Acheropita

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Acheropita

J. Lafontaine-Dosogne

La parola greca ἀχειϱοποίητος, che significa 'non fatto da mano (umana)', si riferisce essenzialmente alle immagini miracolose di Cristo, in particolare al Volto Santo impresso su tessuti come il mandilio di Kamuliana e quello di Edessa (il termine mandilio, in gr. τò μανδύλιον, viene dall'arabo mandil o mendil, asciugatoio, sudario). Per estensione con il termine a. si indicano anche altre immagini di Cristo e della Vergine nel senso di 'ritratti autentici'. Esso si contrappone quindi all'epiteto χειϱοποίητος, che si riferisce agli idoli. Tali immagini, di origine orientale, hanno avuto un ruolo considerevole anche in Occidente.

Il mandilio di Kamuliana (o Kamulia), secondo la Historia Ecclesiastica di Zaccaria il Retore del sec. 6° era un ritratto di Gesù dipinto su lino che una donna aveva raccolto in una fontana e nascosto nel suo velo dove ne rimase impressa una copia. Le due immagini finirono l'una a Cesarea di Cappadocia e l'altra, non lontano, a Kamuliana, dove divennero oggetto di culto. Il mandilio di Kamuliana, dopo una traversata trionfale dell'Asia Minore, giunse a Costantinopoli nel 574. L'icona miracolosa venne portata come palladium imperiale nelle campagne contro i Persiani di Maurizio, nel 586, e di Eraclio, nel 622. Essa aveva una doppia funzione, religiosa e militare, in quanto gli imperatori la utilizzarono nella loro guerra-crociata contro gli infedeli. Non si hanno notizie precise sul suo aspetto e non viene più menzionata dopo il sec. 8°: certamente andò dispersa durante i disordini del periodo iconoclasta.

A partire dal sec. 8° un'immagine a. di Cristo è documentata a Roma nel Sancta Sanctorum del Laterano. Il Lib. Pont. riferisce, senza precisarne le caratteristiche, che il papa Stefano II (752-757) la portò sulle spalle per le strade di Roma minacciata dal longobardo Astolfo.Secondo la Cronaca di Giorgio Monaco (metà del sec. 9°; PG, CX, coll. 921-922), il patriarca Germano I, sotto l'imperatore iconoclasta Leone III l'Isaurico (717-741), affidò l'immagine del Salvatore al mare con una pergamena sulla quale aveva scritto: "Signore, salva te stesso e salva anche noi". L'icona sarebbe stata raccolta poi a Roma dal papa e deposta in una 'grande chiesa'. Non è precisato di quale immagine si tratti: potrebbe essere il mandilio o l'icona del Cristo della Chalké (tipo del Pantocratore) che stava sulla porta di bronzo dell'ingresso del Grande Palazzo di Costantinopoli, prima che l'imperatore la facesse rimuovere. Comunque, nell'anno 817, a Costantinopoli si era al corrente dell'esistenza dell'a. romana, come testimonia il patriarca Niceforo, secondo il quale le città di Edessa e di Roma potevano vantarsi di possedere immagini a. del Salvatore.

In quanto all'icona del Sancta Sanctorum conservata fino a oggi nonostante il suo stato estremamente frammentario, alcuni esami hanno permesso di stabilire che si tratta di un Pantocratore, seduto su un trono gemmato, benedicente con la destra e con un libro o un rotulo nella sinistra, con i piedi appoggiati su di un suppedaneo, la capigliatura con la scriminatura nel mezzo e la barba; l'aureola è lievemente segnata da tre bracci di croce, la veste è purpurea, il cuscino rosso chiaro e il fondo azzurro. Cecchelli (1926-1927) propose di datarla al sec. 5°, ponendola in rapporto con la pittura monumentale italiana; ma oggi si può forse indicare un termine di paragone più valido nell'icona del Pantocratore nel monastero di S. Caterina al Sinai del sec. 6° dove, benché il Cristo sia raffigurato a mezza figura, i colori e tutti gli altri particolari sono abbastanza simili, compresa la forma stretta del pannello di legno, a quelli dell'icona romana che, in definitiva, possiamo ritenere opera bizantina del sec. 6° o 7°, anche se non si possono per ora precisare né la data, né le circostanze dell'arrivo a Roma. In occasione di un primo restauro sotto Giovanni X (914-928) sul retro furono dipinte una croce gemmata e un'iscrizione; mentre sotto Innocenzo III (1198-1216) fu ricoperta da una lamina di argento lavorato che lasciava visibile soltanto la testa, anch'essa peraltro coperta da un velo di seta che ne riproduceva i tratti. Da allora in poi si presentò come una immagine del Volto Santo analoga a quella conservata dal sec. 14° a Genova in S. Bartolomeo degli Armeni.

L'immagine a. di Cristo più famosa è quella di Edessa, attuale Urfa, in Turchia, legata alla storia di re Abgar, raccontata già nel sec. 4° da Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl.; PG, XX, coll. 120-129). Secondo le primitive leggende il sovrano, malato, invitò Cristo nel suo regno, ma Gesù gli rispose che gli avrebbe inviato uno dei suoi apostoli, dopo la sua morte. Successivamente un racconto siriaco, la Dottrina di Haddai, ricorda un ritratto di Cristo eseguito da Anania e mandato ad Abgar. La leggenda, che prese corpo nella seconda metà del sec. 6°, racconta che Abgar scrisse a Cristo e gli mandò il pittore Anania perché gli facesse il ritratto, ma costui non riuscì a fissarne i tratti somatici; Cristo allora si lavò il viso e asciugandosi lasciò impressa la sua immagine sulla tela; diede quindi ad Anania questo ritratto e una lettera e, ricevendoli, Abgar guarì. Nel racconto intervengono anche gli apostoli Taddeo e Tommaso. La lettera di Cristo è nota già a Procopio (De bello persico, II, XII, 22, 26, 27), ma è lo storico Evagrio (Hist. Eccl.; PG, LXXXVI bis, col. 2749) che, poco dopo il 593, menziona l'immagine a. di Cristo attribuendo la vittoria dei cristiani sui persiani alla preziosa reliquia, che era stata miracolosamente ritrovata murata al di sopra della porta della città di Edessa. Essa rimase oggetto di culto fino al 944, quando venne trionfalmente portata a Costantinopoli sotto Romano I Lecapeno e Costantino VII Porfirogenito. A quest'ultimo venne attribuita la versione estesa della storia - o Narratio (PG, CXIII, coll. 424-453) - ripresa nei menei e nei menologi, comprendente l'arrivo della reliquia a Costantinopoli; mentre una versione che si ferma all'arrivo di Taddeo a Edessa è nota sotto il nome di Epistola Abgari. Il mandilio venne accolto con gran pompa e collocato nel crisotriclinio, la sala di ricevimento degli imperatori, venendo così a ricoprire il ruolo di palladium dell'immagine di Kamuliana.

Lo Stato e la Chiesa consideravano il mandilio come la più preziosa delle reliquie, alla quale erano consacrate cerimonie solenni. Carico di un profondo significato religioso, era infatti considerato simbolo del mistero dell'Incarnazione e dell'Eucarestia - in questo senso era stato considerato un elemento importante dagli iconoduli durante la lotta iconoclasta - che si aggiungeva al valore profilattico. Dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Latini della quarta crociata, nel 1204, i tesori della capitale vennero saccheggiati e il mandilio, portato in Occidente, andò perduto.

L'arrivo del mandilio a Costantinopoli nel 944 trovò eco in due rappresentazioni: la prima (sec. 12°) è una miniatura della Cronaca di Giovanni Skilitze (Madrid, Bibl. Nac., Vit. 26-2, c. 131r) e mostra Romano I che bacia la testa di Cristo che gli viene presentata impressa su un tessuto. L'altra, di poco posteriore all'avvenimento, è una icona del monastero di S. Caterina al Sinai e mostra il re Abgar, con i tratti del Porfirogenito, che in trono tiene in mano il mandilio, in forma di salvietta con frange su cui è impresso il viso di Cristo, con la barba e il nimbo crociato. Il pendant è costituito dalla figura seduta di Taddeo; altre figure di santi si dispongono nella parte inferiore. Weitzmann (1971; 1976) ha supposto che la parte centrale rappresentasse il mandilio isolato. Questa è dunque la prima testimonianza figurata che si sia conservata della preziosa immagine.

Dopo che le leggende relative al mandilio vennero accolte nella liturgia, ne apparvero alcune rappresentazioni, nel sec. 11°, prima nei manoscritti e poi nelle icone e nella pittura monumentale. Le più antiche sono alcune immagini isolate in un menologio conservato ad Alessandria (Bibl. del Patriarcato greco ortodosso, 35), nel Vangelo di Alavardi (Tbilisi, Ist. dei manoscritti K. Kekelidze, Acc. di Scienze, A 484, c. 320v) e nella Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (Roma, BAV, Ross. 251, c. 12v). Nelle miniature di Alessandria e del Vaticano il tessuto del mandilio è ricamato a losanghe, decorate da un motivo stilizzato, mentre nel Vangelo di Alavardi è ornato da medaglioni doppi, che contengono una croce di Malta, ed è orlato lateralmente da una iscrizione pseudo-cufica. Nel codice del Vaticano compare anche, sullo stesso fondo, in negativo, ma senza frange, una testa enantiomorfa: è la replica che il tessuto, nascosto in un muro a Ierapoli, aveva lasciato impressa, durante il suo trasporto a Edessa (o nella stessa Edessa), su un mattone, il kerámion (o kerámidion), altra reliquia venerata. Il prezioso mandilio, che era stato fissato su un pannello, era difficilmente visibile e le sue rappresentazioni risultano abbastanza diverse tra loro, fatto dovuto anche al mutarsi dei caratteri fisionomici tipici della tradizione iconografica dell'arte bizantina. Per la seconda metà del sec. 12° si conoscono due icone famose: una di Novgorod (Mosca, Gosudarstvennaja Tretjakowskaja Gal.), l'altra probabilmente bulgara, conservata dal sec. 13° nel duomo di Laon. Entrambe derivano da un modello bizantino in cui il viso, circondato dalla massa ondulata dei capelli e della barba, è modellato con un'espressione dolce e grave. L'assenza del collo evoca la maschera apotropaica della Gorgone antica, come già Giorgio Piside (De expeditione persica, I; PG, XCII, coll. 1207-1208) aveva notato nel 7° secolo. Le immagini di Genova e di S. Silvestro a Roma, rovinate da ridipinture, potrebbero forse risalire a quest'epoca, anche se la rigidezza dei capelli e della barba indica una data posteriore. Le numerose repliche slave, soprattutto di ambito russo, sono caratterizzate dalla barba 'bagnata', a doppia punta. Questi volti santi sono tradizionalmente composti sullo sfondo di un tessuto simulato, da cui, tuttavia, sparirono rapidamente le frange e nelle opere più tarde la stoffa appare annodata ai bordi.Immagini simili compaiono a partire dal sec. 12° nella pittura murale; in Cappadocia se ne trovano quattro esempi nelle chiese di Göreme, posti nella protesi o nel diaconico. A Saklı kilise è da segnalare in particolare il rapporto del mandilio con Isaia e la Vergine dell'Annunciazione, rapporto che evoca la sua importanza nella dottrina dell'Incarnazione. In Georgia si può trovare il mandilio nell'abside, sopra l'altare. Nella Panagia Araku di Lagudera, a Cipro, il mandilio è rappresentato insieme con il kerámion che sormonta l'iscrizione dedicatoria al di sopra della porta; tale collocazione, che sottolinea il valore apotropaico di queste immagini, si ritrova anche nei Balcani. Soprattutto, come accade in molte chiese russe del sec. 12° (Pskov, monastero del Salvatore; Novgorod, chiesa del Salvatore di Neredica) e più tardi anche nei Balcani, la sua posizione sopraelevata - sotto la cupola o sull'arco trionfale - acquista anche valore dogmatico (a Bojana, nella chiesa di Ss. Nicola e Pantaleimone, del 1259, quattro simboli di Cristo sono raggruppati nel tamburo: mandilio, kerámion, Emanuele e Antico dei Giorni).

Nelle rappresentazioni di Costantinopoli assediata dagli Avari (626) legate all'Inno acatisto, il mandilio appare nella sua funzione apotropaica. Il suo impiego in ambito militare non fu dimenticato in Russia neppure più tardi, giacché Ivan il Terribile (1530-1584) si impadroní della citt'a di Kazan combattendo sotto uno stendardo che ne recava l'immagine.

Peraltro i racconti della Narratio e dell'Epistola Abgari ispirarono anche cicli figurativi. Nell'icona del Sinai Taddeo e il messaggero presso il re rimandano all'Epistola; dalla stessa fonte dipendono le miniature del Vangelo di Gelati (Tbilisi, Ist. dei manoscritti K. Kekelidze, Acc. di Scienze, eseguito nel monastero di Ivirón sul monte Athos nel sec. 12°) dove in nove miniature sono rappresentate undici scene che terminano con il battesimo di Abgar da parte di Taddeo. Il rotulo 499 della Pierp. Morgan Lib. di New York (fine sec. 14°-inizi del 15°) comprende tredici miniature che rappresentano gli episodi di Ierapoli - la colonna di fuoco e il mattone inciso - ma tuttavia omette altri episodi importanti. La Narratio ha ispirato quattro miniature nel Menologio di Mosca del 1063 (Gosudarstvennyj Istoritscheskij Mus., Cod. 382) e tre in quello di Parigi (BN, gr. 1528) del 12° secolo. Doveva esistere però certamente un ciclo più completo da cui derivano le dieci immagini che compaiono sulla cornice d'argento dorato del Volto Santo di Genova (prima del 1388 o del 1362, S. Bartolomeo degli Armeni): Abgar consegna ad Anania una lettera per Cristo; Anania non riesce a ritrarre Cristo; Cristo si lava e quindi consegna ad Anania una lettera e il tessuto con impressa la sua immagine; Anania porta la lettera e il telo ad Abgar; Abgar colloca l'immagine di Cristo al posto di un idolo abbattuto; il vescovo Eulalio mura il mandilio; un vescovo scopre il mandilio e il mattone con l'immagine impressa; il vescovo brucia i persiani, avendo versato olio in un braciere; all'arrivo del mandilio a Costantinopoli un indemoniato guarisce. L'esecuzione delle placche sbalzate, smaltate e con il fondo filigranato è di alta qualità, lasciando supporre un'origine costantinopolitana. Il pannello in legno su cui è dipinto il viso di Cristo è parzialmente ricoperto da una tela, forse una reliquia.

Alcune scene sono anche raffigurate nella pittura monumentale del periodo dei Paleologi, per es. nella chiesa della Vergine a Matejič (Macedonia, Iugoslavia).In Occidente la leggenda del Volto Santo si è invece concretizzata nel personaggio mitico di s. Veronica, il cui nome deriva appunto da vera icona. Ella avrebbe asciugato con un panno il viso di Cristo la cui immagine vi sarebbe rimasta impressa. S. Veronica, per l'influenza dei Misteri che la mettono in relazione con la Passione, è rappresentata come una matrona con un turbante all'orientale; così appare raffigurata su un pannello della pala d'altare del Maestro di Flémalle a Francoforte (Städelsches Kunstinst. und Städt. Gal.), dove il viso di Cristo è sereno, contrariamente all'iconografia più diffusa in cui è rappresentato doloroso e con la corona di spine. Benché tale leggenda affondi le sue radici in una tradizione antichissima che coinvolge anche l'emorroissa e la Maddalena, il culto della Veronica non compare a Roma prima del sec. 12°, mentre non lo si trova mai raffigurato nell'arte bizantina.Si possono anche citare altre a. di Cristo, per es. quella di Gesù Bambino a Menfi (Egitto), come riporta nel sec. 6° Antonino da Piacenza, o i sudari (sindoni) conosciuti in Occidente dal sec. 14° in poi, come quello famoso nella cattedrale di Torino.

Esistono anche immagini di santi considerate miracolose; ancora più importanti, dal punto di vista culturale ed artistico, sono le a. della Vergine.Giorgio Monaco (sec. 9°) segnala una immagine della Vergine impressa su una colonna di una chiesa in Palestina (Diospoli o Lydda), a cui fanno anche allusione i tre patriarchi orientali nella loro lettera all'imperatore iconoclasta Teofilo (839): il passaggio del racconto di Giovanni Damasceno sui Magi (Epistola ad Theophilum imperatorem; PG, XCV, col. 352), che risale a una tradizione del sec. 5°, parla di un ritratto della Vergine eseguito su loro richiesta per essere inviato a Babilonia. A questo episodio si riferisce l'illustrazione di un codice conservato a Gerusalemme (Greek Orthodox Patriarchate, Lib., 'Αγίοῦ Τάϕυ 14, c.106v) che mostra un pittore intento a ritrarre la Vergine seduta con il Bambino e, in un'altra scena, la cerimonia dell'installazione dell'icona; in seguito questo ritratto non verrà più menzionato.

Alcune icone della Vergine sono state considerate a. nel senso di ritratti autentici. Nel sec. 6°, Teodoro il Lettore ricorda nella Historia Ecclesiastica (PG, LXXXVI, col. 165) che l'imperatrice Eudossia (ritiratasi a Gerusalemme dal 443 al 460) aveva inviato a Pulcheria, a Costantinopoli, un'immagine della Madre di Dio dipinta dall'evangelista Luca.Un numero cospicuo di chiese, soprattutto a Costantinopoli e a Salonicco, hanno avuto l'appellativo di a. perché in esse si conservavano icone di questo tipo. L'immagine che ha avuto maggior fortuna, non solo in area bizantina dove era un palladium di Costantinopoli, ma anche in Occidente, è la Vergine Odighítria (dal monastero degli Hodigói dove era conservata), detta di s. Luca, in cui Maria tiene il Bambino ben ritto con il braccio sinistro. Numerose chiese, soprattutto in Italia, erano ritenute custodi di una icona di s. Luca; delle molte esistenti in particolare a Roma nei secc. 7° e 8° la più significativa è quella di S. Francesca Romana.

Bibliografia

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