AFFRESCO

Enciclopedia Italiana (1929)

AFFRESCO

Paola Zancani Montuoro
Nello Tarchiani
M. Ba.

(fr. fresque; sp. afresco; ted. Fresko; ingl. fresco). -

Tecnica. - Si chiama affresco la pittura fatta coi pigmenti colorati (semplicemente impastati o diluiti con acqua) distesi su una preparazione di calce spenta e sabbia, ancor fresca. Il processo dell'affresco sta nel giovarsi della proprietà che ha la calce di formare in unione con acqua e sabbia, un cemento nella cui superficie dura e cristallina il colore penetra e resta fissato all'atto dell'essiccazione. La calce, grassa o magra, mescolata intimamente con sabbia quarzosa (silice), forma il comune intonaco dei muri. La durezza ch'esso prende proviene dalla conversione successiva della calce in carbonato, che, appena si forma, si combina e immedesima ccn la sabbia. Perché si verifichi questo fenomeno, l'intonaco deve asciugarsi lentamente; altrimenti, la formazione avviene irregolarmente, e molte particelle di silice, restando libere, tolgono consistenza al cemento. Se invece l'intonaco si conserva per molto tempo umido, l'anidride carbonica dell'atmosfera agisce a lungo sulla calce, in modo che il carbonato si deposita in forma cristallina, gradatamente, conferendo all'intonaco grande solidità e durezza. Per la pittura a fresco si unisce all'impasto anche la polvere di marmo, che, contenendo anidride carbonica, facilita il fenomeno chimico.

L'abilità del buon frescante sta nel lavorare sull'intonaco umido, celermente e senza pentimenti; nel conoscere bene gl'intonachi, nel prevedere l'alterazione dei colori prodotta dal prosciugamento, nell'accorgersi quando l'intonaco cominci a perdere la sua proprietà di fissare e solidificare le tinte, e occorra abbandonare l'uso di colori densi e terminare il dipinto con tratti di colori ben diluiti; e ciò perché l'intonaco, quando sia secco, non conferisce solidità al colore. Alcuni sommi frescanti usarono anche velature sull'intonaco ancora umido; mentre generalmente le correzioni e i ritocchi si fanno a secco e a tempera, ma restano fragili e spariscono facilmente.

Due preparazioni si distendono sul muro per poterlo affrescare: l'arricciato e l'intonaco. Con l'arricciato, più ruvido e grossolano, si ricopre in una sola volta tutta quanta la parete; dell'intonaco, più liscio e fine, si distende solo quel tratto che il pittore può colorire in una giornata. Per mettere l'arricciato, bisogna prima bagnare tutta la superficie del muro; poi unire due parti di sabbia e una di calce spenta, impastar bene con acqua, e distenderne uno o due strati, secondo che si voglia l'arricciato più o meno ruvido. Per l'arricciato disteso su muri esterni, specialmente se esposti all'intemperie e all'aria marina, si fanno preparazioni con calce idraulica e cemento. L'arricciato deve aderire perfettamente al muro: se ne prova l'aderenza, dandovi sopra piccoli colpi. Se il suono è sordo ed uniforme, la preparazione è solida; se è troppo sonoro, significa che in quella parte si è formata una bolla d'aria la quale impedisce all'arricciato di aderire alla muraglia. Occorre quindi buttar giù il pezzo mal riuscito e rifarlo. L'arricciato deve avere una superficie ruvida, perché meglio vi poggi e faccia presa l'intonaco. Sull'arricciato secco si spolvera o traccia il disegno della composizione, ripassandolo di colore a punta di pennello.

L'intonaco deve essere più fine e preparato con sabbia, polvere di marmo e calce in dosi uguali. Per la composizione dello intonaco, l'acqua deve essere pura, di fiume o di sorgente, non stagnante; la sabbia dev'essere silicea, e quella di fiume è la migliore; ma bisogna bagnarla finché l'acqua non risulti limpida e chiara. La sabbia marina, invece, contiene del sale, ed esso, attirando l'umidità, guasta completamente il dipinto. Inoltre la sabbia non deve contenere grani di ferro o pirite, che, ossidandosi e gonfiandosi per effetto dell'umidità atmosferica, disgregano l'intonaco e lo crivellano di puntini neri (così negli affreschi di Gaudenzio Ferrari in Valduggia).

La calce allo stato naturale si trova sotto forma di carbonato di calcio; sottoponendola ad alta temperatura in una fornace, si elimina l'anidride carbonica, e si ottiene l'ossido di calcio. Se si bagna quest'ossido (o calce viva), esso sviluppa calore, si combina con l'acqua, si gonfia, e si scioglie parzialmente nell'acqua (latte di calce e calce spenta). Lasciato esposto all'aria, indurisce, assorbe l'anidride carbonica dell'atmosfera e riacquista i caratteri originali, fra cui l'insolubilità. Ecco perché i colori posti sull'intonaco ancor fresco di calce, e che s'immedesimano con esso, diventano insolubili all'acqua. La calce si divide in varie specie: calce grassa, calce magra, calce idraulica e cemento. Esse differiscono per la quantità di silice che contengono; e tanto più ne contengono, tanto più rapida è la presa dell'intonaco sull'arricciato e la sua resistenza. La calce grassa aumenta di volume, idratandosi. La calce magra contiene del carbonato di magnesia, che ne diminuisce la forza di coesione, rendendola facilmente solubile all'acqua. Essa aumenta pochissimo di volume (o non aumenta affatto), idratandosi. La calce idraulica indurisce rapidamente sott'acqua. Il cemento è una polvere ottenuta con calcari silicei, che, mescolata con la calce, indurisce rapidamente all'aria e nell'acqua. La più usata per l'affresco è la calce grassa. Essa viene calcinata in forno, e, quando è ben cotta, è leggiera e fonde rapidamente, appena messa nell'acqua. Se troppo calcinata, fonde lentamente e si spegne male. Appena calcinata, bisogna spegnerla e stacciarla attraverso uno staccio di seta, il più fine possibile. Per l'affresco bisogna adoperare calce spenta da almeno un anno.

Si preparano le tinte e le gradazioni di tinte (ombra, penombra e luce) in barattoli per poter lavorare celeri. Si esperimentano i toni specialmente su pezzi di gesso, per vedere quali diventeranno quando siano asciutti. I colori devono essere resistenti alla calce; perciò bisogna scartarne alcuni, anche se belli e vivaci, come l'orpimento, le lacche, il cinabro, i verdi di rame. I migliori sono le terre (ossidi di ferro) che forniscono la gamma dei gialli, dei rossi e dei bruni. Sono buoni il cobalto azzurro, quello verde e il verde smeraldo (sesquiossido di cromo idrato). Invece l'azzurro d'oltremare si scolora, ed ha anche la proprietà di separarsi dall'acqua, come fa il nero, e perciò dev'essere preparato con un agglutinante. La terra verde (la migliore è quella di Verona o celadonite) dev'essere ben pura e di primissima qualità, altrimenti si scolora in breve tempo; la si usa mescolata all'acqua di calce (come pure il giallo di Napoli). Il rosso indiano, i cadmî, l'oltremare artificiale (di Guimet) devono essere esperimentati con cura. Per il bianco si adopera calce bianchissima e pura, che vien chiamata dal Cennini bianco di S. Giovanni: si prepara facendo bollire, a fuoco vivo, calce grassa che, raffreddata, si mette su mattoni ad asciugare al sole; il bianco che si ottiene è leggerissimo e migliora con gli anni. Sembra che l'ocra gialla attiri l'umidità atmosferica; in paesi umidi non va adoperata, perché annerisce e si disgrega; usata mista all'acqua di calce, arrossa leggermente; si può adoperarla molto fluida. Giustamente il Cennini consiglia di evitare i colori troppo densi, che compromettono la solidità della pittura e restano sensibili alle alternative di gelo e disgelo. Per i colori che richiedono un agglutinante, come il nero, l'oltremare, le lacche, il cinabro, ecc., e per i ritocchi, si compone una tempera con tuorlo d'uovo (o tuorlo e albume) ben battuto, con dieci volte il suo peso d'acqua. Se si prende ugual peso di tempera e di colore si sarà certi di ottenere una mescolanza solida; "se dessi troppa tempera, abbi che di subito scoppierà il colore e creperà dal muro" (Cennini, cap. LXXII). Ottima è anche la tempera a base di caseina, consigliata dal Bertini e adoperata dal Secco-Suardo nel restauro degli affreschi.

Sul pezzo d'intonaco che si presume poter dipingere in una giornata, si ripete il disegno o lo si incide, secondo l'antico sistema, con una punta (chiodo). Compiuto il disegno, si mette giù il colore, nelle miscele già preparate. Durante il lavoro si mantiene leggermente umido l'intonaco con acqua proiettata da uno spruzzatore; ma l'eccessiva umidità nuoce, perché impedisce all'intonaco di fissare le tinte. In caso di pentimento, per quanto il Cennini suggerisca di lavare il pezzo errato con un grosso pennello intriso d'acqua, è meglio demolire di nuovo l'intonaco. I raccordi fra pezzo e pezzo restano sempre visibili: lisciandoli troppo, c'è il pericolo che particelle anche minutissime del nuovo intonaco si fissino su quello già dipinto e non perfettamente asciutto. Queste, non aderendo perfettamente, si staccano in breve tempo, lasciando le tinte crivellate da punti bianchi. Il Cennini (cap. LXVII) afferma che una intiera giornata occorreva per eseguire un volto, se specialmente fosse quello della Vergine; ma si è constatato che nella Scuola di Atene ogni figura è stata generalmente terminata in un giorno, mentre le parti architettoniche rivelano una rapidità di esecuzione anche maggiore. Per conferire all'affresco un aspetto liscio e marmoreo, quando il dipinto è completamente terminato, lo si liscia con un ferro ben liscio e riscaldato, passandolo alternativamente dall'alto in basso e da destra a sinistra, e premendolo fortemente; ma si può anche adoperare un rullo di marmo. In Toscana e nel Trentino si conferisce levigatezza ai freschi, lisciandoli con una bottiglia.

Procedimenti analoghi. - Spesso si confondono con la pittura a buon fresco i seguenti procedimenti:

a) Pittura uso affresco. - Molti dipinti sono completamente abbozzati a buon fresco, con tinte principalmente terrose. Asciutto l'abbozzo, si passano uno o due strati di latte magro formante una pellicola trasparente che isola i colori posti successivamente sul muro. Si termina poi il lavoro a tempera. Questo sistema è di dubbia solidità. Il latte, isolando i colori dal muro, li rende fragili: le tempere che li legano sono facilmente intaccate dall'umido.

b) Fresco a secco. - Si prepara l'intonaco completamente, su tutto il muro. Si bagna poi con acqua di calce e si lascia riposare un giorno. Si bagna ancora con acqua di calce il pezzo che si vuol dipingere nella giornata, e si usano i colori come per il buon fresco.

c) Affresco a base di caseina. - I colori temperati con la colla di caseina e calce sono solidi, resistono all'acqua, si maneggiano facilmente come i colori ad olio. Si possono usare con questo sistema tutti i colori usati per la pittura ad olio.

d) Spirit-fresco. - Fu inventato da Gambier-Parry. I colori sono temperati con la seguente miscela ottenuta incorporando a caldo: elemi (resina) gr. 50, cera bianca pura gr. 100, olio di spigo gr. 200, vernice di copale 500 grammi. L'intonaco deve asciugare per più mesi, e poi va spalmato un paio di volte con quella miscela diluita per metà del suo peso in olio etereo di trementina. Con questa tecnica si può raggiungere un bel grado di finitezza senza avere tinte opache. L'umido racchiuso nel muro è il gran nemico di questo sistema di pittura.

e) Wasserglas (o Water-glass: stereocromia). - È un metodo usato dapprima a Monaco dal pittore Schlotthauer; si diffuse rapidamente in Germania, Inghilterra e America. L'intonaco va formato con due strati di calce (una parte) e sabbia (parti tre). Il terzo strato è composto di calce e fine sabbia silicea in parti uguali; perché resti assorbente, non deve essere lisciato con la cazzuola. I colori devono essere stemperati con una soluzione di silicato di soda (Wasserglass, così chiamato da I. N. von Fuchs, che ne dette la formula nel 1823), un terzo di silicato di soda e due di acqua pura. La pittura deve rimanere opaca; l'eccessiva lucentezza va tolta con lavaggi, perché il troppo silicato fa screpolare i colori. Ogni tinta, poi, richiede una diversa dose di silicato.

Per qualunque sistema di pittura murale, e specialmente per il buon fresco, lavorando all'aria aperta, bisogna aver riguardo che durante il lavoro i raggi del sole non colpiscano l'intonaco, perché, prosciugandolo rapidamente, lo renderebbero inadatto a ricevere il dipinto e comprometterebbero la solidità dell'affresco.

I trattati. - Trattatisti antichi e moderni hanno dato, più o meno largamente, precetti sulla esecuzione dell'affresco e in genere sulla pittura su muro. La Schedula diversarum artium, compilata tra il sec. XI e il XII da Teofilo, monaco di un convento benedettino della Vestfalia (pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1845; poi, meglio, nel 1847 a Londra, da R. Hendrie), contiene anche la pratica della pittura a secco sul muro; e la troppo celebre Guida della pittura del Monte Athos compilata da Dionigi di Furna (rivelata dal Didron nel 1845 e ristampata più volte) durante il sec. XVIII, pur ripetendo precetti anche del sec. XVI o del XV, dedica l'ultima parte alla pittura murale, ma trattandone più iconograficamente che tecnicamente. Utile ancora all'artista può essere, invece, il Libro dell'Arte compilato circa il 1437 da Cennino Cennini (ripubblicato correttamente a Firenze nel 1859 da G. e C. Milanesi e ristampato ancora), pittore fiorentino, scolaro di Agnolo Gaddi e conoscitore quindi della pratica della bottega di Giotto, ove Taddeo Gaddi era stato per ventiquattro anni. Molti capitoli (LXVII segg.) trattano della pittura su muro, tanto a fresco quanto a secco, in forma chiara e vivace. Breve è, invece, il cenno che Giorgio Vasari fa del dipingere in muro nel capitolo quinto della introduzione alle Vite (v. Maclehose e Baldwin Brown, G. Vasari on Technique, Londra 1907); né molto vi si dilunga G. B. Armenini, pittore faentino, nell'opera De' veri precetti della pittura (1ª ed., Ravenna 1587). Per il Seicento, concisa oltre modo è la voce Dipingere a fresco nel Vocabolario toscano dell'Arte del Disegno di F. Baldinucci (Firenze 1781); mentre più si diffonde sull'argomento il celebre pittore e prospettico Andrea Pozzo nella sua Istruzione per dipingere a fresco in Prospectiva pictorum, Roma 1693, e a parte, in Antologia dell'arte pittorica, Augusta 1784. Tra i trattati moderni ricorderemo: La science de la peinture di J. G. Vibert (varie edizioni e traduzioni anche italiane) con un capitolo sulla pittura murale; La tecnica della pittura di G. Previati (1ª ed., Torino 1905), ove tutto un capitolo è dedicato all'affresco; La Pittura di C. Moreau Vauthier e U. Ojetti (Bergamo 1913) con un capitolo sulla tecnica e uno sul restauro dell'affresco.

Malattie dell'affresco, provvedimenti conservativi e restauro. - Per il tempo o l'incuria, per gli agenti esterni o per la difettosa esecuzione, l'affresco si deteriora fino anche alla completa distruzione. Conosciute le cause, si possono prendere adeguati e utili rimedî; ma occorre limitarsi ai provvedimenti conservativi, escludendo poi il cosiddetto restauro pittorico, che falserebbe la genuina opera d'arte.

a) Oscuramenti. - Sono causati dal depositarsi della polvere, che con l'umidità forma una specie di patina, dal fumo generato da camini o anche da incendî, dall'untuosità prodotta da lungo contatto di mani e qualche volta anche di capi appoggiati ad una parete che porti in basso sedili. Per ripulire un affresco oscurato per tali cause occorre prima spolverarlo accuratamente e accertarsi se non abbia parti o ritocchi originali a tempera. Se è tutto quanto a buon fresco, si può pulire dalla polvere anche con un semplice lavaggio con acqua, meglio ancora con la mollica di pane; si può liberare dal fumo e dall'untuosità adoperando con molta precauzione una soluzione allungatissima di ammoniaca o un decotto di radica saponaria, e lavando poi ripetutamente il muro con acqua limpida. Se vi sono invece parti e ritocchi a tempera, bisogna detergere la polvere con la sola mollica di pane, andando cauti; e togliere fumo e untuosità con una spazzola morbida intrisa di talco, magnesia o gomma elastica. Per il sudicio molto resistente, le colature di cera e le macchie d'olio, si possono anche adoperare, ma con grande precauzione, l'alcool puro, la benzina rettificatissima o una soluzione più forte di ammoniaca. Per la pulitura e il ravvivamento di pitture totalmente a buon fresco o almeno eseguite con tempere forti, resistenti all'acqua, si possono usare anche il fiele di bove, il torlo d'uovo, la pasta di farina piuttosto soda, e meglio ancora una pallottola di cera vergine con trementina veneta.

b) Velature e muffa. - L'umidità è il peggior nemico degli affreschi e della loro conservazione. Se essa non ha ancora attaccato la superficie del dipinto, questo può esser salvato eliminandola. Ciò si ottiene facendo un'incisione o taglio sotto oppure intorno al dipinto, introducendovi pietra silicea e un impasto di cemento idraulico per impedire il salire o il diffondersi dell'umidità, assottigliando il muro da tergo fino ad uno spessore di circa 2 cm., ed eliminando l'umidità con bracieri accesi o meglio con apparecchi elettrici ad aria calda. Ma se questo non bastasse, occorre eseguire il distacco (v. sotto). Se l'umidità ha però attaccato l'affresco con muffe, occorre spolverarlo accuratamente, lavarlo con una soluzione allungatissima di ammoniaca, e risciacquarlo ripetutamente con acqua limpida. Peggio se l'umidità ha formato il nitro o salnitro, il quale altera la superficie cristallina (carbonato di calce) del dipinto, cagionando la formazione di una sottile muffa biancastra, e offrendo anche facile formazione alla crittogama. Il nitro si può togliere, usando a più riprese una soluzione di paraffina e benzina, e strofinando poi l'affresco con un panno; ma quando esso sia stato eliminato naturalmente dal risanamento del muro o dalla scomparsa dell'umidità preesistente, l'affresco, non più protetto dalla superficie cristallina, alterata, anzi distrutta dal nitro, tende a coprirsi della rammentata muffa, che nei giorni di secco sbianca, velando completamente il dipinto, nei giorni umidi invece diventa trasparente e rivela il dipinto. Occorre toglierla, lavando la superficie affrescata, e rinutrendo poi il colore con la paraffina, per ricostruire in qualche modo lo strato cristallino alterato o distrutto (si veda, p. es., il Cenacolo del Ghirlandaio in Ognissanti di Firenze tav. CXXII). Più gravi sono i danni della crittogama. La si può togliere in tempo con il metodo adoperato per le muffe; ma, lasciandola, essa finisce con l'intaccare il colore, formando fungosità simili a minuscoli punti neri; eliminate le quali, restano tanti forellini corrispondenti; sì che il dipinto, anche dopo tolta la malattia, appare tutto crivellato e sbullettato (cfr. il Cristo pellegrino dell'Angelico nel Museo di S. Marco a Firenze, tav. CXX).

c) Spacchi, distacchi e cadute dell'intonaco. - Per la difettosa esecuzione dell'affresco, per l'umidità, e peggio ancora per l'alternarsi di umidità e di siccità, l'intonaco dipinto può tendere a distaccarsi dall'arricciato, formando spaccature e spanci pericolosi, e finendo poi col cadere. Se la causa è data dall'umidità, occorre naturalmente eliminarla, provvedendo poi agli spacchi, agli spanci e alle cadute. Si provvede agli spacchi, come pure alle zone donde è caduto l'intonaco, ristuccando accuratamente con un impasto di calce finamente stacciata e spenta nell'acqua e di polvere di marmo o di quarzo, se si vuole un intonaco liscio; oppure di calce e sabbia, se basti anche ruvido. Si può usare anche uno stucco di calce e pozzolana, o un impasto di calce, caseina e sabbia. La stuccatura è necessaria per impedire la progressiva caduta dell'intonaco; e va poi coperta con colori da affresco (operando sull'intonaco umido), o a tempera (operando a secco), accompagnando semplicemente i toni locali, senza modellato, sì che il restauro appaia evidente, senza disturbare la totalità del dipinto.

Per le parti d'intonaco non cadute, ma che si sono distaccate dall'arricciato, e offrono degli spanci si è tentato di provvedere, introducendo cemento liquido nei vani, e preferibilmente idraulico. Le spanciature rimangono, ma l'intonaco non minaccia più di cadere, aderendo nuovamente all'arricciato (cfr. l'Adorazione dei Magi dell'Angelico nel Museo di S. Marco a Firenze, tav. CXXII).

d) Disgregazione e caduta del colore. - Per difetto di tecnica (cattivi colori adoperati, o usati su intonaco che cominciava a seccarsi), o per agenti esterni (specialmente l'umidità o l'alternarsi di umidità e di siccità), l'intonaco colorito può tendere a disgregarsi, a polverizzarsi, a cadere anche a larghe scaglie. Eliminate le cause di umidità, si può fissare l'intonaco pericolante con una soluzione di paraffina e benzina, oppure con una soluzione diluita di silicato di soda, che ha però l'inconveniente di rendere troppo lucida la superficie del dipinto. Se la disgregazione avviene in parti eseguite o ritoccate originalmente a tempera, si può rendere il colore insolubile all'acqua, e meno attaccabile dall'umidità, con una superficie di paraffina e benzina applicata a caldo, o con ripetute applicazioni di latte magro. (Per difetto d'intonaco e finitura a tempera, v. le Storie della Genesi del Gozzoli nel Camposanto di Pisa, [tav. CXXI]; per eccessivo uso di tempera, v. l'Autoritratto del Pinturicchio in S. Maria Maggiore di Spello, [tav. CXXI]; per l'uso di resine, v. la Cena di Leonardo, [tav. CXX]).

e) Affreschi imbiancati o ridipinti. - Molti affreschi furono, in epoche posteriori, coperti di bianco o scialbo per misure d'igiene o per ignoranza. Se lo strato di bianco è grasso e si solleva a bolle e vesciche, si può ricorrere alla percussione, sempre che il muro sia ben sano e il dipinto vi aderisca tenacemente. Altrimenti, si sollevano le scaglie delicatamente con un bisturi affilatissimo o con lame di rasoio. Non si devono usare acidi, che danneggerebbero il colore sottostante, immedesimato con la calce. Se invece lo strato di calce è sottile e aderente, si applica su di esso una specie di pastello di cera e trementina veneta (v. il trattato del Forni), e, quando ha ben aderito, lo si strappa con l'imbiancatura. Se l'imbiancatura è molto densa e resistente, si ricorre alla percussione con un martello speciale. Ma gli affreschi, liberati dall'imbiancatura, appaiono coperti da un tenue velo opaco, che annebbia e nasconde la vaghezza delle tinte. Si rimuove l'appannamento, soffregando leggermente il dipinto con una soluzione di paraffina molto diluita. Questa sostanza non altera i toni e non conferisce lucentezza. Per gli affreschi di loro natura lucenti si ripete più volte l'applicazione, e, appena asciutti, si lustrano con un panno.

Spesso anche gli affreschi sono stati, con l'andar del tempo, ridipinti almeno parzialmente. Se queste ridipinture sono a tempera su una pittura a buon fresco, si tolgono con lavaggi d'acqua pura o leggermente alcalina. Ma se l'affresco fu ripassato a secco dall'autore, bisogna limitarsi a soffregare i tardi rifacimenti con gomma elastica o con la cera mista alla trementina veneta, in modo che queste sostanze a poco a poco asportino le parti rifatte.

f) Distacco degli affreschi. - Questa operazione dello strappo o del distacco completo, che può essere consigliata o dalla necessità di togliere l'affresco da un'umidità ineliminabile, o dalle condizioni stesse dell'intonaco affrescato (distacco quasi totale dell'arricciato, crittogama, ecc.), o dalla necessità di trasportare altrove un dipinto, si vuol tentata felicemente, col metodo dello strappo, una prima volta da un tale Antonio Conti pittore ferrarese (1650-1732), citato dal Lanzi (Storia pittorica, Scuola Ferrarese, epoca terza). Fu poi usata abilmente a Roma da Domenico Succi, al principio dell'Ottocento, e a Firenze da Santi Pacini e da Giovanni Rezzoli (da quello alla fine del Settecento, da questo alla metà dell'Ottocento), ed è rimasta pratica schiettamente italiana. Per lo strappo, si applica un resistente intelaggio sul dipinto con colla forte, che, facendo presa, stacca l'affresco; si facilita l'operazione incidendo tutto intorno il dipinto e riscaldandolo con aria calda. Questo sistema semplice e pratico, perché permette di montare il dipinto su tela e di poterlo arrotolare per il trasporto, affievolisce notevolmente le tinte, perché l'intonaco e la parte del colore che lo imbeve, restano sul muro. Per il distacco completo dell'intonaco, che è l'operazione da preferirsi, ma più delicata e di gran maestria, l'incisione è più profonda, l'intelaggio più robusto e armato di forti telai: il distacco avviene per percussione e manovrando a tergo apposite seghe. Appena staccato il dipinto, lo si monta su di un incannicciato resistente e leggero. Per togliere l'intelaggio, si ricoprono le varie strisce di tela con panni intrisi (e strizzati) d'acqua bollente e, quando la colla cede, si staccano, rovesciandoli delicatamente. La preparazione che serve a fissare l'affresco sulla tela o sull'incannicciato è formata con caseina gr. 120, calce gr. 360, colla gr. 30 e mezzo litro di latte: la calce dev'essere spenta, impastata con acqua, e avere la compattezza del burro; questa dose è calcolata per metro quadrato di affresco. Per attaccare di nuovo il dipinto su muro, si usa uno stucco di calce, pozzolana e polvere di marmo.

Storia. - L'affresco fu praticato fin da età remota, giacché le sue origini si perdono nelle incertezze della preistoria, ed ebbe tale diffusione in tutta l'età antica, che può dirsi generalizzato presso tutti i popoli, della cui civiltà resta a noi cognizione; ma, a quanto pare, spesso non fu distinto dalla tecnica, agli effetti non dissimile, della tempera (pittura con colori stemperati in una sostanza agglutinante, come colla, uovo, latte), o, per meglio dire, fu adoperato insieme con questa, talché, in molti casi, dipinti a fresco furono completati da ritocchi a tempera, o in un medesimo ambiente stilistico e nella medesima epoca si praticò indifferentemente l'uno e l'altro sistema. Certo è che spesso è ben difficile distinguere, come dimostra il gran dissidio di opinioni sempre rinnovato fra gli studiosi dei singoli gruppi di pitture murali antiche (archeologi, pittori o chimici); e che non di rado la denominazione di affresco è usata impropriamente o almeno arbitrariamente come allusione generica a decorazioni parietali. Inoltre, per quanto questo genere di pittura sia essenzialmente immutabile, pure i particolari dell'esecuzione si differenziano non poco fra loro; così muta, per esempio, la preparazione dell'intonaco, restandone tuttavia la calce ingrediente fondamentale: una maggiore quantità di sabbia impastata nella malta, rende più porosa la massa, e, col facilitare l'infiltrazione dell'aria, affretta il compiersi del processo. L'intonaco antico (a Pompei specialmente) ha persino sette o otto centimetri di spessore, e presenta una superficie uniforme e affatto piana, perché, trattenendo, in virtù della sua grossezza, più a lungo l'umidità, era spalmato in una sola volta su tutta la parete, e permetteva che vi si dipingesse di seguito l'intera decorazione, così da evitare le inestetiche giunture fra le singole strisce, il che al contrario è comune negli affreschi del Rinascimento, il cui stucco non supera in genere i tre centimetri e si riduce in taluni casi a tre millimetri. Oltre allo strato superficiale destinato a ricevere i colori, e pertanto di composizione più raffinata, se ne trovano fino a cinque altri sottoposti.

Civiltà preistorica. - Il primitivo cavernicolo che vive sui Pirenei (Altamira presso Santander in Ispagna, Font de Gaume, Les Combarelles, ecc. sul versante francese), nella più antica età della pietra, già ricopre d'un intonaco calcareo le pareti della grotta in cui cerca rifugio, e vi traccia a forti tinte l'immagine delle bestie tra le quali svolge la sua selvaggia esistenza (v. tavola a colori): impressioni immediate, tradotte con spontaneo verismo e dotate pertanto di incredibile vivacità.

Egitto. - In Egitto l'affresco appare già sullo scorcio dell'età preistorica (la cui fine è da assegnarsi alla metà circa del VI millennio a. C. secondo la cronologia più alta, secondo la meno audace al IV): valga l'esempio del dipinto sepolcrale di Hierakonpolis (oggi nel Museo del Cairo), che rappresenta in maniera mirabile quanto ingenua una barca, e al disopra varie figure, concepite forse sull'opposta riva del fiume. Questa tecnica persiste in seguito nella decorazione murale dell'interno di tombe e di palazzi faraonici, spesso estesa al soffitto e talvolta persino al pavimento (come nella reggia tebana di Amenofi III a Medīnet Hābū o in quella di Amenofi IV a Tellel-‛Amārna) attraverso i millennî di tale tipica civiltà; intanto si evolvono, com'è naturale, i mezzi d'espressione e di tecnica, pur restandone presso che fissi i caratteri fondamentali. La pittura egizia ignora il concetto della prospettiva aerea, lo scorcio e - salvo rare eccezioni dovute forse a influssi stranieri - il chiaroscuro: adopera tinte unite, per quanto varie di tono, e segue il sistema convenzionale (comune all'arte cretese-micenea, greco-arcaica ed etrusca) di caratterizzare col bianco il nudo femminile e col rosso-bruno il maschile. Il decoratore aveva qui un compito molto modesto, giacché - non alterandosi il sistema in uso per l'architettura e il rilievo policromi - si limitava a spandere i colori, per convenzione prestabiliti, entro le zone ripartite e i contorni tracciati dall'artista in capo, che era l'architetto o lo scultore; l'abbozzo era segnato in rosso o nero e in molti casi sono ancora visibili le correzioni. Già sette erano i colori (rosso, azzurro, verde, giallo, bruno, nero e bianco) adoperati durante l'antico impero (2895-2350 a. C.), mentre nel medio impero (2160-1580 a. C.) si hanno due o tre varietà diverse per ciascuno; questi erano pani di polvere che si custodivano in sacchetti e si stemperavan poi in acqua, cui era talvolta commista una qualche mucillaggine, forse miele: ciò basti a provare il ravvicinamento e la conciliazione con la pittura a tempera, che pare fosse preferita; inoltre sulla superficie degli affreschi è stata talvolta distesa una vernice resinosa, che, alterando la crosta del carbonato, ha determinato la rovina dei colori; infine nelle tombe tebane l'intonaco esterno è bianchissimo, molto fine e lucente, composto probabilmente di gesso raffinato e gomma trasparente. All'inizio dell'epoca delle piramidi, la pittura a fresco era già molto progredita, come attesta il fregio con gli uccelli acquatici di una tomba di Medum della III dinastia (2895-2840), nel Museo del Cairo; nel medio impero produce fra l'altro scene di caccia, notevoli per la fresca ed efficace rappresentazione della natura (p. es. tomba di Chnemhotep della XII dinastia, 2000-1785 a Beni-Hassan: fig.1), ma raggiunge il massimo sviluppo sotto il nuovo impero durante la XVIII e XIX dinastia tebana (1580-1200), anche perché soddisfaceva i gusti di quest'età di rinnovamento, conciliando la tradizionale fastosità della decorazione con un dispendio minimo (fig. 2); sulle pareti delle varie tombe tebane innumerevoli sono le rappresentazioni realistiche e movimentate della vita campestre, le scene di caccia e di pesca o d'interno (sontuosi convegni, come nella tomba di Nekht, o momenti della vita abituale nelle reggie, come nell'affresco di una tomba di Tellel-‛Amārna oggi nel Museo di Oxford, che è interessante per le caratteristiche dell'età di Echnaton), completate da graziosi motivi ornamentali sul soffitto (v. tavola a colori),

Il mondo orientale. - Quanto all'affresco nelle arti orientali, le nostre cognizioni sono scarse e imprecise: nessun elemento sopravvive della pittura caldea; al contrario gli scavi nelle dimore regali dell'Assiria provano l'esistenza di pitture su intonaco eseguite così a tempera come a fresco nell'interno dei palazzi (Chorsabad, Nimrud, ecc., fig. 2); prevale, tuttavia, l'uso delle mattonelle smaltate o del rilievo policromo, e pertanto l'affresco ha la modesta funzione di completare la decorazione con motivi ornamentali o fasce monocrome; rari sono i resti di fregi figurati (palazzo di Sargon a Chorsabad). L'intonaco di calce cotta e gesso non supera i 3-4 mm. di spessore; i colori adoperati sono il nero, il giallo, il rosso e, con gran prevalenza, l'azzurro, mentre rarissimo è il verde. Nulla possiamo dire di questa tecnica nelle arti primitive della Fenicia, dell'Asia minore e della Persia, oltre la menzione dei frammenti d'intonaco dipinto in rosso trovati a Susa.

Civiltà egeo-micenea. - Invece, una fioritura grandiosa dell'affresco si ebbe durante tutta la civiltà preellenica svoltasi nel bacino dell'Egeo e sul continente greco nell'età del bronzo. In Creta, nei palazzi primitivi (II periodo paleocretese, sec. XIX-XVII a. C.). l'intonaco dipinto aveva scopo più che altro protettivo, e pertanto era di colore unito (generalmente rosso) con riquadrature e fasce, o imitava brecce e pietre venate policrome. Ma la pittura di questa medesima civiltà, che forse ebbe Creta per culla e si diffuse nelle isole, sulle coste anatoliche, e passò poi sul continente greco nella fase che suol dirsi micenea, assume da un certo momento (circa il sec. XVI a. C.) una medesima fisionomia caratteristica, pur seguendo naturalmente tutto un ciclo d'evoluzione sino al suo tramonto nel sec. XI a. C. I caratteri sono dunque gli stessi, siano pure stati artisti cretesi a lavorare sul suolo greco, o siano state imitate le loro opere da artefici locali: la pittura è essenzialmente decorativa, ravviva gli ambienti maestosi dei palazzi con la riproduzione della figura umana, degli animali e delle piante, vivace e mirabile pel sentimento della realtà. I decoratori dan prova di prodigiosa maestria, dipingendo alla lesta a mano libera anche le linee curve (rara è la circonferenza tracciata col compasso): prima distendevano sull'intonaco lo strato di malta bianca, poi segnavano i contorni delle riquadrature o degli zoccoli e altre linee preparatorie, facendo scattare sulla superficie, ancor molle, cordicelle tese all'uopo, le cui impressioni erano in séguito coperte dai colori; tingevano quindi il fondo, quando non lo lasciavano bianco, e vi disegnavano sommariamente col pennello i contorni (in rosso più scuro o più chiaro nelle diverse età; solo in casi eccezionali lo schizzo era inciso). I colori fondamentali sono il nero, il rosso, il giallo e l'azzurro (poiché il bianco era risparmiato nel fondo), dei quali si ebbero tonalità diverse, e coi quali si produssero varie tinte complementari nei diversi periodi, pur essendone la reciproca successione e il contrasto regolati da norme costanti e presso che invariabili. La decorazione ad affresco non si limitava alle pareti, ma era estesa anche al soffitto, e in taluni casi al pavimento, dove si rovinava, pel calpestio, molto presto, richiedendo frequenti rinnovamenti: nel mégaron del palazzo di Micene si sono infatti riconosciuti cinque strati sovrapposti, dovuti a rifacimenti successivi. Fra i saggi più semplici e primitivi sono i frammenti trovati in una casa dell'isola di Thera (Santorino) sotto lo strato di lava di un'eruzione antichissima (sec. XVI a. C.?): sul primo intonaco di terra battuta è stato spalmato uno strato di calce pura, sul cui fondo candido spicca la vivace policromia (rosso, azzurro, giallo, bruno-grigiastro) delle larghe fasce componenti lo zoccolo, del fogliame e dei fiori. Nel palazzo di Haghia Triada a Creta (sec. XVI) la pittura costituiva un fregio ininterrotto, che riproduceva scene vivaci della vita animale in un rigoglioso paesaggio, reso con efficace intuito della natura; analogo per lo spirito informatore era il piccolo affresco rappresentante un fondo marino con pesci di una casa della seconda città di Filacopi nell'isola di Melo; un po' più tarde sono le numerose pitture che decoravano le sale e i corridoi del palazzo di Cnosso, di soggetto e di dimensioni diverse (v. tavola a colori); così anche gli altri palazzi cretesi (Festo, ecc.) erano decorati senza risparmio da affreschi rappresentanti paesaggi naturalistici, processioni o folle, scene rituali, "architetture", cacce, tauromachie. Né i palazzi sul continente ellenico eran meno adorni di pitture; di esse si son ricuperati considerevoli avanzi a Micene, Tebe, Orcomeno di Beozia e principalmente a Tirinto (fig. 3): in questa ultima cittadella si sono identificati i resti deplorevolmente frammentarî degli affreschi del palazzo primitivo (secolo XVI), che pure permettono di apprezzare la perfezione della tecnica, la precisa eleganza degli ornati e la vivacità dei colori, e di riconoscere che non diversa era la distribuzione degli elementi decorativi e delle scene da quella dei palazzi cretesi; nel secondo edificio (sec. XIV) perdurò lo stesso sistema, ripetuto anche in un rifacimento successivo. Quanto infine fosse diffusa questa tecnica nell'ambiente cretese-miceneo, dimostrano una tomba rupestre di Micene, intorno alla cui porta esterna è applicato sulla roccia un intonaco dipinto, un sarcofago in pietra da Haghia Triada (fine sec. XV a. C.), decorato esternamente da pitture su strato di stucco in tutto analoghe alle murali; un quadretto di Micene con scena di culto, costituito da un rettangolo (centimetri 10,5 × 19) di calce agglomerata spessa un paio di centimetri, e accuratamente dipinto anche sui tagli, e infine una stele funeraria di Micene intonacata e dipinta a fresco.

Grecia. - Dell'affresco durante i primi secoli della civiltà greca nulla sappiamo; nessuna traccia ne han rivelato gli scavi in strati dell'età dello stile geometrico o arcaico; in via induttiva si può ammettere che nel periodo delle influenze orientali esistessero lunghi fregi murali; ma che tali ipotetiche pitture siano state ad affresco sarebbe congettura affatto arbitraria; d'altro canto, è probabile che un popolo, stabilito su suolo eminentemente calcareo e solito a costruire con materiali facili a deteriorarsi, non abbia trascurato di ricoprire con intonaco di calce policromato le pareti degli edifizî. Nel sec. V fiorì in Grecia la megalografia: artefici insigni come Polignoto, Micone, Paneno decorarono con grandiose pitture edifizî pubblici e del culto, ad Atene, a Delfi, a Tespie, a Platea, ad Elide, e non poco si è esercitata l'attività indagatrice moderna per conoscere più precisamente il genere, la tecnica e l'arte di queste celebri opere così ammirate in tutta l'antichità. Tuttavia la totale scomparsa degli originali vieta ogni conclusione assoluta: è da ritenersi che i pittori dell'età di Pericle dipingessero sulle pareti e non su tavole, ma è impossibile precisare se praticassero l'affresco o la tempera (tanto più che, secondo ogni probabilità, queste due tecniche non erano nettamente distinte), né è necessario immaginare che abbiano sempre seguito lo stesso sistema.

Etruria. - Soltanto gl'ipogei sepolcrali dell'Etruria (Tarquinia, Veio, Vulci, Chiusi, Cerveteri, Orvieto, ecc.) serbano affreschi che risalgono agl'inizî del sec. VI o alla fine del VII (grotta Campana a Veio), e ne offrono con ininterrotta continuità esempî sino a tutto il sec. II a. C. (tomba dei Festoni a Tarquinia e Tassinaia a Chiusi), costituendo un complesso del più alto interesse esegetico, artistico e tecnico. La decorazione pittorica è generalmente estesa a tutta la camera sepolcrale, ne occupa le pareti con fregi figurati e motivi ornamentali, e riproduce con la policromia l'architettura fin nel soffitto; con l'evolversi dell'arte e il trasformarsi del pensiero mutano le forme e i concetti ispiratori, ma nel complesso tutti questi monumenti mantengono attraverso ben cinque secoli la loro tipica fisionomia. In genere, le pareti delle tombe scavate nella roccia erano ricoperte d'un intonaco molto sottile (lo spessore massimo di un centimetro bastava a ritenere a lungo l'umidità nell'ambiente sotterraneo), sul quale si incideva a punta secca lo schizzo preliminare, nascosto poi sotto lo strato di colore di cui si copriva l'interno delle figure; si precisavano infine i singoli contorni con una linea di colore scuro, mentre il fondo era più spesso bianco o giallo chiaro. In taluni casi (tomba tarquiniese della Tarantola e ipogei chiusini in ispecie), si è invece dipinto direttamente sulla nuda roccia, ma ciò non solo non impedisce che vi si riconosca la tecnica dell'affresco, ma ne è anzi conferma, in quanto il tufo calcareo inumidito ha certamente qui prodotto la medesima reazione che la malta a base di calce; spesso sono stati aggiunti ritocchi a tempera per dar risalto a singoli particolari. I colori sono costituiti da minerali locali: il cinabro, l'ematite, la terra di pozzolana, il silicato di ferro, l'ocra, il cobalto, ecc., ma l'analisi ha talvolta rivelato la presenza di una sostanza organica, e altrove (tomba tarquiniese del Barone, della fine del sec. VI) di una colla nell'impasto dei colori, il che appunto dimostra non essere state tutte le pitture eseguite a fresco. Vivacissima è sempre la policromia: fin negli esempî più antichi sono adoperati il nero, il bianco, il rosso, l'azzurro, il giallo, il verde e varî toni intermedî; durante il periodo delle influenze orientali l'uso di essi è del tutto convenzionale, fantastico, ricco di contrasti stridenti, giacché son destinati solo all'affetto decorativo immediato e non a riprodurre la realtà (tomba Campana, il cavallo ha la parte anteriore rosso-scuro, la metà posteriore e la zampa anteriore destra macchiettate, la criniera e la coda giallo-scura; gli arbusti stilizzati sono gialli e rossi, la cute umana rosso-acceso). Prima della metà del sec. VI, sotto l'influsso dell'arte ionica, si ha già una considerevole evoluzione (tomba tarquiniese dei Tori), che si manifesta sempre più pronunziata fino al 475 a. C. circa, nei due gruppi omogenei e successivi di tombe tarquiniesi (Leonesse, Auguri, Caccia e Pesca ecc., e Bighe, Citaredo, Leopardi, Triclinio ecc.; v. tavola a colori e tav. CVII), le quali rimangono pur tutte nell'ambito dell'arte arcaica pei mezzi della rappresentazione, ignorando scorcio, prospettiva e chiaroscuro e seguendo la convenzione coloristica per distinguere i sessi. Un tentativo tipico e isolato segna la tomba delle Bighe, i cui due fregi sovrapposti riflettono i sistemi della pittura vascolare, rappresentando le figure scure sul fondo chiaro e viceversa. Nei dipinti tarquiniesi e chiusini del pieno sec. V si palesa l'influsso attico, mentre persistono i soggetti ormai invalsi (banchetti, danze, giuochi atletici, ecc.); dopo una lacuna tra la fine del sec. V e l'inizio del IV, la pittura rinasce affatto rinnovata, esperta dei mezzi tecnici più sviluppati, pur serbando la distinzione cromatica per le carni maschili e femminili; nella scelta dei soggetti prevale l'oltretomba con i suoi caratteristici elementi demoniaci e mostruosi. Dopo la magnifica fioritura del sec. IV, s'inizia il periodo di decadenza, durante il quale le tombe dipinte si fan sempre più scarse e la decorazione sempre più limitata in ciascuna.

Italia meridionale. - Ipogei sepolcrali con pareti affrescate ricompaiono anche nell'Italia meridionale, verso l'estremo limite della regione colonizzata dai Greci, ma per tutti i loro caratteri si rivelano estranei all'arte e al rito ellenici, di cui pur serbano un riflesso indiretto, e derivati invece da infiltrazione etrusca. In queste pitture l'uso dei colori, limitati di numero, è il più delle volte convenzionale, lo schizzo dei contorni è dipinto in giallo. La più antica è quella d'una tomba di Capua (470 a. C. circa), ma in seguito questa forma d'arte si diffonde nella Campania (Nola, Cuma), nella Lucania (Pesto; fig. 4), nel Sannio (Alife) e nell'Apulia (Ruvo, Gnazia), ha la massima fioritura nel sec. IV e, decadendo, dura ancora nel III.

Affresco ellenistico e romano. - Del resto la tradizione della pittura murale funeraria, a voler prescindere dal suo stile e dai suoi soggetti, mentre dopo l'età di Alessandro appare sporadicamente in tutto l'Oriente ellenizzato (tomba macedonica con scena di combattimento equestre; tombe di Byblos e Sidone in Fenicia, tombe di Marissa in Siria databili dalla fine del IV agl'inizî del sec. II a. C.,, della Russia meridionale dalla fine del IV all'età imperiale romana, di Alessandria, di Pagasae in Tessaglia, di Corinto, ecc.), persiste stabilmente in Italia, fino a ricollegarsi attraverso i sepolcri dell'età repubblicana (interessante il frammento con scene storiche di M. Fannio e Q. Fabio, proveniente da una tomba dell'Esquilino [fig. 5], databile con molta probabilità poco dopo il 141 a. C., ed esistente ora nel Museo dei conservatori in Roma) e imperiale, alle catacombe cristiane.

Per altro con l'età ellenistica s'inizia una nuova grandiosa fioritura dell'affresco, estesa a tutte le regioni che conobbero l'ultima fase della civiltà greca e la romana, dall'Italia e dalla Sicilia fino all'Asia minore (Priene, Pergamo, ecc.), all'Egitto (Alessandria) e alla Crimea, e a noi meglio nota per gli esempî innumerevoli conservati nelle città campane sepolte dall'eruzione vesuviana del 79 d. C. (Pompei [tav. CVII] Ercolano, Stabia e ville adiacenti), a Delo e a Roma. La pittura murale viene in gran voga ed è adottata per decorare non solo ogni genere d'interni (edifizî pubblici e privati, abitazioni e botteghe, luoghi di culto e sepolcri), ma anche i muri esterni delle case, i portici, i triclinî scoperti delle ville fastose, ora semplicemente con motivi ornamentali, che imitano o completano l'architettura, ora con scene figurate, che a volte assumono importanza specialissima, riflettendo pur attraverso l'opera modesta del decoratore celebri quadri perduti.

A Delo lo strato d'intonaco destinato a ricevere i colori si compone di calce, finissima sabbia e marmo bianco pesto, ha da 3 mm. a 1 cm. di spessore, e poggia su uno o due strati più grezzi dello spessore di cm. 1 a 3 ciascuno; ma quando è più accurato, manca di sabbia, si riduce fino ad 1 mm. di spessore e si adagia su parecchi (persino cinque) strati grezzi; non di rado, prima di stendere i colori, si è applicato col pennello un latte di calce (idrato calcico), forse per inumidire lo strato superficiale di malta, che, sottile com'era, rapidamente tendeva ad asciugarsi negli ambienti caldi e soleggiati. A Roma e nelle città vesuviane l'eccezionale spessore dell'intonaco evitava tale inconveniente. Lo schizzo dei particolari decorativi era tracciato a punta secca, e le incisioni erano poi precisate con colore scuro; quello dei soggetti figurati era invece generalmente abbozzato col pennello in colore chiaro sul fondo scuro e viceversa; spesso le pitture sono state rinnovate e sostituite anche più volte mediante la sovrapposizione di nuovo intonaco.

Senza dubbio la maggior parte dei dipinti romano-campani sono stati eseguiti a fresco, ma è tuttavia innegabile che taluni esorbitano da questo sistema, dimostrando la coesistenza di altre tecniche (tempera e guazzo): così, p. es., il verde vivo, che è malachite, sarebbe stato alterato dalla calce e fu perciò sempre applicato su uno strato di nero che lo isolasse dalla malta; così altri particolari attestano non meno chiaramente l'uso di colori a tempera almeno pei ritocchi e per la sostituzione di nuove pitture sovrapposte alle primitive. Infatti il perfetto sviluppo dell'arte e la conseguente necessità di ottenere effetti impeccabili sotto ogni riguardo escludevano la possibilità di ricorrere ad espedienti convenzionali per supplire le tinte inconciliabili con le reazioni calciche dell'intonaco umido, e del resto si è già detto che nell'antichità le due tecniche dell'affresco e della tempera spesso si son fuse e completate a vicenda, il che traspare anche dalle notizie tramandate dagli scrittori dell'età romana (Vitruvio, De arch., VII, cap. III, 5, 7, 8; Plinio, Nat. Hist., XXXV, 45, 49, XXXVI, 176; cfr. anche Plutarco, Herot., XVI, 15, p. 759 C) sulla preparazione dell'intonaco e l'uso dei colori.

Senza indugiare in distinzioni d'arte o di stile (né tanto meno alludere ai pittori romani menzionati nella tradizione letteraria e delle cui opere nulla di preciso può dirsi), basti ricordare che, quando s'inizia nel sec. II a. C. la decorazione pittorica della casa privata, essa si limita ad imitare il rivestimento di marmi e brecce con la policromia, coadiuvata dapprima da sporgenze e incisioni e supplendo poi al rilievo con i soli effetti coloristici e gli scorci illusivi (metà circa del sec. I a. C.), che via via furono portati alle estreme conseguenze attraverso la rappresentazione sempre più audace delle parti architettoniche in prospettiva. Si mirava ad ampliare illusoriamente lo spazio chiuso, e s'immaginò aperto il fondo della parete su vedute paesistiche, che talvolta si estendono, specie nell'età di Augusto, così da occupare tutta la parete (Villa di Livia a Prima Porta presso Roma), e poiché si ravvivava il paesaggio popolandolo di figure, altre volte queste predominano addirittura sullo sfondo; talora infine non si dipingono che grandi figure isolate o concettualmente aggruppate sul fondo rosso (Villa dei Misteri a Pompei, Villa di Boscoreale), o bianco (casa della Farnesina a Roma), quasi a rappresentarle presenti nella sala. Ma, per quanto importante possa considerarsi la cornice decorativa attraverso le varie forme che assume nei quattro stili che se ne distinguono, essa resta pur sempre inferiore ai riquadri centrali occupati da scene figurate, spesso particolarmente notevoli per arte, nel complesso preziose pei soggetti mitici illustrati. Riguardo ai colori si può dire che sono ormai tutti adoperati, senza eccezione: nel secondo stile (dell'architettura in prospettiva) son più vivaci con predominio di verde, violetto, rosso chiaro e giallo; nel terzo stile (della parete reale) si han toni più sobrî e cupi con prevalenza di bruno, verde, rosso, nero, violetto; nel quarto (dell'illusionismo architettonico) alla fantastica artificiosità delle forme corrispondono la predilezione per le tinte fastose e splendenti, l'imitazione dei metalli nobili, il cui scintillio è adattato persino all'architettura, gli sfondi smaglianti per gradazioni rare (cinabro, porpora, ecc.). Per altro, mentre l'affresco assurge talvolta alla dignità di opera d'arte, altre volte è adoperato per gli scopi più modesti, come p. es., frettolosi schizzi d'un solo colore; né infine è da omettersi la menzione di lararî domestici e are sulle pubbliche strade a Pompei e a Delo decorati a fresco, queste ultime spesso completate da elementi simbolici dipinti sull'intonaco del muro cui sono addossate.

Mentre così, particolarmente in Roma e nelle città della Campania, si sviluppava la tecnica dell'affresco nella decorazione delle case e dei palazzi (Domus Aurea di Nerone in Roma), ed essa, per il tramite degl'ipogei pagani, in cui si univa all'altra tecnica dello stucco, passava alle catacombe cristiane, e, ancor prima, ad ipogei le cui figurazioni, assai discusse, sono da talune ritenute ereticali (tombe degli Aurelii al Viale Manzoni in Roma), l'oriente ellenizzato chiedeva all'affresco la decorazione di tombe e di templi, e preparava egualmente la via all'arte cristiana. Di questo gruppo meritano particolarmente di essere ricordati gli affreschi scoperti a Dura (Europos) in Siria, sulla collina di Sāliḥîyyek sull'Eufrate (v. tavola a colori). Essi ornavano le pareti interne di un tempio degli dei palmireni, e si vogliono di varia mano e di varia età, perché i più antichi, che rappresentano tra l'altro il dedicante Conone e la sua famiglia, si considerano anteriori al 75 d. C., mentre i più recenti, tra cui uno con una scena di sacrificio, compiuta da un tribuno romano, Giulio Terenzio, discendono all'epoca dei Severi, tra il sec. II e il III d. C. Ancora una volta queste pitture dal punto di vista tecnico mostrano quanto sia difficile distinguere nell'antichità tra l'affresco e la tempera, perché né i colori sono stati distesi su uno strato spalmato di calce ancora fresca, né vi si trova alcuna traccia di sostanza agglutinante: tuttavia si avvicinano di più all'affresco, perché vi erano stati usati dei colori minerali ad acqua, ad assicurare i quali era stata sufficiente la sola porosità dello stucco su cui erano stati applicati. Gli sfondi architettonici, la posizione delle figure di prospetto, la loro collocazione dentro intercolumnî a colonne tortili segnano nelle pitture del gruppo più antico, salvo il caso che debba modificarsi la loro datazione (cioè che il dedicante Conone con la sua famiglia vi sia stato dipinto a più di un secolo di distanza dalla fondazione del tempio che forse a lui deve la sua origine), una singolarissima anticipazione di prospettive e di forme che caratterizzano tra l'altro i musaici parietali cristiani.

Dal Cristianesimo all'età contemporanea, in Italia. - La pittura murale si attenne nelle catacombe cristiane, in Roma, alla formula tecnica più semplice. La trascuratezza nella fattura degli intonachi cresce col tempo e accompagna l'evoluzione della tecnica pittorica e dell'iconografia. Si usò un intonaco non più spesso di un centimetro, composto all'uso romano quando fu disteso in due strati, ma costituito di un impasto di pozzolana e di calce, imbiancato con latte di calce, quando fu disteso in un unico strato. Su questo intonaco i pittori delle catacombe eseguirono l'opera loro coi modi della pittura compendiaria ellenistica, già usata in Roma e in Pompei, e che può essere avvicinata alla tecnica impressionistica moderna (fig. 6), maniera sommaria che trascura il fermo disegno, la modellatura delle forme e la gradazione dei colori, e rende le cose in grandi masse di chiara ombra e di luce. Col tempo, però, questa maniera, adoperata con crescente insipienza e negligenza, si ridusse a un confuso complesso di segni tracciati convenzionalmente ad accennare più che a definire gli oggetti, pur continuando in qualche ritratto di defunto la buona tradizione ellenistica. Ma già col sec. IV penetrava nelle catacombe un riflesso della pittura monumentale, che alla compendiaria preferiva probabilmente l'altra maniera, pur classica, del contorno preciso e del tratteggio che modella le forme, e di cui abbiamo un esempio in alcuni dei ritratti di papi (della prima metà del sec. V), nella basilica di S. Paolo fuori le mura. Intanto ragioni liturgiche e scopi di propaganda aiutavano una nuova fioritura dell'affresco fuor dell'ombra delle catacombe; e S. Paolino di Nola, S. Nilo, S. Gregorio raccomandavano di ornare le pareti delle chiese con sacre storie per edificazione e istruzione degl'illetterati, storie delle quali ci rimane però soltanto il ricordo. Fortunatamente in Santa Maria Antiqua, in Roma, sui sette successivi intonachi rimessi in luce, possiamo studiare la tecnica adoperata dagli artisti, bizantini e romani, che vi dipinsero dal sec. V al X. Sembra che questa tecnica varii non a seconda del tempo, ma a seconda delle scuole; cosicché alla maniera bizantineggiante dal contorno deciso e dal modellato a gradazioni cromatiche, rappresentata da affreschi del sec. VI, succede quella di tipo schiettamente classico, dal modellato franco e robusto, ottenuto con tocchi di tinte svariate, messi giù con sprezzante sommarietà. Intanto già in alcuni strati di S. Maria Antiqua si nota una maniera più rapida e sciolta, caratterizzata da una tipica disgregazione di tinte (tav. CVIII), maniera che ci rivela forse le predilezioni di una maestranza locale, schiettamente italiana, e che ritroviamo più tardi in alcuni degli affreschi di S. Saba e di S. Maria in Via Lata.

Ma da quel poco che ci rimane della pittura monumentale e decorativa dal sec. VIII all'XI, la quale ebbe fortuna almeno uguale al musaico, sembra che, pur tra la varietà dello stile e della tecnica, avesse la preferenza una maniera di dipingere laboriosa e minuta, a tinte di fondo e mezze tinte distese sull'intonaco umido (e quindi ad affresco) e a luci bianche sovrapposte (probabilmente a secco); maniera, del resto, assai affine a quella della miniatura, che procedeva dagli scuri ai chiari. In Roma, però, l'ignoto pittore che alla metà del sec. IX affrescò l'Ascensione e il Cristo al Limbo nella primitiva chiesa di S. Clemente, usò di una fattura più larga e disinvolta (tav. CVIII); e quello che sullo scorcio del sec. X lavorò in S. Sebastiano sul Palatino, ebbe preferenze plastiche e decorative, riattaccandosi alla tradizione bizantina, e al tempo stesso preludendo all'arte romanica. Così pure fuori di Roma, nell'Italia meridionale, fedele generalmente alla maniera trita e minuta dei Bizantini, il pittore della Crocifissione di S. Vincenzo al Volturno, schietto rappresentante dell'arte benedettina e operante al principio del secolo IX (tav. CVIII), usava una sua maniera più larga e più rapida, senza o quasi delimitazione dei contorni e con disgregazione delle tinte. Invece quel poco che oggi rimane nell'Italia settentrionale, ci rivela ora qualche preferenza per la Íattura dal colorito disgregato (grotta dei Ss. Celso e Nazaro in Verona, dell'anno 996), ora una decisa soggezione alla maniera dell'Oriente bizantino (S. Benedetto al Monte, in Civate).

Nei secoli XI e XII l'affresco fu trattato ancora con l'accennata larghezza, specialmente nel Lazio e nell'Abruzzo, dipendenti dalla grande scuola romana, e nell'Italia meridionale rimasta nell'ambito dell'arte bizantina; mentre nell'Italia settentrionale modi locali resistevano a quelli bizantini e d'oltralpe.

La scuola romana, tendente "a ridurre il modellato, prima con tinte disgregate o con colore a largo impasto, ma senza contrasto, poi accentuando i contorni e accordando le tinte vivaci" (Toesca), più che nei ridipinti affreschi di S. Urbano alla Caffarella, ci si rivela, oggi, in quelli della chiesa inferiore di S. Clemente, della fine del sec. XI e del principio del XII, con le Storie dei Santi Clemente, Biagio ed Alessio, nei quali un maestro geniale, quasi riesumando la vivacità della pittura decorativa ellenistica, distese entro precisi contorni tinte sovrapposte e ben fuse, con una maniera che, pur derivando dall'antico, si può già chiamare italiana. La quale maniera ritroviamo, ma come ampliata monumentalmente, negli affreschi di S. Pietro presso Ferentillo (Terni), per quanto guasti da restauri; e in quelli di S. Elia presso Nepi, ove però tre artisti romani cominciano a risentire nuovi influssi bizantini, e s'irrigidiscono in un linearismo esotico, profilano di rosso i volti, li coloriscono di roseo e di verdognolo a guazzo, e li chiazzano di carminio sulle guance, mentre lumeggiano di bianco stridente i panneggi.

Per l'Italia meridionale, mentre nella Puglia le pitture delle grotte basiliane derivano strettamente dai modi bizantini, anche in Campania dove era operosissima la pittura nei monasteri benedettini, il celebre ciclo di affreschi di S. Angelo in Formis accoglieva i modi di Bisanzio, sebbene da questi vi differisca il colorito crudo e violento, con aspro contrasto di tinte, che ritroviamo pure nelle pitture di S. Maria a Foro Claudio (Sessa).

Nell'Italia settentrionale, mentre sul principio del sec. XI, cioè quando l'arte bizantina preponderava sul litorale adriatico, mediocri e rozzi maestri nell'abside della Basilica di Aquileia ripetevano gl'insegnamenti della scuola romana, gli affrescatori di S. Vincenzo di Galliano, agl'inizî del sec. XII, pur conservando una monumentalità e plasticità tutta italiana, anzi romana, adottavano la tecnica bizantina, del colorito a stacchi decisi di ombre e mezzetinte, e a lumeggiature a raggio, visibilmente sovrapposte.

Ma alla metà del secolo, gli affrescatori di S. Pietro di Civate riveleranno una più profonda e compiuta educazione bizantina, sia che adoperino il colore in violenti contrasti, sia che lo adoperino in gradazioni svariate.

Nel XIII secolo, dal mezzogiorno al settentrione d'Italia, il predominio bizantino s'accentua anche nei modi di affrescare; e solo sullo scorcio di esso appare qua e là qualche influsso goticizzante francese. Intanto in questo secolo il monaco Teofilo nel suo trattato (v. sopra) insegnava la pratica del fresco a secco, consistente nel dipingere con colori stemperati in acqua di calce su di un intonaco già secco e bagnato nel momento. Ma sembra che i pittori italiani rimanessero assai fedeli al metodo classico del vero e proprio affresco, pur con rifiniture a secco, come ad Anagni.

In Puglia, tranne qualche accento paesano, la maniera è bizantina. Anche in Abruzzo questa prevale; ma una diversa maniera, a contorni decisi con scarso modellato, rivela l'imitazione di miniature francesi; e le due tendenze appaiono negli affreschi di S. Giovanni in Venere (Fossacesa).

Nella Venezia, tutta bizantina, i pittori della cripta della Basilica di Aquileia fanno uso (forse già al principio del sec. XIII) di toni staccati e di forti contrasti di tinte, e di lumeggiature bianche, stagliate come nelle miniature e nei musaici bizantini. In Lombardia, nel castello di Angera (dei primi anni del sec. XIII) il ciclo visconteo ha forme bizantine, ma accoglie influssi goticizzanti, e si distingue pel colorito vivace e discorde. Nell'Emilia, gli affrescatori del Battistero di Parma, usano dei modi bizantini: saldezza di contorni, potenza di chiaroscuri, impasti di colori; ma anche sommarietà, pur bizantina, ma di derivazione ellenistica, e un senso squisito del colore.

Intanto a Roma continua a fiorire la scuola locale. E questa, se troppo indulge alla fattura minuta e preziosa dei Bizantini nella cappella di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati, o all'abbazia di Grottaferrata (ma v'è qui maggior morbidezza e fusione di tinte); se altrove (cappella del Martirologio in S. Lorenzo, abside di S. Pietro di Tuscania e di S. Silvestro a Tivoli) conserva caratteri proprî nella generale maniera esotica; afferma la propria originalità ad Anagni e a Subiaco. Nel duomo di Anagni i vivaci affreschi della cripta rivelano, nei tre maestri, tre diverse tendenze: una trita, minuta, convenzionale, schiettamente bizantina; una robusta nel contorno e vivace nel colorito, tipicamente romana nonostante qualche manierismo esotico nelle pieghe e nelle luci; una rapida, larga, sommaria, tutta classicità negli spiriti e nelle forma. A Subiaco, questa terza tendenza è rappresentata particolarmente dal celebre ritratto di Frate Francesco, che, nonostante le ridipinture, offre singolare dolcezza di modellato. Da questa tendenza deriva Pietro Cavallini, che, in quanto rimane da lui affrescato in S. Cecilia di Roma o in S. Maria Donna Regina di Napoli, si rivela modellatore sicuro e robusto, sia che adoperi nei volti dolci trapassi di colore e vaga fusione di tinte, sia che usi nei panneggiamenti larghe e riposate stesure (v. tavola a colori).

Tale è l'influsso della scuola di Roma, ch'esso, al principio del sec. XIII, giunse fino in Sardegna, alla Trinità di Saccargia; mentre in Toscana, se non è tutto perduto, manca allora, o quasi, una scuola di freschisti. Anche Cimabue ha stretti contatti con la scuola romana, e forse da questa derivò i modi dell'affresco; ma lo stato attuale dei pochi affreschi di lui rimasti ad Assisi (deteriorati quelli della chiesa superiore, ridipinto quello dell'inferiore) ci vieta una conoscenza sicura della tecnica da lui adoperata. Potremmo dire soltanto che in quelli più deteriorati Cimabue dovette probabilmente adoperare per i toni scuri colori che non hanno resistito alla calce, e per le luci, miscele che contenevano bianco di piombo e che le hanno annerite.

Nel sec. XIV l'egemonia passa dal Lazio alla Toscana, e più precisamente da Roma a Firenze e a Siena. Lo stato dei cicli giotteschi in S. Francesco d'Assisi e all'Arena di Padova (tav. CIX), ma non quello degli affreschi in S. Croce e nel Palazzo del Podestà di Firenze, ci permette constatazioni sulla tecnica adoperata dal maestro, chiarita dalla testimonianza preziosa del Cennini, che nella bottega dei Gaddi aveva veduto continuati, eredità preziosa, i modi del maestro. Sul pezzo d'intonaco fresco e tale da poter essere lavorato in un giorno (tanto quanto un volto soltanto, come accenna il Cennini), il maestro "atteggiava", cioè abbozzava le carni o disegnava le vesti con "verdaccio" (miscela di ocra, nero e cinabro con bianco Sangiovanni); poi distendeva le tinte, preparate in tre gradazioni, andando dallo scuro al chiaro pei panni, dal chiaro allo scuro per le carni, già prima ombreggiate di verdeterra. Le stesure accostate, non mai sovrapposte, erano ripetute due o tre volte, e poi accuratamente sfumate. Quindi il maestro sovrapponeva pennellate chiarissime nelle luci, tocchi di puro bianco nei lumi; pei volti, dopo sfumato, toccava con la "rossetta" (cinabro chiaro e bianco Sangiovanni) i labbri e le "meluzze delle gote"; e profilava o segnava di nero il contorno degli occhi, le narici e i buchi dentro dell'orecchie", e di sinopia scura riprendeva qualche ombra più intensa. Per i casamenti, le montagne e altri accessorî, disegnato e campeggiato di verdaccio e verdeterra, il maestro dava il colore in stesure digradate o no. Questa la tecnica che il Cennini afferma adoperata da Giotto; ma s'ha forse da intendere nella bottega di lui; ché facilmente il maestro abbreviò i procedimenti, adoperando anche impasti per avere tonalità più intense; e probabilmente usò anche lui, seccato l'affresco, ritoccare a tempera là dove l'alterarsi dei toni nel prosciugamento o qualche altro difetto, rivelato da questo, lo richiedesse.

Il Cennini stesso non solo dà i precetti della "pittura a secco", spesso abbinandoli a quelli dell'affresco, ma insegna anche come adoperare a tempera, sul muro, quei colori (orpimento, lacca, azzurro della Magna) che non erano usabili in affresco, e aggiunge: e nota che ogni cosa che lavori in fresco, suole essere tratta a fine e ritoccata in secco con tempera".

Ad ogni modo è questa la tecnica usata dal diretto discepolo di Giotto, Taddeo Gaddi, e dal figlio Agnolo per quasi un secolo; ed è quella che all'incirca dovette essere preferita, per tutto il Trecento e parte del Quattrocento, là dove giunsero gl'insegnamenti o gli esempî del maestro: per mezza Toscana, fino a Volterra; in Romagna e nelle Marche con Giovanni Baronzio operante a Rimini e a Ravenna e forse a Tolentino; in Umbria coi giotteschi che lavorarono nella chiesa inferiore di Assisi.

Anche la scuola senese adoperò nell'affresco una tecnica affine a questa: il verdaccio si chiamava a Siena "bazzeo", dice il Cennini. Ma nel ridurre, anzi nell'evitar quasi il modellato e il chiaroscuro, nella predilezione pei colori piatti, quasi campiti entro il preciso contorno, attenuò l'ombreggiare di verdeterra e diminuì le gradazioni. Simone Martini nella Maestà del Palazzo Pubblico di Siena (per quanto oggi assai guasta) offre una massima semplificazione nella fattura dei volti, cui contrasta la complicata preziosità delle vesti e degli accessorî; e nel Guidoriccio (ivi) e nelle Storie di S. Martino in S. Francesco d'Assisi ottiene perfetta fusione di tinte in larghe o quiete stesure (tav. CX). Al confronto di lui Pietro Lorenzetti (affreschi dei Servi e di S. Francesco in Siena, e Crocifissione e Deposizione ad Assisi) e il fratel suo Ambrogio (affreschi in S. Francesco e nella Sala dei Nove al Palazzo Pubblico) offrono, nel contatto con la tradizione giottesca, una fattura più accidentata, un chiaroscuro più intenso, un modellato più risentito.

L'insegnamento di Simone Martini va dalla vicina Sangimignano (Barna e Bartolo di Fredi alla Collegiata) fino a Napoli (Roberto d'Oderisio all'Incoronata; ignoto martinesco a San Lorenzo Maggiore), fino ad Avignone; quello dei Lorenzetti, a Pisa (i Novissimi in Camposanto) e ad Assisi (Passione nella chiesa inferiore, ecc.).

Nelle altre scuole d'Italia, fatta eccezione per il padovano Guariento, ligio ancora ai modi bizantineggianti almeno nei resti del Paradiso del Palazzo Ducale di Venezia (ma nel coro degli Eremitani di Padova, nonostante ridipinti, sembra entro la corrente trecentesca italiana), la maniera dell'affresco non dovette differire di troppo dalla toscana anche pei rapporti diretti con la scuola di Giotto. Giovanni da Milano (affreschi affini ai suoi a Mocchirolo e a Lentate, suoi nella cappella Rinuccini in Santa Croce di Firenze) fu scolaro di Taddeo Gaddi, anche se conservò modi lombardi e ammorbidì la fattura giottesca col chiaroscuro delicatissimo e con la coloritura pastosa, seguito da Tommaso da Modena (capitolo di San Niccolò a Treviso, e Storia di Sant'Orsola al Museo di Treviso), che d'altra parte subì influssi senesi; e da questi trassero insegnamenti formali i veronesi Altichiero e Avanzo (in Padova, cappella di San Felice al Santo e oratorio di San Giorgio), ma tutti presi dallo spirito della grande arte giottesca.

La pratica fiorentina non dovette esser seguita scrupolosamente. Lo stesso Cennini, scrivendo il suo Trattato in Padova, circa il 1437, lamentava che alcuni maestri, forse per far più presto, abbozzate subito le carni di rosato, le ombrassero poi con un po' di verdaccio e le lumeggiassero di bianchetto. D'altra parte contrastavano a questa pratica i modi della cosiddetta arte internazionale, d'origine senese-francese e di sviluppi anche fiammingo-renani, in gran voga tra la fine del sec. XIV e il principio del XV; modi dai toni intensi e caldi in impasti sfumati delicatamente e dalla fattura complicata e preziosa, diffusi dal Piemonte (affreschi cavallereschi e cortigianeschi nel castello della Manta presso Saluzzo), dalla Lombardia (cappella di Teodolinda nella Basilica di Monza, dipinta dagli Zavattari) e dalla Venezia (torre dell'Aquila nel Castello di Trento, e salone della Ragione in Padova, decorato da Miretto e seguaci) in Emilia (cappella Bolognini in S. Petronio di Bologna) e fino nelle Marche (oratorio di S. Giovanni in Urbino con le Storie del Battista di Lorenzo e Jacopo da Sanseverino) e nell'Umbria (decorazioni del palazzo Trinci a Foligno, di Ottaviano Nelli), e portati da Leonardo da Besozzo nella lontana Napoli (Incoronazione della Vergine in S. Giovanni a Carbonara). Quest'arte ebbe tra noi massimi e originali rappresentanti in Michelino di Besozzo (affreschi della sua maniera nel palazzo Borromeo a Milano), in Gentile da Fabriano e nel Pisanello. Purtroppo niente ci resta di quanto questi affrescarono nel Palazzo ducale di Venezia o in S. Giovanni in Laterano a Roma; appena rimangono del Pisanello le mirabili pitture di S. Fermo e di Santa Anastasia a Verona, ma bastano a dimostrarci come egli potesse influire formalmente e tecnicamente, insieme con Gentile, anche sui freschisti fiorentini.

Questi, specialmente se novatori, non dovette soddisfare a pieno la pratica giottesca, adoperata fin verso la metà del Quattrocento nelle fiorenti botteghe dei mestieranti, quali i Gerini e i Bicci. Masaccio, per quello che se ne può giudicare dalla parte ch'è sua nella cappella Brancacci al Carmine (i discussi affreschi di S. Clemente in Roma sono troppo mal conservati), dal suo stile essenzialmente pittorico doveva esser portato ad adoperare, alla prima, succosi e grossi impasti di colore (quanto almeno la calce fresca poteva assorbirli) distesi quasi senza tratteggio, ma con solida modellatura, che davano toni intensi e profondi, ottenendo poi perfetta fusione e gradazione di tinte col pennelleggiare franco e spedito, e velando rapidamente a fresco per avere trasparenza e luminosità [tav. CXII).

Ma quel suo modo d'intendere pittoricamente anche l'affresco, come Giotto aveva fatto, non fu subito inteso e seguito. Solo più tardi il Ghirlandaio, e meglio ancora fra' Bartolommeo, Andrea del Sarto e Raffaello si misero su quella strada. L'Angelico, negli affreschi del convento di S. Marco a Firenze, rimase fedele alla pratica tradizionale delle colorazioni chiare e trasparenti, campite in riposate stesure, con magnifici giuochi di bianchi puri in delicatissime gradazioni (tav. CXI); ma accettò anche, specialmente nella cappella di Niccolò V in Vaticano, gl'impasti succosi e lo sfumare soffuso di Gentile e del Pisanello, come ancor più di lui fece Masolino a Castiglion d'Olona, nel Carmine di Firenze, in S. Clemente a Roma. Da questi due derivò i suoi modi di affrescare fra' Filippo Lippi, pulito e forbito, tutto delicatezza nelle velature (coro del duomo di Prato e di quello di Spoleto), pur accostandosi anche a Masaccio per qualche tonalità più intensa, e per un gusto generale più pittorico. Di Paolo Uccello poco sappiamo, tale è lo stato di deterioramento degli affreschi suoi nel Chiostro verde di Santa Maria Novella (il Giovanni Acuto del duomo è un distacco); ma vediamo Andrea del Castagno (specialmente in quanto oggi rimane del Cenacolo di Sant'Apollonia), per quel suo stile eminentemente disegnativo, adoperare il colore come puro ornamento, abolendone la pastosità e la fusione.

La pratica dei Fiorentini dovette essere ben rinomata, se nella prima metà del Quattrocento vediamo Masaccio e Masolino chiamati a Roma, Paolo Uccello, fra' Filippo Lippi e Andrea del Castagno bene accolti a Padova e a Venezia, lo Starnina e Dello far fortuna in Ispagna. Né la rinomanza diminuì. Quando circa il 1480 Sisto IV volle decorar la cappella che da lui prende il nome, chiamò in Vaticano quasi esclusivamente affrescatori fiorentini, con due umbro-toscani: il Signorelli e il Perugino.

Generalmente la pratica onesta dell'affresco, abbozzato a impasto, terminato a velature d'acque colorate, ritoccato parcamente e prudentemente a secco, fu seguita anche dai Senesi (Domenico di Bartolo e collaboratori al "Pellegrinaio", eec.); e fu osservata pure dai massimi pittori fiorentini della seconda metà del Quattrocento, dal Ghirlandaio (coro di Santa Maria Novella, cappella Sassetti in Santa Trinita, ecc.), che però si riattaccò a Masaccio per le tonalità quiete, e sfumate in tinte distese morbidamente, e dal Botticelli (affreschi della Sistina, quelli al Louvre distaccati da Villa Lemmi, ecc.), che usò invece contorni lievissimi a tratto, campiti di colori uniti e sfumati delicatamente, ma velando poi a guazzo (tav. CXIV), e da Filippino Lippi (cappelle Strozzi a Santa Maria Novella, Carafa alla Minerva, ecc.), che, continuando, da prima, al Carmine, l'opera di Masaccio, ne aveva derivato naturalmente qualcosa che pur non toglie l'enorme divario dal maestro.

Ma altri deviarono dalla pratica comune, o per scarsa onestà di mestiere, o per gareggiare, in affresco, con lo splendore delle prime pitture ad olio. Così Benozzo Gozzoli, se pur non l'adoperò negli affreschi restauratissimi di Montefalco e di San Gimignano (la cappellina del Palazzo mediceo a Firenze sembra veramente a buon fresco), nelle Storie della Genesi al Camposanto di Pisa usò una pratica, che, oltre all'intonaco troppo sabbioso, non poco ha influito sulla rovina di quelle, abbozzando a fresco, con colori tenui di fondo, solo le grandi masse, e dipingendovi poi a secco con tinte stemperate in acqua di calce. Così il Baldovinetti, seguendo forse Domenico Veneziano (sono perduti gli affreschi da loro eseguiti in Sant'Egidio), nella cappella Gianfigliazzi in Santa Trinita abbozzò le sue storie a fresco, ma le terminò poi a secco, temperando i colori con rosso d'uovo mescolato con vernice liquida fatta a fuoco (Vasari), e causando così la rovina dell'opera propria. Leonardo, come è noto, tanto nel Cenacolo delle Grazie, quanto nella perduta Battaglia d'Anghiari di Palazzo vecchio, rifuggì dalla pratica dell'affresco, la cui necessaria speditezza di esecuzione male si confaceva al suo modo tormentato e meticoloso di lavorare e alla sua predilezione pel colorito intenso e per lo sfumato mobilissimo. Racconta il Bandello che lo vedeva recarsi alle Grazie, dar poche pennellate, e andar via. Per questo, nella pittura del Cenacolo adoperò Leonardo un intonaco di stucco e cera, preparazione oleo-resinosa, su cui distese poi, ripetutamente, colori temperati pur di resine, come dipingendo in tavola (Silvestri); per la Battaglia tentò, come afferma l'Anonimo Gaddiano, una specie d'encausto a base d'olî e di vernici, facendo essiccar poi il dipinto a mezzo di bracieri accesi, che asciugarono rapidamente il colore nella parte più bassa, ma fecero colar su questa il colore della parte più alta, causando la rovina del capolavoro.

L'affresco ha larga fortuna anche fuori della scuola fiorentina, fatta eccezione per la veneziana, e i modi poco differiscono di regione in regione. Le varietà sono di forma e di colore più che di vera e propria fattura. Naturalmente anche nella pratica dell'affresco i grandi maestri rivelano la loro personalità. Piero della Francesca, nel coro di San Francesco in Arezzo, adopera impasti succosi nei toni intensi, ma quasi a contrasto si serve del candido fondo di calce pei bianchi; e distende il colore in limpide e terse stesure, alleggerendole e chiarendole con velature trasparenti e luminose (tav. CXIII). I seguaci non lo imitano strettamente in questo suo modo: Bramante, negli affreschi distaccati di Brera, semplifica il modellato e slarga la fattura, mentre Melozzo, nella cappella del Tesoro a Loreto o negli affreschi rimossi della sagrestia di S. Pietro in Vaticano, accentua il modellato e rende la fattura più accidentata. E Luca Signorelli, a Orvieto più che a Loreto, è tutto rilievi, scatti e sobbalzi, con stacchi più che fusione di tinte. Il Perugino, che s'accosta più ai Fiorentini, nel Cambio di Perugia o nella Crocifissione di Santa Maria Maddalena dei Pazzi a Firenze, è al contrario tutto fusione e sfumature, e sembra ottenerle con morbide pennellate di tinta e liquide velature d'acque colorate; ma ritocca anche, pericolosamente, a tempera. Così il Pinturicchio (cappella Baglioni in Santa Maria di Spello, appartamento Borgia in Vaticano, biblioteca del duomo di Siena) nella fattura straricca perde i vantaggi dell'affresco, e, terminando a tempera, manca di trasparenza e di luminosità.

A Padova, l'insegnamento dei Fiorentini è ripreso da Andrea Mantegna, che insieme con Ansuino da Forlì, Niccolò Pizzolo e Bono da Ferrara affresca la cappella Ovetari agli Fremitani (fig. 7); ma, nonostante le distese di colore limpide e cristalline, quasi gemmate, la fattura si fa tormentata e minuta nei particolari, finiti molto probabilmente a tempera; né diversa ci appare nella Camera degli sposi nel Castello di Mantova, per quanto le primitive crudezze si vadano meglio fondendo e sfumando. A Ferrara, Francesco del Cossa, decorando con altri seguaci del Tura il salone di Schifanoia, risentì forse dei modi, formali e cromatici, di Piero della Francesca. D'Ercole Ferrarese freschista, niente, invece, rimane; sappiamo però dal Vasari che mise dodici anni a compire la cappella Garganelli, oggi distrutta, in S. Pietro di Bologna, di cui "sette in condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco." A Milano Vincenzo Foppa, per quanto se ne può dedurre dai distaccati affreschi di Brera, continua i modi lombardi, tipici per tonalità calde e delicata fusione di tinte; mentre il Bergognone, limpido e freddo nelle figurazioni decorative della Certosa di Pavia, si fa più chiaroscurato e quasi affocato nell'abside di S. Simpliciano.

Nel Cinquecento l'affresco ha tale fortuna, che quasi ogni più remoto luogo d'Italia può offrire, ancor oggi, saggi pur cospicui di qualche mestierante di buona e onesta pratica. Di questa accennò brevemente il Vasari nella introduzione alle Vite (1550), chiamando il modo di dipingere sul muro in affresco "il più maestrevole e bello", e limitandosi, oltre a descrivere i noti procedimenti, a sconsigliare il ritocco a secco, "perché oltre l'esser cosa vilissima rende più corta la vita alle pitture". D'altra parte, egli stesso nella decorazione di Palazzo vecchio usò, da ultimo, un suo particolar metodo di pittura ad olio sul muro appositamente preparato, che gli dètte resultati ottimi e duraturi. Più diffusamente trattò dell'affresco Giovan Battista Armenini, nei suoi Veri precetti della pittura (v. sopra) esponendo una pratica consistente principalmente nell'uso di "color sodo", cioè d'impasto, messo giù rapidamente nei "chiari mezzi e scuri", e rapidamente unito e sfumato, perché, col prosciugarsi dell'intonaco, non muti di troppo pur durante il lavoro; e nell'uso poi di "ombre liquide e scure", distese a velatura sugli impasti quando l'intonaco sia già prosciugato, tratteggiando anche i muscoli delle carni con ombre liquidissime. È poi contrario all'uso, che allora si faceva, di cinabri e di lacche, dati su fondi bianchi per ottenere un maggior risalto, e che per essere a secco non reggono; ammette però il ritocco a secco per gli affreschi al coperto, pur avvertendo che tali ritocchi svaniscon col tempo. L'Armenini trae i suoi precetti anche dall'esempio dei grandi maestri, e per le ombre da tratteggiar muscoli cita Michelangiolo, il quale, avuta la commissione della vòlta della Sistina, riconoscendosi, lui scultore, poco pratico dell'affresco, si fece venir da Firenze alcuni espertissimi del mestiere, quali il Granacci e il Bugiardini. Ma, com'è noto, li rimandò via malamente e si mise a fare da solo, dipingendo a larghe stesure, e correggendo, mentre eseguiva, il disegno poco prima inciso a chiodo sull'intonaco, tanto che spesso il contorno del dipinto non combina con quello; fondendo poi e velando le stesure con le "ombre liquidissime" rammentate dall'Armenini; forse pur terminando qualche parte con colori misti all'acqua di calce, perché facessero presa sul dipinto ormai prosciugato. Esecutore rapidissimo, terminò in un solo giorno anche una intiera delle gigantesche figure della smisurata decorazione. Ma il Vasari e il Condivi ci assicurano che il maestro, quasi terminatala, non era contento dell'opera propria; e avrebbe voluto probabilmente ritoccarla a secco; con azzurro oltremarino e con oro in qualche luogo, perché paresse più ricca, aggiunge il Condivi; ma a quell'oro c'è poco da credere, ripensando alla risposta che Michelangiolo fece a Sisto IV, che gli aveva osservato la mancanza di ogni doratura. Del resto il ponte era stato levato, e la vòlta rimase fortunatamente com'era. Nel Giudizio Finale, eseguito a settant'anni, per quanto si può giudicare dallo stato presente del dipinto, il maestro dovette usare d'impasti più sugosi, tanto minore è la trasparenza e la limpidezza dell'insieme in confronto alla vòlta; e li dovette anche usare sovrapponendoli in successive riprese, per ottenere più di unità e di fusione (tav. CXVII).

Raffaello e i suoi numerosi aiuti, nelle Stanze vaticane, adoperarono impasti a fresco, velando subito con acque colorate che facevan corpo col colore sottostante; e lavorarono assai rapidamente (v. sopra). Quanto agl'impasti, essi, che nella Stanza della Segnatura ricordano la morbidezza e leggerezza masaccesca, si fanno, nella stanza di Eliodoro, più nutriti e più intensi di tono, sull'esempio dei Veneziani, meglio noti e compresi per l'abitudine con Sebastiano del Piombo. Nelle Stanze, però, gl'intonachi di pozzolana e di calce acquistarono una durezza cristallina che non permise loro di seguire docilmente i movimenti del muro; sì che si andaron formando col tempo spacchi o crepe con conseguente crollo di pezzi d'intonaco o caduta di colore (v. tavola a colori). Nelle Logge, poi, l'intonaco, per eccesso di polvere di marmo, non ha bene assorbito e fissato le tinte, che si sono largamente disgregate e polverizzate.

Il Correggio, terzo dei grandi affrescatori della prima metà del Cinquecento, bozzava a corpo e velava con acque colorate, ottenendo quella leggerezza e trasparenza, quel che di liquido e di guazzoso hanno, più che la Camera di S. Paolo, le cupole di S. Giovanni Evangelista e del duomo di Parma (tav. CXVI), leggerezza e trasparenze che il Parmigianino, a S. Giovanni alla Steccata, nella rocca dei Sanseverino a Fontanellato, sacrificò per una maggiore predilezione del chiaroscuro e dello sfumato.

Gli altri cinquecentisti o seguono alcuno di questi tre, o fanno a modo loro, secondo la tradizione locale. A Firenze fra' Bartolommeo (almeno nel rovinato e distaccato Giudizio Universale del Museo di S. Marco) e più Andrea del Sarto (chiostrino dei voti all'Annunziata, chiostro dello Scalzo, Cenacolo di S. Salvi) si riattaccano ai modi masacceschi, e trattano l'affresco pittoricamente; e il secondo è lodato dal Vasari per aver mostrato la maniera di "lavorare in fresco con perfetta unione e senza ritoccar molto a secco, che fa parer ciascuna opera sua tutta fatta in un medesimo giorno". Ad Andrea seguono il Franciabigio, il Rosso, il Pontormo, che nel salone del Poggio a Caiano è però più chiaro, limpido e luminoso del maestro.

A Venezia, Giorgione e Tiziano affrescano le facciate del Fondaco dei Tedeschi, ma la salsedine ha da tempo distrutto le loro decorazioni. Di Tiziano, però, rimangono gli affreschi delle Scuole del Carmine e del Santo a Padova; opere giovanili, ove pur già s'intravedono le superbe qualità del maestro: tonalità intense in impasti succosi, unità e fusione perfette. E in terraferma, veneziana o soggetta a Venezia, operano, tra gli altri, Pellegrino da San Daniele, che negli affreschi eseguiti a lunghe riprese nel Sant'Antonio del suo paese si fa, con gli anni, di buio e pesante, chiaro e sciolto, di tormentato e intarsiato nella fattura, disinvolto e fuso; Giovanni Antonio Pordenone, che, ovunque lavori d'affresco (a Collalto, a Pordenone e dintorni, a Treviso, a Cortemaggiore, e specialmente nel duomo di Cremona e a Santa Maria di Campagna presso Piacenza), fa sfoggio della sua abilità in abbozzi rapidi, impetuosi, di grossi impasti, ripresi e molto ritoccati però a colla, onde deficienza di limpidezza e di trasparenza; e Girolamo Romanino, bresciano, che nella pittura murale (duomo di Cremona, castelli di Trento e di Malpaga, S. Giovanni di Edolo) è non meno franco e spedito nell'abbozzare a impasti messi giù a larghe stesure, ma chiari e luminosi anche per abili velature.

Tra Piemonte e Lombardia, il Sodoma, che opera però specialmente nel Senese (affreschi varî nella città, a Monte Oliveto Maggiore, ecc.) e a Roma (Farnesina), fa sfoggio di bianchi calce in gradazioni delicatissime e unisce e sfuma soavemente impasti sottili di tinte chiare, velandoli a guazzo, ma non rifugge dalle tempere finali; Bernardino Luini (affreschi distaccati a Brera, Ambrosiana, S. Maurizio, ecc.; santuario di Saronno [tav. CXV]: Santa Maria dei Miracoli a Lugano, ecc.) abbozza pure a corpo e finisce a piccoli tratti di color fluido, ma ritocca, come quasi tutti, a tempera; Gaudenzio Ferrari (a S. Cristoforo di Vercelli e nei santuarî di Saronno e di Varallo, ecc.) fa uso di un pennelleggiare ampio e franco d'impasti sugosi e sacrifica chiarezza e limpidità alla preferenza per le tonalità intense.

Ma dalla metà del sec. XVI i modi tradizionali regionali, già mutati per influsso dei grandi maestri, sono come sopraffatti dalla pratica della scuola raffaellesca prima e della falange dei manieristi poi. Giulio Romano da Mantova affascina veneziani e lombardi, e tra questi i Campi, cremonesi operanti anche a Milano; Perin del Vaga, a Genova, forma una schiera di decoratori magnifici di chiese, di palazzi e di ville, da Giovan Battista Castello e da Luca Cambiaso a Bernardo Castello e a Lazzaro Tavarone, coi quali s'entra già nel Seicento, e tutti, meno Bernardo, chiamati a decorar l'Escuriale; Polidoro, celebre frescatore di facciate insieme con Maturino, passa a Napoli e in Sicilia, e vi diffonde i modi del maestro. Ma la pratica loro nell'affresco poco differì da quella insegnata dall'Armenini. E lo stesso può dirsi pei manieristi, dilaganti da Roma o da Firenze per ogni parte d'Italia, ma particolarmente verso il mezzogiorno: Daniele da Volterra, che sembra seguisse la pratica di Michelangiolo, e Cecchin Salviati; gli Zuccari, Federigo e Taddeo; il Cavalier d'Arpino, che si spinge fino a Napoli, ove il leccese Belisario Corenzio si napoletanizza del tutto; Giorgio Vasari, operante dovunque da Firenze a Bologna, a Venezia, da Roma a Napoli, e che abbiam veduto magnificare l'affresco, ma adottare anche una più comoda pittura ad olio sul muro; e il Bronzino, con Alessandro Allori e col Poccetti, decoratore squisito e praticone onestissimo. Intanto il Rosso fiorentino e il Primaticcio, in Francia, costituiscono la scuola di Fontainebleau (v. più sotto).

Una novità, se non di pratica, di fattura nell'affresco attua soltanto Paolo Veronese. Sia che con G. B. Zelotti decori la villa Soranzo a Castelfranco, o da solo la villa dei Barbaro a Masèr, usa abbozzare, in mezze tinte, carni, panni e architetture, accostando i colori a pennellate staccate, come a macchia; riprender poi, modellando, con pennellate "risolute e brillanti" (tav. CXVIII), come le chiama il Boschini, che guizzano nei lumi delle pieghe, e "lasciando le mezze tinte nello stato primo distribuite". Specialmente a Masèr, con l'uso dei colori puri, con la grande varietà di tocco, con la profusione dei suoi grigi argentini e gli effetti di luce diurna, il Veronese raggiunge la più felice espressione cromatica. La gamma dei colori è arditamente aumentata. Egli la estende fino al nero, la innalza fino al bianco, e si serve di questi "non-colori" per esaltare le tinte, avvicinandole a un nero, oppure smorzandole, apponendovi un bianco gelato. Se osserviamo dappresso questi affreschi, vediamo come il colore sia da lui scomposto in strisce filiformi, come il raggio luminoso del prisma. Da lontano l'affresco ci pare inondato da una meravigliosa luce opalescente.

Per il Sei e Settecento dà precetti un decoratore e prospettico di un'abilità prodigiosa: Andrea Pozzo trentino, che, decorate cupole e vòlte di chiese in ogni parte d'Italia (S. Ignazio a Roma, S. Bartolomeo a Modena, Annunziata di Genova, Badia d'Arezzo, ecc.), morì a Vienna nel 1709. Nell'Istruzione per dipingere a fresco, che fa parte della sua opera sulla prospettiva, il Pozzo non molto insegna di nuovo riguardo alla pratica generale; ma accenna però a modi speciali richiesti specialmente dalle grandi decorazioni, quali il graticolare tutta la composizione sull'arricciato, riportando sull'intonaco fresco solo quelle graticole che possano essere eseguite in un giorno; e il granire, cioè il sollevare dall'intonaco appena disteso, con un pennello, "i minuti granelluzzi di arena, acciocché più facilmente si attacchino i colori", procedimento da usar solo nelle opere grandi e remote dall'occhio, perché la pittura ne resta inrozzita. Vengono poi l'impastare e caricar dei colori, messi ripetutamente, perché la prima stesura è subito assortita dalla calce e perde di vivacità, e rapidamente, perché non facciano macchia; e infine lo sfumare e intenerire i colori stessi con pennelli poco bagnati e qualche volta anche con le dita, quando specialmente "la calce si accosta all'intostare". Il Pozzo ammette poi la ripresa e il ritocco a tempera, indispensabili a porre rimedio alle sorprese del prosciugamento delle tinte; ma da escludere per gli affreschi all'aperto.

Probabilmente, però, furono più fedeli alla pratica codificata dall'Armenini gli Emiliani, che sullo scorcio del Cinquecento e la prima metà del Seicento formarono in Roma quella che può chiamarsi una scuola romana: cioè, Annibale Carracci, e i numerosi discepoli e aiuti, Reni, Albani, Lanfranco, Domenichino e Guercino, cui succedettero poi il toscano Pietro da Cortona, il genovese Baciccio, il marchigiano Maratta, Giovan Paolo Pannini di Piacenza e Sebastiano Conca di Gaeta. Bastano i nomi a rievocare una folla di pareti, di vòlte e di cupole di chiese, di sale e gallerie di ville e di palazzi, decorate con genialità esuberante e pratica portentosa. Grande diversità di tecnica, questi affrescatori non ebbero. Annibale Carracci, con Agostino e col Domenichino, nella celebre galleria di palazzo Farnese, s'accostò, più che seppe, alla luminosità di Paolo Veronese, attenendosi alla pratica più onesta e sicura; ma Guido Reni, nella celebre Aurora del casino Rospigliosi, sembra aver fatto largo uso dei ritocchi finali a tempera; mentre sappiamo che il Domenichino, nella cappella di S. Nilo a Grottaferrata e in quella di S. Cecilia in S. Luigi dei Francesi, usò terminare a fresco, velando con acque colorate, e che solo nei peducci della cupola di S. Andrea della Valle (fig. 8) terminò a tempera, nutrendo e rinvigorendo gli scuri per mezzo di velature e acquetinte, così come avrà fatto probabilmente il Lanfranco nella cupola della medesima chiesa. Lievi impasti e velature liquide adoperò certamente Pietro da Cortona nel soffitto del salone del Palazzo Barberini in Roma e in quelli del primo piano di Palazzo Pitti a Firenze, tale è la leggerezza e la luminosità di quelle decorazioni (fig. 9): ma per altre, del Baciccio al Gesù, del Maratta al Battistero Laterano o nella Galleria Colonna, insieme col Luti (il Maratta restaurò le pitture delle stanze di Raffaello), del Conca alla Maddalena o nel Museo Vaticano, di grande varietà di modi, non è il caso di parlare.

E lo stesso può dirsi dei massimi frescatori operanti in quei due secoli in ogni parte d'Italia; ché grande fu la fortuna dell'affresco decorativo a complemento necessario delle architetture sacre e civili del Seicento e del Settecento. A Napoli, dove si recano il Domenichino e il Lanfranco, dal Battistello a Massimo Stanzoni e a Mattia Preti, che però negli affreschi del coro di S. Andrea della Valle a Roma dimentica la violenza degl'impasti e la immediatezza del tócco, mirabili nelle sue pitture ad olio; da Luca Giordano, che sbalordisce con la sua pratica prodigiosa di frescatore rapidissimo a Montecassino, a Firenze, a Madrid, fino al Solimena, al De Mura, al Giaquinto, al Bonito, è un succedersi di decorazioni sfarzose in Duomo, in S. Chiara, in S. Severino, in S. Paolo, nella Certosa di S. Martino; e in Sicilia gareggia con quelli Pietro Novelli, il Monrealese, cui succedono nel Settecento Vito d'Anna e altri minori.

Salendo verso il Settentrione, a Firenze, Giovanni di Sangiovanni (salone degli argenti a Pitti, ecc.) e il Volterrano (cupole dell'Annunziata e della cappella Niccolini in S. Croce) sviluppano originalmente i modi cinquecenteschi cari al Poccetti; ma, dopo che son passati per la città Pietro da Cortona, Luca Giordano e Sebastiano Ricci, la scuola muta indirizzo con Alessandro Gherardini, Giovanni Sagrestani, Giovan Domenico Ferretti, che in decorazioni sacre e civili possono stare alla pari dei migliori frescatori del Settecento d'ogni parte d'Italia.

D'ottimi n'ebbe l'Emilia e più specialmente Bologna, ove alla fine del Cinquecento Pellegrino Tibaldi aveva dato, nel palazzo Poggi, il tipo di ornamentazione che i Carracci faranno proprio in quelli Fava e Magnani, e altri imiteranno. Poi, da Roma, tornano in patria i maestri ormai famosi, e dan mano anche a grandiose pitture in affresco, come il Guercino nel duomo di Piacenza; mentre Carlo Bonone eseguisce la cupola di S. Maria in Vado a Ferrara, ed egli stesso, Alessandro Tiarini e Lionello Spada, con altri bolognesi, abbelliscono di loro composizioni S. Maria della Ghiara in Reggio. Da Bologna movevano anche, a meravigliar più che tutta Italia, i grandi prospettici: da Angelo Michele Colonna, operante prima col Dentone, poi con Agostino Mitelli, alla schiatta dei Bibbiena, che per più di un secolo fan quasi getto del loro genio d'illusionisti e di scenografi. D'uno di essi, Francesco Galli Bibbiena, e di Carlo Cignani (coloritore tra l'altro della cupola della Madonna del Fuoco in Forlì) fu discepolo Marcantonio Franceschini, vago e fresco di tinte nelle fantasiose decorazioni e tale da anticipare quel modo chiaro, lieto e luminoso che avranno, in pieno Settecento, Ubaldo e Gaetano Gandolfi.

In Liguria, a Genova particolarmente, una schiera di decoratori tiene alta la fama della scuola: Giulio Benso e Giovanni Andrea Ansaldo, Benedetto e Valerio Castello, Giovambattista e Giovanni Andrea Carlone, Domenico e Pier Girolamo Piola, Gregorio De Ferrari e Bartolomeo Guidobono; e quasi tutti, secondo la tradizione pittorica paesana, preferiscono sgranare rapidi tocchi di colore puri, abilmente sfumati, allo scopo di ottenere maggior leggerezza e maggior luminosità.

In Piemonte, dove il Moncalvo, a dir dell'Orlandi, "aveva professato la pittura a fresco con tanto di studio di belle tinte e con segreto di farle resistere alle ingiurie del tempo", alla metà del Settecento Giovan Battista Crosato insegnò i modi soleggiati del Tiepolo nei palazzi e nelle ville reali, mentre Claudio Francesco Beaumont vi sfoggiava la piacevolezza decorativa del suo colorito vivace, e Bernardino Galliari (operante anche in Lombardia, a Berlino, a Parigi) continuava fino allo scorcio del secolo quella maniera, quando già Lorenzo Pécheux aveva portato da Roma il gusto neoclassico.

In Lombardia trattarono l'affresco, tra i migliori, il Morazzone e Daniele Crespi: questi, nelle Certose di Pavia e di Garegnano, ricorda ancora certe chiarità del Luini, ma in più larghe e sode stesure di colore, appena modellate, che fan pensare al Cerano; quegli, il Morazzone, nel duomo di Novarase al Sacro Monte di Varallo, frescante ampio e risoluto, con grandi contrasti d'ombre trasparenti e di vivide luci. Nel Settecento verrà il Tiepolo a decorare il palazzo Clerici; ma quasi soltanto il valtellinese Pietro Ligari saprà seguirlo onorevolmente, mentre Carlo Carloni, d'una schiatta di decoratori vaganti per mezza Europa, affrescava paesi e vòlte di chiese lombarde con geniale facilità. Finché poi, nella seconda metà del secolo, il tirolese M. Knoller e il fiorentino G. Traballesi adotteranno teorie e modi neoclassici; ma, affrescando, tra l'altro, il Palazzo reale e la Villa di Monza, conserveranno nel colorito e nel tocco un po' della piacevolezza e scioltezza settecentesca.

Nelle Venezie, l'esempio di Paolo Veronese è presente agli occhi degli affrescatori. Ma il trevigiano Antonio Bellucci, vagante da Vienna a Düsseldorf e a Londra, decorando pur qualche chiesa veneziana, fa sfoggio di colorito succoso, ma non troppo lucente. Piuttosto si avvicina a Paolo, per le tonalità chiare, gl'impasti leggieri e le sfumature ariose, il bellunese Sebastiano Ricci, operante anche in Germania, in Francia, in Fiandra, a Firenze, e uno dei formatori della grande pittura del Settecento.

Solo in G. B. Tiepolo, però, abbiamo un vero continuatore di Paolo. Il fatto stesso ch'egli preferisce alle altre tecniche quella dell'affresco, prova in lui un gusto squisitamente decorativo (tav. CXIX). Nelle chiese, nei palazzi, nelle ville di Venezia, di Verona, di Vicenza, di Udine, di Bergamo e di Milano, nel palazzo vescovile di Würzburg o in quello reale di Madrid, da solo, o coi figli, e con Girolamo e Agostino Mengozzi Colonna, prodigiosi quadraturisti, il Tiepolo creò nuovi mondi luminosi e assolati, "risvegliando (dice ottimamente lo Zanetti) le sopite felici leggiadrissime idee di Paolo Caliari". Ma non amò, come lui, tenui armonie di mezze tinte; piuttosto contrasti, "servendosi (continua lo Zanetti) di tinte basse e sporche, e dei colori più ordinarî, così che, mettendo poi, ad esse tinte, vicine altre tinte, belle alquanto e nette, con quel suo pronto pennello seguia quell'effetto che negli altri (adoperanti i più bei colori per raggiunger vaghezza) certamente veder non si suole." Dei contemporanei del Tiepolo e più a lui vicini, che abbiano usato anche l'affresco, ricorderemo soltanto G. B. Pittoni (soffitto di S. Cassiano a Venezia), che lavorò per mezza Europa; e dei continuatori ricorderemo Jacopo Gurana, freschista fedele ai modi settecenteschi (cupola di S. Vitale a Ravenna, ecc.) fino allo scorcio del secolo.

Intanto, durante il Seicento, ma più nel Settecento, una schiera di abilissimi decoratori abbandona il Veneto per vagare dalla Spagna alla Russia, dall'Austria all'Inghilterra, affrescando piacevolmente chiese, ville e palazzi; dai già rammentati, a Pietro Liberi, a Francesco Fontebasso, a Jacopo Amigoni, a Giovanni Antonio Pellegrini, ad altri minori.

Il neoclassicismo tolse all'affresco il carattere decorativo, a preferenza del monumentale, e rese vane le conquiste cromatiche del Veronese e del Tiepolo. A Roma, Anton Raffaello Mengs, con la parola e con l'esempio (S. Eusebio, sala dei papiri in Vaticano, Villa Albani, ov'è il celebre Parnaso), impose nodi che furono subito adottati in altre pitture murali di quella fine di Settecento, come a Villa Borghese o alla Biblioteca Vaticana, e diffusi subito largamente in Italia: modi nei quali ormai il colore, in piatte stesure, ha soltanto una funzione secondaria. Né quei modi mutarono di troppo, quando al neoclassicismo successe l'accademia, anche se la pittura murale acquistò di larghezza e di solidità, come provano gli affreschi della basilica di S. Paolo eseguiti da una bella schiera di artisti romani o romanizzati: Francesco Coghetti (operante anche a Bergamo e a Savona), Francesco Podesti, di lui più vigoroso, specialmente nel Dogma della Concezione eseguito accanto alle Stanze di Raffaello (altri affreschi a Roma e a Milano), Pietro Gagliardi, Francesco Grandi, Luigi Cochetti, Guglielmo De Sanctis e Nicola Consoni; mentre altri due romani, Cesare Fracassini e Cesare Mariani (attivissimo per tutta Italia) eseguivano pure pitture murali in S. Lorenzo. Intanto a Napoli l'affresco veniva trattato nobilmente da Michele De Napoli nella decorazione di chiese della città e della regione, e fino in Abruzzo.

A Firenze, mentre ancora il milanese Luigi Ademollo invadeva chiese, ville, palazzi e teatri di Toscana con le sue invenzioni farraginose e arruffate, male usando l'affresco o un suo encausto, Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli si provavano anche nella grande decorazione murale: infelicemente il Benvenuti (Duomo d'Arezzo, cappella dei principi a S. Lorenzo, palazzo Pitti), pesante di colorito e fiacco di fattura; meglio il Sabatelli, che specialmente nel soffitto della sala dell'Iliade a Pitti riesce a sostenere il tremendo confronto coi vicini soffitti di Pietro da Cortona. A questi due seguì un gruppo di buoni praticanti, che tennero in onore la decorazione in affresco per buona parte del secolo decimonono.

A Milano, Andrea Appiani, nella gigantesca figurazione di S. Maria sopra S. Celso, e nelle pitture della Villa di Monza e del Palazzo (celebre ivi l'Apoteosi di Napoleone) e' della Villa reale, dava buona prova di affrescatore dal modellato fermo e dalla pennellata sicura, e iniziava così la bella tradizione della scuola lombarda, i cui rappresentanti, Francesco Hayez (Trionfo d'Ifigenia a Palazzo reale), Raffaello Casnedi, Enrico Scuri e Giuseppe Beitini, in numerose e pregevoli decorazioni usarono tanto l'affresco vero e proprio quanto la pratica, detta romana, a base di caseina e d'acqua di calce.

In Piemonte, o meglio a Torino, ove Pelagio Palagi aveva portato il gusto accademico nella nuova ornamentazione del Palazzo Reale, coltivarono onestamente l'affresco Carlo Bellosio, Paolo Emilio Morgari e Francesco Gonin, più noto per la celebre illustrazione dei Promessi Sposi; mentre a Venezia Demin, Bevilacqua, Borsato, ecc. rivelavano la decadenza della scuola.

Nella seconda metà dell'Ottocento, la ripresa decorazione della Basilica di Loreto sembrò rinverdire la fortuna dell'affresco o almeno della pittura murale; e là operarono il bresciano Modesto Faustini (cappella di S. Giuseppe), Lodovico Seitz, romano di elezione (cappella tedesca; affreschi a Roma, Treviso, Padova, Jacowar) e il senese Cesare Maccari, autore della decorazione della cupola, e di cui son notissime anche le pitture murali dell'aula del Senato, del salone del Palazzo di giustizia a Roma e della sala monumentale nel Palazzo pubblico di Siena, tutte condotte con bella onestà di mestiere, anche se non tutte felici.

Nel sec. XX l'affresco ha avuto non sempre fedele cultore Adolfo De Carolis (Cassa di risparmio di Arezzo, università di Pisa, Palazzo provinciale di Ascoli Piceno, ecc.), che nell'incompiuto salone del Palazzo del podestà a Bologna ha lasciato un'opera grandiosa e degna della tradizione decorativa italiana.

Fuori d'Italia. - Nell'Oriente mediterraneo e nel mondo bizantino la pittura murale ebbe fortuna uguale a quella del musaico; ma non molto ne è rimasto, in confronto almeno delle decorazioni musive. Nondimeno l'Egitto conserva esempî notevolissimi di affreschi ornamentali e figurati in una catacomba di Alessandria e più ancora nella necropoli di El-Bagawāt; affreschi del sec. IV e condotti nella maniera compendiaria di tradizione ellenistica, ma ove la parte figurata è già trattata con la disadorna severità dello stile monumentale; mentre più tardi, nel sec. VI a Bawīt, (Convento Bianco) i modi ellenistici sono sempre vivi, almeno nella parte decorativa di quel vasto ciclo affrescato.

Monumenti pittorici di uguale importanza, ma nell'ambito dell'arte bizantina, troviamo solo molto più tardi (sec. XIV-XV) a Mistra, in Laconia. Quivi e nelle chiese del Monte Athos, confluiscono scuole operose in più luoghi, lasciando affreschi eseguiti col metodo insegnato anche dal monaco Teofilo, cioè con colori spenti nell'acqua di calce e distesi sull'intonaco umido. Né diversa dovette esser la pratica degli autori di pitture murali anche nei paesi balcanici e in Russia, almeno fino al Cinquecento; ché più tardi dovette, in tutto il mondo greco-bizantino, esser preferita la pittura a secco insegnata nella famosa Guida della pittura di Dionigi di Furna, codificante nel Settecento una tradizione forse più volte secolare.

In Occidente, perdute le decorazioni che Carlo Magno e i suoi successori avevano fatto eseguire nelle chiese, nei conventi e nei palazzi imperiali (Ingelheim ed Aquisgrana), dobbiamo arrivare almeno alla fine del sec. X per trovare, ancora superstite, un saggio notevolissimo di pittura murale in S. Giorgio di Oberzell, nell'isola di Reichenau (lago di Costanza); ma solo nell'età romanica gli esempî rimastici si fanno più numerosi e ci permettono di constatare la formazione di vere e proprie scuole o almeno correnti nazionali.

In Francia rimangono cospicui se non numerosi saggi di pittura murale dal sec. XI a tutto il XIII: da quelli, importantissimi, della fine del sec. XI, dell'abbazia di St. Savin (Vienne), schiettamente bizantineggianti e condotti con la pratica dei colori , a calce sull'intonaco umido, ad altri del sec. XII o del principio del XIII (specialmente nel Poitou e nella Turenna, nel Berry e nella Borgogna), condotti anche con pratica diversa, cioè abbozzando ad affresco e terminando con colori a calce; tutti però di tinte cupe e pesanti. Le quali, nel Dugento, per influsso della gaiezza delle vetrate policrome, si fanno vivaci e brillanti, come alla Sainte-Chapelle o nella cattedrale di Clermont, pur continuando anche qui la pratica rammentata; mentre nella Normandia sembra si adoperassero per la pittura murale tecniche ben diverse dall'affresco.

Nel Trecento si spegne questa tradizione della pittura murale. Già Filippo Russuti, romano, col figlio, era stato chiamato a lavorare in Francia. Ad Avignone Simone Martini e i suoi aiuti impongono la tradizione italiana, che principalmente nella pratica dell'affresco dominerà ormai per secoli. Difatti la decorazione della cappella di Jacques Cœur a Bourges, o quella della cattedrale di Autun non bastano a provare che la tradizione fosse ben viva nel Quattrocento. Nel 1513 giމ si chiamano artisti emiliani ad affrescare la cattedrale di Albi, e tra il 1531 e il 1532 Francesco I invita a Fontainebleau il Rosso e il Primaticcio, che vi formano la celebre scuola onde usciranno i migliori decoratori di palazzi e di castelli. Anche nel Seicento saranno italiani coloro che adopreranno di preferenza l'affresco: da F. Romanelli operante, con F. Grimaldi, per il cardinal Mazzarino, ad A. Verrio operante a Tolosa. E nel Settecento S. Ricci e G. A. Pellegrini, Jacopo Amigoni e B. Galliari eseguivano ancora decorazioni ammirate.

Nella scuola francese, invece, l'affresco ebbe scarso favore. Le pił tarde decorazioni di Fontainebleau, condotte da Du Breuil, Dubois e Frḫminet, quelle di Versailles, eseguite dal Le Brun e dai suoi aiuti, le altre di chiese di palazzi e di castelli, vennero generalmente dipinte con colori temperati con olio, cera e resina, e distesi direttamente sul muro o pił spesso su di una tela applicata (maronflée) alla parete o al soffitto. Così, se il Mignard usò l'affresco nella cupola di Val-de-Grâce (ritoccando però con pastelli, che in breve tempo si polverizzarono), e l'usò il De la Fosse in quella degli Invalidi, più tardi, il Lemoine, per quanto educato dal Ricci e dal Pellegrini, dipinse su tela il famoso soffitto della Sala d'Ercole a Versailles, e usò l'affresco quasi solo a San Sulpizio.

Nel sec. XIX la pratica dell'affresco rinasce con Delacroix, che studia profondamente questa tecnica (Camera dei deputati, biblioteca della Camera dei pari, chiesa di S. Sulpizio). Victor L. Mottez affrescò S. Germain-l'Auxerrois e San Sulpizio secondo i precetti del Cennini (ne tradusse anche in francese il noto trattato), ma i suoi dipinti non hanno ben resistito; Chassériau dipinse lo scalone della Corte dei conti, poi distrutto, e i frammenti sono ora al Louvre. Ma i dipinti murali del Gros sono ad olio su speciale preparazione del chimico Thénard; e del pari non sono affreschi le pitture murali di Puvis de Chavannes, Chaplin, Delaroche, ecc.

In Spagna la scuola catalana ha lasciato cospicui saggi della fine del sec. XI o del principio del XII a Tahull, in affreschi terminati con colori a calce, ma di maniera schiettamente bizantina. Caratteri di arte locale rivelano invece quelli del Cristo de la Luz a Toledo (sec. XII) e di S. Isidoro di León (sec. XIII) pur condotti con la pratica medesima e con identica semplice e povera gamma di colori; mentre le pitture murali dell'Ermita di S. Baudelio (prov. di Soria), eseguite a tempera su di uno strato di gesso, rivelano una schietta derivazione orientale almeno nelle figurazioni di caccia che sottostanno a scene di argomento religioso. Nel Trecento penetrano in Catalogna influssi toscani, e Ferrèr Bassa affresca scene della Passione e della vita della Vergine nel convento di Pedralbes in perfetto stile senese; mentre sullo scorcio del secolo arriva da Firenze Gherardo Starnina e lavora a Toledo (cappella del chiostro del Duomo), seguito, sui primi decennî del Quattrocento, da Dello, identificato col Niccolò Fiorentino operante nella cattedrale di Salamanca, e negli ultimi decennî da Paolo di S. Leocadio, emiliano, e da Francesco Pagano, napoletano, che affrescano la vòlta della cattedrale di Valenza. Per tutto il Quattrocento i freschisti spagnuoli sono educati in Italia o da maestri italiani: come Pedro Berruguete, che decora il sacrario e il chiostro della cattedrale di Toledo, con pitture oggi perdute, o Juan de Borgogna, che ai primi del Cinquecento eseguisce nella sala capitolare di Toledo un ciclo di affreschi che ricordano il Ghirlandaio. Ma, sulla fine del secolo, a decorar l'Escuriale vengono, col padre Giovambattista, che aveva decorato l'Alcazar di Madrid, Nicola e Fabrizio Castello, Luca Cambiaso con Lazzaro Tavarone, Federico Zuccari e Pellegrino Tibaldi; finché poi nel Seicento giungerà Luca Giordano ad affrescare le cupole delle cappelle. E della scuola di Madrid, che attende alla decorazione del Palazzo del Pardo (quasi distrutta dall'incendio del 1604), fan parte i Carducci, fattisi poi Carducho, e altri italiani minori. Han perciò spiriti e forme, i più anche educazione, assolutamente italiani, i freschisti spagnuoli operanti nel Cinquecento e nel Seicento, da Luis de Vargas, autore di affreschi perduti, e da Gaspar Becerra, operante all'Alcazar di Madrid con G. B. Castello e poi al Palazzo del Pardo, fino a Pablo de Céspedes, ammiratore di Michelangiolo, e ad Antonio Palomino, più famoso per il suo Museo Pictórico che per le sue pitture murali a Valenza, a Salamanca e specialmente alla Certosa di Paular, ove cercò rivaleggiare col Pozzo. Ma nel Settecento la tradizione nazionale sembra affievolirsi. Hanno fortuna, anche come decoratori, Corrado Giaquinto, Jacopo Amigoni, e altri minori; e nel 1762 arriva a Madrid, per decorare il Palazzo Reale, G. B. Tiepolo insieme coi figli e col prospettico Mengozzi Colonna. All'esempio magnifico non sarà insensibile neppure Francesco Goya, quando nel 1792 affrescherà la cupola di S. Antonio de la Florida.

In Inghilterra la pittura murale ebbe largo favore fino almeno dal sec. XII; ma gli esempî di essa, ritrovati ai primi del sec. XIX, furono subito riscialbati per eccessivo puritanesimo, e sono noti soltanto da copie; altri esempî si sono però salvati dalla distruzione o dall'occultamento, e ci provano che queste pitture furono generalmente eseguite a tempera sull'intonaco asciutto o anche su di una preparazione di gesso; ma sembra si facesse uso pure di olio, come agglutinante. Del sec. XII rimangono saggi cospicui, tra l'altro, nella cattedrale di Canterbury; mentre delle decorazioni duecentesche e trecentesche del palazzo e dell'abbazia di Westminster rimangono solo frammenti distaccati; e del sec. XV, esempî cospicui conserva il castello di Winchester. Ma nel Cinquecento la decorazione murale si limita, a causa della riforma religiosa, alla pura e semplice decorazione civile, e a poco a poco la tradizione nazionale si perde. Tanto che nel Seicento e nel Settecento saranno stranieri quasi tutti quelli che decoreranno palazzi e castelli, dal leccese Antonio Verrio, operante col francese Louis Laguerre (Windsor, Hampton Court, ecc.), in una maniera da mestierante, a Charles de la Fosse (Montagu House); e da Giovanni Antonio Pellegrini e da Jacopo Amigoni fino ad Agostino Aglio operante fino alla metà dell'Ottocento. L'esempio spinse però anche artisti inglesi a misurarsi nella grande pittura decorativa: e James Thornhill affrescò la cupola di S. Paolo e il salone di Greenwich; mentre dopo di lui anche William Hogarth eseguiva affreschi nell'ospedale di S. Bartolomeo, e pitture murali conducevano a termine Runciman (Edimburgo), Barry (Londra) e Stothard (Burghley). La pittura murale ebbe poi, a metà del sec. XIX, nuovo favore per opera della fraternita dei Preraffaelliti; e James Ward compose anche un trattato sulla tecnica dell'affresco. Ford Madox Brown eseguì nella Town Hall di Manchester un ciclo decorativo ancora oggi in ottimo stato, mentre sono appena visibili le decorazioni fatte da Dante Gabriele Rossetti, insieme con Morris e Burne Jones, nella Debating Hall dell'Oxford Union. Intanto George Fred. Watts compiva gli affreschi di Westminster, già rovinosi, e quelli di Lincoln's Inn. Nuovi procedimenti di pittura murale si andavano cercando, e Gambier-Parry inventava lo spirit-fresco, specie di encausto resistente in paesi umidi che abbiamo descritto più sopra e che fu adoperato con buon risultato dallo stesso inventore nella cattedrale di Gloucester, e da Frederick Leighton per le decorazioni del South Kensington Museum e della chiesa di Lyndhurst.

In Germania, in Austria, in Svizzera la pittura murale ebbe largo favore nel periodo romanico; minore in quello gotico, offrendo l'architettura limitate estensioni di pareti da dipingere. Esempî cospicui del sec. XI rimangono da Nideggen (Renania) a Burgfelden (Würtemberg), da Niederzell (Reichenau) a Zilles (Grigioni) fino ad Altbunzlau in Boemia; del XII, se ne hanno, tra l'altro, nel duomo di Ratisbona; e del XIII in quelli di Brunswick, di Münster e di Gurk (Carinzia); mentre del Trecento abbiamo gli affreschi del duomo di Colonia, e quelli di chiese a Costanza, a Basilea, a Praga; per il Quattrocento, infine, il Giudizio Universale della cattedrale di Ulma, le pitture del duomo di Praga, e le decorazioni di castelli dalle Alpi ai monti della Boemia.

Ben poco è rimasto invece di pitture murali del Cinquecento, per quanto Hans Burkmair ornasse facciate e interni di palazzi di Augusta, ed Hans Holbein facesse lo stesso a Basilea e a Lucerna. Del resto la pittura in affresco era quasi eccezione nella pratica delle scuole tedesche, e più lo fu nel Seicento e nel Settecento. Donde, come s'è detto, la fortuna dei decoratori italiani, dai Bibbiena ai Carloni, da Andrea Pozzo a Sebastiano Ricci, da Giovanni Antonio Pellegrini e da Jacopo Amigoni a Bernardino Galliari. Tra i quali tutti trionfò facilmente Giovan Battista Tiepolo, decorando (1751-1753) il Palazzo vescovile di Würzburg. Dopo di lui, un tirolese italianizzato, Martino Knoller, lavorò anche in Austria e in Germania, a decorazioni a secco, lasciando un diario ricco di nozioni tecniche.

Nell'Ottocento la scuola dei Nazareni (v.) rimise in onore la pittura murale, a imitazione di quella italiana del Tre e Quattrocento. Cornelius stesso affrescò la Gliptoteca e la Ludwigskirche di Monaco. Dopo di lui, tra gli altri, Alfred Rethel e Joseph Kehren affrescarono abilmente il salone del Palazzo imperiale di Aquisgrana; F. Geselschap, il soffitto della Sala degli eroi a Berlino; Arnold Bocklin lo scalone del museo di Basilea; M. von Schwind l'Opera di Vienna; mentre Wilhelm von Kaulbach applicava la sterocromia (pittura al silicato), eseguendo a Monaco, con questo metodo, pitture murali stridenti e stonate, ma anche oggi ben conservate.

Nell'estremo Oriente fu pure usata la pittura murale. In India, ad Ajanta, (v.) in cicli che vanno dal 200 a. C. al 642 d. C., le pitture non sono però condotte ad affresco, ma con colori legati da una tempera contenente cera. Sull'intonaco di polvere di roccia, pula di riso ed escrementi di animali, è steso uno strato sottile di gesso che fa da fondo alla pittura. Il contorno è segnato in rosso e la figura è cam- pita in terra verde, dipinta poi col colore locale, leggermente ombreggiato. Ma l'affresco fu adoperato in templi dell'isola di Ceylon e del Siam. Su di un simile intonaco, con preparazione gessosa e colori a tempera furono eseguiti i cicli di freschi del Turkestān orientale (Qizil, Khocio, Kuūcia). A Khocio si trovarono pitture oleo-resinose come decorazione di pavimenti di stucco o marmo. Al Museo di etnografia (Völkerkunden) di Berlino, dove furono trasportati tali affreschi, se ne può ammirare la splendida conservazione, la vivacità e vaghezza delle tinte.

In Cina, dove la pittura fiorì mirabile per secoli, i dipinti murali (se ne conservano nei templi buddhisti; nel Museo Britannico; in musei d'America; nella raccolta Gualino) sembrano eseguiti in parte ad affresco ma con colore molto superficiale, come quelli di Hovyuji, nel Giappone.

In America le antiche pitture dello Yucatán son fatte a tinte piatte, e le più belle si trovano nel tempio detto delle Tigri. Nel Perù si trovano ancora affreschi dei Quechúa a Cuzco. Nel Messico gli affreschi di Mitla sono per ora gli unici scoperti, e rappresentano scene mitologiche. Si trovano sculture decorative murali colorate presso gli Zapotechi e presso i Maya.

Nel sec. XIX Emanuel Leutze (1868) seguì le teorie di Cornelius e di Kaulbach, dedicandosi alla pittura storica. I suoi dipinti' al Campidoglio di Washington son fatti col procedimento chiamato Waterglass (vetro solubile o stereocromia; vedi sopra), che là ha sostituito la pittura a buon fresco.

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Restauro: U. Forni, Manuale del pittore restauratore, Firenze 1866; J. Bacsh-Nardone, Handbuch der Konservierung und Restaurierung alter Gemälde, Monaco 1921; G. Secco Suardo, Il restauratore dei dipinti, Milano 1927.

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