 24 aprile 1978 al numero messo a disposizione nella sede extraterritoriale dalla «Caritas internationalis» di Roma per continuare la trattativa del Vaticano non era affatto un esponente delle Brigate rosse. L’uomo chiese e ottenne di parlare prima con Guido Bodrato e poi con Eleonora Moro, ma entrambe le volte, dopo aver ottenuto la loro convocazione in sede, interruppe la comunicazione. Le Brigate rosse hanno sempre smentito di avere utilizzato quel contatto72. E lo hanno fatto a ragion veduta, perché l’ipotesi più probabile è che dall’altra parte del filo ci fosse il fantomatico intermediario che aveva tutto l’interesse a far credere alla controparte che la trattativa col Vaticano fosse ancora aperta, così da poter intascare quel denaro, nonostante il fallimento del tentativo del 18 aprile. Il 23 aprile un sedicente brigatista telefonò a casa Moro e, parlando con il figlio Giovanni, concluse la conversazione dicendo «dove avrebbero lasciato» il padre, senza che fosse chiaro se «alludeva a un morto o a un vivo», ma tenendo accesa, in ore drammatiche, la fiamma della speranza e dunque aperta la strada del riscatto da intercettare73.

Occorre anche notare che nel marzo 1985 un amico di Chichiarelli, nel frattempo assassinato da ignoti, sostenne davanti al magistrato che costui gli aveva confessato di avere scritto il falso comunicato del lago della Duchessa essendo «stato incaricato dalla organizzazione alla quale apparteneva e che lo stesso serviva per mandar via da Roma molti poliziotti e così allentare i vari controlli». Inoltre, «sempre in merito al sequestro Moro», egli confessò «di aver fotografato il parlamentare con la sua polaroid e di aver conservato un paio di fotografie scattate nella circostanza: fotografie delle quali io non ho mai preso visione»74. Al di là della veridicità delle presunte quanto impegnative affermazioni di Chichiarelli, è interessante mettere in evidenzia che l’argomento delle due fotografie coincide con quello utilizzato dal «sedicente mister X» in contatto con il Vaticano in quei giorni, a conferma dell’identità fra i due personaggi.

Alla luce di tali considerazioni, il celebre messaggio del papa del 22 aprile 1978 in cui egli si rivolgeva agli «uomini delle Brigate Rosse» per dire: «vi prego in ginocchio liberate l’on. Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni» assume un diverso e più pregnante significato da quello comunemente assegnatoli. Tanto più che all’inizio del suo intervento Paolo VI aveva avvertito il bisogno di specificare: «Io non vi conosco e non ho modo di aver alcun contatto con voi». Come è noto l’espressione «senza condizioni» si è trasformata in un luogo comune della dietrologia sul caso Moro, perché da più parti si è ritenuto che essa fosse stata inserita dal papa su richiesta di Andreotti nelle ore febbrili che accompagnarono la stesura del messaggio75. Ma non è credibile che un uomo della caratura intellettuale di Paolo VI tollerasse che un suo messaggio tanto importante fosse scritto sotto dettatura di un capo di governo straniero, che proprio in quelle ore costituiva la sua temibile controparte. Al contrario, il fatto che il papa avesse avvertito la necessità di consultarsi con il suo uomo di fiducia e sul campo, Curioni, per definire i contenuti del proprio messaggio apre uno scenario interpretativo inedito che appare corroborato da quanto sostenuto sin qui.

Paolo VI scelse di rivolgersi direttamente alle Brigate rosse per provare a riannodare i fili di un contatto effettivo con loro, saltando la fitta barriera di sedicenti brigatisti che si erano frapposti tra il Vaticano e il prigioniero con l’obiettivo di intercettare il riscatto. E dunque: liberatelo «semplicemente», ossia non seguendo le complicate procedure seguite sin qui che si sono rivelate ingannevoli. Ma fatelo «senza condizioni» perché non ci è più possibile rispettare quelle segrete pattuite in precedenza che dunque andranno ridefinite. E infine: io non ho «modo di aver alcun contatto con voi» giacché i canali esperiti finora sono falliti, ma spero di riuscire a stabilire un nuovo e autentico canale di comunicazione con voi essendo ormai consapevoli che quello utilizzato fino a questo momento era una trappola. Si direbbe, il terzo livello di una strategia di governo estremamente determinata e raffinata che pubblicamente scelse la strada della fermezza, riservatamente simulò la disponibilità di una trattativa in denaro perché altrimenti non avrebbe potuto fare, ma segretamente si attivò per impedire il pagamento del riscatto sviluppando un sordo conflitto tra le motivazioni umanitarie e personali del papa e quelle della ragione di Stato dell’Italia nella sua dimensione nazionale ed estera.

Le parole scelte nel 1991 da padre Cremona per descrivere il comportamento adottato dalla Santa Sede in quelle difficili circostanze sembrano particolarmente appropriate e volte a confermare la nostra interpretazione. Il Vaticano per salvare la vita di Moro si trovò costretto a percorrere «segreti sentieri» allo scopo di «raggiungere gli uomini più crudeli» con i quali non si era avuto «contatto diretto»: ci si era quindi avvalsi «di anelli di congiunzione non compromessi con la malavita, di intermediari che sono come buoni samaritani e che per far del bene passano attraverso i medesimi sentieri oscuri dei ladroni»76. Nella parabola evangelica del «buon samaritano» un viandante (Curioni) sceglie di aiutare un uomo «spogliato, percosso e mezzo morto» (Moro) dai briganti (le Brigate rosse) non curandosi delle leggi e delle norme umane che avevano indotto il sacerdote e il levita (la magistratura, le autorità di governo) a passare oltre e lo fa come puro atto di compassione, interpretando così la volontà di Dio. In effetti, un uomo come Chichiarelli, non era propriamente quello che si dice uno «stinco di santo», ma questo passava il convento nell’Italia del 1978. D’altronde, il buon sacerdote sa sempre che bisogna obbedire al sovrano pontefice e che se si vuole ottenere un bene più grande come la salvezza di Moro vale la pena di sporcarsi le mani. E quindi era necessario insistere in tutti i modi e fino all’ultimo respiro, sino al tragico e inaspettato epilogo: l’assassinio di Moro e, tre mesi dopo, come gli anelli di una catena di convincimenti e sensibilità comuni sul piano spirituale, civile e politico che si era spezzata per sempre, la morte angosciosa di Paolo VI.

Forse non a caso con la scomparsa di Moro finisce la breve, ma intensa stagione del «papato italiano» dei pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI, i quali occuparono per intero il ventennio 1958-1978, un momento decisivo e fecondo che ha coinciso con una fase di crescita politica, culturale, economica e civile della penisola con pochi precedenti nella sua millenaria storia. E per «papato italiano» non si vuole naturalmente fare riferimento alla provenienza geografica dei singoli pontefici, ma al fatto che sia Roncalli sia Montini siano stati meno di altri loro predecessori dei «papi romani». Non solo perché furono tra i pochi negli ultimi due secoli a non essere nati nei territori dello Stato pontificio, ma perché ispirarono la loro azione di governo alla valorizzazione della vita religiosa, culturale e sociale nelle singole diocesi, teorizzando e riuscendo a mettere in pratica un rinnovamento dell’episcopato che implicava un generoso investimento nella ricchezza delle tante esperienze regionali del paese secondo un indirizzo pastorale policentrico e dinamico77. Così come è notevole il fatto che con la loro scomparsa si esaurisca nel volgere di 15 anni la centralità e la funzione storica di un partito laico di ispirazione cristiana come la Dc. Con la morte di Moro, che di quel partito e di quella stagione politica è stato forse il principale e più originale interprete, termina un modo di rapportarsi della Chiesa con lo Stato italiano e, in tal senso, finisce anche un’età della Chiesa del Novecento. Ma viene meno anche un modo di stare insieme sul piano politico e si avvia una modifica del patto repubblicano.

La contemporaneità di tali fenomeni sul piano ecclesiastico e civile, politico e religioso non deve stupire perché una simile armonia prestabilita non costituisce una particolare originalità dei tempi recenti, se osservata con occhio storico nel lungo periodo. A ben guardare, così è sempre avvenuto nella storia della penisola – tra schiaffi, carezze e uno sterminato e rigoglioso territorio di temperate mediazioni concordatarie, volte a regolare i rapporti tra la sfera temporale e quella spirituale ed evitare le reciproche invasioni di campo, che quando sono avvenute hanno sempre provocato esiti violenti e umilianti. Almeno dall’oltraggio di Anagni del 7 settembre 1303 contro Bonifacio VIII Caetani a quello di Roma del 9 maggio 1978 contro Paolo VI Montini. Una lunga durata che non è poco, né, a onor del vero, «pochino». Per questa ragione quei 55 giorni del tormento rappresentano una svolta nella storia d’Italia, ma anche un nuovo inizio.

Note

1 Dalla cronaca di quei giorni di G. Selva, E. Marcucci, Il martirio di Aldo Moro. Cronaca e commenti sui 55 giorni più difficili della Repubblica, Bologna 1978, p. 138.

2 C. Garboli, Un racconto fantastico che incomincia in via Fani, «l’Unità», 7 giugno 1980.

3 A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino 2008, p. 100.

4 G. Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano 1981, p. 222, 10 maggio 1978, «La Anselmi ha parlato con Agnese Moro trovandola consenziente per la commemorazione alle Camere e per un funerale di Stato, senza la salma. Alle 12 Noretta la smentisce con il cardinal Vicario che le parlava di un funerale della Diocesi. Alle 14 però Casaroli mi telefona che Noretta si sarebbe convinta» e p. 223, 11 maggio 1978, «Verrà Noretta a San Giovanni? La Segreteria di Stato voleva condizionare a questo la Venuta del Papa, ma Paolo VI ha tagliato corto».

5 Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, 1978.

6 A. Sofri, L’ombra di Moro, Palermo 1991, p. 215.

7 C. Garboli, Un racconto fantastico, cit.

8 Lo testimoniano G. Selva, E. Marcucci, Il martirio di Aldo Moro, cit., p. 114.

9 Per una descrizione dell’atmosfera cfr. M.F. Moro, La casa dei cento natali, Milano 1983, pp. 96-98.

10 G. Gennari, Moro, ecco la verità su Zaccagnini e Paolo VI, «Avvenire», 10 Novembre 2009.

11 G. Moro, Anni Settanta, Torino 2007, pp. 53-113.

12 Per una ricca inchiesta giornalistica su queste vicende si veda A. Valle, Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo, Milano 2008, pp. 29-93. Cfr. anche C. Belci, G. Bodrato, 1978. Moro, la Dc, il terrorismo, Brescia 2006; C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo 2008; G. Galloni, 30 anni con Moro, Roma 2008; L. Bettazzi, In dialogo con i lontani: memorie e riflessioni di un vescovo un po’ laico, Roma 2009. Sul piano storiografico si rinvia agli studi di A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna 2005, pp. 171-200; A. Melloni, Pochino. Un esame delle fonti e della ricerca su Paolo VI, la Chiesa e i cattolici nella vicenda Moro, in La papauté contemporaine (XIXe-XXe siècles) Il papato contemporaneo (secoli XIX-XX), Louvain-La-Neuve (Leuven) 2009, pp. 605-635; M. Gotor, L’uso del discorso nel cuore del terrore. Della scrittura come agonia, in A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., pp. 260-273; V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli 2006, pp. 139-184. Sul tema vi è anche il romanzo di F. Parazzoli, Adesso viene la notte, Milano 2008.

13 A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., pp. 177-179, 365-375.

14 G. Andreotti, Diari 1976-1979, cit., p. 223, 11 maggio 1978: «Macchi mi telefona che il Papa leggerà alla fine una preghiera: niente discorsi».

15 Sul carattere pattuito e contrattuale della ritualità come modo di costruire l’intreccio fra liturgia e politica cfr. M.A. Visceglia, La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma 2002, pp. 17-51, 119-190 e ora, con sguardo comparativo, D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Roma-Bari 1989.

16 Una differente interpretazione dell’evento è fornita da A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari nell’Italia moderna, Torino 1996, p. X.

17 V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, cit., p. 171 (in base al colloquio con Fabbri del 20 ottobre 2004).

18 Ibidem, pp. 149, n. 17; p. 150, n. 21, che si segue, ove non diversamente indicato, per la ricostruzione della vicenda.

19 G. Gennari, Moro, ecco la verità, cit.

20 CTS, audizione di Francesco Cossiga, 6 novembre 1997.

21 C. Cremona, Paolo VI, Milano 1991, pp. 261-262.

22 M. Gotor, L’uso del discorso, cit., pp. 291-292, n. 35.

23 V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, cit., pp. 164, n. 49; p. 165, n. 51.

24 P. Macchi, Paolo VI e la tragedia Moro, Milano 1998, p. 21.

25 G. Andreotti, Diari 1976-1979, cit., pp. 214-215, 25 aprile 1978, da cui sono tratte anche le citazioni successive.

26 Commissione Moro (da ora in poi CM), vol. CXXVI, p. 668.

27 G. Andreotti, Diari 1976-1979, cit., p. 217, 30 aprile 1978, p. 220, 5 maggio 1978.

28 F. Mangiavacca, Memoriale Pecorelli dalla Andreotti alla Zeta, Roma 1996, pp. 907-908.

29 Su questa missiva cfr. M. Gotor, L’uso del discorso, cit., pp. 349-363; M. Mastrogregori, La lettera di Aldo Moro al Partito della Democrazia cristiana. Costruzione del documento, punto di vista dell’ostaggio e storia del sequestro, «Storiografia», XIII, 2009, pp. 9-58.

30 CM, vol. LXXVIII, p. 186.

31 Moro-Craxi. Fermezza e trattative trent’anni dopo, a cura di G. Acquaviva, Padova 2009.

32 A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 141.

33 L. Sciascia, L’affaire Moro con aggiunta la Relazione parlamentare, Milano 2001 (I edizione 1978), pp. 113-115.

34 A proposito del passo di Moro, Franceschini ha commentato: «Non credo nemmeno sia riferito a Moretti. Il discorso è certamente più complesso, perché credo che nel comunicato del lago della Duchessa ci siano dei messaggi trasversali». CTS, audizione 17 marzo 1999.

35 Nell’intervista a Maurizio Valentini, «L’Espresso», 23 aprile 1998.

36 Si vedano le dichiarazioni in merito del magistrato Antonio Marini in CTS (audizione del 9 marzo 1995, Resoconti stenografici delle sedute, I, p. 396).

37 Il documento dei Ros è riportato da S. Flamigni, Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il sequestro Moro, Milano 1998, pp. 137-138, n. 34.

38 «Casimirri, a quanto mi risulta, non aveva mai destato sospetti. Poi ho saputo in carcere che fu allontanato assieme alla moglie dall’organizzazione» (Morucci al pubblico ministero Marini, 17 gennaio 1994, citato da S. Flamigni, Convergenze parallele, cit., pp. 138-139, nn. 36-37).

39 Le due informative del Sisde sono riportate da A. Grandi, L’ultimo brigatista, Milano 2007, p. 172.

40 Ibidem, pp. 169-176, 184-188, dove sono ricostruite le due missioni dei servizi, nell’agosto e nel novembre 1993.

41 La dichiarazione di Casimirri, rilasciata al giornale «Nuevo diario» nel 1996 è in S. Flamigni, Convergenze parallele, cit., p. 139, n. 37.

42 Cfr. l’intervista di A. Joaquín Tórrez, Fui Brigada Roja, pero no participé en muerte de Moro, «El Nuevo Diario», 2 febbraio 2004.

43 A.C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma 1998, pp. 210-211.

44 G. Battistini, Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro. Sono stati svelati segreti di Stato?, «la Repubblica», 7 ottobre 1978.

45 A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., pp. 113-115.

46 CM, II, pp. 473-474.

47 Ricavo la data dell’accordo da S. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Milano 2003, pp. 197-198 (V ed. aggiornata) che la trae da un appunto del Sid, classificato «Riservatissimo», proveniente da Il Cairo emerso grazie all’inchiesta del giudice Carlo Mastelloni. Per fonti di parte palestinese che confermano l’esistenza del patto si veda l’intervista di Bassam Abu Sharif, in «Corriere della Sera», 14 agosto 2008 e anche A. La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, ambasciatore di Arafat in Italia, Roma 2002, p. 45.

48 Per i nomi si rinvia a G.P. Pelizzaro, Strage di Bologna, a un passo dalla verità, «Area», luglio-agosto 2005, pp. 13-29.

49 Il resoconto del dibattito parlamentare è in Camera dei Deputati, VII legislatura, seduta 82, venerdì 28 gennaio 1977, pp. 4826 segg; a cura di G. Paradisi sul sito Cieli limpidi da cui si cita, è consultabile on-line all’indirizzo http://www.cielilimpidi.com/?p=394#comment-24331, (24 settembre 2010).

50 A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 111.

51 Ibidem, p. 104.

52 Ibidem, pp. 107-110.

53 Il testo dell’intercettazione è riportato da G. Zupo, V. Marini Recchia, Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale, Milano 1984, p. 354.

54 L’intercettazione è in CM, XXIX, pp. 466-481.

55 La testimonianza oculare di Fabbri è stata raccolta da V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, cit., p. 165, n. 53. Lo studioso basa il suo racconto sugli appunti presi nel corso di un incontro avuto con il monsignore il 20 ottobre 2004 (p. 142, n. 4).

56 Il brano dell’intercettazione si trova in G. Zupo, V. Marini Recchia, Operazione Moro, cit., p. 365.

57 CM, XLII, p. 474: nel corso della seconda testimonianza, quella del 12 gennaio 1979, don Mennini ribadì la precedente versione, ma forse consapevole della sua inverosimiglianza aggiunse: «Non escludo che nel concetto di segreto io abbia fatto rientrare anche i contatti che ebbi con i “brigatisti rossi” in relazione sia alle comunicazioni telefoniche ricevute sia agli scritti che su segnalazione del sedicente prof. Nicolai avevo prelevato e consegnato alla famiglia Moro».

58 CM, XLI, p. 528.

59 A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., pp. 25-27.

60 Ibidem, pp. 37-38.

61 Una fotografia del rifugio di Tompkins in palazzo Lovatelli si trova in M. Rendina, Un «spia» nascosta a Roma ai tempi di Kappler. E il maggiore Tompkins sempre insieme ai partigiani, «Patria indipendente», 18 febbraio 2007, p. 29. Si veda anche la testimonianza di P. Tompkins, Una spia a Roma. 1944: la liberazione della capitale nel racconto di un agente americano, Milano 2002, pp. 123-125. Per un’immagine di Tompkins e di Franco Malfatti di Montetretto nei saloni di palazzo Lovatelli, si rinvia alla foto n. 6 presente nel volume. Si segnala che in G. Fasanella, G. Rocca, Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro, Torino p. 219, il brano tra virgolette che rimanda al libro di Tompkins ha solo un parziale riscontro nell’opera e induce il lettore a ritenere erroneamente che il nascondiglio dell’agente americano nel 1944 fosse nel palazzo Antici-Mattei e che lì esistesse una stanza segreta utilizzata «come rifugio temporaneo per i prigionieri liberati dalle carceri tedesche in attesa di poterli instradare verso la salvezza». È lo stesso Tompkins a notarlo in L’altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Milano 2005, p. 399, n. 1, ove ribadisce che il suo rifugio segreto era nell’adiacente palazzo Lovatelli.

62 P. Tompkins, Una spia a Roma, cit., p. 31, n. 7.

63 «OP», 16 gennaio 1979, edito in S. Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Roma 2006, pp. 396-397.

64 Su questa figura si veda N. Biondo, M. Veneziani, Il falsario di Stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo, Roma 2008. Per i suoi rapporti con i servizi segreti cfr. M. Gotor, «La macabra edizione della mia esecuzione». Aldo Moro e il ritrovamento del falso comunicato del lago della Duchessa, «Diario», XIII, 18, 2008, pp. 53-58.

65 Gli interrogatori di Vitalone, del 10 maggio 1993 e del 20 gennaio 1995, sono riportati da F. Mangiavacca, Memoriale Pecorelli, cit., I, pp. 552-553. Si veda anche la testimonianza del 1981 del giudice Luciano Infelisi in CM, VII, pp. 146, 156.

66 Le dichiarazioni di Steve Pieczenick qui utilizzate sono in E. Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo trent’anni un protagonista esce dall’ombra, a cura di N. Biondo, Roma 2008 (ed. orig. Nous avons tué Aldo Moro, Paris 2006), pp. 99, 101, 105, 164-166, 167, 170-171, 185. Pieczenick ha sempre rifiutato con motivi pretestuosi di deporre davanti alle autorità italiane (G. Fasanella, C. Sestrieri, G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino 2000, p. 203) e anticipò i contenuti di queste dichiarazioni in un’intervista a «Italy Daily» il 16 marzo 2001.

67 L. Telese, Andreotti: «Autorizzai il Vaticano a pagare un riscatto per Moro», «Il Giornale», 11 settembre 2003.

68 Riportata nell’agenzia Ansa del 9 maggio 2004 Presentazione Nebulosa del caso Moro. Andreotti: «contatto con Vaticano ci anticipò Duchessa».

69 Il covo di via Gradoli con annesso box per auto fu comprato nel 1974 per 8 milioni e rivenduto nel 1980 per 26 milioni (cfr. S. Flamigni, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Milano 1999, pp. 9-10).

70 Del nesso è lo stesso Andreotti a rendersi conto avendo pubblicamente «ricordato che le indagini indicarono in Toni Chichiarelli l’autore del falso comunicato oltre che degli altri messaggi connessi con la vicenda» (Ibidem).

71 V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, cit., p. 157.

72 L’episodio è testimoniato in C. Belci, G. Bodrato, 1978, cit., pp. 183-184. Per la telefonata ricevuta dalla signora Moro si veda CM, LXXVII, pp. 34-35: «Mi mandarono a dire, dalla Caritas (o telefonarono, non ricordo bene), che la sera alle otto ci sarebbe stata una persona che avrebbe ritelefonato o mi avrebbe permesso di parlare con mio marito. Nonostante che sia ai funzionari della Caritas che a me sembrasse un qualunque imbroglio (ne abbiamo avuti tanti, in quei giorni), sono andata e ho sentito questa persona, la quale parlava in chiaro dialetto del sud». Non era dunque la stessa voce delle telefonate precedenti che aveva accento «dell’Italia centrale, intendo la Toscana, il Lazio, l’Umbria, le Marche» (Mario Moretti è di origine marchigiana come Eleonora Moro). Il telefonista che chiamò alla Caritas, invece, non «aveva lo stesso livello culturale» del precedente, «questa era proprio una persona semplice, mentre la persona che mi ha parlato nelle due telefonate che ho avuto era una persona molto molto semplice. Mi ha detto che non ero la signora Moro e che, quindi, non voleva parlare con me; poi, come se qualche cosa avesse disturbato lui e le persone che erano con lui, disse “via, via, via portiamo via” o qualcosa del genere, e interruppe la conversazione. Però alla Caritas l’hanno registrato».

73 CM, LXXVII, p. 95 (testimonianza di Eleonora Moro, 12 luglio 1982).

74 Processo verbale presso il Tribunale di Roma di Gaetano Miceli davanti al giudice istruttore Alberto Macchia del 30 marzo 1985 conservato nell’archivio della Commissione stragi presso il Senato della Repubblica.

75 Ulteriormente e finemente approfondite da A. Melloni, Pochino, cit., pp. 623-627.

76 C. Cremona, Paolo VI, cit., pp. 261-262.

77 Su papa Roncalli cfr. A. Melloni, Papa Giovanni: un cristiano e il suo concilio, Torino 2009 e sui rapporti con Paolo VI Giovanni e Paolo, due papi. Saggio di corrispondenza (1925-1962), a cura di L.F. Capovilla, Roma 1982.

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