AFGHĀNISTĀN

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

AFGHĀNISTĀN

Pier Giovanni Donini
Enrico Fasana

(I, p. 711; App. I, p. 56; II, I, p. 67; III, I, p. 35; IV, I, p. 48)

Secondo il censimento del giugno 1979 la popolazione dell'A. era di 13.051.358 ab., esclusi i nomadi (valutati intorno ai due milioni e mezzo di persone); stime ufficiali del 1987 hanno accreditato la cifra complessiva di 18,6 milioni. Da questa cifra vanno detratti i profughi, rifugiatisi all'estero e ancora non rientrati. Il loro numero è probabilmente compreso fra i 3 e i 5 milioni. Mentre declina la popolazione totale, aumenta quella dei centri urbani: Kābul è passata in dieci anni da 600.000 ab. a oltre un milione.

Le difficoltà politiche e, precedentemente, militari si riflettono sulla produzione agricola, penalizzata dall'esodo dei profughi, dallo scarseggiare dei fertilizzanti e dal danneggiamento di molti impianti d'irrigazione. Come per il passato, sono generalmente considerati inattendibili i dati sulla produzione forniti dal governo: frumento 28 milioni di q, mais 8, riso 4,8, orzo 3,4. L'allevamento, colpito anche dalla siccità, conta circa 20 milioni di ovini, 3 di caprini, 3,7 di bovini, 1,7 di equini e 270.000 cammelli.

Malgrado gli ambiziosi obiettivi fissati dal piano settennale di sviluppo del 1976, il contributo della produzione industriale al prodotto interno lordo continua a essere inferiore al 10%. Il settore tessile, che è la prima industria dell'A., non copre il fabbisogno nazionale e le esportazioni di cotone sono crollate dell'80% tra il 1979 e il 1985. Nel 1987 è entrata in funzione un'acciaieria ed è cominciata, con assistenza tecnica cecoslovacca, la costruzione del secondo cementificio del paese, che dovrebbe consentire, con gli anni Novanta, di quadruplicare la produzione nazionale di cemento (127.000 t nel 1985).

La produzione di metano è sensibilmente aumentata, grazie all'entrata in funzione a Jarquduq di un nuovo complesso dalla capacità annua di 2 miliardi di m3. Quasi tutto il gas naturale viene esportato in URSS (2,4 miliardi di m3 annui secondo Kābul, quattro volte tanto secondo fonti occidentali). Nel 1987 la Cecoslovacchia si è impegnata a modernizzare le miniere di carbone, la cui produzione dovrebbe così salire a 180.000 t annue. Nella provincia di Bamiān è stato individuato un giacimento di minerale di ferro, di buon tenore ma difficilmente accessibile. Presso Kābul è cominciata la costruzione di un impianto per la riduzione del minerale di rame che dovrebbe assicurare all'A. il 2% della produzione mondiale, grazie alle riserve di minerale stimate in quasi 5 milioni di tonnellate.

All'occupazione sovietica si sono accompagnati tentativi di collegare più strettamente l'economia dell'A. a quella dell'URSS: si spiega così lo sviluppo conseguito da città quali Herāt e Mazār-i Sherīf, mentre i tradizionali rapporti commerciali con India e Pakistan si sono ridotti a un decimo. Sono migliorati i collegamenti stradali con l'URSS, ma la rete ferroviaria progettata nel 1976 è rimasta sulla carta.

Bibl.: United Nations, Industrial Statistics Yearbook, 1987; FAO., Production Yearbook, 1988; The Middle East and North Africa, Londra 1988; Office of the United Nations Co-ordinator for Humanitarian and Economic Assistance Programmes Relating to Afghanistan, First Consolidated Report, Ginevra 1988.

Storia. - I dodici anni compresi fra il 1978 e il 1990 sono stati tra i più densi e tragici nella storia di questo paese. Stretto in passato tra due imperi le cui frontiere dipendevano dalle alterne fortune ed equilibri, esso venne coinvolto nell'espansione dello stato territorialmente contiguo, il sovietico, successore dell'impero zarista, mancando una sufficiente controspinta da parte dei successori di quello britannico, tra loro divisi: il Pakistan e l'India.

Dopo il 1975 il presidente M. Daud tentò di bilanciare l'aggressiva presenza economica e militare sovietica con una politica estera di equidistanza, cercando e ottenendo l'appoggio del vicino Iran e accantonando la delicata questione del Pashtunistan col Pakistan. All'arresto di alcuni leaders comunisti seguì il colpo di stato militare del 27 aprile 1978, chiamato poi Saur Inqilāb ("la rivoluzione di Saur"), dal nome del mese. Il colpo di stato fu organizzato da unità di blindati e dalle forze aeree, i cui quadri erano stati addestrati nell'Unione Sovietica. Daud fu trucidato con 18 membri della sua famiglia. N. M. Taraki (1917-1979) fu il presidente del nuovo Consiglio rivoluzionario, composto da membri del PDPA (Partito Democratico Popolare Afghano), una formazione politica d'ideologia comunista, organizzatasi segretamente nel 1965. Il partito si era diviso nel 1967 in due fazioni, Khalq ("il popolo") e Parcham ("la bandiera"). La prima si richiamava ai princìpi marxisti-leninisti, la seconda, d'ispirazione sovietica, risultava molto più pragmatica nell'adattarsi alla situazione afghana. L'Unione Sovietica fu il primo paese a riconoscere il nuovo regime. Il periodo di Taraki e del suo vice H. Amin (1929-1979), che gli successe con un colpo di stato il 14 febbraio 1979, entrambi della fazione Khalq, furono contraddistinti da una politica di dure repressioni, accompagnata dall'esecuzione di migliaia di supposti possibili oppositori. Si trattava soprattutto di khan, capi tribali, di origine pashtun, mullah e maulvi, dotti e letterati musulmani, pir, capi spirituali delle confraternite religiose (tra essi 40 membri della famiglia Mujaddidi), membri delle forze armate, funzionari del regime precedente, docenti universitari (tra cui 36 docenti dell'università di Kābul). Il regime cercò in tal modo di sradicare le istituzioni tradizionali, attuando in particolare una radicale riforma agraria sulla base di una teorica definizione del precedente sistema come di un regime ''feudale'' basato sul latifondo. In realtà non esisteva il latifondo e sulle terre coltivabili coesistevano con una complementarietà di funzioni proprietari e mezzadri, controllori di karez (il tradizionale sistema di irrigazione sotterraneo), fornitori di sementi e allevatori nomadi, fornitori a loro volta di concime naturale. All'interno del regime l'aspetto tribale sembrò rimanere a livello di puro schieramento di potere e di alleanze familiari, importanti nel gioco delle fazioni. Il mondo rurale reagì un po' dappertutto, ma rivolte scoppiarono anche nelle città di Herāt (19 marzo 1979), Qandahār, Kābul. Herāt, centro d'arte e di cultura, patria di eminenti sufi, tra cui il celebre mistico Ansari, venne in parte distrutta e perdette 25.000 abitanti su 175.000.

Il 27 dicembre 1979 le truppe sovietiche invasero l'A.; Amin fu deposto e ucciso, e al suo posto subentrò B. Karmal, capo della fazione Parcham. I governi dei paesi occidentali e di quelli islamici reagirono con prese di posizione ufficiali: dal presidente americano J. Carter al regime dell'ayatollah Khomeini, a quello del Pakistan del generale Zia-ul-Haq. Le Nazioni Unite dal 1980 in poi hanno condannato regolarmente l'invasione straniera del paese, pur continuando ad accettare il seggio del regime, e senza espressamente menzionare l'Unione Sovietica. Nel 1980 venne occupato militarmente il Wakhan, il corridoio geografico dell'altopiano del Pamir che unisce l'A. alla Cina, via Sinkiang, e le frontiere modificate con uno speciale trattato. I primi passi del nuovo regime mostrarono un volto più duttile del precedente e molti prigionieri politici furono liberati; ma la reazione all'interno del paese fu generale. Nel nome della Jihad, la guerra santa dell'Islam, si formarono i gruppi dei resistenti, i Mujahidīn. Il regime li qualificò come Dushman-i-Inqilāb ("nemici della rivoluzione"), mentre i Mujahidīn usavano il termine Shuravi Kāfir ("Sovietici infedeli").

La resistenza sembrò organizzarsi più organicamente nelle zone detribalizzate e linguisticamente più omogenee (il Badakhshān, il Panjshir, l'Hazarajat, il Nuristan), ma ebbe successo anche nel Nord più direttamente minacciato dall'espansione, nelle zone dove già negli anni Venti e Trenta era stata costante l'emigrazione dal Turkestān sovietico. Più difficile e frammentata la resistenza delle tribù pashtun, ove tradizionalmente ogni valle era rappresentata da un clan o da una tribù. Nelle zone anche meramente sospette di resistenza l'aviazione sovietica intervenne con bombardamenti a tappeto per togliere ogni appoggio logistico ai resistenti. Si calcola che durante il periodo dell'occupazione (1980-89) il 60% della terra coltivata sia stato abbandonato, gran parte del sistema di irrigazione e 3/4 del bestiame siano stati distrutti.

La popolazione civile abbandonò in massa il paese, soprattutto dalle zone di frontiera pashtun. Mentre i profughi venivano regolarmente censiti nei campi controllati dall'esercito pakistano e gestiti dall'United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), in Iran essi tendevano a mescolarsi con la popolazione locale.

Nel 1980 il numero dei profughi raggiungeva i tre milioni e mezzo in Pakistan e più di due milioni in Iran, per un totale di 1/3 circa della popolazione del paese. Si calcolava inoltre che altri due milioni fossero i profughi interni diretti a Kābul e nelle città principali, più di mezzo milione i morti, oltre a un numero elevatissimo di feriti a causa delle migliaia di mine sparse nelle zone adiacenti alle principali vie di comunicazione e alle città. Si assisté a un vero e proprio mutamento della composizione etnica e linguistica del paese. Molti gruppi tribali pashtun erano inclini a lasciare le zone del Nord di più recente colonizzazione, i nomadi a sedentarizzarsi; le campagne si spopolavano.

Il conflitto tendeva inoltre a radicalizzarsi secondo le impostazioni ideologiche: da una parte il regime comunista, dall'altra la religione musulmana. La propaganda del primo attaccava soprattutto i Fondamentalisti islamici, dando così loro una rilevanza maggiore del loro impatto. Venne interrotto il programma di ridistribuzione delle terre, ma si rafforzò contemporaneamente l'integrazione economica afghana con l'URSS, in particolare delle strutture minerarie ed energetiche del Nord del paese. Dalla provincia di Jozjan l'A. forniva all'URSS, a prezzi particolari, il suo gas naturale, tramite un gasdotto collegato alla rete sovietica.

Sul piano educativo si rafforzava il processo di alfabetizzazione, secondo le linee ideologiche programmate. Simultaneamente si assisté a un certo mutamento formale nei confronti delle istituzioni religiose: le scuole coraniche furono ripristinate e poste sotto controllo governativo, la bandiera da rossa ridiventò verde, il colore dell'Islam, delegazioni musulmane dell'Asia centrale sovietica vennero invitate nel paese. Sul piano militare la coscrizione obbligatoria aumentò a tre anni fin dai 16 anni di età, ma le diserzioni rappresentavano circa 2/3 dei coscritti; vennero rafforzate le forze di polizia (tsarandoy) e quelle del Khad, la polizia segreta posta sotto il controllo del capo del governo. L'esercito sovietico occupante contava mediamente dai 120.000 ai 150.000 uomini.

Con la permanenza al potere di Zia-ul-Haq i legami tra la resistenza e il governo pakistano si fecero più stretti. D'altro canto l'India, in antitesi al regime pakistano, e per la politica filo-sovietica dei governi di I. Ghandi continuata dal figlio Rajiv, mantenne un atteggiamento di sostegno al regime afghano. L'Islamic Conference, che riunisce i paesi musulmani, già dal febbraio 1980 riconosceva ai Mujahidīn un seggio tra i suoi rappresentanti, ma in pratica solo Malaysia e Sudan riconoscevano successivamente un governo in esilio.

Dopo alterne vicende di distacchi e frazionamenti si formarono due raggruppamenti di alleanze presso i Mujahidīn di origine sunnita: i cosiddetti Moderati e i Fondamentalisti. La componente più moderata, considerata anche la più ''laica'', sottolineava la rilevanza del codice d'onore pashtunwali, e cioè il comportamento sociale consuetudinario dei gruppi tribali pashtun, e contemporaneamente la necessità di uno stato nazionale a costituzione monarchica. Sul piano politico sosteneva la convocazione della loya jirga, l'assemblea dei capi tribali. Alla guida di questo gruppo, il Mahaz-i-Milli Islami (National Islamic Front of Afghānistān) era S. A. Gailani, nakib (capo) della confraternita Qadiriya. L'altra componente tradizionale, la Jabha Nijat-i-Milli Afghānistān (Afghān National Liberation Front), faceva capo a S. Mujaddidi, nipote dell'agha (capo) della confraternita Nakshbandiya, giustiziato sotto il regime khalqi. La Nakshbandiya, con una vasta diffusione in tutta l'Asia Centrale, veniva considerata la confraternita più ortodossa. La terza componente moderata era la Haraqati-Inqilāb Islāmī (Islamic Revolutionary Movement), sostenuta dai mullah e maulvi più tradizionali. Era il movimento più diffuso nella zona delle grandi confederazioni pashtun Durrani e Ghilzai nel Sud del paese, e anche il primo che intervenne nella lotta armata durante il regime di Taraki. Il suo presidente era Maulvi Nabi Muhammadi.

Il secondo orientamento politico, pure composto da vari schieramenti, si richiamava agli stessi principi intellettuali e razionalisti e si appellava alla tradizione del Profeta e della Šarya (la legge islamica), rinnegando gran parte della tradizione uscita dalla storia. La religione tendeva a ideologizzarsi (onde l'uso del termine Islamismo), sottolineando l'eguaglianza della umma, la comunità musulmana delle origini. Rinnegavano infatti sia l'Islam parallelo delle confraternite sia quello dei mullah tradizionali e naturalmente il pashtunwali considerato eterodosso e la jirga delle ''barbe bianche'' tribali. Gli Islamisti si trovavano vicini, ma anche competitivi, ai marxisti-leninisti.

L'esponente più noto era G. Hekmatyar, presidente (amir) e cofondatore dell'Hezb-i-Islāmī, il Partito dell'Islam, già in carcere sotto il re Zahir Shah. Su posizioni decisamente anti-monarchiche, era più un movimento di quadri che di popolazione; era considerato il più estremista tra i Fondamentalisti. Il partito venne decisamente sostenuto dai Fratelli Musulmani e dalle forze armate pakistane.

Il movimento più popolare diffuso capillarmente e militarmente un po' in tutto il paese, ma soprattutto nel Nord e Nord-Ovest, era quello del Jamiati-Islāmī ye Afghānistān ("Associazione Islamica"). Ne era leader B. Rabbani, educato alla celebre università islamica di Al Azhar del Cairo. Distaccatosi dal movimento di Hekmatyar nel 1979 era il combattivo (e combattente) M. Yunus Khales; mentre un altro leader fondamentalista, A. Sayyaf, godeva di forti appoggi diplomatici ed economici internazionali. Dopo lunghe discussioni i tre partiti moderati e i quattro islamisti si ritrovarono a Peshawar, in Pakistan, il 16 maggio 1985, per riaffermare la propria posizione unitaria contro l'invasione sovietica, formando l'Alleanza Islamica, Ittehād-i-Islāmī-i-Mujahidīn-i-Afghānistān. Il presidente dell'Alleanza era scelto a turno tra i leaders dei singoli raggruppamenti. Il confronto politico più aspro tra i due orientamenti era centrato sulla figura e ruolo del re Zahir Shah esiliato dal 1973 a Roma. I Moderati lo ritenevano colui che poteva ancora unificare il paese, rispettando le tradizionali regole del gioco afghano: potere centrale debole con una bilancia di forte potere periferico. I Fondamentalisti sottolineavano la necessità di una repubblica islamica e condannavano l'operato storico della monarchia nei confronti dell'URSS.

Sotto l'egida dell'Iran di Khomeini, ma con un atteggiamento certo più moderato e con forti rilevanze locali (Hazara), venne a crearsi un'altra alleanza a otto di matrice sciita, con sede a Meshed, in Iran. I leaders principali risultavano essere S. Muhsini di Kandahar e l'ayatollah S. Ali Behesti. Grazie alla Risoluzione Tsongas del Senato americano del 4 ottobre 1984 e alle decisioni del governo del presidente Reagan del 1986, l'aiuto militare ai Mujahidīn si concretizzò con l'invio dei missili antiaerei Stinger, il cui intervento riuscì a impedire all'aviazione sovietica e alle truppe elitrasportate di colpire le basi e i villaggi. Gli armamenti continuarono a essere filtrati dai servizi di sicurezza pakistani, l'ISI (Interservice Intelligence), che privilegiava gli Islamisti e in particolare il gruppo di Hekmatyar. Il governo di Zia-ul-Haq in qualche modo beneficiava della presenza dei Mujahidīn, ma nello stesso tempo li controllava per evitare una reazione violenta dell'URSS. La guerra arrivò a uno stallo: le truppe sovietiche controllavano solo il 20% del territorio, ma tutte le città capoluogo di provincia e le strade di collegamento.

La nomina al vertice politico dell'URSS di M. Gorbacev nel marzo 1985 mise in atto un consistente cambio di strategia. L'opinione pubblica sovietica, e soprattutto gli intellettuali, cominciarono a far sentire la propria voce in un clima politico più aperto.

La situazione sembrò uscire dallo stallo con la stipulazione, il 14 aprile 1988, degli accordi di Ginevra tra A. e Pakistan (con l'avallo di URSS e USA), da cui vennero esclusi i Mujahidīn che rifiutarono gli accordi. Sul Pakistan furono esercitate pressioni con attentati ed esplosioni. Si fissò il termine di un anno per il ritiro delle truppe sovietiche, garanti le Nazioni Unite.

Al governo del paese, dal maggio 1986 è Najibullah, ex capo del Khad. Col suo governo continua e si sviluppa la politica di apertura all'Islam e alle varie componenti del paese; il Jabha-i-Milli Padar Watan (Fronte Nazionale Patriottico) dovrebbe riunire personalità sociali e religiose non politicamente impegnate. Con la Costituzione del 30 novembre 1987 l'Islam fu proclamato la religione dell'A., e si stabilì che lo Stato "deve sviluppare la comprensione, l'amicizia e la cooperazione egalitaria tra le differenti nazionalità e tribù". Le carte geografiche linguistiche divennero fattori ideologici primari e il modello apparve essere quello delle Repubbliche sovietiche. Si presero contatti col re Zahir Shah a Roma per trovare l'avallo della nuova politica nazionale, col risultato di screditarlo agli occhi della resistenza, indebolendo i partiti filo-monarchici.

Sul piano internazionale, durante il 1988, due avvenimenti mutarono la situazione militare e politica a svantaggio dei Mujahidin: il misterioso ''incidente'' aereo del 17 agosto, in cui perse la vita il presidente pakistano Zia-ul-Haq, e l'elezione alla presidenza americana di G. Bush, con un atteggiamento meno ideologico di Reagan. Mentre da parte americana gli aiuti venivano considerati meno rilevanti, dopo il ritiro delle forze sovietiche, si rafforzarono quelli sovietici con una spesa di tre miliardi di dollari annui, di fronte ai 600 milioni di dollari americani. Si fornirono a Kābul anche i missili a lunga gittata SCUD (fino a 600 km).

Col piano di riconoscimento delle tribù si formarono milizie favorevoli al regime; si calcola che le forze armate comprensive di esercito, polizia, WAD (ex-Khad) e milizie tribali raggiungessero le 127.000 unità, pari al numero delle varie forze della resistenza. Sul piano militare le posizioni tenute dalle due parti non mutarono sostanzialmente. Alcuni capi militari emersero come figure di primo piano; nel Panjshir si formò un governo locale sotto la guida di Shah Masud, affiliato alla Jamiat Islamī. Altrove si distinsero I. Khan (zona di Herāt), A. Haq (zona di Kābul) e A. Haqani (Paktia). Le relazioni tra i comandanti dell'interno, l'alleanza di Peshawar e quella di Meshed erano discontinue; più stretti sembravano i legami per le formazioni fondamentaliste. Dopo che le ultime truppe sovietiche lasciarono l'A. (14 aprile 1989), la TASS riconobbe ufficialmente la perdita di 13.833 uomini, mentre da parte della resistenza il numero venne per lo meno raddoppiato. A Peshawar si convocò una Shura (assemblea) di tutti i componenti dei Mujahidı·n; non vi parteciparono gli elementi sciiti, in disaccordo sull'entità numerica dei propri rappresentanti.

Dopo le prime elezioni seguite alla morte di Zia, il governo di B. Bhutto ottenne la maggioranza al Parlamento pakistano; in Iran a Khomeini seguì una nuova leadership più pragmatica. Le forze armate pakistane e l'ISI stringevano i tempi: si voleva un successo militare dei Mujahidīn e in particolare la presa di Gialālābād, presso il celebre passo di Khyber. Il risultato fu un palese insuccesso, se non una disfatta, e come tale venne propagandata dal regime di Kabul.

Il 10 marzo 1989 il governo ad interim dell'Alleanza s'incontrò presso Khosht, in territorio afghano, per la composizione del nuovo governo eletto dalla Shura: fu eletto presidente S. Mujaddidi, e primo ministro A. Sayyaf. Vi parteciparono come ministri tutti gli altri leaders dell'Alleanza, a eccezione di Gailani. Dopo scontri tra fazioni rivali, anche Hekmatyar si ritirò dal governo. Un colpo di stato (7 marzo 1990), guidato dal capo di stato maggiore dell'esercito S. Tanai, della fazione khalqi, è stato debellato dalle forze fedeli a Najibullah. Il tentativo golpista sembrava indicare una possibile alleanza tra le forze fondamentaliste di Hekmatyar e quelle leniniste-nazionaliste del Khalq, sulla base di una comune convenienza nell'affossare gli elementi tradizionali della società afghana. Nel corso del 1990 è stato avviato un processo di liberalizzazione che dovrebbe condurre alla nascita di un sistema pluripartitico. Il PDPA ha assunto il nome di Partito della patria (Hezb-i-Watan) − nel suo secondo congresso del giugno 1990 − e il riferimento al suo ruolo dirigente è stato eliminato dalla Costituzione. In autunno Najibullah ha avviato contatti con esponenti dell'opposizione nel tentativo di concordare una ''soluzione politica'' che ponga termine alla guerra civile.

La situazione che sembra profilarsi per molti profughi è quella dell'integrazione nelle strutture del Pakistan, anche se questo processo è ostacolato dal governo locale della NWFP (North West Frontier Province), sostenuto dal leader pashtun Wali Khan su posizioni filosovietiche. La politica di un Pashtunistan e di un Baluchistan indipendente è fatta propria dal regime di Kābul. L'A. storico sul piano culturale, sociale e politico è stato in gran parte distrutto. Le ideologie portanti (anche se per ora non maggioritarie) sembrano essere quelle omogeneizzanti dei Fondamentalisti da una parte, e quelle che sottolineano i nazionalismi linguistici su base comunista dall'altra. Sul piano sociale l'equilibrio della popolazione è stato alterato, tanto che oggi l'elemento tagiko, termine peraltro spesso usato per designare gruppi di lingua dari (persiana) etnicamente e culturalmente diversificati, ma per lo più sunniti, ha la prevalenza su quello pashtun. Il mosaico afghano sembra irrimediabilmente scomposto dalla rottura della tradizionale mescolanza di gruppi sedentari e nomadi, sunniti e sciiti, mullah e pir, tribali e non tribali, città e campagna, senza confini linguistici stabiliti. La umma, d'altro canto, pur unificando nel nome dell'Islam le popolazioni afghane, lasciava ampio spazio al codice d'onore, il pashtunwali, e alle varie confraternite che trovavano adepti presso tutti i gruppi linguistici e culturali. Sul piano economico, pur essendo state interrotte le operazioni del gasdotto, le strutture industriali, energetiche e di comunicazione rimangono legate al territorio sovietico; è certo un'ipoteca sul futuro che non si può sottovalutare, anche perché ha teso a distaccare il Nord dell'A. dalle altre regioni, sottolineandone l'aspetto linguistico ''turco''. Un decisivo passo in questo senso si è registrato nel settembre 1991 con l'accordo tra URSS e USA per la sospensione delle forniture militari a entrambe le parti. Sul piano internazionale la resistenza non è riuscita a incontrare sufficienti gruppi di appoggio per via della scarsa ideologizzazione e per aver mantenuto un profilo locale.

Bibl.: Afgan Information Centre, Monthly Bulletin, 1981-90, Peshawar; A. Hyman, Afghanistan under soviet domination, 1964-1981, Londra 1982; A. Arnold, Afghanistan's two party communism: Parcham and Khalq, Palo Alto 1983; The conflict of Tribe and State in Iran and Afghanistan, a cura di R. L. Tapper, Londra 1983; M. Foucher, Géopolitique de la question afghane, in Hérodote, 35 (1984), pp. 157-76; Z. Khalilzad, The security of Southwest Asia, Aldershot 1984; A. Arnold, The soviet invasion in perspective, Palo Alto 1985; L. W. Adamec, A biographical dictionary of contemporary Afghanistan, Graz 1986; A. Benningsen, Ch. Lemercier-Quelquejay, Le Sufi et le Commissaire. Les confréries musulmanes en URSS, Parigi 1986; The sovietization of Afghanistan, a cura di S. B. Majrouh e S. Y. Elmi, Peshawar 1986; O. Roy, Afghanistan. L'Islam e la sua modernità politica, Genova 1986; Id., Le double code afghan: marxisme et tribalisme, in Revue française de Sciences Politiques, 36/6 (dicembre 1986), pp. 849-61; Afghanistan, The great game revisited, a cura di R. Klass, New York 1987; G. Bensi, L'Afghanistan in lotta, Roma 1987; AA.VV., Le fait ethnique en Iran et en Afghanistan, Parigi 1988; Special issue, Afghanistan, the last thirty years, a cura di M. Broxup, in Central Asian Survey, 7, n. 2/3, Oxford 1988; M. Barry, La résistance afghane du Grand Moghol à l'invasion soviétique, Parigi 1989; F. Biloslavo, Prigioniero in Afghanistan, Milano 1989; W. Maley, A. Saikal, The soviet withdrawal from Afghanistan, Cambridge 1989.

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