A Modena l'Osteria campione del mondo

Il Libro dell Anno 2016

Carlo Passera

A Modena l’Osteria campione del mondo

Il premio internazionale al ristorante di Massimo Bottura riporta in Italia il baricentro della cucina mondiale: una tendenza che recupera il prodotto, il territorio e la cultura rispetto alla tecnica.

Massimo Bottura

Il fatto che l’Osteria Francescana di Massimo Bottura sia stata proclamata nel giugno 2016 miglior ristorante al mondo dalla prestigiosa classifica The world’s 50 best restaurants – prima volta per un locale italiano – può essere considerato come semplice conquista di uno chef, il modenese, tanto bravo quanto comunicativo, che nei mesi precedenti aveva goduto di grande esposizione mediatica, prima con Expo poi col suo progetto del Refettorio, mense per indigenti dove operano a turno grandi cuochi recuperando gli scarti alimentari.

Volendo leggere però più a fondo l’episodio, viene il sospetto che nasconda qualcosa di complesso, una sorta di cambio di paradigma nella cucina mondiale. La quale, come tutto, vive di stagioni. Per qualche anno domina un’idea, sovraesponendo chi l’ha lanciata e anche il suo paese di provenienza. Poi le novità invecchiano e se ne presentano altre, c’est la vie.

Nel 2016 abbiamo vissuto un momento di passaggio, sapevamo solo quale tendenza fosse al tramonto: la cosiddetta nuova cucina nordica. Non si sapeva cosa sarebbe finito con il succederle: e la vittoria di Bottura lascia più di una speranza che i riflettori vadano proprio sull’Italia e sul suo modello, che il modenese incarna.

Non è mai successo, in passato, che il nostro paese desse le carte anche nel mondo dell’alta cucina, nonostante l’enorme tradizione gastronomica declinata su regionalità, prodotto, stagionalità.

Erano questi, a ben vedere, alcuni dei principi della prima rivoluzione a tavola: la Francia aveva ‘inventato’ l’haute cuisine, la Francia stessa la ripensò con la cosiddetta nouvelle cuisine.

Era il 1973. Si ha spesso una visione calligrafica di quel movimento culinario, che finì con l’insterilirsi col passare degli anni, ma ebbe il merito di mettere in discussione dogmi impolverati, quelli della grande cucina classica transalpina che dominavano da almeno un paio di secoli; poi, di aver affermato principi validi ancora oggi: lavorare con prodotti appena acquistati al mercato, alleggerire le salse, ridurre le porzioni e il numero delle portate (qualcuno si ostina a parlare ancora oggi di nouvelle cuisine quando gli arriva in tavola un piatto meno abbondante del previsto, così scambiando forse un indirizzo di fine dining con la trattoria all’angolo. Ma la nouvelle cuisine è finita da tempo, basti dire che tra i dieci comandamenti elaborati da Henri Gault e Christian Millau, i suoi teorizzatori, c’era: «Eviterai marinate, frollature, fermentazioni, ecc.». Oggi invece vanno per la maggiore).

Five ages of Parmigiano Reggiano

Fu il canone dominante a lungo, arrivò anche in Italia, grazie a Gualtiero Marchesi. E influenzò un gruppo di giovani chef dei Paesi Baschi, per i quali era facile passare la frontiera, confrontarsi coi Bocuse, i Troisgros, i Chapel, tornare in Spagna e declinare la nuova tendenza fondendola con la loro tradizione.

Se, dopo la Francia, è stata la Spagna a diventare il nuovo paese di riferimento degli anni Novanta e Duemila, lo si deve a elBulli («Non esiste ristorante importante che non ne utilizzi le tecniche», ha spiegato lo chef Paco Pérez). Ma Ferran Adrià Acosta nasce in un contesto che già aveva visto muoversi appunto la Nuova cucina basca. Fatto sta che la successiva stagione della cucina mondiale ha una capitale riconosciuta, Cala Montjoi a Roses, in Catalogna. Qui opera(va) Adrià, il geniale innovatore che fino allo scorso decennio ha innervato con la sua energia tutto il settore. «Non sognavamo di arrivare dove siamo arrivati», dice ora. Aggiunge il conterraneo Joan Roca di Girona, numero uno fino al 2015, ora secondo dopo Bottura: «Noi cuochi abbiamo pensato di cambiare il mondo e lo abbiamo fatto».

La lezione spagnola è stata un cambiamento senza precedenti, prima di tutto culturale e mentale, poi anche tecnico. È successo questo: un gruppo di chef iberici, con Adrià leader indiscusso, è riuscito a trasmettere al mondo la sua passione per la libertà creativa («Il peggio è l’indifferenza. Meglio sbagliare», ha sintetizzato Andoni Luis Aduriz). Ciò è avvenuto anche e soprattutto con l’introduzione in cucina di nuovi strumenti, e in generale con l’innesto di concetti postulati dalla chimica e dalla fisica: insomma, dal ‘cuoco al mercato’ al ‘cuoco scienziato’.

È stata la cosiddetta Avanguardia.

Era una felice tempesta, ma è passata. Adrià non è più ai fornelli, nei recenti congressi d’alta cucina spagnoli il pensatore culinario Quico Sosa prova a ragionare di Postavanguardia, la nuova categorizzazione concettuale che sarebbe una sorta di sintesi tra l’avanguardia tecnica e il riflusso attuale verso una maggiore attenzione per il territorio e il prodotto.

Massimo Bottura
The world's 50 best restaurants 2016

Nel frattempo si è vissuta la stagione della Nuova cucina nordica, che ha visto il Noma a Copenaghen, con René Redzepi, ergersi per qualche anno a faro delle tendenze globali, ma che non sembra dover lasciare tracce troppo marcate, se non in una logica di cook it raw, di ritorno al prodotto primigenio, a cotture basic, all’istintualità, ai crudi, ai fermentati, ai brodi.

Ma se la tendenza è in ogni caso verso la valorizzazione della materia prima, chi ne dispone di migliori dell’Italia? Forse solo il Giappone. Ed ecco come la vittoria di Bottura potrebbe delineare il canone nuovo. Così il modenese spiega l’alta cucina di oggi: «Trasferire emozioni con la crosta del parmigiano, con una piccola sardina». Solo 10 anni fa si sarebbe parlato invece di sferificazione e roner: una svolta mentale. L’avanguardia ha preso i prodotti e li ha stilizzati, c’era il territorio ma veniva reinterpretato in modo allegorico, grazie alla tecnica. Oggi Bottura detta il nuovo modello: bisogna emozionare con il prodotto, possedendo tutto il bagaglio tecnico ormai acquisito, in fondo è stato (anche) discepolo di Adrià.

Di sicuro l’Italia è pronta a una logica che recupera più didascalicamente il prodotto, il territorio, la cultura. Ma non è l’unico punto di forza di Bottura, dunque non il solo canone che andrebbe seguito, se diventasse davvero tendenza riconosciuta. Lo chef ha così esplicitato la trasformazione del proprio lavoro: «Un cuoco non pensa solo alla cucina, ma anche a quello che lo circonda».

Caesar salad in bloom

E ancora: «La nostra attenzione in cucina guarda a come le idee prendono forma… ispirate dalla cultura e motivate ora più che mai da scelte sociali».

Se un decennio abbondante fa le parole d’ordine sembravano dunque essere tecnica, scienza, innovazione, oggi si parla di prodotto e produttori, e poi di sostenibilità, responsabilità sociale, nutrizione. Ha evidenziato Marco Bolasco: «Bottura è il primo dell’era post Adrià a non sottolineare il primato della tecnica, e non già perché non ne faccia uso ma perché è per lui strumento e non fine. È il primo grande cuoco a far parlare i propri fornitori prima ancora dei suoi gesti, senza paura di rimanere in ombra».

Non è, pensiamo, un caso che il 7 marzo scorso all’ultima Identità Milano, ossia il maggiore congresso italiano di cucina, ideato e curato da Paolo Marchi, Bottura sia apparso sul palco solo alla fine di un lungo monologo letto dietro le quinte. Comprendeva anche una sorta di manifesto del cuoco contemporaneo.

Autumn in New York

«Nel momento in cui sei padrone della tecnica, hai preso coscienza dei tuoi mezzi, hai sviluppato una capacità critica e, soprattutto, conosci te stesso, allora in quel momento, lungo la strada della creatività, inciampando su una banana troppo matura, assaggiando un pesto di briciole di pane o una cartelletta di limone caduta, in quel momento vedi il mondo con occhi diversi, quelli di un bambino che da sotto il tavolo ruba un tortellino crudo dal tagliere e cattura un lampo nell’oscurità. In Osteria guardiamo ancora il mondo da sotto il tavolo, come bambini curiosi. La nostra attenzione in cucina guarda a come le idee prendono forma… ispirate dalla cultura e motivate ora più che mai da scelte sociali». E ancora: «Creare una ricetta nuova è un gesto intellettuale che suppone il coinvolgimento di materie prime, tecnica e memoria. In sintesi comprimiamo tutto ciò in bocconi di cultura masticabili che hanno il sapore delle nostre passioni, utilizzate come veicolo di trasmissione di emozioni. […] Il cuoco contemporaneo deve vivere libero il momento, per esplorare, per andare in profondità, ma senza dimenticare il passato che è parte della propria cultura e utilizzarlo come strumento per non farsi travolgere. Non ci si improvvisa grandi cuochi, ma i grandi cuochi improvvisano».

Ferran Adrià, astro calante

Ferran Adrià Acosta, nato a L’Hospitalet de Llobregat nel 1962, ha iniziato a lavorare nel campo della ristorazione come lavapiatti all’Hotel Playafels nella città di Castelldefels. Cuoco di elBulli (Costa Brava) dal 1984, ha trasformato questo locale nel luogo privilegiato di un percorso gastronomico provocatorio e innovativo, che reinterpreta i princìpi della cucina molecolare e utilizza il gioco dei contrasti per creare piatti che, scomposti nei loro elementi e riassemblati secondo un nuovo ordine creativo, si richiamano all’arte figurativa. Lui stesso disse: «Il cliente ideale non viene a elBulli per mangiare, ma per provare un’esperienza».

elBulli ot tenne 3 stelle Michelin per 3 anni consecutivi, dal 2006 al 2009 e si posizionò primo per 5 volte (2002, 2006, 2007, 2008 e 2009) e secondo nel 2010 nella classifica The world’s 50 best restaurants. Nel 2011, quando Adrià ha chiuso elBulli, è stato chiaro che spume, azoto liquido, sferificazioni avevano trovato il proprio limite nella progressiva omologazione dei piatti, uguali in tutto il mondo, da New York a Singapore, a Barcellona. Adrià è anche autore di libri e pubblicazioni sulla sua cucina e tiene regolarmente lezioni e vere e proprie ‘esibizioni’ di cucina.

Ferran Adrià Acosta

La parola

- nouvelle cuisine

L’espressione, coniata alla metà degli anni Sessanta dai giornalisti esperti di gastronomia Henri Gault e Christian Millau in contrapposizione alla haute cuisine, la cucina tradizionale basata su un numero limitato di ricette, definì uno stile culinario creato da un gruppo di chef, tra i quali Fernand Point, Paul Bocuse, Michel Guérard e Roger Vergé, che alleggerirono gli schemi classici della haute cuisine francese e, rinunciando ai piatti della grande cucina tradizionale e alle salse più elaborate, vollero offrire cibi leggeri, con abbondanza di verdure fresche, realizzati con particolari procedimenti di cottura (a vapore, a bagnomaria, ecc.) realizzati a basse temperature per salvaguardare il gusto degli alimenti, le vitamine e i sali minerali in essi contenuti.

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