Abuso di dipendenza economica

Diritto on line (2012)

Philipp Fabbio

Abstract

Viene illustrata la disciplina sostanziale e rimediale dell’abuso di dipendenza economica tra imprese, come prevista dall’art. 9 della l. n. 192/1998 e da altre disposizioni legislative collegate, avendo riguardo anche ai rapporti con le normative contigue in materia di contratti e di concorrenza.

1. La norma. I precedenti. L’iter legislativo

Sotto la rubrica «Abuso di dipendenza economica», l’art. 9 della l. 18.6.1998, n. 192 (legge cd. sulla subfornitura) vieta «l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice» (co. 1, primo periodo).

La dipendenza è poi definita come «la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi» (co. 1, secondo periodo). Inoltre, «la dipendenza è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti» (co. 1, terzo periodo). Ipotesi tipiche di abuso sono individuate nel «rifiuto di vendere» o «di comprare», nell’«imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie», e nell’«interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto» (co. 2).

I rimedi civili espressamente previsti sono: la nullità del «patto attraverso il quale si realizzi l’abuso», le «inibitorie» ed il «risarcimento dei danni»; competente è il giudice ordinario secondo le regole generali (co. 3). Sul versante amministrativo è invece attribuita all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la competenza a conoscere, con i poteri ordinari, dell’abuso di dipendenza economica nel quale essa «ravvisi» una «rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato» (co. 3 bis, secondo periodo). Tale competenza sembra poi doversi estendere all’ipotesi particolare della violazione «diffusa e sistematica» della normativa in materia di ritardi nei pagamenti commerciali, di cui al d.lgs. 9.10.2002, n. 231 (co. 3 bis, secondo periodo). Rimedi collettivi, esercitabili dalle associazioni imprenditoriali di categoria in sede civile, sono poi previsti nel cd. Statuto delle imprese (art. 4 e art. 10, co. 3, l. 11.11.2011, n. 180).

Infine, un’ipotesi settoriale di abuso di dipendenza economica è costituita, per espressa previsione del legislatore, dalle condotte realizzate dai fornitori di carburante e dai titolari di impianti di distribuzione di carburante, in violazione degli obblighi e dei diritti che la normativa di settore rispettivamente impone o riconosce nelle relazioni con i gestori degli impianti, al fine di creare le condizioni di una maggiore concorrenza (art. 17, co. 3, d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. in l. 24.3.2012, n. 27).

Fonte di ispirazione dichiarata della normativa italiana sono, per l’originario nucleo di diritto sostanziale, disposizioni delle leggi antitrust tedesca e francese. Disposizioni simili ricorrono anche nelle legislazioni di altri Paesi. Il diritto comunitario esplicitamente ammette le disposizioni legislative di questo tipo come parte integrante facoltativa dei diritti della concorrenza nazionali (art. 3, co. 2, reg. CE 1/2003).

In Italia, il divieto, concepito all’origine come regola specifica dei rapporti di subfornitura, veniva poi riformulato nel corso dell’iter legislativo come regola di portata generale, dal tenore largamente coincidente con la disposizione attuale; ed era destinato alla legge antitrust (l. 10.10.1990, n. 287), ad integrazione del divieto di abuso di posizione dominante. Al divisato inserimento nella legge antitrust si opponeva tuttavia, a più riprese, l’Agcm, verosimilmente anche nel timore di una dilatazione delle proprie competenze eccessiva rispetto alle risorse disponibili. Con qualche modifica, il divieto ha quindi trovato la sua collocazione definitiva nella legge sulla subfornitura.

Nel 2001, il legislatore riprendendo il proposito originario, ma con soluzione di compromesso, ha infine aggiunto l’attuale limitata competenza dell’Autorità Garante.

Frutto di interventi di molto successivi sono le previsioni in materia di rimedi collettivi (2011), di ritardi nei pagamenti commerciali (2012) e di rapporti tra gestori e titolari di impianti di distribuzione di carburante ovvero fornitori di carburante (2012). L’elemento comune di questi interventi più recenti è verosimilmente da ricercare in preoccupazioni circa l’effettività della tutela (nate anche per la scarsa applicazione, che la norma dell’art. 9, l. 192/1998 ha finora avuto nella prassi). Si vorrebbe dunque assicurare maggiore effettività della tutela attraverso mezzi che non richiedono un’iniziativa giudiziale della vittima dell’abuso.

2. Ratio e collocazione sistematica

Nella ricostruzione del divieto di abuso di dipendenza economica, una questione centrale, attesa la genericità della previsione legislativa, è quella dell’individuazione della sua ratio e collocazione sistematica.

In proposito si possono distinguere, con un certo sforzo di semplificazione, due principali tendenze.

Un primo orientamento è costituito dalle tesi che possono chiamarsi “civilistiche”. Il mancato inserimento nella legge antitrust, più in generale l’iter legislativo, ed insieme la suggestione esercitata dal fatto che il divieto consente un controllo sul contenuto anche economico del contratto a tutela di una parte “debole”, hanno alimentato in dottrina l’idea, variamente declinata, che dal punto di vista della funzione e della collocazione nel sistema l’istituto andasse ascritto a un “diritto dei contratti”, a un “diritto civile comune” o a un “diritto dei contraenti deboli”, tutti e tre da contrapporre al diritto antitrust e della concorrenza in genere.

Queste costruzioni porterebbero ad inquadrare sistematicamente la disciplina del divieto di abuso di dipendenza economica come espressione di un più generale principio di “giustizia” (o “equità”) contrattuale; principio che, proprio in tale portata generale, non è, però, solitamente riconosciuto come vigente (almeno per ora) nell’ordinamento italiano (e neanche in quello europeo).

Appare più convincente la diversa tesi, che inquadra sistematicamente la disciplina del divieto di abuso nel quadro dei principi governanti i rapporti fra imprese nel funzionamento dei mercati, e quindi, più precisamente, nella disciplina di tutela della concorrenza. Questo inquadramento è anche maggiormente idoneo a produrre concreti sviluppi applicativi.

Peraltro, la disciplina settoriale dei rapporti tra i titolari e i gestori degli impianti di distribuzione di carburante, nel fare richiamo al divieto di abuso di dipendenza economica, presuppone e quindi conferma questa impostazione di fondo. Mentre la circostanza che all’Agcm sia attribuita in materia di abuso di dipendenza economica una competenza (non piena ma solo) condizionata si lascia spiegare sul piano dell’organizzazione giuridico-amministrativa, più che su quello sostanziale delle finalità da atttribuirsi al divieto; e quindi non sembra essere in contraddizione – a differenza di quanto sostengono alcuni autori – con una lettura “filo-concorrenziale” del divieto.

Questa lettura impone dunque di interpretare la disciplina sull’abuso di dipendenza economica in funzione della ricerca di soluzioni che favoriscano l’efficienza complessiva dei mercati, mediante un (non facile) contemperamento fra la libertà (anche organizzativa) dell’impresa dominante e una tutela dell’impresa dipendente che garantisca a questa di non essere soffocata nella sua attitudine a sviluppare una propria autonomia imprenditoriale ed un’autonoma capacità di crescita nei mercati.

3. L’ambito di applicazione

È largamente prevalente in dottrina, ed è stata di recente fatta propria dalle Sezioni unite della Cassazione (ord. 25.11.2011, n. 24906, in Nuova giur. civ. comm., I, 2012, 298 ss.), la tesi che l’ambito di applicazione “oggettivo” del divieto, nonostante la sua collocazione in una legge di settore, si estende in principio a tutti i rapporti verticali tra imprese. In tal senso depongono del resto i precedenti stranieri, l’iter legislativo, la lettera della legge, nonché la previsione di una competenza dell’Agcm (per l’ampia motivazione vedasi, tra le altre, Trib. Torre Annunziata, 30.3.2007, Giur. mer., 2007, 2009 ss.). La tesi restrittiva è stata fin qui sostenuta in dottrina solo isolatamente, e più che altro in ragione del timore di un uso incontrollato del divieto da parte dei tribunali e/o della difficoltà di accettare il tipo di controllo contenutistico cui può portare l’applicazione del divieto. Destinatari del divieto sono le imprese. Si tende a ritenere che la nozione rilevante di impresa sia quella del diritto antitrust e della concorrenza in genere.

Il divieto può proteggere anche il cd. newcomer, cioè l’impresa nuova sul mercato o che non abbia mai intrattenuto una relazione commerciale con la controparte. Tanto si desume dai precedenti stranieri e, soprattutto, dalla previsione come distinte ipotesi di abuso del rifiuto di vendere o di comprare da un lato e dell’interruzione delle relazioni commerciali in atto dall’altro.

Il divieto non dovrebbe invece esser applicabile in particolare:

a) quando l’impresa dominante è un ente che esercita nei confronti di una società, economicamente dipendente, attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c., in forza di un controllo interno ex art. 2359, nn. 1 e 2, c.c., o di contratti o clausole statutarie di dominio ex art. 2497 septies c.c. Nella considerazione del legislatore, la società etero-diretta cessa difatti di esser portatrice di un proprio interesse nei confronti dell’ente dirigente, e degrada a mera articolazione organizzativa dell’impresa di gruppo;

b) quando la relazione tra le parti si conforma al contenuto di accordi collettivi conclusi da soggetti rappresentativi delle categorie interessate. La contrattazione collettiva, ponendo le parti su di un piano tendenzialmente paritetico, consente difatti di ovviare alla disparità di forza contrattuale che può ricorrere nel rapporto individuale. Esempi in questo senso sono i contratti agro-industriali di cui alla l. 16.3.1988, n. 88 e gli accordi interprofessionali nel settore della subfornitura di cui all’art. 3, co. 2, l. 192/1998.

Inconsistente appare invece la tesi che vorrebbe esclusi dall’ambito di applicazione del divieto i contratti bancari, di garanzia e la transazione, solo perché la norma, nel definire la dipendenza economica, parla testualmente di «rapporti commerciali» (ma contra Trib. Roma, 5.2.2008, n. 2688, in Giur. mer., 2008, 2248 ss.).

4. La nozione di dipendenza economica in generale. Il criterio dell’eccessivo squilibrio. Il criterio della mancanza di alternative. La dominanza plurima

I criteri legali che definiscono lo stato di dipendenza economica sono due: la possibilità, per l’impresa dominante, di determinare «nei rapporti commerciali» con la controparte un «eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi»; la «reale possibilità», per l’impresa dipendente, «di reperire sul mercato alternative soddisfacenti».

Il criterio dell’eccessivo squilibrio, rispetto ai precedenti stranieri, è spurio; ma dalla formulazione della norma si direbbe che, almeno nella considerazione del legislatore, esso dovesse costituire il criterio principale.

L’attenzione della dottrina si è tuttavia concentrata sul criterio della mancanza di alternative, meno generico, e già precisato nei suoi contenuti da una ricca casistica straniera, soprattutto tedesca. Esso richiede un accertamento, che si può idealmente suddividere in due fasi. Una prima fase tesa a verificare se sul mercato sussistano alternative oggettive, a prescindere dalla condizione individuale dell’impresa dipendente (dipendenza cd. oggettiva). La seconda fase volta a stabilire se le alternative in astratto disponibili siano anche reali e soddisfacenti, cioè ragionevoli dal punto di vista dell’impresa dipendente (dipendenza cd. soggettiva).

Fattori di dipendenza soggettiva possono essere, tra gli altri: la convertibilità e l’ammortamento degli investimenti compiuti dall’impresa dipendente in funzione dei rapporti intrattenuti con la controparte dominante; la durata di tali rapporti; il grado di identificazione dell’impresa dipendente con l’immagine commerciale del fornitore; l’affidamento provocato dall’impresa dominante nella prosecuzione delle relazioni in corso; l’importanza del fatturato realizzato con il partner dominante; l’impossibilità di ricorrere ad altri metodi di fabbricazione; l’irragionevolezza dell’offerta di altre imprese; l’esistenza di specifici vincoli contrattuali.

Sempre in relazione alla nozione generale di dipendenza, ci si può poi chiedere se essa debba raggiungere una soglia minima. Di fatto, la dipendenza può esser tale, per intensità, da mettere l’impresa dominante in condizione alternativamente di: eliminare la controparte dipendente tout court; provocarne la fuoriuscita da, oppure impedirne l’accesso a, un determinato mercato, senza però comprometterne la sopravvivenza; danneggiare l’impresa dipendente, ma non al punto da determinarne l’immediata fuoriuscita da un certo mercato, né tanto meno la totale cessazione. Ancora, la dipendenza può: riguardare un solo prodotto o mercato, oppure più prodotti o mercati contemporaneamente; investire l’attività dell’impresa dipendente nella sua interezza o per una parte soltanto; coprire un arco temporale più o meno esteso, ma in ogni caso preventivabile, oppure avere una durata non determinabile a priori.

La legge, tuttavia, non richiede espressamente, a differenza di qualche precedente straniero (si veda l’omologa disposizione di diritto austriaco, che esige «gravi svantaggi aziendali»), che sia raggiunta una soglia minima, per intensità o per estensione. Al tempo stesso, però, la dipendenza non può ovviamente essere evanescente. Inoltre, la dipendenza deve esser in ogni caso tale, da rendere possibile il lamentato abuso.

Già nell’accertamento della dipendenza, infine, possono assumere rilievo valutazioni circa la meritevolezza di tutela, alla stregua dei principi, dell’impresa di fatto dipendente o “debole”. Così, si afferma che non sussiste una dipendenza rilevante nei casi di “cattivi affari” (BGH, 21.1.1993, WuW, 1993, 511 ss.; Trib. Roma, 16.8.2002, in Foro It., 2002, I, 3207 ss.). Quando cioè l’impresa si è resa dipendente semplicemente a causa di scelte imprenditoriali sbagliate, ed una sua tutela non si giustifica altrimenti.

La dipendenza può sussistere nei confronti di una «o più imprese», e quindi corrispondere ad una dominanza plurima. In proposito possono valere le ricostruzioni che correntemente si danno della nozione di posizione dominante collettiva (che, sostanzialmente, fanno coincidere quest’ultima con la presenza di un cartello). In aggiunta si può poi ipotizzare, sulla falsariga dell’esperienza tedesca (BGH, 17.1.1979, WuW/E BGH, 2990 ss.), anche una dipendenza “relativa” o “di gruppo”, che sussiste nei confronti di un gruppo di imprese in grado, ciascuna separatamente dalle altre, di influenzare in maniera determinante il funzionamento del medesimo mercato.

5. Ipotesi applicative. La dipendenza da assortimento. La dipendenza da rapporti commerciali

Nell’elaborazione dottrinale nostrana si tende a distinguere, per lo più sulla falsariga dell’esperienza tedesca, ma in parte anche sulla scorta della letteratura giuseconomica in tema di contratti relazionali, alcune ipotesi applicative tipiche della nozione di dipendenza economica.

a) Una prima ipotesi è la dipendenza da assortimento. Nella sua variante originaria e più tipica, la dipendenza da assortimento riguarda l’intermediario commerciale, grossista o dettagliante, che, per essere competitivo, deve poter condurre nel proprio assortimento una o più marche tra le più note del momento (BGH, 20.11.1975, WuW/E BGH, 1391 ss.; BGH, 17.1.1979, WuW/E BGH, 2990 ss.). L’ipotesi va oggi ricostruita in coerenza con i principi e le regole che il diritto antitrust comunitario detta in materia di distribuzione selettiva, e che si ricavano in particolare dal reg. UE 330/2010 in materia di accordi verticali e dai relativi Orientamenti. Un’altra variante è la dipendenza del riparatore o del ricambista indipendenti, i quali, per riuscire competitivi, hanno bisogno di accedere al mercato dei ricambi originali, di regola controllato dai produttori del bene principale. Indicazioni di principio rilevanti, nel senso della maggiore apertura possibile del mercato secondario ai ricambisti e ai riparatori indipendenti, si possono trarre sempre dal diritto antitrust, e soprattutto dal reg. UE 461/2010 e dai relativi Orientamenti. Altre varianti ancora, presenti nell’esperienza applicativa tedesca, sono: la dipendenza dell’esercente indipendente di sala cinematografica, rispetto ai distributori di pellicole (OLG München, 30.1.2003, WuW DE-R, 1160 ss.); degli aspiranti espositori, nei confronti degli organizzatori di fiere, mostre, esposizioni e concorsi (ex plurimis, OLG Frankfurt, 17.3.1992, WuW/E OLG, 5027 ss.); del produttore o del fornitore, che possono raggiungere dettaglianti e/o consumatori finali solo o soprattutto attraverso canali distributivi organizzati da altre imprese (BGH, 21.2.1995, WuW/E BGH, 1567 ss.).

b) Una seconda principale ipotesi di dipendenza economica, sufficientemente tipizzata a livello di elaborazione dottrinale, è quella da rapporti commerciali. Fattori quali: investimenti, specializzati e difficilmente recuperabili in usi alternativi, effettuati dall’impresa dipendente in funzione di quella relazione, la lunga durata o la tendenziale esclusività della stessa, fanno sì che l’impresa dipendente non possa agevolmente cambiare partner commerciale, esponendola di conseguenza al rischio di comportamenti opportunistici della controparte (tra le altre, Trib. Torino, 12.3.2010, Foro It., 2011, I, 271 ss.; Trib. Torino, 11.3.2010, Giur. Comm., 2011, II, 1471 ss.; Trib. Roma, 30.11.2009, Foro It., 2011, I, 256 ss.; Trib. Catania, 9.7.2009, Foro It., 2009, I, 2813 ss.; Trib. Isernia, 12.4.2006, Giur. mer., 2006, 2149 ss.; Trib. Roma, 5.11.2003, Riv. dir. comm., 2004, II, 262 ss.; Trib. Bari, 6.5.2002, Riv. dir. comm., 2002, II, 319 ss.). Alla luce soprattutto di argomenti di efficienza economica, che si rinvengono alla base anche di altre soluzioni positivamente accolte dal legislatore comunitario o nazionale (v. in particolare: la disciplina del recesso del fornitore nel rapporto di distribuzione automobilistica integrata come disciplinata nel vecchio reg. CE n. 1400/2002; la disciplina della durata dell’affiliazione commerciale all’art. 3, co. 3, l. 6.5.2004, n. 129), si ritiene in linea di principio che vada protetta l’aspettativa dell’impresa dipendente al recupero dell’investimento, se del caso anche integrale e con l’aggiunta di un congruo utile, tenuto conto della sua redditività concreta. Se invece la dipendenza deriva principalmente dalla durata e dal carattere tendenzialmente esclusivo della relazione, l’impresa dipendente sarà ugualmente tutelata, in linea di principio, ma soltanto per un tempo limitato, sufficiente per “guardarsi intorno”. Diversamente, infatti, si sconfinerebbe nella protezione sociale, in contrasto con i principi. Indicazioni di massima su quale possa essere in tali ipotesi un congruo termine di preavviso si dovrebbero poter trarre dalla disciplina dell’agenzia, segnatamente dall’art. 1750 c.c. Varianti tipiche legali di dipendenza da rapporti commerciali sono la subfornitura (art. 1, l. n. 192/1998), l’affiliazione commerciale (art. 1, l. n. 129/2004) e quella dei gestori di impianti di distribuzione di carburante nei confronti dei titolari dell’impianto ovvero dei fornitori di carburante (art. 17, d.l. n. 1/2012, conv. in l. n. 27/2012). Nell’ipotesi relativa alla distribuzione di carburante, la qualificazione di determinate condotte come abuso di dipendenza economica è operata dallo stesso legislatore. In tutte e tre le ipotesi il divieto di abuso di dipendenza economica interviene per lo più ad integrare la disciplina speciale, per gli aspetti sostanziale e/o rimediale.

c) Problematica si presenta, sotto il profilo della sua effettiva riconducibilità al divieto e in particolare alla nozione di dipendenza economica in esso contenuta, la previsione legislativa dell’art. 9, co. 3 bis, secondo periodo, l. n. 192/1998. La quale qualifica come abuso di dipendenza economica la violazione sistematica e diffusa della normativa sui ritardi nei pagamenti. Un’interpretazione ragionevole potrebbe essere quella di ammettere che, ricorrendo una tale violazione, lo stato di dipendenza economica del creditore si presuma, salvo prova contraria; e che in questi casi spetti quindi al debitore di provare che non sussiste alcuna dipendenza, ovvero che la dipendenza non è tale da rendere possibile il lamentato abuso, oppure ancora che il ritardo è coperto da una causa di giustificazione oggettiva del tipo che in generale vale ad escludere l’abuso di dipendenza economica.

d) Si discute, infine, se il divieto possa esser impiegato per controllare, nei rapporti tra imprese, le condizioni generali di contratto tendenzialmente per sé considerate, sulla falsariga di quanto previsto per i contratti del consumatore come anche – in altri ordinamenti, tra cui in particolare quello tedesco – per i contratti tra imprese.

6. La nozione di abuso in generale. Le ipotesi tipiche di abuso

Sia la nozione generale sia le ipotesi nominate di abuso si possono ricostruire in buona parte attingendo all’elaborazione relativa ai divieti, nazionale e comunitario, di abuso di posizione dominante.

Un’importante differenza rispetto ai divieti di abuso di posizione dominante è tuttavia che, per aversi abuso di dipendenza economica, occorre comunque che la condotta dell’impresa dominante rechi un pregiudizio alla controparte dipendente, e che la dipendenza sia tale da rendere possibile quel pregiudizio.

A livello di ipotesi di abuso tipiche, viene in considerazione anzitutto il rifiuto di vendere o di comprare. Esso comprende l’altra ipotesi, dell’interruzione delle relazioni commerciali in atto. Entrambe vanno intese in senso sostanziale o economico, come rifiuto di intrattenere, ossia iniziare, proseguire o riprendere, relazioni commerciali con la controparte dipendente. Dal punto di vista poi delle categorie giuridiche tradizionali, il rifiuto può variamente qualificarsi, tra l’altro come disdetta di un contratto a termine rinnovabile, recesso da un contratto a tempo indeterminato (cfr. Cass. 18.9.2009, n. 20106; Trib. Torre Annunziata, 30.3.2007, Giur. mer., 2007, 2009 ss.; Trib. Roma, 5.11.2003, Riv. dir. comm., 2004, II, 1 ss.), mancato rinnovo del contratto tout court (Trib. Catania, 9.7.2009, Foro It., 2009, I, 2813), comportamenti pretestuosamente dilatori tenuti nel corso delle trattative, inadempimento contrattuale.

L’imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie è invece l’imposizione alla controparte di un certo trattamento – economicamente insostenibile o comunque lontano dagli standard di contenuto che si registrano nelle relazioni fra imprese di pari forza negoziale – nella relazione commerciale. Il trattamento può riguardare i prezzi, altre condizioni economiche, come anche quelle che nella disciplina dei contratti del consumatore si qualificano come condizioni “normative”.

È opinione diffusa che possa valere agli effetti dell’abuso di dipendenza economica una presunzione di abusività delle clausole di cui agli artt. 1341 c.c. e 33 e 36 c. cons. Sembra inoltre corretto che, nell’accertamento dell’abuso, si faccia luogo ad una valutazione costi-benefici come quella prevista dall’art. 101, paragrafo 3, TFEU (cioè si consenta all’impresa dominante di giustificare la propria pratica commerciale, dimostrando che la stessa comporta guadagni di efficienza complessivi e beneficio per i consumatori). Rimane estranea al giudizio di illiceità ogni valutazione circa la colpevolezza dell’agente. L’elemento soggettivo, dolo o colpa, assume rilievo al più ai fini del risarcimento dei danni, secondo le regole generali della responsabilità aquiliana. Ipotesi tipiche di abuso sono anche quelle previste dalla normativa di settore che disciplina i rapporti tra gestori e titolari di distributori di carburante o fornitori di carburante (art. 17, d.l. n. 1/2012, conv. in l. n. 27/2012). Come ipotesi legalmente atipica di abuso si trova discussa, nella prassi applicativa italiana, l’inserimento in un sistema di distribuzione integrata di nuovi distributori, con pregiudizio per gli investimenti attivati dai distributori già affiliati (Trib. Torino, 12.3.2010, Foro It., 2011, I, 271 ss.; Trib. Isernia, 12.4.2006, Giur. mer., 2006, 2149 ss.).

I rimedi civili

L’invalidità da abuso di dipendenza economica, che il legislatore ha chiamato «nullità», mira in prima linea a proteggere l’impresa dipendente che ha subito l’imposizione di condizioni inique. Essa è perciò generalmente ricondotta alla categoria, di elaborazione dottrinale, delle invalidità cd. di protezione. Di qui la soluzione prevalente, della parzialità necessaria, e di una legittimazione attiva ristretta alla sola parte vittima dell’abuso. Per i rimanenti profili di disciplina (rilievo d’ufficio, prescrizione, convalida, opponibilità ai terzi, sanatoria, rettifica mediante offerta di riconduzione ad equità), invece, si tende per lo più a dare per scontata l’applicabilità del generale regime della nullità (artt. 1419 ss. c.c.).  È presente in dottrina però anche la tesi dell’applicabilità, in via di analogia juris, della generale disciplina dell’annullabilità (artt. 1441 ss. c.c.), sul presupposto che questa rappresenti la reazione normale dell’ordinamento di fronte alla violazione di norme poste a tutela di una responsabile esplicazione dell’autonomia privata.

In ordine alla responsabilità per danni, è controversa anzitutto la sua natura, contrattuale, aquiliana o mista. La varietà di opinioni sul punto riflette le attuali incertezze sui generali criteri di distinzione tra responsabilità contrattuale e non, nonché sulla funzione del divieto di abuso di dipendenza economica in particolare (per la natura contrattuale della responsabilità da interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, Cass, S.U., ord. 25.11.2011, n. 24906, Nuova giur. civ. comm, 2012, I, 298 ss.). Agli effetti pratici, le differenze di maggior rilievo riguardano probabilmente il regime internazionalprivatistico e la prescrizione. Per il resto (colpevolezza, an e quantum del danno, prova) dovrebbero difatti valere le specifiche regole settoriali della responsabilità per danni da illecito concorrenziale.

È controversa, infine, l’ammissibilità di tutele in forma specifica, in particolare di provvedimenti giudiziali, cautelari e definitivi, tendenti a far ottenere all’impresa dipendente la specifica utilità rifiutata. Le obiezioni contro l’ammissibilità di tali ordini sono quelle note (v. per es. Trib. Roma, 12.9.2002, Foro It., 2002, I, 3207 ss.), che emergono dal dibattito sulla tutela specifica per violazioni della normativa antitrust. L’espressa previsione nel testo dell’art. 9 delle inibitorie aiuta in parte a superare tali obiezioni, non solo per il rifiuto di contrarre costituente abuso di dipendenza economica (contra Trib. Bari, 11.10.2004, dejure), ma anche, più in generale, per il rifiuto di contrarre che integri un illecito concorrenziale ai sensi degli artt. 101 e 102 TFEU, 2 e 3 l. n. 287/1990, 2598 c.c.

Secondo il tipo di illecito e le circostanze del caso concreto, si dovrebbe poter avere un obbligo giudiziale di contrarre tout court, magari a certe condizioni individuate (quando l’avvio o la prosecuzione della relazione commerciale sia in concreto la sola alternativa lecita al comportamento abusivo) (Trib. Torino, 11.3.2010, Giur. Comm., 2011, II, 1471 ss.; Trib. Catania, 9.7.2009, Foro It., 2009, I, 2813; Trib. Torre Annunziata, 30.3.2007, Giur. mer., 2007, 2009 ss.; Trib. Trieste, 21.9.2006, Nuova giur. civ. comm, 2007, I, 899 ss.; Trib. Roma, 5.11.2003, Riv. dir. comm., 2004, II, 1 ss.; Trib. Taranto, 17.9.2003, Foro It., 2003, I, 3440; Trib. Bari, 6.5.2002, Riv. dir. comm., 2002, II, 319 ss.); oppure un obbligo di contrarre “condizionato” (quando le alternative lecite sono in concreto più d’una); oppure ancora “variabile” (se per es. si rende necessaria, oltre all’ordine di contrarre, anche la determinazione in qualche misura, ma non per intero, dell’oggetto e delle condizioni della relazione).

Rimedi collettivi contro l’abuso di dipendenza economica possono essere attivati in sede civile dalle associazioni di categoria rappresentative, quando l’abuso risulti lesivo dell’interesse generale della categoria ovvero degli interessi seriali di imprese appartenenti ad una medesima categoria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, co. 1, e 10, co. 3, l. n. 180/2011. In pratica, il rimedio appare destinato a trovare applicazione nei casi in cui una grande impresa imponga sistematicamente una politica commerciale abusiva ad una pluralità di imprese da essa dipendenti, magari avendo come controparte negoziale un consorzio od altra entità che le riunisce.

Competente per le azioni civili è il Tribunale, secondo le regole ordinarie. Se l’illecito si qualifica anche come abuso di posizione dominante di rilevanza nazionale, dovrebbe inoltre rimanere salva, per la vittima dell’abuso, la possibilità di adire le sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. c), d.lgs. 27.6.2003, n. 168.

Non dovrebbe valere, attesa la portata generale del divieto di abuso di dipendenza economica oltre i rapporti di subfornitura, l’obbligo di conciliazione ex art. 10 l. 192/1998 (Trib. Teramo, 4.2.2010, dejure; contra Trib. Roma, 20.5.2002, Foro It., 2002, I, 3280, quando il rapporto tra le parti si qualifichi come di subfornitura).

8. Rapporti con il divieto nazionale di abuso di posizione dominante e competenza dell'Agcm

La norma sulla competenza dell’Agcm mira verosimilmente a circoscriverne, per ragioni di buon andamento della pubblica amministrazione, la potestà d’intervento a quei casi, in cui la portata degli interessi coinvolti è tale da giustificare l’azione di un’amministrazione indipendente nazionale, preposta alla tutela della concorrenza e del mercato.

Agli effetti dei rapporti tra divieto di abuso di dipendenza economica e divieto nazionale di abuso di posizione dominante, e più in generale della competenza dell’Autorità, la norma impone di distinguere tre ipotesi: a) abuso di dipendenza economica coincidente con un abuso di posizione dominante; b) abuso di dipendenza economica che, pur senza coincidere con un abuso di posizione dominante, presenta rilievo concorrenziale; c) abuso di dipendenza economica semplice, che non coincide con un abuso di posizione dominante, e neppure presenta rilievo concorrenziale. In concreto, la dottrina propone di ricondurre all’ipotesi sub a) l’egemonia su imprese clienti o fornitrici, che un’impresa trae dalla titolarità di una risorsa essenziale per operare su mercati a monte o a valle; all’ipotesi sub b) il potere di mercato verticale, che il produttore di un bene principale può esercitare sui mercati derivati dei servizi di assistenza e riparazione di propri prodotti; come anche il potere di mercato di chi sia titolare unico o quasi della domanda rivolta a mercati minori (assistenza, manutenzione, riparazione, subfornitura), e che richiede la formazione di piccole imprese specializzate. In queste situazioni, in cui l’incidenza sul mercato dei relativi abusi è verosimilmente più modesta, la potestà d’intervento dell’Autorità è eventuale, e si giustifica solo in certi casi, in particolare quando si tratti di pratiche generalizzate e/o di mercati derivati di notevole importanza economica, in assoluto o rispetto al mercato principale. All’ipotesi sub c), infine, si riconduce tendenzialmente il potere economico bilaterale o contrattuale o specifico al rapporto o anche dipendenza da rapporti commerciali. In questo caso, nascendo la dipendenza da circostanze interne ai rapporti tra le parti, si può supporre che le ripercussioni dell’abuso sulle posizioni degli altri attori economici e per la concorrenza siano in generale più modeste, che in tutte le altre situazioni sin qui considerate.

In un’interpretazione funzionale e sistematica, l’ulteriore previsione contenuta nel secondo periodo del co. 3 bis, relativa alla violazione della disciplina dei ritardi nei pagamenti, si lascia intendere come un’estensione della competenza dell’Agcm. Competenza rispetto alla quale dovrebbe tuttavia continuare a valere il generale presupposto del rilievo concorrenziale della condotta, che definisce l’ipotesi sub b) sopra illustrata.

In ordine al controllo giurisdizionale, si deve ritenere che i provvedimenti adottati dall’Autorità in base all’art. 9, co. 3 bis, l. n. 192/1998 siano soggetti alla giurisdizione esclusiva del T.A.R. Lazio, in applicazione dell’art. 33, co. 1, l. n. 287/1990.

Fonti normative

Art. 9, l. 18.6.1998, n. 192; artt. 4 e 10, l. 11.11.2011, n. 180; artt. 17 e 62, d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. in l. 24.3.2012, n. 27; d.lgs. 9.10.2002, n. 231; l. 6.5.2004, n. 129; artt. 2, 3 e 33, l. 10.10.1990, n. 287; art. 3 reg. CE 1/2003; artt. 101 e 102 TFEU.

Bibliografia essenziale

Colangelo, G., L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, Torino, 2004; Di Lorenzo, G., Abuso di dipendenza economica e contratto nullo, Padova, 2009; Fabbio, Ph., L’abuso di dipendenza economica, Milano, 2006; Id., Abuso di dipendenza economica, in Catricalà, A. – Gabrielli, E. (a cura di), I contratti nella concorrenza, in Tratt. contratti Rescigno-Gabrielli, 2011, 271 ss.; Ferraro, P.P., L’impresa dipendente, Napoli, 2004; Libertini, M., Posizione dominante individuale e posizione dominante collettiva, in Riv. dir. comm., 2003, I, 543 ss.; Maugeri, M.R., Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Milano, 2003; Natoli, R., L’abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato, Napoli, 2004; Osti, C., Riflessioni sull’abuso di dipendenza economica, in Merc. conc. reg., 1999, 9 ss.; Villella, A., Abuso di dipendenza economica ed obbligo a contrarre, Napoli, 2009.

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