ABBANDONO

Enciclopedia Italiana (1929)

ABBANDONO (fr. abandon; sp. abandono; ted. Verlassen; ingl. abandonment)

Giuseppe SCHIRO'
Giovanni Battista MORAGLIA
Gioacchino MILAZZO

Nell'uso giuridico questo termine (di etimologia incerta, probabilmente germanica) che indica il lasciare, momentaneamente, o per sempre, una persona o una cosa, da parte di chi avrebbe il dovere o l'interesse di vigilarla o custodirla, si riferisce ad atti e reati assai differenti.

Abbandono d'infante e di persone pericolanti.

Il capo V del titolo IX del cod. pen. (artt. 386-389) considera come delitti contro la persona: 1° l'abbandono di fanciulli minori di dodici anni o di adulti incapaci, per malattia di mente o di corpo, di provvedere a sé stessi (artt. 386, 387 e 388); 2° l'indolenza colpevole nella duplice forma: a) di omesso avviso all'autorità del rinvenimento di fanciulli minori di sette anni o di altre persone incapaci, per malattia di mente o di corpo, di provvedere a sé stesse (art. 389, 1° comma); b) dell'omessa assistenza (diretta, mediante prestazione di soccorso, o indiretta, mediante avviso all'autorità) a persona ferita o pericolante.

L'essenza del reato consiste "nella violazione dei doveri di custodia e di cura imposti dal vincolo del sangue o dalla legge, in ragione delle qualità personali e in quanto questa violazione si traduce in un pericolo per la persona abbandonata, che è incapace di provvedere a sé stessa".

Soggetto attivo del reato è, quanto al fanciullo minore di 12 anni, chiunque lo abbia alle sue dipendenze a qualunque titolo, e anche soltanto per semplice situazione o fatto; quanto alla persona incapace, colui che debba averne la custodia e la cura. La designazione delle persone cui spetta tale dovere trovasi nel codice civile (art. 277, ecc.) ed anche in leggi speciali (ad es. quella sull'emigrazione, che punisce l'abbandono in paese straniero di minori degli anni 17, avuti in consegna per ragione di lavoro).

Soggetto passivo del reato è la persona incapace di provvedere a sé stessa per età, e per malattia di mente o di corpo. L'incapacità è presunta iuris et de iure per il minore di anni 12, non essendo possibile al disotto di tale età il raggiungimento neppure di quel minimo di esperienza e di energia, che consenta di provvedere a sé stesso. Quanto ai maggiori di anni 12, per la sussistenza del reato, occorre provare che essi si trovino nella impossibilità di vivere senza l'altrui cura o custodia, a causa di uno stato morboso (malattia di mente o di corpo).

L'oggettività del reato è il pericolo di danno nella persona, insito nel concetto di abbandono.

Il fatto materiale dell'abbandono consiste nel lasciare in balìa di sé il minore o l'incapace, senza cura e custodia, e senza assicurarsi che altri vi provveda; onde sorge per il minore o incapace il pericolo di danno nel corpo o nella salute. E ciò può accadere non soltanto allontanando il minore o incapace, ma anche allontanandosi da questo, o anche convivendo con lui, senza però adempiere ai doveri di assistenza. Rettamente, quindi, è stato ritenuto che il reato di abbandono includa pure la mancata prestazione di cibo o di assistenza da parte di chi vi sia tenuto per legge.

Il dolo specifico del reato di abbandono consiste nella volontà di sottrarsi al dovere della cura o della custodia derivante al soggetto attivo da vincoli di sangue, o dalla legge, o per volontaria obbligazione. Se tale fu il fine dell'agente, permane il reato di abbandono e non sorge quello di omicidio, anche quando dall'abbandono sia derivata la morte dell'infante. Laddove, se l'abbandono si commette col fine determinato di cagionare la morte, viene meno l'ipotesi dell'art. 386, e sorge senz'altro quella dell'omicidio.

La pena è aggravata se dal fatto dell'abbandono deriva un grave danno alla salute del corpo, o una perturbazione di mente (reclusione da 30 mesi a 5 anni), o la morte (reclusione da 5 a 12 anni, art. 381 capoverso). Dalla parola della legge si deduce che anche la lieve perturbazione di mente costituisce aggravante, laddove il danno nel corpo o nella salute deve essere grave e i criteri per desumere la gravità sono lasciati alla prudenza del magistrato, il quale, però, terrà presente l'art. 372 n. 1 e 2 cod. penale.

Tanto la pena dell'art. 386, 1° comma, quanto quelle del capoverso di detto articolo sono aumentate di un terzo: a) se l'abbandono avvenga in un luogo solitario, e ciò per l'evidente maggiore pericolo cui si espone l'abbandonato; b) se il delitto sia commesso dai genitori sopra i figli legittimi o naturali, riconosciuti o legalmente dichiarati, o dall'adottante sopra i figli adottati e viceversa; e ciò per la maggiore perversità di cui l'agente dà prova, violando un dovere più imperativo per la più stretta obbligatorietà del vincolo.

La prima aggravante si comunica a tutti coloro che hanno partecipato al fatto, la seconda no. Le due aggravanti, poi, se concorrono entrambe, dànno luogo ad unico aumento. Il progetto del nuovo codice penale (progetto Rocco) stabilisce per il reato di abbandono la pena da 1 a 5 anni di reclusione con un solo aumento per quello commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato (art. 593, 2° capoverso).

Una diminuzione di pena, invece (da un sesto ad un terzo e sostituzione della detenzione alla reclusione), è concessa dall'art. 388 dell'attuale codice, quando il colpevole commetta il delitto di abbandono sopra un infante non ancora iscritto nei registri dello stato civile ed entro i primi cinque giorni dalla nascita, per salvare (occultando le vestigia del fatto) l'onore proprio o della moglie o della madre, della discendente, della figlia adottiva o della sorella. È la causa d'onore che anche per l'infanticidio (art. 369) agisce come scusante. Anche il progetto Rocco (art. 594) prevede la causa d'onore come diminuente la responsabilità per il delitto di abbandono. Si discute se esso sia un'attenuante che non influisca sulla competenza, ovvero una particolare forma giuridica di reato, di competenza del tribunale, anche se seguì la morte dell'infante.

La diminuzione va applicata sia all'ipotesi semplice sia a quella aggravata.

Indolenza colpevole. - L'art. 389 cod. pen. punisce con la multa chiunque: a) trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni sette o altra persona incapace, per malattia di mente o di corpo, di provvedere a sé stessa, omette di darne immediato avviso all'autorità o ai suoi agenti; b) trovando una persona ferita o altrimenti in pericolo, o un corpo umano che sia o sembri inanimato, ometta, quando ciò non lo esponga a danno o a pericolo personale, di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità e ai suoi agenti.

Si è voluto con tale norma tutelare "il diritto alla mutua assistenza, che corrisponde ad uno dei più sacri doveri che l'uomo contrae verso i suoi simili e verso la società da cui ricava tanti benefizî" (Zanardelli, Relazione sul progetto 1887, n. CLIV). E, data la natura della lesione giuridica, il legislatore ha considerato esattamente tale reato come delitto.

Per il caso prospettato nella prima ipotesi, la legge presume che le persone smarrite o abbandonate siano esposte a pericolo, onde l'obbligo, da parte di chi s'imbatte in esse, dell'avviso all'autorità che può, coi suoi mezzi, evitare il pericolo stesso. Lo smarrimento si ha quando la persona non può dirigersi verso la sua ordinaria dimora perché non sa orientarsi o non sa ritrovare la propria via. L'avviso, che può essere orale, scritto, per mezzo del telefono, deve essere immediato e fatto all'autorità più vicina, come quella che è in migliori condizioni per prendere sotto la propria custodia il fanciullo o l'incapace. Per la seconda ipotesi occorre osservare che per la sussistenza del reato non è necessario l'incontrarsi, l'imbattersi; "trovare" significa qui "essere in presenza della persona pericolante". Epperò il reato si commette anche se la persona tutelata venga ferita nel luogo stesso ove il terzo si trova, in sua pregenza e in sua compagnia.

Non è invece incriminabile chi non si trova sul posto ove è il pericolante, anche se, chiamato, non vi accorre. Chi trova la persona pericolante deve anzitutto prestare l'assistenza necessaria secondo i proprî mezzi e attitudini, se ciò può fare senza suo danno o pericolo attuale.

Per quanto concerne il pericolo in cui deve versare la persona tutelata, senza pretendere che debba trattarsi di pericolo di vita, occorre tuttavia che il pericolo sia grave; del pari grave, tale da determinare pericolo, deve essere la ferita.

Anche della indolenza colpevole non è configurabile tentativo. Soggetto attivo può essere chiunque, indipendentemente da ogni rapporto personale col pericolante.

Bibl.: E. Pessina, Elementi di dir. pen., Napoli 1882-1885, II, p. 25; G. Napodano, Abbandono d'infanti in Enciclopedia giur.; Poma, in Cassazione unica penale, XIX, col. 1409; L. Majno, Commento del cod. pen., Verona 1890-1904, II, p. 381; P. Tuozzi in Supplem. alla Riv. pen., III, p. 238.

Abbandono di nave.

Il diritto italiano contempla tre casi di abbandono della nave, da esaminarsi separatamente, perché profondamente diversi tra di loro.

Abbandono di nave in mare (art. 111 cod. per la marina mercantile; decreto-legge 17 settembre 1925, n. 1819). - Soltanto quando un grave, reale e imminente pericolo minacci con la nave la vita dell'equipaggio, questo può abbandonarla: è dovere del capitano esperimentare prima tutti i mezzi suggeriti dall'arte nautica e sentire il parere degli ufficiali di bordo, escluso il medico, e di due almeno dei più provetti marinai; la deliberazione è però sempre riservata al capitano. Deciso l'abbandono della nave, il capitano deve sempre esser l'ultimo a scender da bordo, ed ha l'obbligo di salvare con sé il giornale nautico, le altre carte di bordo (atto di nazionalità della nave o passavanti provvisorio, ruolo dell'equipaggio, polizze di carico e contratti di noleggio, atti di visita, quietanze di pagamento o bollette di cauzione delle dogane e altre carte che possono aver interesse per la nave, per il carico, o per altri interessati alla spedizione marittima), e quanto può degli oggetti preziosi. Mancando a tali obblighi, il capitano è passibile della pena della sospensione dal grado ed anche dell'interdizione. In ogni caso deve essere aperta formale inchiesta sulle cause e sulla responsabilità del sinistro da apposite commissioni costituite in modi determinati, secondoché i naufraghi giungano, nel primo approdo, nel regno, nelle colonie, in un'isola del Dodecanneso o all'estero: le risultanze di quest'inchiesta determinano o la remissione degli atti al procuratore del re per l'eventuale procedimento penale, o provvedimenti a carico del responsabile, che vanno dalla sospensione dal grado o dall'esercizio della navigazione per un periodo di tempo da uno a cinque anni (negligenza o colpa lieve), fino alla destituzione dal grado e all'interdizione perpetua dall'esercizio della navigazione. La sospensione temporanea sino ad un anno può esser inflitta anche quando le persone suindicate siano state assolte per insufficienza di prove.

Abbandono di nave ai creditori. - Era principio generale del diritto romano che l'armatore (exercitor navis) dovesse rispondere pienamente per le obbligazioni incontrate dal capitano (magister navis) verso i terzi (Dig., XIV, 1). Nel Medioevo, sia per il notevole sviluppo che prese l'accommenda e con essa il concetto della responsabilità limitata degli associati, sia per la distinzione, introdottasi a poco a poco, tra il patrimonio affidato ai rischi del mare e quello terrestre, sia per le stesse condizioni della navigazione, che sottraevano totalmente ad ogni controllo e ad ogni sorveglianza dell'armatore l'opera del capitano, andò formulandosi, negli usi dapprima, poi nelle raccolte di norme consuetudinarie e negli statuti, il principio di una limitazione della responsabilità dell'armatore per determinate obbligazioni, alla nave. Oggi questo principio vige in tutte le legislazioni, attuato però in modi diversi, che possono ridursi sostanzialmente a tre: 1° i diritti derivanti da quelle obbligazioni possono soltanto farsi valere sulla nave (legislazioni di tipo germanico); 2° il proprietario è responsabile per tutte le obbligazioni relative alla nave ed al nolo, limitatamente ad una somma fissa per ogni tonnellata di stazza e per ogni fatto colposo (legislazioni di tipo inglese); 3° il proprietario è responsabile per tutte le obbligazioni relative alla nave e alla spedizione, però può liberarsi da certune di esse con l'abbandono della nave e del nolo esatto o da esigere, salvo che egli non sia anche il capitano della nave. È questo il sistema vigente in Italia (cfr. i sistemi del Belgio, della Francia, ecc.).

Le obbligazioni dalle quali può liberarsi il proprietario della nave sono quelle derivanti da fatti del capitano o dell'equipaggio, o da atti giuridici compiuti dal capitano e concernenti la nave o la spedizione. Tale modo di liberazione non è consentito per le obbligazioni incontrate o assunte personalmente, ovvero ordinate o autorizzate o ratificate dal proprietario oppure da un suo mandatario. L'abbandono consiste in una dichiarazione fatta dal proprietario della nave e trascritta nei registri dell'ufficio marittimo ove la nave è inscritta: deve esser notificata ai creditori, i cui titoli siano trascritti nei detti registri o annotati sull'atto di nazionalità della nave, e ai creditori che hanno intimato citazione o precetto entro otto giorni dalla data della citazione o del precetto, sotto pena di decadenza.

L'abbandono non trasferisce nei creditori la proprietà della nave, ma riduce la garanzia generale, che spetta ad ogni creditore su tutti i beni del suo debitore, nei limiti della cosa e dei diritti abbandonati; esso comprende tutti i diritti che derivano all'abbandonante dalla sua condizione giuridica di proprietario della nave, restandone quindi esclusa la indennità d'assicurazione. L'abbandono può esaer fatto ad uno, a più, o a tutti i creditori, e produce i suoi effetti anche se la nave sia perita e nessun nolo o altro diritto più non esista. Se il capitano sia proprietario dell'intiera nave o comproprietario di essa, non può giovarsi di questo speciale beneficio, ma rimane obbligato a soddisfare integralmente o in proporzione alla sua quota di comproprietà le obbligazioni da lui contratte, concernenti la nave e la spedizione.

I creditori abbandonatarî possono far vendere giudizialmente la nave, ripartendo fra di loro il prezzo sino all'ammontare dei rispettivi crediti; il dippiù spetta al proprietario. Però un creditore può prender per suo conto ciò che venne abbandonato, purché paghi integralmente i creditori privilegiati.

Abbandono agli assicuratori (articoli 632-641 cod. comm.). - L'assicurato contro i rischi della navigazione può richiedere il pagamento integrale della somma assicurata, abbandonando agli assicuratori gl'interessi assicurati, allorché questi siano stati colpiti da uno dei sinistri di speciale gravità determinati dalla legge o dal contratto. Nei primi tempi dell'assicurazione marittima l'assicurato, a fine di ottenere l'indennità pattuita, doveva provare in possibile; perciò, già sul finire del sec. XIV, era ammessa a favore dell'assicurato una presunzione di perdita della nave, se di essa mancassero notizie per un certo tempo; e l'assicuratore pagava l'indennità con diritto a ripetere quanto fosse il valore degli eventuali ricuperi. Ciò dava luogo ad inconvenienti e a frodi, talché si formò, sembra nel sec. XVI, l'istituto dell'abbandono. La prima legge, nella quale esso viene regolato espressamente, dichiara che questo abbandono era già in uso, e che le norme vengono dettate per definire i diritti delle parti ed evitare i danni derivanti agli assicuratori dal modo arbitrario tenuto dagli assicurati. Rapidamente l'istituto si diffuse in tutte le legislazioni antiche, e vive tuttora nelle moderne.

Secondo le leggi italiane, l'abbandono può esser fatto in questi casi: naufragio; preda; arresto per ordine di potenza estera; arresto per ordine del governo nazionale dopo cominciato il viaggio; inabilità alla navigazione, se la nave per sinistro di mare non è più riparabile o se le spese per renderla atta a riprendere la navigazione ascendano ai tre quarti almeno del suo valore assicurato; mancanza di notizie della nave, da un anno, pei viaggi di lungo corso, da sei mesi, negli altri viaggi. L'abbandono agli assicuratori vien fatto mediante una dichiarazione indirizzata a questi, nella quale l'assicurato notifica l'abbandono incondizionato della nave, intimando il pagamento della somma assicurata. L'abbandono deve esser notificato entro termini perentorî, diversi secondo il luogo dove avvenne il sinistro, e la loro decorrenza comincia in modo particolare secondo i varî sinistri. L'abbandono, valido per accettazione dell'assicuratore o per pronuncia del magistrato, produce tutti i suoi effetti dal giorno in cui venne notificato all'assicuratore, il quale diviene, da questa data, proprietario dell'oggetto dell'abbandono. Le parti sono libere di regolare questa materia nelle polizze di assicurazione in modo diverso da quello predisposto dalla legge ed anche di abolire affatto il diritto d'abbandono.

Le leggi straniere non differiscono sostanzialmente dalla nostra nelle norme fondamentali di questo istituto.

Bibl.: Ehrenberg, Beschränkte Haftung des Schuldner nach der See- und Handelsrecht, Jena 1880; G. Lumbroso, La responsabilità limitata degli armatori, Torino 1908; A. Luzzatti, Il contratto di assicurazione marittima e la liquidazione per abbandono, Torino 1912; G. Paratore, La responsabilità degli armatori, Roma 1914.

Abbandono di posto.

È un reato contro il servizio militare, a carattere istantaneo, e deve intendersi consumato dal momento in cui l'agente ha lasciato, contro le relative prescrizioni, il posto assegnatogli. Il dolo è in re ipsa, sta cioè nel fatto stesso del volontario allontanamento, indipendentemente dall'intenzione e dal movente, tranne che da codesti elementi risulti un più grave titolo di reato (codardia, tradimento). Varia la gravità del delitto di che trattasi, a seconda delle diverse circostanze nelle quali esso si verifica. Così, il tempo di guerra; la presenza del nemico; l'occasione di operazioni o spedizioni; il fatto che l'abbandono avvenga in faccia al nemico o in presenza di ribelli armati; il trovarsi in servizio innanzi ad un posto di militari esposti ad attacchi nemici, ovvero in un sito forte assediato od investito; l'esistenza o la mancanza di un effettivo pericolo; la qualità di capoposto o di comandante; il servizio di guardia a parchi, convogli o magazzini; la circostanza che il fatto si verifichi a bordo in tempo di guerra, in occasione d'incendio, investimento, abbordaggio, epidemia, o di manovra da cui dipenda la sicurezza della nave; il tempo di pace: sono tutti indici normativi della responsabilità e quindi elementi regolatori della pena.

Soggetto attivo è il militare di sentinella o vedetta, di guardia o di servizio a cosa determinata. Oggetto della tutela penale è la violazione del dovere, il quale incombe al militare comandato, di rimanere nel posto assegnatogli fino al compimento del servizio. Elemento obiettivo comune alle diverse forme di violazioni è l'abbandono del posto, intendendo con tale espressione il fatto di lasciare volontariamente ed arbitrariamente quest'ultimo dopo averlo effettivamente occupato. A questa interpretazione, che è quella offerta dalla dottrina, fa contrasto la più recente giurisprudenza, la quale ha sentenziato che debba ritenersi esistente il delitto, anche nell'ipotesi di omissione di raggiungere il posto; e ciò perché il mancato raggiungimento e l'abbandono sono stati ritenuti egualmente pregiudizievoli pel servizio. È stato poi deciso che debba considerarsi avvenuto l'abbandono di posto nel momento in cui il militare, allontanatosi in seguito a legittima autorizzazione, prolunghi volontariamente l'assenza oltre il termine concessogli. Le ricordate decisioni non sembrano approvabili. Invero, da quanto è stato già esposto si desume che la lesione giuridica dei reati di abbandono di posto consiste nella violazione di un dovere di servizio. Essa, per verificarsi, ha bisogno che vi concorra, quale essenziale elemento costitutivo, la circostanza che il militare colpevole si trovi attualmente ed effettivamente in servizio. Appare dunque ovvio che, fino a quando tale servizio non è stato iniziato; fino a quando non sono stati comunicati al militare i limiti di spazio entro i quali egli deve rimanere per l'osservanza della consegna, generale o particolare non importa; fino a che non è stato ripreso il servizio interrotto in seguito a legittima autorizzazione, la ricordata violazione non può ritenersi avvenuta se non ricorrendo ad una finzione giuridica, la quale, se non altro, appare manifestamente contraria al significato della voce "abbandonare". L'omissione di raggiungere il posto, comunque avvenga, può, per le ricordate ragioni, costituire altra infrazione diversamente sanzionabile, ma non può mai costituire quella del delitto in esame.

La dottrina è poi concorde nel ritenere che, allorquando il militare che abbandonò il posto poté continuare a compiere efficacemente il suo servizio, non debba ritenersi responsabile del reato di che trattasi, mancando in tale ipotesi una lesione del servizio stesso. La giurisprudenza prevalente del Tribunale supremo militare (9 aprile 1921, n. 950) ritiene, invece, che basta qualsiasi arbitrario allontanamento, ad una distanza sia pure brevissima. Invero, accettare un'interpretazione diversa da quella ora ricordata significherebbe cadere nell'assurdo di far dipendere la responsabilità penale da una valutazione tutta soggettiva, circa la maggiore o minore bontà del posto presceltosi dal reo, e, quel ch'è più, si dovrebbe ritenere possibile che una iniziativa consigliata non da reali necessità, bensì dal tornaconto o dall'arbitrio personale, potesse sostituirsi impunemente all'azione oculata dei capi. Il reato in esame può coesistere con quello della diserzione (concorso materiale), in quanto a costituire il dolo specifico del delitto di abbandono di posto è sufficiente il proposito di allontanarsi dal posto per esimersi dagli obblighi che ne derivano, e non di sottrarsi ai vincoli della soggezione militare e al servizio in genere. Il delitto sussiste anche nell'ipotesi che il militare di servizio si sia fatto arbitrariamente sostituire da altro militare. Tale interpretazione prova ancora una volta come nessuna iniziativa individuale possa sostituirsi alla volontà di chi ha il cómpito di comandare, e come esista reato anche quando manchi una lesione del servizio.

Bibl.: P. Di Vico, Diritto penale militare, Milano 1917, I, p. 219; V. Manzini, Commento ai codici penali militari, Torino 1916, I, p. 219.

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