Abbigliamento liturgico

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Abbigliamento liturgico

Marco Bussagli
G. Babic

Con questo termine è indicato l'insieme di indumenti indossati dal celebrante o dai celebranti durante le funzioni sacre; se da una parte esso ha lo scopo di distinguere i ministri dai semplici fedeli e, nel contempo, differenziarli nel loro ruolo gerarchico, dall'altra non è da confondere con l'abbigliamento proprio dei vari ordini ecclesiastici (Colombás, Saggi, 1974).

OCCIDENTE

di Marco Bussagli

È ormai unanime opinione degli studiosi che il vestiario liturgico cristiano derivi piuttosto dagli indumenti civili dell'ultimo periodo imperiale (secc. 3°-5°) che dall'a. mosaico; l'apporto biblico al concetto di a. liturgico fu, tuttavia, considerevole in quanto è proprio sulla base dei luoghi veterotestamentari (Es. 28, 39-40; 29, 29; Lv. 16, 23-24; Ez. 44, 17-19) che si perpetuò l'idea che, per la celebrazione dei sacri riti, non si potessero indossare vesti ordinarie, ma si dovessero impiegare indumenti adatti. In particolare, Girolamo (Commentarium in Ezechielem, 13, 44; PL, XXV, col. 436D), riferendosi ai citati passi di Ezechiele, prescrive l'uso di abiti non ordinari per l'esercizio del culto, giacché il celebrante deve avvicinarsi al sacramento "munda conscientia et mundis vestibus".

Va però precisato che la nascita dell'a. liturgico fu un processo graduale; le differenze rispetto al vestiario comune si accentuarono infatti soprattutto quando, con la moda, gli indumenti civili del Tardo Impero caddero in disuso e vennero conservati solo dal clero. Ricorda infatti Valafrido Strabone che, nei primi tempi, il sacerdote indossava vesti ordinarie per celebrare messa (De rebus ecclesiasticis, 24; PL, CXIV, col. 952A).

Il periodo di formazione dell'a. liturgico - che in definitiva non è altro che un mancato adeguamento delle vesti civili per uso liturgico al cambiamento di gusto - comprende i secoli che vanno dal 4° al 9°, mentre fra il sec. 9° e il 13° si accentuò, ancora più netta, la distinzione fra questo tipo di vestiario e quello ecclesiastico (cioè non impiegato nella liturgia). Attraverso i secoli, poi, dal 13° in avanti, si ebbero ulteriori cambiamenti di forma dell'a. liturgico ormai codificato (Silli, 1937).

Le vesti liturgiche si distinguono in 'interiori' ed 'esteriori'; alla prima categoria appartengono l'amitto e il camice. Quest'ultimo, noto fin dal sec. 4° come indumento intimo (Girolamo, Epistula LXIV, 11; PL, XXII, coll. 613-614), entrò a far parte dell'a. liturgico in epoca piuttosto tarda, solo fra il 7° e il 9° secolo. Tessuto in lino bianco, sicché oltre che camisia fu detto tunica linea e alba, lungo fino ai talloni (tunica talaris, cioè ad talos; Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 22, 7; PL, LXXXII, col. 685), era stretto in vita dal cingulum ed era adoperato dal sacerdote e dal diacono come sottoveste, mentre il suddiacono lo indossava come sopravveste (Braun, 1924). Il suddiacono che asperge l'acquasanta nel monumento Annibaldi (Roma, S. Giovanni in Laterano) mostra infatti che gli appartenenti all'ultimo gradino della gerarchia ecclesiastica ne facevano proprio quest'uso. Detto anche tunica stricta (per via delle maniche), tunicella e dalmatica minor, il camice ha il suo corrispettivo nello στιχάϱιον del suddiacono bizantino; di colore bianco, imposto dopo una suggestiva cerimonia, lo στιχάϱιον simboleggiava, come il camice, castità e purezza (Simeone di Tessalonica, De sacris ordinationibus, 163; PG, CLV, col. 368). Connesso con Ap. 19,8 e Is. 61,10, il camice ebbe dal sec. 11° fino a epoca recente (sec. 18°) la forma svasata a cono, non di rado abbellita (dal sec. 10° in poi) da ornamenti (aurifrisia) che ne attraversavano il corpo e ne segnavano le maniche e il bordo, come mostra, per es., un camice medievale conservato al Vict. and Alb. Mus. di Londra.

L'amitto, detto così perché si dispone intorno al collo (dal lat. amicire, 'avvolgere') è noto anche con i nomi di humerale o superhumerale, in quanto copre le spalle, oppure con il termine di anabolagium (e derivati), che è la latinizzazione del greco ἀναβόλανον (veste, mantello). Tanto Girolamo (Epistula LXIV, 15, PL, XXII, col. 615; In Osee, I, 4, PL, XXV, col. 844) quanto Rabano Mauro (De clericorum institutione, I, 15; PL, CVII, col. 306) finiscono per identificare l'amitto con l'efod del sacerdozio mosaico, l'ἐπωμίϚ dei Settanta (Es. 25, 6; 28, 6, 12, 26; 29, 5). Tessuto in lino o in canapa, di forma rettangolare, l'amitto (che dal sec. 10° fu ornato con un fregio sempre più imponente) si avvolgeva sulla testa, intorno alle spalle, e se ne annodavano le fettucce sul petto dopo averle fatte passare sotto le braccia; indi si piegava su se stesso il lembo che copriva la testa, fino ad avvolgerlo intorno al collo. Il dittico di Étienne Chevalier e s. Stefano (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz), dipinto da Jean Fouquet intorno al 1450, mostra nella figura di s. Stefano un chiaro esempio di amitto con il fregio, mentre l'affresco nella chiesa di S. Eldrado alla Novalesa (sec. 13°), raffigurante s. Nicola accompagnato al seggio episcopale, offre non solo un esempio di amitto senza fregio, ma dimostra che esso era adoperato anche dai vescovi. Infatti, come la stola in epoca medievale era considerata l'insegna liturgica dei diaconi, così l'amitto lo era dei vescovi e dei sacerdoti; non a caso - proprio in quanto insegna liturgica - esso simboleggia la castigatio vocis (Amalario, De ecclesiasticis officiis, II, 17; PL, CV, col. 1094).

Alla categoria delle vesti 'esteriori' appartengono la dalmatica, la pianeta, il piviale e la tunicella; quest'ultima era considerata, verso la fine del sec. 11°, come veste suddiaconale, così da essere ricordata semplicemente con il termine di subdiaconale (Silli, 1938). La dalmatica, originaria della Dalmazia (Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 22, 9; PL, LXXXII, col. 685), era nota nella Roma repubblicana, ma se ne biasimava tuttavia l'uso. In epoca imperiale si diffuse soprattutto nell'Oriente romano e fu indossata - non senza suscitare rimprovero - perfino da alcuni imperatori (Bayet, 1892). Era comunque divenuta veste ufficiale dei diaconi sicuramente dal sec. 5°, giacché non può considerarsi certa la notizia del Lib. Pont. (34, VII) che attribuiva la decisione di utilizzarla per tale scopo a papa Silvestro (314-335): infatti, dalla Vita Silvestri risulta che il pontefice adottò il colobium e non la dalmatica (Bayet, 1892). Questa, indossata senza cintura, era caratterizzata da amplissime maniche (di cui, al contrario, il colobium era privo) che, aperte, ricordavano la croce (Rabano Mauro, De clericorum institutione, I, 20; PL, CVII, col. 307) ed era tessuta in lino, seta o lana bianchi. Una particolare attenzione va riservata alla dalmatica copta, la cui ornamentazione prevedeva, oltre ai clavi - lunghi, però, solo fino a metà figura - gli orbicoli rotondi, cuciti poco al di sopra del bordo. Se ne trova un esempio nelle figure dei due diaconi che precedono l'adventus di un imperatore affrescati (sec. 6°) nel S. Demetrio di Salonicco. Soprattutto dopo il Mille invalse l'uso, per confezionare questo indumento, di adoperare stoffe colorate, come mostra, per es., la dalmatica benedettina del sec. 13° tessuta in lino e conservata a Vienna (Öst. Mus. für angewandte Kunst). Questo cambiamento favorì la scomparsa - definitiva dal sec. 13° - delle due strisce purpuree o violette, i clavi, che della dalmatica ornavano le maniche e il corpo, percorrendolo dalle spalle all'orlo (per es.: Massimiano vescovo e diaconi nel corteo di Giustiniano, Ravenna, S. Vitale, mosaico del sec. 6°; Settimio martire, Roma, cappella di S. Venanzio, mosaico del sec. 7°). Dalla rappresentazione ravennate appare chiaro, inoltre, che se la dalmatica era la sopravveste dei diaconi, per i vescovi essa fungeva da sottoveste su cui indossare un altro indumento liturgico, la pianeta (Giovanni Diacono, Vita S. Gregorii, IV, 84; PL, LXXV, col. 230).

Il termine pianeta (lat. planeta) - che, secondo Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XIX, 24; PL, LXXXII, col. 691), deriverebbe dal continuo fluttuare di quest'ampia veste (gr. πλανάσθαι, 'errare, vagabondare') - fu in uso solo a Roma dal sec. 5° in poi, sostituendosi all'originario paenula. La parola casula, invece, veniva adoperata in tutti gli altri paesi (in Spagna già dal sec. 4°); essa deriverebbe, a detta di Isidoro (Etymologiae, XIX, 24), dal sostantivo casa, facendone il diminutivo; come dire 'casetta', in quanto, coprendo per intero chi la indossava, lo proteggeva come in una piccola casa, in una stanzetta. Questo indumento - che secondo Rabano Mauro è simbolo di carità (De clericorum institutione, I, 21; PL, CVII, col. 308) - trova il suo corrispondente nel ϕενόλιον (oppure ϕελώνιον) indossato dal sacerdote della chiesa bizantina (Sofronio, Commentarius liturgicus, 7; PG, LXXXVII, col. 3988B). Del resto l'origine dei due capi liturgici, tanto quello latino quanto l'altro, è da individuarsi rispettivamente nella paenula romana e nel ϕαινόληϚ (ϕηνόληϚ, ϕαινόλιον) greco: un mantello completamente rotondo, ricordato anche da s. Paolo (2 Tm. 4,13), da cui sbucava, al centro, solo la testa. Spesso in lana, talvolta di cuoio, la paenula, come la casula, copriva completamente la persona (Leclercq, 1913). Nota in Gallia con il nome di amphibalus - "casula quam amphibalum vocant", scriveva s. Germano, vescovo di Parigi (Epistula II; PL, LXXII, col. 97) - la pianeta era generalmente in seta di un unico colore, come per es. quella del beato Bernardo degli Uberti (1133 ca.) in raso blu (Firenze, S. Trinita). Tuttavia, nel caso che fosse destinata a un pontefice, poteva essere ricamata - spesso con motivi circolari (orbiculi) in oro - come mostrano sia la ricca pianeta di Bonifacio VIII (fine sec. 13°), in seta porpora e oro (Anagni, Tesoro del Duomo), sia l'affresco nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma (fine sec. 11°) con scene della Vita di s. Alessio, dove il pontefice indossa una casula decorata allo stesso modo. Dal sec. 14° in poi le dimensioni di questa sopravveste presero a diminuire sensibilmente, abbandonando l'originaria forma a campana per ridursi della metà in larghezza (cm. 80) già nel Quattrocento (Braun, 1924).

L'origine del piviale appare invece a tutt'oggi controversa. Se infatti Braun (1924) accantona l'idea che questo manto liturgico derivi dalla lacerna romana e avanza l'ipotesi - ripresa da Silli (1938) - che esso proceda dalla cappa monacale dei secc. 8° e 9°, altri (Leclercq, Mombert, 1913) credono di potere indicare nella paenula il prototipo del piviale; questo finirebbe, così, per avere la medesima origine della pianeta. La questione peraltro non sembra prossima a essere risolta. Nato, come dice il nome stesso (piviale o pluviale), per riparare dalla pioggia, esso è un manto semicircolare che cade aperto sul davanti, munito anteriormente di fermaglio e di cappuccio sulle spalle. La fibbia (fibula, morsus, firmale, firmarium), detta pure pectorale o, semplicemente, monile, non di rado rappresenta un vero e proprio gioiello di oreficeria come, per es., quello realizzato da Goro di Ser Neroccio (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana). Del resto, la stoffa che costituiva il manto era spesso assai lavorata, come nel caso del piviale (sec. 13°) di Ascoli Piceno (Pinacoteca Civ.), caratterizzato pure dalla presenza dello stolone (la lunga striscia che marca il diametro del manto semicircolare) oppure dell'altro, sempre in opus anglicanum (sec. 14°), ricamato su lino in seta e oro, donato a Pienza da Pio II (Pienza, Mus. della Cattedrale). Il cappuccio poi (che dalla seconda metà del sec. 12° era ormai un puro ornamento, sicché divenne un semplice lembo di stoffa che ricordava soltanto la forma originaria) assunse diverse fogge: dal triangolo assai ridotto alla larga losanga, alla forma ad arco (Braun, 1924). A tutt'oggi si tratta di un indumento che non caratterizza un particolare ordine della gerarchia ecclesiale, ma è proprio delle funzioni solenni.

D'altra parte, anche la pianeta è indicata dall'Ordo romanus (VIII, 1 e XII, 8; PL, LXXVIII, coll. 999-1001, 1070-1071) quale veste liturgica dei chierici e dei prelati, come mostra una minatura del sec. 11°, dove compare il vescovo con il clero (Gaeta, Mus. Diocesano, Exultet 1, c. 6).Pertanto, alla distinzione dei vari gradi gerarchici dovettero concorrere anche le insegne liturgiche: il pallio, la stola e il manipolo, oltre a una serie di 'accessori' a carattere ornamentale, quali i calzari, i sandali, i guanti e la mitra.Come ha dimostrato Wilpert (1898), il pallio sacro - inteso cioè come insegna liturgica, l'ὠμοϕόϱιον della Chiesa bizantina - nacque dalla contabulatio (ovvero dal ripiegamento su se stesso) del mantello (pallium), oltretutto sostituito nel sec. 4° dalla assai più comoda paenula; ne risultò una lunga striscia di candida lana ornata da croci. Il primo a parlare del pallio sacro fu, nel sec. 5°, Isidoro di Pelusio (Epistula I, 136; PG, LXXVIII, col. 272) che sottolineava la necessità che questo indumento fosse di lana e non di lino onde ricordare la pecora smarrita che il Buon Pastore portava sulle spalle. Infatti l'Ordo romanus (I, 6; PL, LXXVIII, col. 940) prescriveva che si appuntasse con tre spilli sulla pianeta: davanti, dietro e sulla spalla sinistra. Insegna esclusivamente papale, tale rimase finché, come ricorda Wilpert (1899), fu da papa Marco ceduta, nel 336, al vescovo di Ostia; da allora è anche attributo vescovile. Dal sec. 9° il pallio subì un'ulteriore modificazione, divenendo un cerchio con due appendici di uguale lunghezza che scendevano avanti e dietro sulla casula (per es.: papa Nicolò I nel Trasporto delle reliquie di s. Cirillo: Roma, basilica inferiore di S. Clemente, sec. 11°; Giotto, la Predica di s. Francesco dinanzi a Onorio III: Assisi, S. Francesco, basilica superiore, 1297-1300).

La stola, una lunga striscia di stoffa più o meno lavorata, è l'insegna liturgica sia del diacono, sia del sacerdote. Infatti, come ha spiegato Wilpert (1899), la stola diaconale (detta pure orarium, nel senso di 'salvietta', e ὀθόνη dai Greci) deve la sua origine al mantele o gausape, una sorta di panno greve e villoso che, fin dall'età di Augusto, gli inservienti a tavola (delicati o camilli) usavano per pulire la mensa. Vale infatti la pena di ricordare che il termine diacono indica proprio la funzione di διαϰονεῖν τϱαπέζαιϚ, cioè 'servire a tavola'. Dalla fine del sec. 2° d.C., con la moda della contabulatio, questo panno venne ripiegato per lungo, sicché si preferì farlo di lino e fu detto linteum. Esso, infatti, era portato sulla spalla sinistra dai diaconi non romani, mentre questi, a Roma, portavano il manipolo. Più tardi la stola diaconale fu appuntata sul fianco opposto, come ben mostra la scena della Lapidazione di s. Stefano, miniata (sec. 14°) su un libro d'ore lombardo (Parigi, BN, lat. 757, c. 286).

La stola sacerdotale, invece, l'ἐπιτϱαχήλιον (πεϱιτϱαχήλιον) della Chiesa d'Oriente, che pure era del tutto simile a quella del diacono, deriva (Wilpert, 1899) da quell'orarium (fazzoletto da collo) che, come era accaduto per la stola diaconale, subì, con la contabulatio, la riduzione a semplice striscia ornamentale, che pure si distingueva dall'altra per colore e materia. Con il tempo questa differenza scomparve e anche il nome si unificò in stola.

Il nome greco relativo alla stola sacerdotale che compare nei testi dal sec. 8° (Papas, 1965) spiega come era indossata: passava intorno al collo e le due estremità, talvolta frangiate, cadevano ben al di sopra dei piedi, spuntando sotto la casula (Thierry, 1966). È chiaro che i due differenti modi di indossare la stola sottolineavano la diversità di dignità e di ruolo (per es. la miniatura con l'Accensione del cero, nell'Exultet del Mus. del Duomo di Salerno, c. 4).

Il manipolo, infine, è una striscia di stoffa assai simile alla stola, ma molto più corta, che i diaconi a Roma facevano scendere dall'avambraccio sinistro, secondo un uso che si estese anche agli altri ordini. Esso non deriva però dalla mappa o mappula romana, il fazzoletto frangiato da tenere in mano: si trattava, come per l'ὀθόνη, di un asciugatoio (Wilpert, 1899).

Se con il termine calzari si è soliti indicare tanto le calze che le scarpe, dal punto di vista liturgico va precisato che questa parola indica solo la calza. Per sandali, invece, si intendono le calzature esterne, mutuate, già dal sec. 5°, da quelle usate dai dignitari imperiali (caligae, tibialia, campagi, udones) e fatte proprie dagli alti ranghi del clero. Essi erano assai lavorati in seta e damasco, quali quelli (entrambi dei secc. 12°-13°) conservati nel Mus. di arredi sacri a Castel Sant'Elia (Viterbo) e nel duomo di Bressanone; così pure i calzari, come, per es., la calza pontificale del cardinale Arnold de la Vie (m. 1335), conservata a Parigi (Mus. de Cluny; Braun, 1907).I guanti entrarono nell'a. vescovile verso la fine del sec. 10° in Francia (Magani, 1889); ai primi termini latini come wantus e manica, per indicarli fu ben presto sostituito quello greco di χειϱοτέϰα, tutt'oggi in uso (Batiffol, 1925).

In realtà, infatti, come si è visto, ci fu una sostanziale unità e omogeneità fra l'a. liturgico bizantino e quello occidentale, con minime differenze (come mostrano, per es., i mosaici raffiguranti s. Basilio e s. Giovanni Crisostomo nella Cappella Palatina di Palermo, 1150-1160 ca.), che si accentuarono però con l'uso - sempre più diffuso - del suggestivo πολυσταύϱιον, una sorta di pianeta (per es. l'immagine di Gregorio il Teologo negli affreschi della fine del sec. 12° nella chiesa del monastero di Bačkovo, in Bulgaria), come spiega il nome, completamente cosparsa di croci nere sul fondo bianco.

La mitra è il copricapo liturgico distintivo del papa, dei cardinali e dei vescovi. Il termine costituisce la traslitterazione del greco μίτϱα, sinonimo di ϰίδαϱιϚ, che designa nella versione dei Settanta il copricapo del gran sacerdote (Es. 23, 4, 37, 39; 39, 28, 31; Lv. 8, 9; 16, 4), descritto da Flavio Giuseppe (Antiquitates Iudaicae, III, 172) che lo chiama πῖλοϚ, ϰίδαϱιϚ (XI, 331) e τίϰϱα (De bello Iudaico, V, 235). Durante il Medioevo la mitra aveva forma bassa e bipartita, sicché era detta mitra biplana o bicornis (per es., papa Silvestro I che incorona Costantino, Roma, Ss. Quattro Coronati, affresco dell'oratorio di S. Silvestro, 1245). Connessa nelle origini con la tiara (Ladner, 1978) - termine derivante da una deformazione dell'aggettivo iranico (saka) tigra (puntuto), che, attraverso Bisanzio, giunse nella corte papale dei secc. 8° o 9° - la mitra, scriveva Innocenzo III (In consecratione pontificis; PL, CCXVII, col. 665), è il signum spiritualium che integra e giustifica la tiara, signum temporalium.

Bibliografia

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AREA BIZANTINA

di G. Babić

A Bisanzio, diaconi, sacerdoti, vescovi e patriarchi portavano abiti particolari durante le cerimonie religiose, come testimoniano, a partire dai secc. 4°-5°, le fonti scritte e le immagini conservate. Il Concilio di Laodicea, nella prima metà del sec. 4°, impose un a. diverso per ogni carica sacerdotale (Mansi, II, 1759, col. 567). Secondo Teodoro di Mopsuestia (m. 428) i diaconi dovevano portare abiti differenti da quelli usati dai laici (Les Homélies catéchétiques, a cura di R. Tonneau, R. Devresse, Città del Vaticano 1949, pp. 460-531), mentre i canoni della Regola di s. Basilio il Grande (sec. 4°) e quelli di Ippolito prescrivevano il colore bianco per gli abiti liturgici di diaconi e sacerdoti (Braun, 1902). Nella tradizione bizantina questa regola fu rispettata per lungo tempo, a giudicare dagli scritti di Germano I, patriarca di Costantinopoli nel sec. 8° (Historia ecclesiastica; PG, XCVIII, col. 393C) e dello pseudo-Sofronio di Gerusalemme (Commentarius liturgicus; PG, LXXXVII, 3, coll. 3985-3988). I Padri della Chiesa, attraverso spiegazioni e commentari, sottolinearono inoltre il significato simbolico e mistico di ogni elemento che costituiva l'abito liturgico.I diaconi indossavano lo stichárion (στιχάϱιον), simile a una lunga tunica con maniche, e l'orárion (ὀϱάϱιον), vagamente somigliante alla stola, ovvero una striscia di tessuto lunga e stretta, portata intorno al collo, in modo che un'estremità cadesse liberamente sullo stichárion lungo il lato sinistro del corpo. Nelle pitture murali bizantine di epoca paleologa l'orárion compare sovente decorato con le parole ἄγιοϚ, ἄγιοϚ, ἄγιοϚ (santo, santo, santo), mentre in precedenza presentava un ornato a piccole croci; sugli orária conservati queste parole sono tessute o ricamate in fili d'oro o d'argento. Talvolta, sempre in affreschi di epoca paleologa, i diaconi portano lo stichárion coperto da una sorta di morbido mantello, che avvolge una spalla, il braccio e la mano che tiene l'artophórion.

L'a. liturgico dei sacerdoti bizantini era caratterizzato dall'uso dell'epitrachélion (ἐπιτϱαχέλιον), menzionato all'inizio del sec. 9° in una lettera (Epistola ad Leonem III papam ex Conciliis; PG, C, col. 200C) del patriarca di Costantinopoli Niceforo (806-815), scritta in occasione di un invio di abiti sacerdotali al papa Leone III (795-816). L'epitrachélion era un striscia di tessuto di larghezza costante, portata intorno al collo; le due estremità, di uguale lunghezza, si ricongiungevano sul davanti e scendevano fino ai piedi. Un passo dell'Historia ecclesiastica di Germano I (PG, XCVIII, col. 393D) definisce l'epitrachélion come una memoria del panno annodato intorno al collo del Cristo.

Durante la celebrazione liturgica i sacerdoti bizantini portavano il phelónion (ϕελόνιον), la paenula del rito latino, indossato sopra all'epitrachélion; quest'ultimo è raffigurato, forse per la prima volta, in un affresco dell'abside della Santa Sofia di Ochrida, della metà del sec. 11°, con s. Basilio il Grande officiante dinanzi all'altare. A partire dal sec. 11° - per es. nelle immagini che illustrano la Vita di s. Nicola - i sacerdoti e i monaci officianti furono sempre raffigurati con questo capo d'abbigliamento, divenuto il segno più importante del rito di ordinazione sacerdotale. Sembra che i vescovi portassero l'epitrachélion già nel sec. 9°, se non addirittura prima, anche se le immagini conservate ne danno una prova sicura solo a partire dalla fine del sec. 10°; lo testimoniano, tra gli altri, gli affreschi della Direklı kilise, in Cappadocia (976-1025), e quelli di Kastoria (secc. 10°-11°), le icone del monastero di S. Caterina al monte Sinai (fine sec. 10° - sec. 11°), le miniature del Menologio di Mosca, del sec. 11° (Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Mus., gr. 183, cc. 95v, 103r, 108v, 132r, ecc.), il Salterio di Teodoro (Londra, BL, Add. Ms 19352, c. 81v, datato al 1066). Gli epitrachélia conservati sono sempre decorati con motivi ornamentali e immagini, tessuti o ricamati in fili d'oro e d'argento, in cui il soggetto iconografico - il ciclo delle Dodici feste (Dodekáorton), la Passione di Cristo, il Pantocratore, Cristo sacerdote, la Vergine, spesso anche Apostoli, Padri della Chiesa e talvolta santi locali - è posto in clipei contornati da perle. In Serbia, per es., i ss. Simeone Stefano Nemanja e Sava I di Serbia furono rappresentati sugli epitrachélia del sec. 16° conservati nei monasteri di Studenica e di Dečani, prodotti, sembra, dalla medesima bottega. Gli epitrachélia dei secc. 16° e 17°, assai numerosi nei tesori dei monasteri e nei musei dei paesi balcanici e dell'Unione Sovietica, riproducono gli ornamenti e i repertori figurativi stabiliti ancora in epoca paleologa. Su alcuni esemplari d'origine rumena compaiono talvolta anche i ritratti dei donatori, per es. nell'epitrachélion del monastero di Dobrovăţ, nelle vicinanze di Iaşi (Romania), databile verso il 1500, dove sono effigiati il sovrano della Moldavia Stefano il Grande e sua moglie Maria; su quello del monastero atonita di Senofonte si trovano le immagini di Nagoe Bassarab e di sua moglie Despina (sec. 16°); nei monasteri di Dionisio e di Esfigmeno si conservano gli epitrachélia con i ritratti del voivoda Pietro di Valacchia e di suo figlio Marco (sec. 16°). Gli epitrachélia di Bistriţa (Romania, sec. 16°), di Staraja Ladoga (Russia settentrionale, attualmente conservato a Leningrado, Alexander-Newskij-Kloster, sec. 15°), di Vatopedi sul Monte Athos (del 1469), di Grgeteg (datato da un'iscrizione al 1553; Belgrado, Muz. srpske pravoslavne crkve), di Atene (Byzantine Mus., nr. 1397, dei secc. 14°-15°) e altri ancora provenienti dai paesi di religione ortodossa testimoniano l'uniformità e la standardizzazione, dovute al rispetto della tradizione bizantina, nella decorazione di questi elementi dell'a., il cui ricamo dimostra spesso una grande perfezione esecutiva.

Anche il phelónion, una sorta di mantello indossato da sacerdoti e vescovi, è menzionato dalle fonti scritte a partire dal sec. 9° (Niceforo, Epistula ad Leonem; PG, C, col. 200C). Peraltro, nelle raffigurazioni antiche, esso riveste sia i sacerdoti, sia i laici (per es. nelle miniature del Salterio di Basilio II, Venezia, Bibl. Naz. Marciana, Gr. 17, c. 4v; sec. 11°). Il colore del phelónion sacerdotale era molto spesso bianco, ma anche ocra, marrone o rosso scuro, almeno a giudicare dalle immagini conservate, databili tra il 6° e il 14° secolo. L'a. dei vescovi raffigurati nei mosaici di S. Apollinare in Classe (Ravenna, sec. 6°) e di S. Demetrio a Salonicco (sec. 7°) testimonia l'uso antico tanto dello stichárion bianco quanto del phelónion colorato.

Il segno visibile della carica episcopale era però l'omophórion (ὠμοϕόϱιον; pallium per i Romani), costituito in una prima fase da una striscia di tessuto molto stretta, che avvolgeva il petto e veniva lasciata ricadere lungo il corpo. Sull'omophórion indossato da un vescovo locale raffigurato a Mren (Armenia, sec. 7°) si distinguono nettamente le piccole croci, descritte dalla Historia ecclesiastica di Germano I (PG, XCVIII, coll. 393D-396A) come memoria della croce portata dal Cristo, caratteristica divenuta poi costante nelle epoche successive. Dopo il sec. 10°, l'omophórion divenuto più largo disegnava una croce sul petto e una delle sue estremità ricadeva lungo l'asse mediano della figura. Fu sempre decorato con grandi croci a bracci con terminazioni arrotondate o rettangolari, che presentavano talvolta, in età paleologa, clipei con il busto di Cristo all'incrocio dei bracci, come testimoniato per es. dagli omophória raffigurati nella chiesa della Vergine Peribléptos a Ochrida (1295). Talvolta, sugli omophória dipinti negli affreschi, si trovano anche i crittogrammi IC XC NIKA oppure ΦΧΦΠ (ϕῶϚ Χϱιστοῦ ϕαίνει πᾶσιν), o altri ancora, cui veniva riconosciuto un valore protettivo per la figura del vescovo. Le fonti scritte menzionano l'omophórion già nel sec. 5°: Isidoro di Pelusio (Epistolarium Liber, CXXXVI; PG, LXXVIII, col. 272CD) lo paragona all'agnellino perduto e ritrovato portato sulle spalle da Cristo (Lc. 15, 4-5); in seguito venne citato e raffigurato sempre come caratteristica costante della carica e dell'a. vescovile.

In epoca mediobizantina il vescovo portava anche un phelónion decorato da numerose croci, denominato polystáurion (πολυσταύϱιον). Il termine compare nelle fonti costantinopolitane del sec. 12° per la prima volta nel commento di Giovanni Zonara al 17° canone del concilio di Calcedonia (Commentaria in Canones XXX sanctae et oecumenicae synodi Chalcedoniensis; PG, CXXXVII, col. 456), successivamente ripreso da Teodoro Balsamone (Zonarae Aristeni commentaria; PG, CXXXVIII, coll. 988-989), il quale spiega che il polystáurion doveva essere usato solamente dal patriarca di Costantinopoli, mentre Simeone, vescovo di Tessalonica, nel sec. 15° confermò a tutti i metropoliti il diritto di portare questo mantello episcopale (Responsa ad Gabrielem Pentapolitanum; PG, CLV, col. 869). Nelle pitture murali del sec. 11° tuttavia il polystáurion è indossato da molti vescovi bizantini residenti nelle diverse regioni dell'impero: per es. ad Ateni (Georgia, 1072-1089), a Eski Gümüs (Cappadocia, metà del sec. 11°), ad Asinou (Cipro, 1106), a Cefalù (1148) e a Nerezi (1164).

Dopo il sec. 10° l'a. dei vescovi bizantini era dunque costituito da questi elementi: lo stichárion, l'epitrachélion, gli epimaníkia, il phelónion o il polystáurion e l'omophórion. L'adattamento di uno stichárion per l'uso da parte di un vescovo prevedeva in particolare l'applicazione dei potamói (ποταμοί, fiumi, lunghe bande strette e nere) e dei gámmata (γάμματα), riquadri decorativi che conferivano un aspetto solenne all'abito.Gli epimaníkia (ἐπιμανίϰια, ὑπομανίϰια) erano una sorta di polsini di forma trapezoidale, normalmente in tessuto morbido e decorati con ricami, talvolta anche con l'inserto di perle o pietre preziose. Le immagini conservate - per es. le miniature del Menologio di Basilio II (Roma, BAV, gr. 1613, c. 19; databile verso il 985), la figura di S. Nicola di Myra nella Bibbia della regina Cristina (Roma, BAV, Reg. gr. 1, c.1) e diversi affreschi dei secc. 11°-12° e successivi - testimoniano dell'uso di epimaníkia, facenti parte dell'abito sacerdotale già a partire dal 10° secolo. Questi elementi dell'a. di sacerdoti e vescovi erano spesso decorati con motivi vegetali o scene religiose, ricamati in fili di seta, oro e argento; tuttavia sembra impossibile desumere la carica sacerdotale del possessore dal tipo di decorazione presente sugli epimaníkia. Sugli esemplari più antichi, per es. quelli di Novgorod (Novgorodskij istoriko-chudožestvennyj i architekturnyj muz., sec. 12°), si trovano sovente motivi figurativi (Deesis); in altri più tardi, per es. quelli di Krušedol (Fruška Gora, Iugoslavia, sec. 14°, attualmente conservati a Belgrado, Muz. srpske pravoslavne crkve) compaiono scene liturgiche, soprattutto la Comunione degli apostoli. Gli epimaníkia atoniti (monasteri di Lavra, di Chiliandari e di Rossikon) rivelano che, all'origine, anche il rito della proscómidie ne influenzò la decorazione, poiché vi si trovano citazioni delle preghiere recitate dal celebrante mentre si abbigliava per la liturgia. Anche l'Annunciazione fu spesso rappresentata sugli epimaníkia, prestandosi bene le due figure di Maria e dell'angelo a essere disposte sui due polsini; lo testimoniano gli esemplari del monastero di S. Caterina al monte Sinai (fine del sec. 15°), di quello di Putna (sacrestia del monastero, fine del sec. 15°), di Bucarest (Muz. de Artă, fine del sec. 15°) e del Benaki Mus. di Atene (sec. 16°). Le scene della Vita di Cristo nei monasteri atoniti (Stavronikite, Dochiario), l'immagine della Trinità proveniente dal monastero delle Meteore (Atene, Nat. Archaeological Mus., sec. 14°-15°), la figura di Cristo tra i vescovi (Prilep, Iugoslavia, sec. 14°-15°), quelle di Cristo, della Vergine, degli angeli (Meteore, sec. 16°) e alcuni altri soggetti furono ricamati sugli epimaníkia di tradizione bizantina.Enchírion (ἐγχείϱιον) ed epigonátion (ἐπιγονάτιον) sono i termini impiegati, soprattutto a partire dall'età comnena, per designare un riquadro di tessuto, attaccato per uno degli angoli alla cintura del vescovo. Verso il sec. 9° l'enchírion divenne una componente necessaria dell'abito episcopale, come testimonia la lettera di Niceforo di Costantinopoli. L'Historia ecclesiastica di Germano I (PG, LXXXXVIII, col. 396B) definisce l'enchírion come un panno, appeso alla cintura, utilizzato dal vescovo per asciugarsi le mani, ricordando così il gesto di Cristo che asciugò i piedi degli apostoli. Nell'interpretare l'epigonátion, Teodoro Balsamone (Zonarae Aristeni commentaria; PG, CXXXVIII, coll. 988-989) usò nel 1193 la stessa simbologia, confermando quindi l'equivalenza dei due termini. Le più antiche immagini conosciute che illustrano l'enchírion sono conservate nel Menologio di Basilio II (Roma, BAV, gr. 1613, cc. 188, 839; S. Gregorio Taumaturgo e S. Spiridione); a partire dal sec. 11°, questo elemento è spesso presente nelle raffigurazioni dei vescovi, così nella chiesa di S. Barbara a Soǧanlı (Cappadocia, 1006 o 1021), in Santa Sofia a Kiev (1042-1046), in Santa Sofia di Ochrida (metà del sec. 11°) e sulle miniature di un codice conservato a Roma (BAV, gr. 1156, cc. 243r, 245r, 249r/v, 253r, ecc.; metà del sec. 11°). Negli affreschi di epoca paleologa l'epigonátion appare talvolta decorato con il busto di Cristo in un clipeo, come, per es., in territorio iugoslavo, nella chiesa del Salvatore a Dečani (1335-1348), nel monastero di Marko (1375-1376) e nella chiesa di S. Andrea presso Skoplje (1389). L'epigonátion costituiva quindi il segno di una carica molto elevata nella gerarchia ecclesiastica (vescovo, patriarca). Tra gli altri personaggi della storia bizantina, solo Teodoro Studita (inizi del sec. 9°), benché non fosse né vescovo, né patriarca, ebbe il privilegio di essere raffigurato con un epigonátion, almeno a giudicare dalle immagini conservate, che sono però databili all'epoca paleologa.

I più antichi epigonátia conservati (secc. 12°-13°) presentano croci e altri motivi decorativi (esemplari del Byzantine Mus. di Atene, provenienti da Patmos), mentre su quelli dei secc. 14° e 15° compaiono le figure di Cristo e della Vergine e sono frequenti le scene evangeliche e simboliche (esemplari dei monasteri atoniti di Chiliandari e Gregorio, del Muz. srpske pravoslavne crkve di Belgrado, dei musei di Atene, Mosca, Bucarest, ecc.). Gli epigonátia più tardi (secc. 16°-18°) riproducono il repertorio iconografico antico e testimoniano il perpetuarsi della tradizione della tecnica del ricamo bizantino.Il sákkos (σάϰϰοϚ) è raffigurato nelle immagini a partire dalla fine del sec. 13°: si tratta di una lunga veste, simile alla dalmatica del rito latino, tagliata lateralmente, con larghe maniche che arrivano fino ai gomiti e indossata dai vescovi e dai patriarchi al di sopra degli altri abiti liturgici (stichárion, epitrachélion, epigonátion), ma sotto l'omophórion. In mancanza di raffigurazioni anteriori alla fine del sec. 13°, il significato, l'aspetto e l'uso del sákkos non sono stati chiariti, nonostante questa veste sia citata frequentemente nei testi antichi. Grazie a Teodoro Balsamone è noto in particolare che, nel sec. 12°, il sákkos fu destinato all'uso del patriarca di Costantinopoli, mentre Demetrio Comaziano (inizi del sec. 13°) stabilì che dovesse essere indossato solo tre volte l'anno, a Natale, nella domenica di Pasqua e alla Pentecoste (Jus canonicum galloromanum; PG, CXIX, coll. 949-951). In seguito però le sedi locali si appropriarono del diritto di ornare i propri vescovi o arcivescovi con questo abito solenne; a Ochrida, sede di un arcivescovado bizantino, l'arcivescovo locale Nicola Cabasila fu raffigurato con un sákkos bianco decorato da una croce entro un clipeo in un affresco della chiesa della Vergine Peribléptos (1295). Per quanto riguarda la Serbia medievale, nella cattedrale di Prizren, dedicata alla Vergine Ljeviška (1307-1313), il primo arcivescovo serbo, Sava I (1219-1234), venne rappresentato vestito di un sákkos decorato con busti di apostoli entro clipei; lo stesso personaggio, seppure con una veste meno sontuosa, decorata di orbicoli con croci, compare anche negli affreschi iugoslavi di S. Nikita, Karan, Dečani, Peć, Baljevać, Ljubostinja, Psača (secc. 14°-15°): ciò dimostra che la Chiesa serba gli riconobbe a lungo il merito di avere organizzato l'arcivescovado autocefalo. Dato che l'autenticità storica non era strettamente rispettata nella pittura bizantina, i personaggi antichi venivano sovente raffigurati con abiti entrati in uso solo in epoca paleologa.

Nel sec. 14°, i sákkoi indossati dall'arcivescovo serbo Joanikije (Peć, S. Demetrio, intorno al 1345) o dall'arcivescovo serbo di Ochrida Nicola (chiesa di S. Nicola, detta dell'Ospedale, 1345; Parekklésion di S. Giovanni Battista nella chiesa della Santa Sofia, metà del sec. 14°), testimoniano della ricchezza dei tessuti e dei motivi ornamentali. La decorazione più frequente era però quella con le croci racchiuse in clipei, come appare nel sákkos indossato da s. Gregorio Palamas in una icona conservata a Mosca (metà del sec. 14°; Gosudarstvennyj Mus. A.S. Puškina). È quindi evidente che i vescovi venivano raffigurati vestiti con il sákkos solamente nelle immagini di carattere solenne, mentre in quelle absidali, raffiguranti gli uffici liturgici, essi sono rappresentati con i phelónia o i polystáuria.

Per contro, a partire dal sec. 14°, fu il Cristo a essere frequentemente rappresentato con il sákkos, nelle vesti di officiante, come negli affreschi di S. Nikita a Čučer, della chiesa dell'Arcangelo a Lesnovo, di Dečani, di Ravanica (tutti in territorio iugoslavo e databili al sec. 14°) e nelle pitture di S. Nicola Orphanos (Salonicco, sec. 14°) o di Kovalevo (nelle vicinanze di Novgorod, sec. 14°); questo elemento conferma che il sákkos era considerato in quest'epoca la veste liturgica più solenne, sia a Bisanzio, sia negli altri paesi ortodossi.

Tra i sákkoi conservati uno dei più antichi è quello del Tesoro di S. Pietro a Roma, noto come 'dalmatica di Carlo Magno'. Questa veste bizantina, della metà del sec. 14°, è riccamente decorata con ricami raffiguranti il Cristo, la sua vita, i santi e il Giudizio finale.Ugualmente celebre il c.d. 'grande sákkos' del metropolita di Russia Fozio, ricamato a Bisanzio all'inizio del sec. 15° e offerto allo stesso Fozio dal futuro imperatore Giovanni VIII Paleologo, nel 1414 (Mosca, Cremlino, Oruzĕjnaja palata). La decorazione, a ricamo con l'impiego di perle, comprende il ciclo delle Dodici feste, l'Anapéson, la Trinità, i Ss. Costantino ed Elena, angeli, patriarchi, immagini simboliche dall'Antico Testamento, nonché i ritratti di Giovanni VIII, di sua moglie Anna Vasilievna (sposata tra il 1414 e il 1417), figlia del gran principe di Russia Vasilij I Dimitrievič e della moglie di questi, Sofia Vitovtovna, tutti raffigurati al cospetto di Fozio.

Dallo stesso metropolita prende il nome il c.d. 'piccolo sákkos' di Fozio, confezionato a Costantinopoli e inviato a Mosca già intorno alla metà del sec. 14° (Mosca, Cremlino, Oružejnaja palata). In questo esemplare mancano i ritratti, rimane quindi incerta l'identità del donatore, mentre il destinatario poteva anche essere il metropolita Pietro o un suo successore. La qualità del ricamo appare superiore a quella del 'grande sákkos' e testimonia dell'alto valore dell'artigianato artistico di Costantinopoli in quest'epoca.

Gli altri sákkoi conservati in Russia, al Monte Athos (monasteri di Lavra e di Iviron) e altrove, indicano che questo capo continuava a essere considerato come una delle più sontuose vesti liturgiche; tuttavia, la tecnica, la finezza e la ricchezza dell'elaborazione degli esemplari costantinopolitani del sec. 14° non vennero più eguagliate da quegli artisti e artigiani che assicurarono la continuità della tradizione bizantina nei paesi ortodossi nei secoli successivi.

Per gli abiti dei cantori (psáltes, protopsáltes) e degli altri membri dei cori, che partecipavano alle cerimonie liturgiche nelle chiese o alla corte bizantina, solo marginalmente esaminati dagli studiosi, offrono qualche testimonianza gli affreschi, per es. quelli nel ciclo dell'Acatisto della Vergine nella chiesa di S. Demetrio nel monastero di Marko (1375-1376).Tutti gli elementi dell'a., raffigurati nelle immagini o conservati, riflettono una gerarchia stabilita che assegnava a ciascuna carica degli officianti capi particolari e distintivi e che fu rispettata non solo a Bisanzio, ma anche in tutti i paesi ortodossi in cui i riti liturgici si basavano su quelli della Chiesa bizantina.

Bibliografia

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