COEN, Achille

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

COEN, Achille

Piero Treves

Nato da Giuseppe e da Eva Bonaventura in Pisa il 5 gennaio del 1844, fu allievo a Livorno probabilmente dell'istituto privato che il padre vi dirigeva, e tornò in seguito a Pisa per frequentarvi la facoltà di lettere. La scelta medesima di questa facoltà induce a ritenere che non fossero soverchiamente disagiate le condizioni economiche della famiglia, la quale, comunque, fors'anche in virtù dell'attività e dirigenza scolastica del padre, dovette coltivare le buone lettere, ed essere aperta al vario fervore culturale e civile che possedeva di quegli anni la classe dirigente ebraica, e non, dell'operosa città toscana.

Merito dei suoi maestri di Pisa, quelli altresì meno amati (e solo rammentati in qualche giovanile scrittura), come il Ranalli, il C. acquistò pressoché subito una esperienza stilistica e un'eleganza letteraria (oltre una, per i suoi tempi, davvero singolare conoscenza di lingue straniere), che caratterizzano ogni suo scritto e li differenziano dalla "titolografia scientifica" del coevo e posteriore "docto" accademico.

Un uso forse eccessivo di forme antiquate o soverchiamente toscane ("havvi", "havvene", ecc.) nulla toglie alla precisione, chiarezza, leggibilità, lindura di saggi vergati con manifesto compiacimento, impegno (e fatica) di scrittore, quando l'illeggibilità pareva un dovere e la letterarietà inconciliabile con la filologia, anzi l'esatta negazione dell'austerità scientifica.

Se l'educazione letteraria del C. è tutta opera sua, quantunque par probabile vi contribuissero l'ambiente domestico e l'atmosfera livornese (dal Micali e dall'Indicatorelivornese al Guerrazzi e ai primi lieviti e fremiti carducciani), è certo impegno e tirocinio personale, coraggioso e risoluto autodidattismo, la vocazione e formazione storica del C., sebbene si compiacesse di proclamare, massime nell'accomiatarsi dalla cattedra, "di essere stato guidato nei miei studi da tre uomini che sono dei più chiari d'Italia: Domenico Comparetti, Alessandro D'Ancona, Pasquale Villari" (cfr. Ad A. C., Firenze 1911, pp. 11 s.).

Il metodo, invero, conforme al quale il Comparetti analizzava e ricostruiva i miti dell'antichità e del Medioevo, massime la leggenda di Virgilio, si ritrova nel maggiore degli scritti del C., dal significativo titolo: Divina leggenda relativa alla nascita e allagioventù di Costantino Magno (Roma 1882). Meno "tecnico" e, in certo senso, meno "storico" del Comparetti, quantunque dimostrasse più volte la sua competenza in fatto di antichità ed epigrafia romane e sebbene partecipasse della comune matrice lato sensu "romantica", il C. ebbe forse più del Comparetti il gusto del testo da commentare letterariamente, storicamente e grammaticalmente.

Ebbe, soprattutto, più del maestro, forse per non essere nato suddito pontificio e aver accolto, invece, le aure benefiche del neoguelfismo toscano, il senso della problematica religiosa, la consapevolezza della "potenza" storica della religione (giusta la terminologia, e la storiografia, del Burckhardt, il cui Costantino fu ben cognito e caro al C., e da lui profondamente studiato, citato e discusso, con esempio non frequente negli antichisti, massime se italiani).

Non è da escludere che a quest'inclinazione o propensione del C. per la storia "religiosa" (fossero la persecuzione neroniana o la réaction païenne di Giuliano lo Apostata e di Vezzio Agorio Pretestato) contribuisse la sua coscienza e posizione "minoritaria" di ebreo. Certo questa sensibilità nativa o domestica del C. fu acuita e approfondita dall'esperienza culturale della sua terra e dalla frequentazione di taluni colleghi ed amici del tempo di Pisa, per esempio Amedeo Crivellucci. E, soprattutto, pur attentissimo a quanto nell'ambito de' suoi studi si pubblicasse fuori d'Italia, né punto digiuno di letture tedesche, molte delle quali confessò con gratitudine di dovere alla liberalità del Comparetti (cfr. ed. Nubi, p. VIII), fu, peraltro, alienissimo sempre dal pregiudizio del libro germanico e della superiorità scientifica d'Oltralpe, in ispecie allor quando il pseudo-Historismus filologico-positivistico prevalse sull'Historismus dell'idealismo romantico.

Franco-inglese (nonostante i soggiorni fiorentini del Reumont, ad es., e dello Hillebrand), e più francese anzi che inglese, era stata la cultura della cerchia toscana intorno al Capponi e all'Archivio storico. E altrettale fu, né solo per necessità od eredità, ma per elezione, ossia per intima convinzione, la cultura, l'animus storiografico del C., incline al dialogo con protestanti e cattolici, mistici e razionalisti, purché spiriti alti di storici veri, fossero in terra di Francia il de Broglie, il conte di Champagny, Amédée Thierry, Michelet e Renan, fossero oltre Manica il Milman e il Merivale. Autori, fra parentesi, tutti quanti, specialmente gl'inglesi, presto dimenticati, o affatto ignorati dalla generazione filologico-belochiana, i cui discepoli, e ciò solo tardi e difficoltosamente, hanno testé cominciato a riscoprirli.

Ma è, d'altra parte, significativo che all'attività propriamente storiografico-antichistica il C. pervenisse ormai provetto nella sua carriera di studioso e d'insegnante, né senza aver prima dato prove stimabilissime della propria competenza di filologo e della propria esperienza "letteraria". Il primo suo scritto a stampa, infatti, è il discorso che il C., testé "incaricato dell'insegnamento della storia" nel livornese liceo "Niccolini", lesse per la festa scolastica, commemorativa, appunto, di G. B. Niccolini il 17 marzo del 1868 (Di G. B. Niccolini, Firenze 1868). E il maggior merito del discorso sta nel non obbedire, come il C. avverte, ad "una cieca idolatria", nel non voler abbandonare "quella che dovrebbe essere la eterna scorta dei detti e dei fatti umani, la ragione" (ibid., p. 18). Perciò, alla mera "carità del natìo loco" si sostituisce la ricostruzione storica dell'attività del Niccolini, inserito nell'ambito cronologico e culturale che gli è proprio, non senza (ed è cosa notabile in un toscano) la rivendicazione del romanticismo, i cui paladini "inauguravano un'epoca, che prima o poi dovea trionfare" (ibid., p. 27), né senza curiosi e inattesi consensi all'austera metodica storiografica del Cattaneo (ibid., p. 31) e la ferma distinzione fra poesia e storia, in margine al Giovanni da Procida e al giudizio che della guerra del Vespro diede, contro il Niccolini, l'Amari.

Trasferitosi dal liceo "Niccolini" allo istituto tecnico, sempre in Livorno, il C. negli Annali della nuova sua scuola pubblicò (e in opuscolo, Livorno 1878) Giuseppe Micali e gli studi sulla storia primitiva dell'Italia, che non è mera testimonianza di erudizione domestica o di pietas livornese: è, invero, uno dei pochissimi tentativi che, dopo l'Unità nazionale e lo avvento della nuova filologia, fra iconoclastica e germanizzante, si siano compiuti per sottrarre all'oblio una tradizione anticistica nostrale, rivendicandone la positività, come quella che si era proposta di mettere in luce la presenza muta dei vinti nella storia dell'Italia antica e aveva gettato le premesse d'una "storia italica", a sostituzione od integrazione esegetica, così, dell'accademica e confessionale o "imperiale" storia romana.

Fra l'una e l'altra scrittura si registra il debutto "antichistico" del C., con l'edizione commentata (per i tipi dell'Aldina, Prato 1871) delle Nubi aristofanee e con la memoria (Livorno 1877) su L'abdicazione di Diocleziano, l'Aristofane dedicato ai genitori o in segno di affetto e di riconoscenza", il Diocleziano al Comparetti "con affetto e reverenza di antico discepolo".

Il commento è corredato da un ampio discorso proemiale, bipartito fra un'anche troppo minuta ricostruzione ipotetica delle prime e delle seconde Nubi e un'appassionata trattazione Del fine che si propose Aristofane nello scrivere le Nubi, cioè una indagine sul rapporto Socrate-Aristofane e l'incidenza (eventuale) delle Nubi sul processo e la condanna di Socrate. Dunque, un tentativo di storicizzare la figura di Socrate, l'ambiente in cui operarono, e le reazioni che suscitarono, il filosofo ed i sofisti. Qui, se dispiace la, tuttavia pressoché inevitabile, inintelligenza delle posizioni d'un Forchhammer (p. LV, n. 7), riesce quasi novatrice o addirittura rivoluzionaria la presenza feconda del Grote, sia nel contestare la presunta immoralità e corruzione dell'Atene democratica, sia nel difendere e intendere la positività della sofistica. Né è moralistico, ma storicistico, il verdetto ultimo sull'impossibilità d'"una totale assoluzione del poeta" (p. LXXIV), in quanto Aristofane indubbiamente contribuì, e sia pure inintenzionalmente, ad accrescere l'"impopolarità" di Socrate e a confermare, o a radicare, pertanto, il pregiudizio contro di lui.

Minor valore storiografico, pur nella squisita dottrina e nella geometrica limpidezza della dimostrazione, serba, invece, il Diocleziano, dove gli elementi accessori o generali necessariamente prevalgono sulla piccola questione cronologica (e sull'esegesi di questa). Qui è già tutto manifesto il modus scribendi del C., la sua cosiddetta prudenza o modestia, la quale consisterebbe (ex hypothesi) in una quasi magistratuale esposizione dei diversi punti di vista, per concludere solo in extremis alla formulazione del punto di vista dell'autore. Dunque, il carattere fra scolastico e matematico che il C. amò d'imprimere alle proprie scritture, mentre il suo forte, anche letterariamente, è la vigorosa linea narrativa, la sintesi storica, sovente premessa alla disamina filologica e da quest'ultima confermata.

Era, tuttavia, un bagaglio scientifico più che bastevole per condurre meritatamente il C. ad una cattedra universitaria: all'insegnamento (1878-1879) della storia antica nell'Accademia scientifico-letteraria di Milano.

Frattanto, accasatosi con Eleonora Miranda (n'ebbe tre femmine e un maschio, Adriano, mortogli poco più che ventenne, di tifo, come di tifo gli morì l'Albertina, laddove gli sopravvissero Luisa, reputata scrittrice per l'infanzia e consorte del matematico toscano Federigo Enriques, e Nella, che andò sposa all'industriale piemontese Isaia Levi), il C. visse a Milano, dov'ebbe memore allievo, e poi successore sulla cattedra, ma con assai minor apertura storiografico-intellettuale, Attilio De Marchi (cfr. Ad A. C., pp. 17 s.), parecchi anni operosi e solitari, benché si legasse col manzoniano e letterato Giovanni Rizzi, alla scuola superiore femminile "Alessandro Manzoni" insegnante carissimo di sua figlia Luisa.

La ragione del suo isolamento e del suo silenzio, che troppi, a cominciare dal Villari, vollero attribuire al suo quasi esclusivo amore per la scuola e ad un'austera, costante osservanza d'un ideale irraggiungibile di perfezione tecnico-scientifica, è, invece, obiettiva e storica. Già, infatti, la Prolusione al corso di storia antica (Milano 1879), ondeggiante fra superstite "neoguelfismo" toscano e insorgente positivismo, fra l'elogio della cosiddetta obiettività scientifica e il sempre vivo interesse per la interpretazione storico-genetica delle religioni, il cristianesimo in ispecie, tradisce la crisi; l'insoddisfazione del C., inconfessatama facilmente avvertibile, per la gente nova, il metodo vuoi negativo e distruttivo alla Pais, vuoi critico-filologico-ricostruttivo alla Beloch. Ora, all'uno e all'altro di questi metodi, o tendenze o scuole, che avrebbero per almeno un trentennio dominato, in concordia discors prima, in fierissima antitesi poi, la scena antichistica nostrale, il C. non diedealcun contributo o consenso, intimamente sapendosi all'uno e all'altro anteriore, nonché all'uno e all'altro intrinsecamente superiore.

Non tacque, preludendo all'opuscolo La persecuzione neroniana dei cristiani (Firenze-Roma 1901, p. 10), di trovarsi costì "a discorrere di un tema attenente ad un ordine di studi, pei quali sento una certa predilezione". E questo, ch'effettivamente era, sempre di poi rimase il suo campo, sia per una consonanza di sentire, propria di lui tosco-neoguelfo ed ebreo (come anche si evince fra le righe del necrologio di David Castelli, in Arch. stor. ital., s. 5, XXVII [1901], pp. 39 ss.), sia, e soprattutto forse, perché qui non lo potevano seguire né osteggiare filologi positivistici e storici razionalisti, incapacissimi entrambi di cogliere l'atmosfera d'un'epoca di costruttivo travaglio, quale il IV secolo pagano e cristiano, dal "miracolo" di ponte Milvio alla giornata del Frigido.

Perciò il C., mentre si rifiutava di collaborare (o gli si rifiutava de facto di collaborare) ai nuovi periodici dell'imperante filologismo, e solo stampò, dopo il ritorno a Firenze, in periodici tradizionalmente o novamente "toscani", quali l'Archivio storico e l'Atene e Roma; mentre pur dettava, ne' suoi anni milanesi, e per un editore milanese, un informato Manuale di storia orientale e greca per le scuole secondarie classiche (in due parti, Storia orientale e Storia greca, Milano 1885 e 1886 rispettivamente); restrinse la propria attività, senza mutar mai né di forma, né di taglio, né di stile, sostanzialmente a trattazioni di storia religiosa e/o di storia del IV sec. d. C.; spiccano fra esse l'ampia monografia su Vezzio Agorio Pretestato (in Riv. stor. ital., IV [1887], pp. 481 ss.; V [1888], pp. 1 ss., 209 ss.; la scelta medesima del periodico è significativa), mirabile "spaccato" sull'età di Giuliano lo Apostata e la "reazione pagana", esaurientissima nella trattazione biografica, epigrafica e filologico-letteraria, benché il C. deplorasse (a gran torto) l'impossibilità oggettiva "di comporre un ritratto" del personaggio da lui così amorosamente raffigurato (ibid., 1888, pp. 13, 210); e il citato opuscolo "neroniano", in cui confuta con eleganza e dottrina la tesi del Pascal e le varie ipotesi sull'origine politico-dolosa dell'incendio di Roma, in cui, tuttavia, la felice inesperienza delle guise dell'autocrazia e un forse insufficiente approfondimento psicologico della personalità di Nerone gl'impediscono di giungere a resultati positivi, cioè storici, altrettanto validi quanto i resultati negativi, mirabilmente e definitivamente conseguiti.

Ritornato dopo un decennio alla nativa Toscana, quale professore di storia antica all'istituto di studi superiori in Firenze, vi restò per un quarto di secolo, insegnante ammiratissimo e incomparabile nel giudizio dei più diversi discepoli (da U. G. Mondolfo al Salvemini e da L. Castiglioni a C. Barbagallo), pronto (per la sua competente conoscenza di tutta la storia) a sostituire il Villari ministro gli anni accademici 1890-91 e 1891-92, nonché, dal 1900 in poi, ritiratosi dalla cattedra il vecchio collega. Ma, se i suoi corsi audacemente spaziavano per quasi ogni campo della storia antica, scarsa e pressoché nulla fu la "produzione" scientifica di chi si sentiva, come il Comparetti, sostanzialmente costretto al silenzio.

Si è forse esagerato sull'isolamento, anche accademico, del C., se questi, fra l'altro, fu giudice del concorso donde uscì, nel 1900, vincitore Gaetano De Sanctis, al quale il C. negò il suo voto (e lo diede, invece, al Ciccotti), rimproverandogli soprattutto l'inadeguatezza stilistica, cioè il non aver ancora sostanzialmente trasceso la filologia nella storia. Ma è del pari significativo che, pur informato per certo della nuova metodica, quale anche in campo antichistico si veniva elaborando all'insegna del materialismo storico (erano affettuosi suoi alunni Salvemini, U. G. Mondolfo, C. Barbagallo, e R. Caggese), non aderisse, tuttavia, in alcun modo ad un'interpretazione economicistico-sociale della storia, e questa restasse per lui costruzione d'idealità etico-religiose (donde la testimonianza illuminante, tanto più perché privata, d'una sua lettera al Salvemini, in margine e a critica di un articolo-recensione che l'allievo intendeva dedicare al Giuliano di Gaetano Negri, già recensito in tono agrodolce, ma in uno scritto che aveva valore paradigmatico, dal C. in Archivio storico italiano, XXVI [1901], pp. 359 ss.).

"Uomo d'ordine", il C. era, peraltro, nella battaglia politica sostanzialmente vicino ai suoi discepoli "sinistrorsi". Durante le repressioni di fine secolo, richiesto d'"una firma che, unita con altre, fosse protesta della parte più intelligente d'Italia contro gli stati d'assedio e contro i tribunali di guerra", non solamente aderì subito, ma soggiunse: "Non una, ma venti firme io vi darei, se, potessi, per questa causa" (cfr. R. Guastalla, in Ad A. C., p. 29). Né, sia pure con lo pseudonimo "Uno studioso di storia antica", rifiutò la sua collaborazione alla salveminiana Unità, "sulla condizione della Libia nel tempo romano", per affrancar gl'Italiani dalle faziose illusioni nazionalistiche sull'Eldorado della quarta sponda.

Al tempo della guerra libica, però, il C. non era più professore. Dopo quarantaquattro anni d'insegnamento chiese l'anticipato collocamento a riposo, accomiatandosi dall'istituto fiorentino il 12 giugno 1911 e accogliendo, a testimonianza di gratitudine, portagli dal Villari e dallo studente Alberto Olivetti, una pergamena dettata da Guido Mazzoni (che al C. e ai suoi rimase poi sempre affezionato e devoto, se alle figlie di lui dedicò la propria monografia pariniana). E l'anno dopo il Beloch sgraziatamente (ma, dalla propria angolatura metodico-mentale, con verità) scriveva (in Riv. ital. di sociologia, XVI [1912], p. 430) che soltanto con l'avvento del successore del C., il "belochiano", più assai che desanctisiano, e antisemita Luigi Pareti, s'era iniziato in Firenze l'insegnamento "scientifico" della storia antica.

Malato e muto, il C. continuò ad ispirare con l'esempio, se non con l'opera, fino alla morte, avvenuta in Firenze il 6 apr. 1921.

Resta sua ultima, per noi estremamente spiacevole, ma dignitosa e coraggiosa, protesta la disposizione testamentaria, dolorosamente obbedita dalle figlie, dell'integrale distruzione delle sue carte (manoscritti, lettere, appunti, ecc.), fra cui sembra ci fosse una quasi compiuta monografia su Giuliano l'Apostata, mentre, in memoria del figlio perduto, legava la propria biblioteca alla facoltà di lettere dell'istituto superiore (dal 1924 facoltà di lettere dell'università) di Firenze.

Fonti e Bibl.: L'elenco integr. degli scritti a stampa (e del titolo dei corsi univers.) fu compilato da A. Olivetti, in Arch. stor. ital., LXXIX (1921), 2, pp. 323-327, in calce al necrologio (ibid., pp. 320 ss.), dettato da G. Salvemini, e ristamp. in Scritti vari, Milano 1978, pp. 80 s. (e cfr. anche p. 48). La lett. del C. al Salvemini, cui si accenna nel testo (da Firenze, 13 sett. 1901), in G. Salvemini, Carteggi, I, a cura di E. Gencarelli, Milano 1968, pp. 182-185. Cfr. inoltre l'opuscolo Ad A. C., Firenze 1911, per il copioso corredo di testimonianze d'illustri "accademici" (De Sanctis, Novati, Crivellucci, Ciccotti, De Marchi, Manfroni, ecc.) e per l'articolo, ivi ristampato (pp. 32 ss.), di C. Barbagallo; e P. Treves, L'idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, pp. 205 s., 250. L'autore di quest'articolo è lieto di attestare la propria gratitudine ai nipoti superstiti del C., in primis l'ing. Giovanni Enriques, e al prof. Sebastiano Timpanaro per informazioni biografiche e ricerche di archivio,

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