CENTURIONE, Adamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CENTURIONE, Adamo

Giovanni Nuti

Figlio di Luciano e di Clara Di Negro, nacque a Genova in data imprecisabile del sec. XV. Apparteneva ad un ramo dell'"albergo" Centurione, quello degli Oltramarini, attivissimo nel commercio con la Spagna. Egli stesso fu grande mercante, importatore di seta trafficata tra Genova e Lione, dove spesso lo troviamo in rapporti di affari con le più importanti ditte agenti su quella piazza. Fu con ogni probabilità il primo genovese a stabilire contatti finanziari col giovane Carlo d'Asburgo, del quale doveva diventare uno dei principali fornitori di capitali, accanto alle grandi banche tedesche dei Fugger e dei Welser. Nel 1519 si trovava come console genovese a Messina, insieme con Visconte Cattaneo. Già da tempo doveva essere iniziata la sua amicizia con Andrea Doria: il C., infatti, militava nel partito dei Fregoso, appoggiato dalla Francia, al cui servizio si trovava in questo periodo l'ammiraglio. Caduta Genova sotto il dominio spagnolo nel 1522, il C. dovette adoperarsi perché la città tornasse sotto il controllo francese, cosa che avverrà cinque anni dopo grazie al decisivo apporto del Doria. Il governo di Teodoro Trivulzio, tuttavia, scontentò gli stessi genovesi vicini al re Francesco I: la situazione economica si aggravò, i diritti e i privilegi della città vennero violati, proprio mentre i legami finanziari tra le famiglie dei banchieri genovesi, compresa quella del C., e l'Impero asburgico diventavano sempre più stretti. Questi fattori contribuirono non poco al clamoroso passaggio del Doria dal campo francese a quello di Carlo V e al vittorioso attacco del 12 sett. 1528 contro Genova, che segnerà l'inizio del governo di Andrea in città.

Vent'anni dopo, in una lettera al padre, il principe Filippo, elencando le pressioni fatte sul C. per indurlo ad accettare il progetto di una fortezza a Genova, esponeva le preoccupazioni dell'ambasciatore Figueroa che in tal modo si sarebbe spinto il C. a passare nel campo avversario, come egli avrebbe già fatto nel 1528 "porque quando Cesare Trivulçio tenia aquella ciudad por los françeses, siendo el maior amigo que tenia, [il C.] fué el primero que le engaño y se puso contra el, y trabajó que fuesse echado de la ciudad" (Documentiispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, p. 256). In realtà, la sua decisione di passare al campo spagnolo era stata particolarmente favorita dalle condizioni che la convenzione di Madrid, sottoscritta dal Doria, aveva creato per i Genovesi, i quali ottennero piena libertà di commercio in tutti gli Stati asburgici e parità di diritti con gli stessi Spagnoli. Se sino a quell'anno, inoltre, i banchieri genovesi avevano avuto un posto secondario rispetto ai Fugger e ai Welser nei finanziamenti al Tesoro imperiale, ora il loro ruolo tendeva a diventare sempre più importante.

L'ambasciatore spagnolo a Genova, Gomez Soarez de Figueroa, divenne l'interlocutore principale dei grandi banchieri tra i quali spicca il C. che, vero "ministro delle finanze" del Doria, dovette intervenire con vari prestiti per sanare in parte il deficit imperiale, compreso quello dei possedimenti italiani.

Al riguardo, il Casoni riporta il seguente aneddoto: nel 1541, passando Carlo per Genova e avendo un suo ministro riferito al C. che l'imperatore aveva bisogno di 200.000 scudi per finanziare la spedizione contro Algeri, egli rispose che glieli avrebbe versati immediatamente nella moneta preferita. Avendo poi fatto consegnare la somma al tesoriere imperiale, il C. si recò di persona da Carlo per rimettergli una cedola nella quale affermava di essere stato soddisfatto dall'imperatore, il quale, commosso da tale dimostrazione di affetto, fece bruciare la carta. Come nota l'Ehrenberg, aneddoti simili sono riferiti, però, anche ad Anton Fugger e ad altri banchieri; essi indicano, comunque, quale peso la figura del C. stesse acquistando nei rapporti con Carlo.

L'imperatore, del resto, ebbe il C. come compagno nelle imprese della Goletta e di Algeri, oltreché nella campagna di Germania, dove il C. militò sempre a proprie spese, venendo ricambiato con dimostrazioni di grande cortesia.

Il C., nel frattempo, aveva assunto un ruolo da protagonista nelle vicende genovesi a fianco di Andrea Doria. Nel 1529, sotto la pressione dell'esercito francese, egli fu tra i diciassette capitani di guerra incaricati di reprimere eventuali disordini in città. Nel 1535 gli fu affidata una delicata missione in Spagna: doveva fare presente a Carlo la difficile condizione in cui Genova si sarebbe trovata di fronte alle minacce francesi, qualora, alla partenza dell'armata, fosse rimasto in città solo un contingente di 330 fanti spagnoli; doveva poi ottenere aiuti militari e finanziari e opporsi alla decisione di trasferire le fiere a Beçanson, cosa giudicata "dannosa e di fastidio", chiedendo l'intervento di Carlo perché decidesse onorevolmente per Genova la vertenza col duca di Savoia. Nel giugno, insieme con il Doria partecipò alla spedizione navale contro il Barbarossa ed ebbe il compito di impedire che il pirata si rifugiasse in Algeri. Dovette perciò incrociare con le sue galee davanti a Bona, ma non riuscì ad evitare che il Barbarossa rimettesse in mare alcune navi che erano state tirate in secco. Della fuga del pirata fu poi accusato il Doria, sospettato di intese con l'ammiraglio turco. Nel 1539 il C. venne inviato dal Doria a Toledo presso l'imperatore, che si accingeva a spedire a Genova danari e provvisioni per lo stesso Doria al quale, attraverso il C., veniva ordinato di salpare verso Castelnuovo assediata dai Turchi; nell'assenza del Doria, al C. toccava il compito di vegliare sui progetti di restaurazione francese dei quali si mormorava in varie corti.

Nel 1543 il C., che possedeva già il feudo di Masone, acquistava Aulla, Bibola, Gorasco e Monte di Valli da Girolamo Ambrogio Malaspina, il "Comparino", per 1.200 scudi d'oro, perfezionando il possesso con l'acquisto dei diritti che su tali luoghi vantavano i fratelli del Malaspina, dietro il versamento di 3700 scudi d'oro. Ottenne poi l'investitura del feudo da Carlo con diplomi del 28 maggio e 25 ag. 1543.

Recatosi personalmente nel nuovo marchesato, ne confermò le leggi e gli statuti del 1304. Fece inoltre costruire su una rupe scoscesa la formidabile fortezza Brunella, per controllare le strade che attraverso Pontremoli e Fivizzano superano l'Appennino. Dal momento che il cenobio di S. Carpasio in Aulla mancava di monaci, egli ottenne da Paolo III l'assenso onde conferire l'abbazia non a un chierico regolare, ma ad un secolare, proponendo come abate commendatario il figlio Giacomo, che fu accettato da papa Giulio III, con bolla del 4 giugno 1550.

Nel 1549, per la rilevante somma di 800.000 pezzi da otto reali il C. acquistò il marchesato di Estepa e Pedrera in Spagna. In effetti la sua potenza finanziaria e politica era assai cresciuta.

Nel 1538 aveva prestato in una sola volta a Cosimo I de' Medici ben 200.000 scudi d'oro per sopperire ad un debito di 800.000 ducati contratto dal duca; nel 1552 prestò 50.000 scudi all'imperatore senza interessi. La separazione dell'Impero dalla Corona spagnola (1556), che aveva causato la diminuzione dell'influenza dei banchieri tedeschi in Spagna, e inoltre la grave crisi finanziaria che colpì la monarchia asburgica nel 1557-1559 contribuirono a rendere sempre più pesante il controllo dei banchieri genovesi, e in particolar modo del C., sulle finanze di Filippo II. Nel 1558, attraverso suoi agenti tra i quali Luciano Centurione, il C. fornì due partite rispettivamente di 200.000 e 600.000 ducati, la prima in Fiandra da pagarsi in venti giorni e la seconda da pagarsi in sei mesi.

Contemporaneamente, a Genova la ormai avanzata età del Doria e l'influenza che sull'ammiraglio il C. continuava ad esercitare fecero sì che egli diventasse il vero protagonista nelle difficili vicende che travagliarono la Repubblica in questi anni. Tale preminenza trova anche riscontro nel matrimonio di Giannettino Doria, nipote di Andrea e destinato a raccoglierne l'eredità politica, con la figlia del C., Ginetta, dotata con ben 60.000 scudi d'oro. Nel 1547 il C. ebbe un ruolo preminente nella repressione del tentativo insurrezionale di Gian Luigi Fieschi, durante il quale fu ucciso Giannettino Doria. Fu lo stesso C. a mettere in salvo Andrea Doria, prima a Voltri e poi nel feudo di Masone. Dopo la sconfitta dei Fieschi, il C. provvide a mettere ordine tra le galee del Doria, abbandonate dai galeotti e saccheggiate dal popolo, diventandone il comandante e guidandole nel luglio a Napoli per domare l'insurrezione della città. Sempre al C. fu affidato il piccolo Gian Andrea, figlio di Giannettino e di Ginetta, nuovo erede di Andrea. La congiura del Fieschi spinse la Spagna ad insistere in un suo progetto da tempo accarezzato: costruire una fortezza in città, in modo da impedire altri tentativi francesi, ma anche in modo da controllare più pesantemente la Repubblica. Iniziò, così, una lunga ed estenuante trattativa che ebbe come protagonisti da una parte il Doria e il C., e dall'altra il Figueroa, ambasciatore spagnolo a Genova, e il governatore di Milano, Ferrante Gonzaga, che tale progetto aveva particolarmente a cuore.

Nel primo sbandamento seguito alla congiura del Fieschi, sembrò che sia il Doria sia il C. accondiscendessero a tale proposta, ma, passato tale momento di incertezza, i due rifiutarono di accettare il progetto. Il C. stesso comunicò al Figueroa che la volontà del Doria era di mantenere sempre la città al servizio di Carlo V, conservandone tuttavia la libertà: egli lucidamente comprendeva che solo in tal modo Genova poteva restare nel campo spagnolo, dato che la costruzione della fortezza avrebbe offeso la cittadinanza e istigato a nuovi colpi di mano il partito francese, che non aveva deposto le sue intenzioni ostili. Questa posizione fu costantemente seguita dal Doria e dal C. di fronte alle sempre più insistenti pressioni spagnole. Si cercò di spingere soprattutto il C. ad accondiscendere, anche perché si valutava esattamente il peso crescente che la sua opinione esercitava sulle decisioni di Andrea, e si cercò inoltre di far leva sul malcontento che in città serpeggiava per il troppo potere del Centurione. Come scriveva il Figueroa a Carlo V, a Genova si temeva che egli meditasse di afferrare "toda la auctoridad, en enseñorarse del principe Doria" (Documentiispano-genovesi..., p. 178), benché il suo prestigio personale fosse molto minore di quello goduto dal vecchio ammiraglio. Tali affermazioni nascondevano il proposito di scollare la salda amicizia tra i due, contrapponendo il primo al secondo, ma tale manovra fallì, dal momento che, come ammetteva lo stesso Figueroa, "el Principe no se ha de resolver en ninguna cosa sin comunicallo con el" (ibid., p. 288). La questione della fortezza si ripropose in tutta la sua gravità l'anno seguente. Il tentativo compiuto dal march. Giulio Cibo con l'aiuto di esuli genovesi incontrati a Roma e a Venezia sotto la protezione francese - i congiurati si riproponevano di sopprimere il Doria e il C. -, fallì sul nascere. Giunto a Pontremoli, il Cibo venne arrestato il 22 genn. 1548, condotto a Milano e decapitato il 18 maggio. Fu il Gonzaga a prendere pretesto da questa congiura per risollevare la questione della fortezza, inviando a Genova a tale scopo Sigismondo Fransino, ma sia il Doria che il C. opposero un altro netto rifiuto. Il C. decise allora di chiarire l'opinione del Doria con un viaggio presso l'imperatore. Dapprima, a Milano, spiegò al Gonzaga che nessuno si era opposto alla sua decisione, ma che si temeva che la costruzione della fortezza avrebbe finito col suscitare malumore in città, ottenendo l'effetto opposto a quello per cui se ne caldeggiava il progetto. Il Gonzaga informò subito Carlo V dell'incontro, esortando l'imperatore ad intervenire di persona per convincere il C. ad "anteporre il suo particolare in questi due modi: il primo la sicurezza della casa, persona e facoltà sua; il secondo l'altezza a che sale, perché con questo mezzo si fa il primo huomo di quella città, e puoco meno che Signore" (ibid., p. 237). Il C. incontrò ad Augusta Carlo V che preferì accettare almeno per il momento le giustificazioni da lui addotte e rimandare la questione ad occasione più opportuna. Questa si presentò con la visita del principe Filippo a Genova, sullo scorcio del 1548.Dapprima, Filippo organizzò un incontro tra il duca d'Alba, il Figueroa, il Gonzaga e il Doria, che si dichiarò, tuttavia, in termini energici contro la fortezza. Al duca d'Alba toccò, allora, il compito di far pressioni sul C. con la promessa di favori per sé e per la sua casa; ma egli non si lasciò convincere e insistette sulle controproposte genovesi, consistenti in un aumento della guarnigione spagnola e in una riforma di governo che assicurasse il controllo alla corrente spagnola: tale progetto, che il C. aveva avuto già modo di illustrare a Carlo nel suo viaggio in Germania, portò alla legge del garibetto. Di fronte poi alla possibilità dell'uso della forza contro di lui e contro i suoi interessi finanziari in Spagna, nel caso che si fosse ostinato nel suo rifiuto, il C. rispose che avrebbe reagito andandosene dalla città a vivere in altra parte, "porque - come scriveva Filippo al padre - el tenia su hazienda en tierras de V. M. y avia de vivir in ellas sin offresçer otra ayuda ni assistensia para ello" (ibid., p. 252). Di fronte alle concessioni che il Doria si diceva avesse fatto circa il progetto della fortezza, il C. osservava che il Doria conosceva assai poco le condizioni di Genova, dal momento che si era preoccupato solo di questioni militari, lasciando a lui la cura delle civili. Il soggiorno di Filippo si concluse, dunque, con un insuccesso: il problema della fortezza venne accantonato in attesa della morte del Doria e si decise di ostacolare iniziative che avessero in pratica favorito il prestigio e il potere del C., ritenuto da tutti come il più probabile successore del Doria. Dei resto, lo stesso figlio del C., Marco, comandava allora la flotta genovese e si temeva che irritando troppo il padre si sarebbero spinti entrambi ad impadronirsi di Genova.Superato questo difficile momento, i rapporti tra la Repubblica e la Spagna si normalizzarono e Genova si trovò a dover affrontare la gravissima questione della Corsica, dove l'insurrezione di Sampiero aveva messo in difficoltà il suo dominio; il C. accompagnò il Doria nella sua campagna militare nell'isola e, caduta San Fiorenzo il 27 febbr. 1554, venne inviato all'assedio di Calvi. Nel frattempo, dovette intervenire presso il Doria perché revocasse la confisca dei beni dei ribelli sconfitti a San Fiorenzo, atto che aveva danneggiato gli interessi della Casa di S. Giorgio. Il C. insistette anche perché contingenti spagnoli venissero inviati nell'isola, provvedendo di persona al loro soldo. La morte di Sampiero non pose termine all'insurrezione, di modo che si giunse al punto di prospettare nel 1567 la cessione della Corsica alla Spagna: fu il C. a parlare di tale progetto al Figueroa, il quale tuttavia non accettò la proposta, che venne lasciata cadere.

Nel frattempo il C. continuava a contribuire alle spese militari di Filippo II al quale nel 1565 prestava 56.000 scudi di oro che il re richiedeva per poter fortificare La Goletta. Gli ultimi anni della sua vita furono addolorati dalla prematura morte del primogenito Marco nel 1565. Chiamato ancora una volta a far parte del Maggior Consiglio della Repubblica nel 1567, egli morì a Genova l'anno seguente.

Aveva sposato Orietta figlia di Marco Grimaldi, dalla quale ebbe tre figli: Marco, Ginetta e Giacomo.

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