Accento

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

accento

Barbara Gili Fivela

Definizione

L’accento è uno dei tratti prosodici di una lingua (➔ prosodia) e può svolgere più funzioni: far risaltare una sillaba all’interno della parola (funzione culminativa) o indicare i confini di unità morfologiche o sintattico-prosodiche (funzione demarcativa). Inoltre, la sua posizione può essere libera (o mobile) nelle lingue, come l’italiano, in cui può riguardare qualsiasi sillaba, oppure fissa nelle lingue, come l’ungherese, in cui occupa sempre la stessa posizione rispetto all’unità di riferimento. Nelle lingue con posizione libera, oltre alla funzione culminativa l’accento ha funzione distintiva, ossia può differenziare il significato e la categoria grammaticale delle parole (➔ fonologia); nelle lingue in cui ha posizione fissa ha piuttosto una funzione demarcativa, indicando la fine di un costituente.

L’accento può anche mettere in evidenza una parola nella frase, rivestendo un ruolo fondamentale dal punto di vista intonativo (➔ focalizzazioni; ➔ intonazione). In questo caso è anche chiamato accento di frase, e si colloca di solito sulle sillabe portatrici di accento (primario) di parola (benché in alcuni quadri teorici si parli di accento di sintagma quando ci si riferisce a un accento in corrispondenza di un confine prosodico piuttosto che di una sillaba portatrice di accento primario; ➔ curva melodica).

In senso generico il termine accento può anche essere usato per indicare le peculiarità di ➔ pronuncia che identificano nel suo insieme una certa lingua, varietà di lingua o dialetto (si parla allora di accento straniero, accento milanese, ecc.).

Principali correlati fonetici

L’accento si realizza grazie a tre principali correlati acustici: la frequenza fondamentale della voce, la durata e l’intensità (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di).

La frequenza fondamentale corrisponde al numero di aperture e chiusure della glottide in un’unità di tempo e, dal punto di vista acustico, al numero di cicli al secondo (o Hertz) compiuti dall’onda sonora, che viene percepito come altezza tonale. La durata rappresenta il tempo impiegato a compiere i gesti articolatori necessari per produrre un’unità fonetica; si misura in millisecondi, sia dal punto di vista articolatorio che dal punto di vista acustico, ambito nel quale ci si riferisce alla durata temporale dell’unità prodotta; dal punto di vista percettivo, la durata corrisponde alla lunghezza (termine usato anche per indicarne il valore distintivo). L’intensità dipende dall’interazione tra la pressione dell’aria subglottidale, il passaggio dell’aria attraverso la glottide stessa, l’ampiezza di vibrazione delle pliche vocali e la configurazione della cavità fonatoria (➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di). Dal punto di vista acustico è positivamente correlata all’ampiezza dell’onda sonora; dal punto di vista percettivo, corrisponde al volume. In ogni caso, soprattutto per frequenza fondamentale e intensità, non esiste una correlazione lineare tra parametro prodotto e percepito.

Questi correlati partecipano alla realizzazione dell’accento in misura variabile a seconda delle lingua (accento dinamico; v. oltre, al § 3; ➔ accento melodico) e del tipo di accento (accento di frase).

L’accento lessicale è correlato alla ➔ sillaba, ma di fatto interessa piuttosto la vocale: per questo si parla di vocale o sillaba accentata, non di consonante accentata. La variazione di questi parametri permette di realizzare la prominenza lessicale principale (accento primario) e la prominenza secondaria (accento secondario). In ogni caso si tratta di una caratteristica relativa, e non assoluta, di una sillaba rispetto alle altre della catena fonica.

Nel sistema di trascrizione IPA (International phonetic alphabet; ➔ alfabeto fonetico), l’accento si segna prima della sillaba su cui cade: per es., /ˌpɔrtaˈborse/ portaborse, dove è indicato sia l’accento primario [ˈ] che il secondario [ˌ].

L’accento in italiano

In italiano l’accento svolge un ruolo cruciale a livello sia lessicale che di frase, potendo mettere in rilievo sia una sillaba all’interno della parola sia una parola nella frase (in questa voce sono trattati gli aspetti legati al suo ruolo lessicale; per le sue funzioni a livello di frase ➔ intonazione; ➔ curva melodica; ➔ prosodia).

Mettendo in risalto una sillaba nella parola, l’accento ha anzitutto funzione culminativa. La sillaba portatrice di accento è più prominente di quelle non accentate (dette atone) e può corrispondere a diversi livelli di prominenza all’interno della parola. La sillaba accentata (o tonica) rappresenta di solito la prominenza principale e corrisponde all’accento lessicale primario della parola: per es., in /ka.ˈpi.to/ capito, part. pass. di capire (dove . indica il confine sillabico).

Nelle parole lunghe (o in genere nelle parole complesse: cfr. § 3.1) è possibile individuare anche accenti secondari (o ritmici), dotati di prominenza inferiore a quella primaria, ma superiore a quella delle sillabe atone: per es., /ˌkasːaˈpaŋka/ cassapanca. Si tratta di prominenze la cui presenza è influenzata dalla struttura ritmica del resto dell’enunciato così come dalla velocità di eloquio (sono solitamente più evidenti se la velocità di eloquio non è elevata). L’attribuzione dell’accento secondario è regolata dalla tendenza ad alternare sillabe forti (quelle su cui cade accento primario o secondario) e deboli (sillabe atone, non portatrici di accento). Quindi, in base al numero di sillabe che compongono la parola, può essere presente più di un accento secondario, anche in posizioni diverse (per es., /ˌinternatˌtsjonaˌlidzːaˈtːsjone/ o /inˌternatˌtsjonaˌlidzːaˈtːsjone/ internazionalizzazione).

L’organizzazione degli accenti corrisponde alla struttura ritmica dell’enunciato, alla presenza di gruppi regolari di sillabe, costruiti a partire da quelle accentate. I gruppi formati da una sillaba tonica e una o più sillabe atone sono detti piedi (o piedi metrici). La tendenza ad alternare sillabe deboli e forti si riscontra in tutte le lingue, benché con alcune differenze: ad es., l’organizzazione può corrispondere a un ritmo binario (una sillaba forte alterna con una debole) o ternario (una sillaba forte alterna con due deboli; il ritmo quaternario è percepito come combinazione di due ritmi binari). Per questo motivo, sequenze di sillabe forti o sillabe deboli adiacenti sono ritmicamente malformate e vengono opportunamente evitate (cfr. § 4) (Nespor 1993, Maturi 2006).

Dal punto di vista fisico, l’accento corrisponde di solito a un valore di frequenza più alto, una durata e intensità maggiore della vocale che rappresenta il nucleo della sillaba accentata (talvolta modificata anche nel timbro; ➔ vocali, ➔ monottongo). Il suo correlato fonetico principale può però variare a seconda delle lingue: in italiano, ad es., l’accento lessicale corrisponde principalmente a una variazione di durata ed è definito come accento dinamico o intensivo; in inglese, l’accento lessicale corrisponde principalmente a una variazione di altezza tonale, e viene infatti identificato come accento tonale o musicale (diverso è il caso dell’uso della variazione di tono ai fini lessicali per cui la stessa sillaba assume significati diversi a seconda delle caratteristiche tonali, ad es. nel cinese mandarino). Inoltre, in alcune lingue l’accento è anche correlato alla presenza di timbri vocalici diversi (senza contare che le vocali atone possono subire processi di riduzione e contribuire a evidenziare la sillaba accentata).

La posizione dell’accento nella parola può essere libera o fissa. È libera nelle lingue, quali l’italiano, l’inglese o lo spagnolo, in cui l’accento può stare su qualsiasi sillaba, benché di fatto tenda a occupare una delle tre sillabe finali. In italiano, ad es., può cadere sull’ultima sillaba (parole ossitone o tronche: /ka.pi.ˈto/ capitò), sulla penultima (parole parossitone o piane: /ka.ˈpi.to/ capìto), sulla terzultima (parole proparossitone o sdrucciole: /ˈka.pi.to/ càpito), sulla quartultima (parole bisdrucciole: /ˈka.pi.ta.no/ càpitano) o anche sulla quintultima (parole trisdrucciole, ad es. per l’aggiunta di pronomi clitici: /ˈka.ri.ka.me.lo/ càricamelo).

Pur potendo occupare diverse posizioni, in italiano le parole più frequenti sono piane: sono il 93,3% delle parole bisillabe e l’81,1% delle trisillabe (secondo Mancini & Voghera 1994) e rappresentano, in generale, il 74,62% delle parole del corpus del Lessico di frequenza dell’italiano parlato (LIP), in cui solo il 16,54% e l’8,85% corrispondono, rispettivamente, a parole tronche e sdrucciole. L’italiano ha quindi una certa preferenza ad accentare la penultima sillaba della parola.

In altre lingue ad accento libero l’esistenza di posizioni preferenziali per l’accento è ancora più evidente (in inglese, tedesco o in altre lingue germaniche, nelle quali la sillaba accentata è spesso la prima, oppure in ebraico e persiano, nelle quali è l’ultima). Ci sono poi lingue in cui la posizione dell’accento è libera, ma prevedibile in base a fattori fonologici: per es., in latino l’accento può colpire la penultima o terzultima sillaba, in base alla struttura della penultima sillaba (cfr. «legge della penultima», al § 3.2).

In italiano quindi la posizione dell’accento è libera, ma, oltre al fatto che esiste una prevalenza di parole piane, sono riscontrabili alcune regolarità nella posizione dell’accento per via di una restrizione prosodica e di alcuni fenomeni morfofonologici (per i quali cfr. § 3.1). La restrizione prosodica riguarda l’impossibilità di accentare la terzultima sillaba quando la penultima sia una sillaba chiusa. A parte alcune eccezioni (mandorla, polizza e alcuni toponimi come Taranto, Levanto, Otranto, Agordo, o neoformazioni come Fininvest), l’italiano risente quindi dell’influenza del latino, ove una sillaba pesante, come quella chiusa, attraeva l’accento che altrimenti risaliva alla terzultima sillaba.

In realtà, al di là del caso appena descritto, se si considera più in generale la relazione tra peso della sillaba e accento in italiano, si scopre una situazione simile a quella descritta per il latino, ma dovuta a una regola allofonica (➔ allofoni) piuttosto che a una restrizione circa la posizione dell’accento. Infatti le sillabe accentate sono, per così dire, rese pesanti dalla regola che prevede l’allungamento della vocale tonica (in sillaba aperta, ma solo in posizione interna di parola) e che di fatto rende ‘bimoraiche’ le sillabe portatrici di accento.

Infine, in italiano ci sono casi in cui non si prevede alcun accento, come per i morfemi (articoli, preposizioni, anche articolate, forme atone di pronomi, ausiliari: ➔ clitici) che hanno autonomia accentuale solo in isolamento, ma che non ricevono accento primario quando appartengano a unità di ordine maggiore (per es., [il‿paˈpa ʧi‿saˈluta] il papà ci saluta, [ˈmandaʎelo] mandaglielo).

In ogni caso, nelle lingue in cui ha posizione libera, l’accento ha funzione distintiva (➔ fonologia), potendo differenziare il significato e/o la categoria grammaticale delle parole:

/ˈpapa/ papa ~ /paˈpa/ papà

/ˈankora/ àncora nome ~ /anˈkora/ ancòra avverbio

/ˈabitino/ àbitino ~ /abiˈtino/ abitìno

Nelle lingue in cui ha posizione fissa, come l’ungherese, il polacco o il francese, l’accento non può avere funzione distintiva, ma piuttosto funzione demarcativa, indicando la fine di un morfema o di un costituente di ordine superiore (per es., in francese, dove la posizione dell’accento svolge una funzione demarcativa a livello di sintagma prosodico). In queste lingue, l’accento cade prevalentemente in una posizione all’interno della parola: sulla prima sillaba nell’ungherese, sulla penultima nel polacco e sull’ultima (del sintagma) nel francese.

Fenomeni morfofonologici dovuti a derivazione, composizione e flessione della parola

I processi morfologici possono variare anche le caratteristiche accentuali di una parola (Scalise 1994). Nel caso di prefissazione, ossia di aggiunta di un affisso all’inizio della parola (➔ prefissi), la posizione dell’accento primario non cambia (per es., attìvo ~ in + attìvo, presidente ~ ex + presidènte). Invece, nel caso di suffissazione, ossia di aggiunta dell’affisso alla fine della parola, la posizione dell’accento può cambiare (per es., ùtile + ità → utilità /ˌutiliˈta/; rin + vérde + ire → rinverdìre /ˌrinverˈdire/; peraltro può cambiare anche la categoria lessicale della parola: per es., velòce ~ velocità, giùsto ~ giustìzia ~ giustiziàre).

Nel caso di ➔ composizione, ossia di formazione di parole a partire da parole esistenti, uno dei due accenti primari di solito risulta più prominente. In italiano, come nelle altre lingue romanze, solitamente è l’accento primario sulla sillaba accentata della parola di destra (per es., pescecàne, cassapànca, portalèttere; anche per composti reduplicati o troncati: leccalècca, confcommèrcio); nelle lingue germaniche quello della parola di sinistra. Di solito, la posizione dell’accento secondario coincide con la posizione originaria dell’accento nella parola che entra nel composto (/ˌpɔrtaˈborse/ portaborse), ma in alcuni casi ciò non avviene, sempre coerentemente con la tendenza ad alternare sillabe forti e deboli (/seˈsːanta/ sessanta, ma /ˌseˈsːanˈtuno/ sessantuno) (Scalise 1994, Maturi 2006).

Anche la ➔ flessione può modificare le caratteristiche accentuali: questa è una proprietà che caratterizza l’italiano tra le lingue romanze. Ad es., la flessione del verbo e la realizzazione della terza persona singolare del passato remoto dei verbi regolari (cantò) o della prima singolare del futuro semplice (canterò) porta alla creazione di forme tronche. Sono invece parole sdrucciole quelle corrispondenti a nomi in -a/igine, -a/iggine (indàgine), -e/udine (salsèdine); gli aggettivi e i sostantivi in -a/ibile (accettàbile), -évole (piacévole), -aceo (erbaceo), -ico (atlètico), -ognolo (verdògnolo), -oide (alcalòide); i composti con secondo elemento greco in -cefalo (microcefalo), -crate (autocrate), -crono (sincrono), -dromo, -fago, -filo (zoofilo), -fobo, -fono (telefono), -gamo, -geno, -gono (poligono), -grafo, -logo (ancheologo), -mane, -metro (termometro), -nomo, -sofo (filosofo), -stato, -tesi (ipotesi), -ttero (chirottero); oppure quelli con secondo elemento in latino in -fero (mammifero), -fugo (callifugo), -pede (bipede), -pedo, -viro (triumviro) oppure -voro (carnivoro). Le parole bisdrucciole (con accento sulla quartultima sillaba) di fatto sono forme verbali corrispondenti alla terza plurale del presente all’indicativo e congiuntivo (àgitano, precìpitino), oppure sono forme ottenute legando un clitico a un verbo sdrucciolo (ìndicami, a meno che l’unione non causi la caduta, o → apocope, della vocale finale e quindi la presenza di una sillaba in meno, per cui servono due clitici: pèrdercisi), o, ancora, sono forme ottenute unendo due clitici a una parola piana (pàrlamene). Infine le parole trisdrucciole generalmente corrispondono all’aggiunta di due clitici ad un verbo sdrucciolo (di solito un imperativo: ìndicamelo).

Nel verbo, in particolare, la flessione può quindi produrre forme in cui l’accento non è nella posizione più frequente in italiano (ossia sulla penultima sillaba). Osservando più dettagliatamente come l’accento si sposta nella flessione dei verbi regolari, si nota che cade sulla radice (per es., cant- in cantare; ➔ derivazione) nelle persone singolari e nella terza persona plurale del presente indicativo e congiuntivo, così come nella seconda persona singolare dell’imperativo e in alcuni infiniti della seconda coniugazione (es. àmo, àmi, àma, àmano; àbito, àbiti, àbita, àbitano; lèggere). Queste forme sono anche dette rizotoniche.

Altrimenti, nelle forme dette rizoatone o arizotoniche, l’accento può trovarsi sulla vocale tematica (che con la radice forma il tema verbale, per es. -a- in cant-a-re) o sulla desinenza (ossia la porzione di parola che varia per la flessione): nel primo caso rientrano, ad es., le forme dell’imperfetto congiuntivo, del gerundio, del participio presente e perfetto e dell’infinito (tranne che gli infiniti rizotonici della seconda coniugazione: per es., teméssi, dormèndo, cantànte, dormìto, temére); rientrano nel secondo caso le forme del futuro e del condizionale (canterò, finirèbbe).

Casi incerti di posizione dell’accento

Alcune parole dotte di origine greca, entrate in italiano tramite il latino classico o, ancora più frequentemente, quello medievale o moderno (➔ terminologie), danno problemi di pronuncia (mìmesi o mimèsi, Edìpo o Èdipo). Le motivazioni sono spesso dovute al fatto che per queste parole la posizione dell’accento in greco non coincideva con quella in latino (gr. mímesi, Oidípus rispetto a mimēsis, Oedĭpus), a differenza di quanto accadeva in altri casi (Afrodìte, gr. Aphrodítē, lat. Aphrodīte). Infatti, il latino accentava la penultima sillaba se era lunga – ossia conteneva una vocale lunga in sillaba aperta o libera, una vocale lunga o breve in sillaba chiusa o implicata –, altrimenti accentava la terzultima sillaba («legge della penultima»). In questi casi, l’italiano preferisce seguire l’accentazione latina, benché esistano usi consolidati di altro genere (Edìpo; Accadèmia dal lat. academīa).

Altre oscillazioni nell’accentazione dipendono solo dal latino. Nel latino volgare si è assistito al fenomeno della ricomposizione, per il quale l’accento è passato dal prefisso alla radice nei verbi composti. Nelle parole dotte, possono esserci ancora oscillazioni, con accento sul prefisso come in latino classico (non solo elèvo e compàro, ma èlevo e il raro còmparo rispetto al lat. elĕvo, compăro). Al contrario, verbi con tre o più sillabe nella prima persona del presente indicativo, che dovrebbero essere pronunciati secondo il modello latino, sono prodotti con accento sulla terzultima sillaba, secondo un modello ormai usuale (collàboro, èvito, ma lat. collabōro, evīto).

In altri casi, l’accentazione non dipende dall’origine della parola, ma dal fatto che ci si uniforma all’accentazione latina per analogia (anodìno, serotìno, sul modello della serie in -ino: ad es., latino, vetrino).

Infine, si osserva la tendenza ad anticipare l’accento verso l’inizio della parola in vocaboli non usuali, per i quali una pronuncia errata si alterna con quella corretta (Bèngasi, càduco, èdile, Frìuli, mòllica, persuàdere, sàlubre invece del corretto Bengàsi, cadùco, edìle, Friùli, mollìca, persuadère, salùbre).

Fenomeni accentuali e cenni sulla variazione diatopica

In generale si tende a evitare una sequenza di sillabe forti (il cosiddetto scontro accentuale: mangerò mólto) e, anche se in misura minore, una sequenza di sillabe deboli (la cosiddetta valle accentuale: ìndicaglielo sùbito).

Lo scontro accentuale viene in qualche modo risolto: soprattutto nelle varietà settentrionali, ad es., il primo accento retrocede, in quanto si ha una deaccentazione o una diminuzione della prominenza del primo accento, mentre una sillaba precedente, che inizialmente corrispondeva a una prominenza secondaria, può arrivare ad avere un livello accentuale maggiore (/luneˈdiˈskorso/ ~ /ˈlunediˈskorso/ lunedì scorso; diverso è il caso dell’anticipazione dell’accento in parole non popolari e usuali).

Nel caso della valle accentuale, l’eliminazione non è obbligatoria, ma tende a verificarsi soprattutto a bassa velocità di eloquio, ad es. mediante realizzazione di una prominenza secondaria (/ˈindikaʎelo ˈsubito/ ~ /ˈindikaˌʎelo ˈsubito/ indicaglielo subito). Per le configurazioni aritmiche e le regole per eliminarle ➔ ritmo (Nespor 1993).

In ogni caso, in alcune varietà regionali si possono osservare spostamenti nella posizione dell’accento di parola anche in mancanza di configurazioni aritmiche. In alcune regioni settentrionali si osserva ad es. la tendenza ad anticipare la posizione dell’accento nelle parole piane, realizzandole come sdrucciole: /ˈrubrika/ rubrica, /ˈmɔlːika/ mollica. Nel meridione, invece, si tende a spostare l’accento sull’ultima vocale piena delle parole che terminino in consonante, realizzate con una sillaba aperta finale ottenuta grazie all’aggiunta di una vocale d’appoggio: [pulˈmanːə] pulman (Maturi 2006).

Le norme relative alla segnalazione dell’accento nell’ortografia sono state per lungo tempo oscillanti e si sono relativamente stabilizzate soltanto di recente (➔ accento grafico; ➔ grafia).

Studi

Camilli, Amerindo (19653), Pronuncia e grafia dell’italiano, Firenze, Sansoni (1a ed. 1941).

Mancini, Federico & Voghera, Miriam (1994), Lunghezza, tipi di sillabe e accento in italiano, «Archivio glottologico italiano» 1, pp. 51-77.

Maturi, Pietro (2006), I suoni delle lingue, i suoni dell’italiano. Introduzione alla fonetica, Bologna, il Mulino.

Nespor, Marina (1993), Fonologia, Bologna, il Mulino.

Scalise, Sergio (1994), Morfologia, Bologna, il Mulino.

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