D'ORSI, Achille

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

D'ORSI, Achille

Luciana Soravia

Nacque a Napoli il 6 ag. 1845 da Giovanni e Giovanna Feola. Nel 1857 si iscrisse al Reale Istituto di belle arti di Napoli, dove frequentò la scuola di scultura allora diretta da Tito Angelini il cui insegnamento, ancora di tipo tradizionale, non era però ostile alle nuove tendenze veriste diffusesi fra gli allievi più giovani sull'esempio dell'opera di Stanislao Lista.

Le capacità del D. si segnalarono già nel 1863, quando presentò alla II Esposizione della Società promotrice di belle arti di Napoli la terracotta raffigurante Un garibaldino ferito (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte). L'opera, ancora romantica per soggetto e ispirazione, rivelava un'intenzione già realistica nella rappresentazione del tema eroico in chiave umana e senza compiacimenti epici o mitizzanti.

Nel 1872 vinse, insieme con Vincenzo Gemito, il concorso per il pensionato di belle arti a Roma; allo stesso anno risale la composizione in bronzo intitolata La religione nel deserto (Napoli, Museo nazionale di S. Martino), prodotta come saggio di studio e donata allo Stato, dopo la morte del D., nel 1932 (De Marinis, 1984, p. 285).

Tutta la prima attività dello scultore è legata alle mostre della Società promotrice napoletana, nel cui ambito egli presentò opere come Un pescatore (1864), Don Basilio (1871), La beghina (1872), La calunnia (1874), Il cabalista e Sulla fossa (1876).

Con tali lavori - si tratta per lo più di bozzetti in terracotta o gesso di piccole dimensioni, in cui vengono interpretati in chiave espressiva personaggi tratti dalla realtà quotidiana - il D. raggiunse presto grande fama a Napoli coniando alcuni soggetti che poi diverranno popolari nel repertorio della scultura di genere.

Alla produzione giovanile si collega anche il Salvator Rosa, una delle più vivaci e sensibili creazioni dello scultore, eseguita in terracotta a grandezza naturale come modello per un monumento da erigersi in una piazza di Napoli.

Nonostante l'immediato successo riscosso fin dalla mostra della Promotrice del 1871, dove fu esposta per la prima volta, quest'opera finì col costituire motivo di profonda amarezza per l'autore che per tutta la vita ne attese inutilmente la realizzazione. Infatti solo nel 1933, quattro anni dopo la sua morte, venne fusa in bronzo e collocata in piazza F. Muzji al Vomero (De Marinis, 1984, pp. 57 s.). Il bozzetto del monumento, in gesso bronzato, si trova attualmente nel Museo nazionale di S. Martino a Napoli.

Nel corso degli anni '70 si precisò l'indirizzo realistico dello stile del D., in linea con quanto andavano realizzando in pittura Domenico Morelli e Francesco Paolo Michetti. Abbandonato infatti 0 modellato levigato e compatto, cui era ancora legata la scultura romantica e purista, egli predilesse superfici scabre e irregolari, accentuandone i contrasti di luce ed esaltando le qualità cromatiche delle materie adoperate.

In questi anni l'esperienza artistica del D. si collega a quella di Vincenzo Gemito, con il quale ebbe in comune la preferenza per alcuni soggetti popolari napoletani, come scugnizzi, pescatori e venditori ambulanti. Su entrambi agì inoltre l'influsso dell'arte classica, ma con esiti differenti. Mentre infatti Gemito, attraverso lo studio dei bronzi ercolanensi, si avvicinò direttamente al naturalismo ellenistico, traendone sicure indicazioni di carattere tecnico e stilistico, per il D. il richiamo al mondo antico rimase una suggestione alquanto esteriore.

Ne sono testimonianza i Parassiti (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), la pìù impegnativa fra le opere presentate dallo scultore all'Esposizione nazionale di belle arti di Napoli del 1877.

Il gruppo, in gesso bronzato, rappresentante due antichi romani accasciati in un triclinio, abbrutiti dal vino e dal cibo, risente del rinnovato clima di interesse diffusosi nell'ambiente artistico napoletano della seconda metà dell'Ottocento intorno ai ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei. Il riferimento al mondo classico è qui evidentemente solo un pretesto per una composizione a sfondo moraleggiante, incentrata sul tema della decadenza del mondo romano. Ciò non contrasta tuttavia con la precisione archeologica con cui sono ricostruiti tutti i particolari della scena, precisione che si spinge fino all'artificio di colorire il gesso con l'intento di renderlo simile ad un bronzo di scavo. L'opera suscitò grande scalpore e fu oggetto di diverse valutazioni da parte della critica, che in alcuni casi reagì scandalizzata di fronte al realismo quasi brutale della rappresentazione. A questo proposito si legga quanto scrisse lo scultore Giovanni Dupré: "...l'idea è brutta, tanto che a molti apparve addirittura ributtante e schifosa; ed io sentivo nel mirare quel lavoro due forze opposte, l'una mi cacciava di lì e l'altra mi teneva fisso; la bruttezza del soggetto e la sua forma mi ripulsava, e l'evidenza e l'arte, colla quale era espresso, mi attraeva e mi costringeva ad ammirare l'ingegno del signor D'Orsi" (1879, p. 436). Francesco Netti (1877) colse invece, dietro la scelta di un soggetto volutamente sgradevole, un preciso intento polemico: "Protesta contro che? Contro un genere d'arte, - pittura o scultura, - il cui solo scopo è di piacere, di essere graziosa ad ogni costo. Era dunque tanto necessario protestare? Fino a un certo punto sì".

Significative furono infine le critiche che Adriano Cecioni (1877) rivolse a "quel che di sfasciato, di esagerato e di troppo lasciato" vi era nello stile del D., vale a dire a quella tendenza - che costituiva probabilmente la vera novità estetica dell'opera - a disfare le forme a scapito della loro stessa nitidezza e compattezza plastica. Anche all'Esposizione di belle arti tenutasi al Champ de Mars a Parigi l'anno seguente i Parassiti non passarono inosservati, tanto che Diego Martelli (1878) li definì "il più bel pezzo di tutta l'Esposizione". Vittorio Emanuele II, che apprezzò particolarmente questo gruppo, ne fece realizzare, a sue spese, la fusione in bronzo che fu poi destinata alla Galleria d'arte moderna di Firenze, dove tuttora si trova.

Negli anni successivi il D., affermatosi ormai a livello nazionale, contribuì con la sua opera alla diffusione della scultura realista in Italia. In particolare a Milano, dove partecipò nel 1878 all'Esposizione di Brera col bronzo Testa di marinaio (Milano, Galleria civica d'arte moderna), svolse un'intensa attività artistica, tanto da poter essere considerato fra gli iniziatori del realismo lombardo. A Torino, invece, fu presente, nel 1879, alla XXXVIII Esposizione della Società promotrice di belle arti col bronzo Testa di carrettiere (Napoli, coll. priv.) e, nel 1880, all'Esposizione nazionale di belle arti, cui partecipò con due lavori, A Posillipo, statuetta in bronzo acquistata in tale occasione da Umberto I, e Proximus tuus, composizione in gesso bronzato con cui il D. si pose fra i maggiori esponenti del verismo sociale italiano.

La figura dello scarno zappatore seduto a terra con le gambe divaricate e l'espressione inebetita dalla fatica viene assunta come emblema delle classi più umili, ridotte in uno stato di abbrutimento senza speranza. L'opera, in buona parte responsabile della svolta in senso verista della scultura italiana del ventennio successivo, conobbe molte repliche e citazioni anche nell'ambito della pittura. Un precedente è stato invece individuato nel disegno di Jean-François Millet, Le vigneron, del 1869-70 (Nochlin, 1979, p. 169, scheda 65), conosciuto probabilmente dallo scultore napoletano attraverso l'interpretazione datane dal pittore francese Jules-Bastien Lepage in un dipinto esposto al Salon di Parigi del 1878 (Mimita Lamberti, 1983, pp. 1093-1096).

Nonostante fosse ben lontana dai toni polemici della denuncia sociale, presentandosi piuttosto come un appello alla compassione umana e allo spirito cristiano di pietà - come conferma il richiamo religioso del titolo latino -, la composizione del D. fu subito al centro di vivaci polemiche. Molto si insisté sul suo significato politico e sulle possibili connessioni con le dottrine socialiste. Da parte sua l'autore, ancora tre anni dopo l'esposizione di Torino, affermava: "... vi accerto che nessun pensiero di socialismo o di rivoluzione ha traversato il mio spirito durante la creazione di questo gruppo. Se han voluto attribuirmi altre idee, è stato molto ingiustamente" (Della Rocca, 1883, p. 321). Sta di fatto che Proximus tuus non ottenne a Torino alcun riconoscimento ufficiale, mentre fu invece premiato il più piacevole e disimpegnato A Posillipo. La scultura fu comunque riproposta con successo in varie occasioni: nel 1883 alla Mostra internazionale di Monaco di Baviera, nel 1885 all'Universale di Anversa, nel 1891 all'Internazionale di Berlino, nel 1897 all'Esposizione internazionale di belle arti di Bruxelles (esemplare in marmo), nel 1901 al Salon di Parigi e nel 1904 all'Esposizione universale di Saint Louis. Una versione in bronzo dell'opera si trova attualmente alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma.

Il Proximus tuus rimase un episodio isolato nella produzione del D.3 che in seguito si dedicò a soggetti più tradizionali, soprattutto piccole sculture di genere e busti-ritratto fra i quali si segnalano quello di Francesco De Sanctis (1893, Napoli, villa comunale) e quello di Filippo Palizzi (1895, Roma, Galleria nazionale d'arte moderna).

Riconosciuto ormai come una delle figure di maggiore prestigio dell'arte napoletana dell'epoca, nel periodo in cui Gemito era scomparso di scena, il D., che già nel 1878 era stato nominato per i meriti acquisiti con le sue opere professore onorario, continuò la sua carriera presso il Reale Istituto di belle arti di Napoli. Nel 1887-88 divenne libero docente di scultura, nel 1895 aggiunto al professore titolare di scultura Emanuele Caggiano e infine, nel 1902, ebbe la nomina di professore di scultura insieme con quella di preside dell'istituto, carica questa che mantenne fino al 1915 (De Marinis, 1984, pp. 237-240).

Intanto, fino alla fine del secolo, il D. partecipava alle più importanti esposizioni in Italia e all'estero, dove riceveva numerosi riconoscimenti.

Fra le opere esposte in questo periodo si ricordano soprattutto: AFrisio (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), presentato all'Esposizione internazionale di Nizza e a quella di Torino nel 1884; Piccolo pescatore (Napoli, collezione del Banco di Napoli), presentato a Londra nel 1888; Pathos, esposta prima a Torino nel 1889 e poi all'Universale di Parigi del 1900.

Quanto alle prime due opere, esse costituiscono l'ennesima rivisitazione del tema folcloristico del "guaglioncello" napoletano intento in una delle sue caratteristiche attività quotidiane. È questo il filone di maggiore successo della produzione del D., ripreso pertanto in numerose repliche e varianti destinate perlopiù al collezionismo privato. Le ragioni di tale successo vanno ricercate nel realismo vivace, nel naturalismo descrittivo e nella nitida tecnica con cui vengono resi la bellezza e il dinamismo dei corpi.

A Napoli il D. fu anche autore di alcune opere monumentali che si inquadrano perfettamente nei modi retorici ed enfatici della statuaria ufficiale dell'epoca. Del 1886-88 è la statua di Alfonso d'Aragona, per la facciata di palazzo reale, che si segnala solo per il descrittivismo minuzioso nella resa dei particolari; del 1906-08 circa sono i due frontoni laterali in bronzo per il palazzo centrale dell'università degli studi, rappresentanti, quello ad oriente, La scuola di G. B. Vico, quello ad occidente, Giordano Bruno innanzi al tribunale dell'Inquisizione; del 1911 è infine il Monumento a Umberto I in via Nazario Sauro, inaugurato in occasione del cinquantenario della proclamazione del Regno d'Italia, probabilmente il meno riuscito fra tutti: qui infatti l'autore, nel maldestro tentativo di offrire un'immagine altera e autoritaria del re, approda ad un risultato quasi caricaturale.

Altre sue opere monumentali si trovano a Cosenza (Monumento a Bernardino Telesio), a Venosa (Monumento a Q. Orazio Flacco), a Brienza (Ritratto di M. Pagano) e a Lucera (Monumento a R. Bonghi).

Ancora per tutto il primo ventennio del Novecento ed oltre il D. proseguì incessante la sua attività, anche se l'ultima produzione rimase confinata fra il bozzettismo grottesco e patetico di opere come Pane pesante (1917, Roma, Galleria nazionale d'arte moderna) e il classicismo convenzionale di lavori come Omero sognato nel 1915 (1920) ed Eolo (1928), presentati, rispettivamente, alla XII e XVI Biennale di Venezia.

Numerose furono le onoreficenze conferite al D. da varie accademie d'Italia: egli fu fra l'altro professore onorario dell'Accademia di belle arti di Carrara, accademico nazionale della Reale Accademia Albertina di Torino, accademico d'onore della Reale Accademia di belle arti di Venezia. A queste vanno aggiunti gli incarichi di rilievo, come quello di vicepresidente della Società promotrice di belle arti di Napoli (denominatasi dal 1892 "Salvator Rosa"), ricoperto dal 1906 al 1910, e quello di "membro della Commissione per gli acquisti d'opere d'arte da destinarsi alla Galleria nazionale di arte moderna in Roma" (Giannelli, 1916, p. 573).

Nonostante i riconoscimenti ufficiali, il D. visse gli ultimi anni assillato da problemi economici, tanto che fu costretto, dopo essere stato collocato a riposo nel 1916 per limiti d'età a ritornare a insegnare al R. Istituto di belle arti di Napoli come supplente di plastica della figura.

Morì a Napoli l'8 febbr. 1929; a causa dell'estrema povertà in cui versava la famiglia, i funerali furono celebrati a spese del Comune.

Fonti e Bibl.: A. Cecioni, Concetti d'arte sull'Esposizione di Napoli del 1877 [1877], in Opere e scritti, a cura di E. Somaré, Milano 1932, pp. 67-72; F. Netti, Esposizione artistica ital. a Napoli. Note d'arte (Napoli, 27 apr. 1877), in Scritti critici, a cura di L. Galante, Roma 1980, pp. 143 s.; D. Martelli, L'Esposizione di belle arti al Campo di Marte [1878], in Scritti d'arte di D. Martelli, a cura di A. Boschetto, Firenze 1952, pp. 67 s.; G. Dupré, Pensieri sull'arte e ricordi autobiografici, Firenze 1879, pp. 436, 440; C. Boito, La mostra naz. di belle arti in Torino, in Nuova Antologia, 15 luglio 1880, pp. 263 s.; M. Della Rocca, L'arte moderna in Italia, Napoli-Milano 1883, pp. 319-324; V. Della Sala, Le statue alla Reggia di Napoli. Note critiche e profili artistici, Napoli 1889, pp. 29-34, 69-76; A. Ribera, A. D., in Natura e arte, XX (1900-01), pp. 145-153; E. Giannelli, Artisti napoletani viventi, Napoli 1916, pp. 570-575; F. Sapori, L'arte mondiale alla XII Esposizione di Venezia, Bergamo s. d., pp. 18, 64; S. Vigezzi, La scultura italiana dell'Ottocento, Milano 1932, pp. 61 ss.; V. Della Sala, Ottocentisti meridionali, Napoli 1935, pp. 199-206; C. Sivieto, Questa era Napoli, Napoli 1950, pp. 144-157; C. Lorenzetti, L'Accademia di belle arti di Napoli (1752-1952), Firenze 1952, pp. 159 ss., 171, 173, 188, 305 s., 331, 352; C. Maltese, Storia dell'arte in Italia 1785-1943, Torino 1960, pp. 219, 222; G. Marchiori, Scultura ital. dell'Ottocento, Milano-Verona 1960, pp. 126 ss., 144-148; Arte e socialità in Italia dal realismo al simbolismo 1865-1915 (catal.), Milano 1979, pp. 110 s.; L. Nochlin, Realismo. La pittura in Europa nel XIX secolo, Torino 1979, pp. 73, 169; P. Ricci, Arte e artisti a Napoli (1800-1943), Napoli 1981, pp. 82 s.; M. Mimita Lamberti, L'Esposizione naz. del 1880 a Torino, in Ricerche di storia dell'arte, 1982, n. 18, p. 44; Id., I mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell'arte italiana (Einaudi), VII, Torino 1982, pp. 38 n. 15, 40 nn. 24-26; Id., Aporie dell'arte sociale: il caso "Proximus tuus", in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di lettere e filosofia, s. 3, XIII (1983), 4, pp. 1077-1137; M. S. De Marinis, Il tempo, la vita e l'arte di A. D., L'Aquila-Roma 1984; Il patrimonio artistico del Banco di Napoli, Napoli 1984, p. 234; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, p. 58 (sub voce Orsi, Achille d'); Encicl. Ital., XIII, p. 173; Diz. Bolaffi degli scult. ital. moderni, Torino 1972, p. 132.

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