Aggregazioni insediatine e strutture urbane

Storia di Venezia (1992)

Aggregazioni insediatine e strutture urbane

Guido Rosada

Il territorio

"Capire" Venezia può voler dire, per chi vi è nato, un atto d'amore sentito e dovuto verso un grembo di storia infinita che tuttavia è la propria storia e la propria vicenda, sfumate come attraverso l'indistinto avvolgente delle calli, dei campi, dei canali, della laguna (1).

"Capire" Venezia secondo il "point of view" di un antichista e segnatamente di un archeologo/topografo significa, in parallelo, guardare con l'attenzione del mestiere a questa storia infinita, per vedere nelle isole veneziane una realtà che ha radici lontane e antiche e insieme anche connesse in modo profondo con la trama insediativa che caratterizzò quell'ampio territorio denominato, in seguito alla partizione augustea, "decima regio" (2). È infatti solo guardando al grande spessore storico di questo settore nord orientale dell'Italia che si possono comprendere appieno le radici di cui si diceva, le continuità e le discontinuità, la nascita di Venezia e il suo ruolo, ma, ancor prima, le parole di Paolo Diacono, quando così si esprime: "La 'Venetia' infatti non consta solo di quelle poche isole, che ora chiamiamo 'Venetias', ma i suoi confini si estendono dalla Pannonia fino al fiume Adda. Ciò è comprovato dai libri annali, nei quali si legge che Bergamo è città 'Venetiarum'" (3). E evidente da questo passo la stretta correlazione che lo storico longobardo stabilisce tra le "paucae insulae, quas nunc Venetias dicimus" e quello che rappresenta il loro naturale retroterra o "hinterland", il territorio "continentale" compreso tra i "termini" della Pannonia e del fiume Adda, che costituiscono i limiti più avanzati della regione. In proposito è ben più probabile che, come sottolinea puntualmente il Mazzarino (4), il limite occidentale dell'Adda sia piuttosto da riferire a epoca tardoantica, consolidato dalla partizione "provinciale" della penisola e comunque corrispondente al quadro geografico che la tradizione delle conoscenze poteva attestare ai tempi di Paolo. La "decima regio", che solo tre secoli dopo l'intervento di Augusto, con la sua trasformazione in "provincia" a seguito della riforma di Diocleziano, riceverà l'appellativo ufficiale di "Venetia et Histria" (5), doveva invece preferibilmente trovare i suoi confini a occidente su una linea spostata più a est, in particolare allungata sull'asse del fiume "Ollius", mentre a meridione la naturale demarcazione era data dal corso del Po e, senza voler qui entrare in una questione complessa e dibattuta, dalla sua costruzione o meglio articolazione deltizia; a sud est si apriva poi sull'"intimus maris Hadriatici sinus" (6) e a est si attesta ancora su una direttrice d'acqua, l'"Arsia" (ora Arsa/Raša), che era pure allo stesso tempo confine orientale della penisola istriana e dell'Italia ("[...> e il fiume Arsa, ora confine dell'Italia [...>") (7), dopo che Augusto "la ingrandì", spostando il precedente limite del "Formio" (ora Risano/Rižana) (8). A nord e a nord est erano infine le Alpi, ieri come oggi, a dividere la nostra dalle regioni più settentrionali e montuose, con dei punti di riferimento e di frontiera più precisi a "Maia" (Merano), a "Sublavio/Sublavione" (presso Colma, Ponte Gardena), a Monte Croce Comelico, Monte Croce Carnico, da dove si declinava lungo i rilievi delle Alpi Giulie (citate, nel I sec. d.C., solo da Tacito, mentre Plinio si limita a riferire l'etnico "Iulienses") (9) verso i termini sud orientali del Carso e dell'Istria (10).

Tale era dunque la consistenza areale dell'"hinterland" che molti secoli più tardi sarà ancora contraddistinto con il medesimo nome che definiva quelle "paucae insulae" ricordate dal passo di Paolo Diacono. Ma nel I sec. d. C. a una siffatta dimensione della "decima regio" compresa tra Oglio e Arsa, tra Po e montagne, se ne dovevano sicuramente aggiungere (stando almeno alla lettura delle fonti) alcune altre, riferibili a valori e concetti storici e geografici (per richiamare ancora il Mazzarino) che sembrano meglio evidenziare le realtà articolate del "Venetorum angulus" (11), destinate ad avere in prosieguo di tempo un grande peso e un grande rilievo.

Anzitutto si deve contare, all'interno della regione "grande" (tutta la "decima"), una distinzione tra "Venetia" e "Histria". Quest'ultima, da un punto di vista geografico, è delimitata a occidente dal fiume Timavo (come riferisce Strabone: "[...> al Timavo succede poi il litorale degli Istri fino a Pola") (12); il confine che si potrebbe riconoscere come politico-amministrativo era dato invece dal "Formio"/Risano (e non a caso Plinio lo cita espressamente quale "confine ora dell'Istria") (13). Si spiega così il fatto che nella descrizione pliniana della "decima regio" la "colonia Tergeste" non sia inserita (da un punto di vista politico e amministrativo dunque) tra le città dell'Istria (14), mentre Tolomeo, che era geografo, non mostra dubbi di considerarla centro istriano ("[...> parimenti dell'Istria, superato l'arco più interno del golfo adriatico,/la colonia di Trieste [...>") (15), sebbene Strabone l'avesse in modo esplicito indicata come "villaggio carnico" (16).

A occidente del Timavo doveva estendersi, secondo la prospettiva e le conoscenze geografiche degli antichi, la regione dei Carni, forse fino al corso del Livenza, se in merito si deve credere non solo alle attestazioni archeologiche di una più sfumata presenza paleoveneta in quell'area (17), ma soprattutto a quanto si legge in Plinio. L'autore latino infatti, dopo aver ricordato, nell'elenco dei fiumi e dei centri rivieraschi, il Sile, Altino, il Livenza, Concordia, il "Reatinum" e altri idronimi, conclude nominando il Natisone con il Torre, la colonia di Aquileia e affermando che "Carnorum haec regio" ("questa è la regione dei Carni") (18). Ora, poiché lo stesso Plinio riconosce poco più avanti 1'"oppidum Opitergium" appartenente "Venetorum agro" (19), ne consegue che quella "Carnorum regio" va riferita verosimilmente all'area territoriale situata a oriente di Oderzo e a occidente appunto del Timavo (citato subito dopo). A ovest di questo corso d'acqua si riscontrerebbe in sostanza un'ulteriore distinzione tra terre carniche e terre venete propriamente dette (a ovest del Livenza, queste ultime); distinzione che del resto trova una sua corrispondenza quasi speculare in altre partizioni, diciamo etniche, della regione: a occidente Cremona, Brescia e Verona (ma in verità Plinio dice Verona "oppidum Raetorum et Euganeorum") attribuite ai Cenomani, a meridione Mantova "Tuscorum trans Padum sola reliqua", a settentrione Feltre, Trento e la misteriosa "Berua" attribuite ai Reti (20).

Ma sul passo di Plinio in questione e in particolare su quanto in esso segue è forse opportuno proporre anche una precisazione di lettura per ciò che riguarda i riferimenti topografici di "Carnorum haec regio iunctaque Iapudum, amnis Timavus, castellum nobile vino Pucinum, Tergestinus sinus, colonia Tergeste [...>" (21). In realtà sembrerebbe quasi dalla traduzione offerta dal Mazzarino (22), che separa con un punto e virgola "la regione dei Carni" dal resto del periodo ("Questa è regione dei Carni; e quella attigua è dei Iapudes, il fiume Timavo, Castellum Pucinum celebre per il suo vino, il golfo di Tergeste/Trieste [...>"), che la regione dei "Iapudes", oltre a essere attigua, finitima alla regione dei Carni, comprendesse addirittura le entità geografiche e i siti di seguito enumerati (23). Allora forse è meglio leggere così: "Questa è la regione dei Carni e vicina è quella dei Iapudes e poi [vicini anch'essi> il fiume Timavo, il castellum Pucinum [...>", dove quel participio "iuncta" con valore attributivo si dovrebbe intendere come indicazione di generica vicinanza non solo riferita grammaticalmente a una "regio" sottintesa, ma pure "ad sententiam" a tutti i termini successivi. Questo d'altra parte è uno schema consueto nelle descrizioni pliniane (cf. il caso, di poco precedente nel testo, dei "flumina et portus") (24), che talora evitano di ripetere nelle elencazioni geografiche attributi e apposizioni sovrabbondanti.

Ma proseguiamo ancora nell'analisi del passo di Plinio, qui già ampiamente ripreso, che in effetti costituisce un nostro fondamentale polo di confronto, offrendoci una tra le più esaurienti e complete descrizioni che l'antichità classica ci abbia tramandato della nostra regione. "Segue la decima regione dell'Italia, aperta sul mare Adriatico" (25): i paragrafi immediatamente precedenti erano stati occupati dalle notizie circa l'"octava regio" (solo alla fine del I sec. d.C., per effetto della grande arteria da Rimini a Piacenza, si diffuse il nome di "Aemilia") (26), il corso del "Padus" e soprattutto la sua area deltizia; lo stesso Po aveva poi dato lo spunto per trattare di seguito della cosidetta "Transpadana" ovvero della "regione undicesima, che è tutta nell'entroterra ["in mediterraneo">, ma che dal ricco alveo del fiume riceve quanto dal mare proviene" (27). Poi, come si è detto, "sequitur decima regio Italiae, Hadriatico mari adposita [...>": e qui Plinio comincia a enumerare in successione tutti i centri (con gli sbocchi fluviali spesso a essi collegati) compresi lungo la fascia litoranea, che viene presentata come in una visione prospettica dal mare, secondo una tradizione legata di certo alle esperienze della navigazione di piccolo cabotaggio (che nella pratica reale dovette essere ben nota consuetudine all'autore latino, che oltre tutto era un "settentrionale" di Como, per aver egli ricoperto la carica di prefetto della flotta al Miseno). Tale struttura del discorso prende risalto non solo dalla progressione dell'elenco di "oppida, coloniae, flumina et portus" (Sile, Altino, "Liquentia"/Livenza, Concordia, "Reatinum"/Lemene, Tagliamento maggiore e minore, "Anaxum"/Stella, "Varamus"/Varmo, "Alsa"/Aússa, Natisone con il Torre, Aquileia, Timavo, "castellum Pucinum"/presso Duino, golfo di Trieste e Trieste, "Formio"/Risano, "Agida"/Capodistria/Koper presso la foce del Risano, Parenzo, Pola, Nesazio, "Arsia"/Arsa) (28), ma anche in particolare dall'attenzione posta alla segnalazione delle distanze intercorrenti tra le stesse città costiere o tra le città e il litorale addirittura. Si vedano così Aquileia, che viene indicata a 15 miglia dal mare (= 22 km circa, troppi; più precisi sembrano essere i 60 stadi riportati da Strabone - V, 1, 8, 214 -, che equivalgono a circa 11 km); Trieste a 33 miglia da Aquileia; il "Formio" posto a 6 miglia da Trieste e a 189 da Ravenna; Pola a 105 miglia da Trieste e a 120 da Ancona. Pare perciò evidente e naturale riconoscere, da quanto traspare dalle parole di Plinio, che l'intenzione dello scrittore era con chiarezza volta a considerare una parte della "decima regio" che potremmo definire più puntualmente come "regio maritima", risultante dalla continuità litoranea della "Venetia" e dell'"Histria maritimae". Tale osservazione prende ancor più forza da quanto segue nel testo, che è dichiaratamente introdotto da un segnale di posizionamento geografico reso in modo esplicito: "Nell'entroterra ["in mediterraneo"> della decima regione sono le colonie di Cremona, di Brescia nel territorio dei Cenomani [...>". Si ricordi che il medesimo termine era stato utilizzato poco prima per la "regio undecima" ("Transpadana"), che è detta "tota in mediterraneo": è quindi questa una nota specificativa alla quale l'autore attribuisce importanza e valore precisi e che egli riprende per meglio caratterizzare e definire geograficamente i siti e i centri di cui via via viene a occuparsi. Centri che sono rappresentati dalle colonie di Cremona e di Brescia in territorio cenomane, dagli "oppida" veneti di Este, Asolo, Padova, Oderzo, Belluno, Vicenza, da Mantova, "la sola città degli Etruschi rimasta al di là del Po", dai "Raetica oppida" di Feltre, Trento, "Berua", da Verona "Raetorum et Euganeorum", da Zuglio "Carnorum"; da ultime sono infine citate alcune comunità, tra cui i "Tarvisani", "delle quali non è il caso di parlare 'scrupolosius'" e alcune città già allora scomparse e non altrimenti note, se non attraverso la segnalazione nella Naturalis historia (queste sono distinte per proprio conto in città "per oram", lungo la costa, o secondo la rappresentanza etnica).

In sostanza accanto al settore della "decima regio maritima" ("Venetia" più "Histria") dobbiamo annoverare un'altra entità geografica, più interna, "μεσόγαια" (29), appunto una "regio mediterranea" (secondo l'attribuzione pliniana) che si estendeva tra la fascia costiera e le aree più propriamente montuose e alpine del settentrione.

Ma vi è un'altra importante "Venetia" che si può ritrovare in Plinio e che è stata "riscoperta" e discussa da alcuni lavori del Mazzarino (30); una "Venetia" che assume, soprattutto per quanto stiamo dicendo, una valenza di grande spessore, addirittura eccezionale, rapportabile direttamente alle parole di Paolo Diacono che abbiamo ricordato all'inizio. Così, se si torna a leggere il passo dello scrittore latino "Sequitur decima regio [...> cuius Venetia, fluvius Silis [...> oppidum Altinum, flumen Liquentia [...>" (31), tenendo presente al contempo a quale altezza in precedenza era stata lasciata la descrizione della costa (laddove si nominavano i "portus Brundulum" e "Aedro", i "Meduaci duo" e la "fossa Clodia") (32), si possono dedurre alcune considerazioni interessanti già da una traduzione molto letterale e fedele: "Segue la 'decima regio' [...>, lungo l'arco costiero della quale si succedono la 'Venetia', il fiume Sile [...> l' 'oppidum' di Altino, il fiume Livenza [...>". Ora i confini di questa "Venetia", come afferma giustamente il Mazzarino, non sono dati in modo esplicito, ma secondo quella "prospettiva dal mare" di cui sopra si parlava (in movimento da occidente a oriente) e secondo un procedimento descrittivo che fa conto delle "urbium vicinitates": perciò i limiti territoriali della "Venetia" correttamente intesa e definita in senso stretto sono da ricercare da una parte nella area di Brondolo e di Chioggia (attuale laguna di Venezia sud occidentale), dall'altra nell'area del Sile e di Altino (laguna nord orientale). Come dunque con l'Adige e gli altri corsi d'acqua vicini si completava il quadro del comprensorio deltizio del Po, ugualmente con il Sile si iniziava l'elenco delle realtà insediative e idrografiche della costa centro orientale della regione: in mezzo, come si evidenzia con chiarezza dal testo antico, stava la "Venetia", quella "vera" si sarebbe tentati di pensare o comunque quella che aveva più diritto ad avere tale nome. Del resto la "piccola 'Venetia'" ricorre ancora, con valore senza dubbio ugualmente ristretto e limitato, in un successivo brano dello stesso Plinio, quando egli parla del settimo parallelo ("septima divisio") che ha capo nella costa più lontana del mar Caspio ("ab altera Caspii maris ora incipit") e "passa attraverso [...> le restanti località dell'Illiria e poi il mare Adriatico, Aquileia, Altino, 'Venetia', Vicenza, Padova, Verona [...>" (33). Anche qui si possono osservare una progressione descrittiva che non altera i rapporti di vicinanza, sebbene abbia direzione e orientamento opposti alla precedente, da oriente verso occidente, e una precisa collocazione topografica: questa "Venetia" è posta infatti correttamente tra Altino e i territori patavini e vicentini. E sembra così puntuale e naturale il suo inserimento tra città venete ben note, che si sarebbe tentati addirittura di vedere in essa la prima testimonianza di un nucleo insediativo anticipatore della Venezia altomedioevale. Non sarebbero d'altra parte in contrasto con tale tentazione, solamente suggestiva, né l'affermazione di Strabone circa la presenza nell'ambito lagunare di "città che sono come isole" (34), né tantomeno, oltre al più volte menzionato passo di Paolo Diacono, quello dell'Anonimo Ravennate che specifica: "Nella 'Venetia'ci sono molte isole che sono abitate" (35).

In conclusione di questo nostro breve "excursus" sulla fonte classica più importante per le Venezie (da un punto di vista geografico), conta riassumere quelle distinzioni interne alla "decima regio" che siamo venuti fin qui discutendo e analizzando. Possiamo perciò dire che nel corso del I sec. d.C. (cioè all'epoca in cui vive e scrive Plinio) la "decima regio" doveva comprendere varie e diversificate realtà territoriali: anzitutto due settori che si potrebbero considerare sostanzialmente "etnici", a occidente i "Veneti" nella "grande 'Venetia'" (a cui si riferisce Plinio anche altrove rispetto al brano esaminato) (36), a oriente gli "Histri" nell'"Histria", entrambi aggreganti in parte ulteriori etnie e popolazioni (i "Cenomani", i "Raeti", i "Carni", etc.); poi un settore più meridionale e costiero, con le città rivierasche e quindi "maritimae", e un settore più settentrionale e dell'entroterra, la fascia delle città "mediterraneae"; infine, come ultima accezione, una "Venetia" lagunare, poco estesa in superficie (di cui non fanno parte Padova, Este, Oderzo, che erano centri veneti, ma neppure Altino), coincidente in modo inaspettato, ma tuttavia preciso e indubitabile, con l'attuale laguna di Venezia. E ricordiamo ancora che "Venetia enim non solum in paucis insulis, quas nunc Venetias dicimus, constat [...>" diceva, non a caso dunque, Paolo Diacono, molti secoli dopo.

Sono queste in sostanza le diversità e le discontinuità storico-geografiche nelle quali si scompone e si divide, ma in cui al contempo si ricompone sempre in una coerente e ben leggibile unità, la "decima regio".

D'altra parte tali aspetti, non riconducibili, se non forzatamente, a omogenei caratteri di individualità (come alcuni studiosi hanno sostenuto per determinati settori della storia veneta) (37), sembrano trovare, pure oggi, ampio riscontro nella considerazione delle stesse realtà morfologiche del territorio compreso tra Oglio e Arsia, tra Po e catene alpine. Basta infatti guardare alle coste romagnole, venete e friulane dei nostri giorni per cogliere subito almeno l'idea di quello che doveva essere il litorale antico. Un litorale basso, sabbioso, con vaste insenature e "paludes" che si estendevano lungo l'arco dell'"intimus maris Hadriatici sinus", offrendo navigabilità sicura e riparata, facili approdi e garanzia di salubrità dei luoghi, favorita dall'alterna vicenda delle maree. E già Erodoto e Polibio dovevano aver ben presente questa precipua caratteristica marittima della regione, quando il primo accenna agli "Eneti", definendoli "quelli sull'Adriatico" (38), e il secondo specifica che uno dei limiti del grande triangolo costituito dalla pianura padana era da individuare su quella costa adriatica che da Senigallia arriva fino al Carnaro (39). I vantaggi poi che si potevano trarre per l'insediamento dall'ambiente naturale delle "Gallicae paludes" presenti "circum Altinum, Ravennam, Aquileiam" sono sottolineati con puntualità da Vitruvio (40) e attribuiti soprattutto al fatto che ivi l'acqua non era stagnante, ma poteva defluire liberamente attraverso canali e quindi ricambiarsi, anche con l'apporto di acqua salata proveniente dal mare, e che per questo non vi vivevano animali palustri (del fenomeno delle maree parlano anche Strabone e, assai più tardi, Claudiano) (41). Si ricordi ancora la corretta e realistica descrizione di Livio, che conosceva bene, lui patavino, quel "tenue praetentum litus" (i cordoni litorali attualmente chiamati Pellestrina, Lido, Cavallino) al di là del quale si trovavano quegli "stagna [...> inrigua aestibus maritimis" e anche "agros [...> campestres" e "colles" (cioè specchi lagunari soggetti alle maree, canali, terre emerse coltivate e infine i rilievi collinari degli Euganei), secondo quanto raccontano al re spartano Cleonimo gli esploratori mandati in avanscoperta al tempo dell'incursione del 302 a.C. (42). Sono immagini in effetti che ci riportano a un ambito indubitabilmente lagunare, al quale pure rimandano, come è stato dimostrato, "le paludi di Adria che sono dette Sette Mari" di Plinio (43), coincidenti con le indicazioni dell'Itinerarium Antonini ("[...> da Rimini con diretto cammino si arriva a Ravenna, quindi si naviga attraverso i Sette Mari fino ad Altino [...>") (44) e della Tabula Peutingeriana (45). Né diverso paesaggio sembra descrivere il passo di Erodiano, dove si narra del viaggio e dell'itinerario seguito, da Aquileia a Ravenna, dai cavalieri che portavano con sé la testa di Massimino:"[...> così navigarono attraverso le 'paludi'e gli 'stagni'tra Altino e Ravenna e giunsero dal generale Massimo che stava a Ravenna [...>" (46). Si tratta con ogni probabilità delle medesime "palustres aquae", testimoniate dal testo uguale di due iscrizioni rinvenute presso Aquileia (47), che dovettero causare non molto tempo dopo, comunque sempre nel corso del III sec. d. C., gravi danni al tracciato paracostiero e paralagunare della via "Annia", al punto da rendere necessario un cospicuo intervento di restauro sulla direttrice rimasta a lungo abbandonata per la sua impraticabilità e la mancanza di manutenzione:"[...> il provvidentissimo principe restaurò la via Annia abbandonata da lungo tempo e rovinata dalle acque palustri che l'invadevano, così da essere anche impraticabile ai viaggiatori [...>" (48).

La presentazione più articolata e viva della fascia costiera della "decima regio" è tuttavia quasi certamente quella fornita da Cassiodoro, che non solo ci informa, con adeguati particolari, del transito per canali (sfruttando i vantaggi dell'alaggio) e per lagune di imbarcazioni che in tal modo avevano la possibilità di restare riparate e protette dai pericoli del mare aperto, ma anche di aspetti paesaggistici ora terrestri e rivieraschi, ora insulari, che per loro stessi richiamano alla memoria addirittura luoghi molto lontani come le Cicladi, ovvero delle maree che alternativamente inondavano i campi e da essi si ritiravano o del terreno sapientemente consolidato con intreccio di vimini flessibili per meglio proteggerlo dalla forza violenta delle onde ("quod altitudinis auxilio non iuvabatur" ribadendo perciò la presenza caratteristica di rive basse, non difese a sufficienza dalla propria "altezza") (49). In aggiunta a questa famosa testimonianza, varie volte ripresa, ve n'è poi un'altra di grande interesse che si ritrova sempre in Cassiodoro. Il passo in questione, pur interno a una lettera rivolta ai provinciali dell'Istria e quindi chiaramente intenta a cogliere le concrete realtà ambientali di quella regione (e insieme ad avere un'evidente e interessata ricaduta laudatoria), sembra in ogni caso comprendere un panorama territoriale dall'orizzonte assai più vasto: "[...> La regione offre [...> un susseguirsi di baie, dove il mare ondoso 'terrenas concavitates ingrediens' si acquieta, assumendo il calmo aspetto delle acque di una laguna [...> e vi è anche presso il litorale una serie di isole disposte magnificamente, che preserva le navi dai pericoli e offre ai contadini grande ricchezza di raccolti [...>" (50). Alla presenza di isole, che possiamo pensare nel nostro caso senz'altro lagunari, oltre che il segretario di Teoderico (e naturalmente Paolo Diacono) (51), fa cenno anche l'Anonimo Ravennate: "In patria vero Venetiae sunt aliquante insule quae hominibus habitantur" (52). È curioso in proposito annotare il commento "suspicor scribendum esse ⟨non> habitantur" che lo Schnetz fa seguire alle ultime parole, "insule quae hominibus habitantur". Evidentemente l'editore dell'Anonimo escludeva qualsiasi possibilità di vita nelle terre emerse della laguna, considerate, è lecito immaginare, come luoghi abbandonati e desolati, non adatti all'insediamento. A ben guardare è la medesima convinzione che fu pure manifestata in sostanza, sebbene con articolazione critica, da uno tra gli studiosi più insigni di storia veneziana, quale fu Roberto Cessi (53). Di fatto forse una ragione di tali perplessità può essere ricercata in una frase di Costantino VII Porfirogenito che alla metà del X secolo scrive: "Bisogna sapere che la Venezia [quella lagunare> anticamente era un luogo deserto, disabitato e palustre [...> tutti i Franchi cominciarono a fuggire da Aquileia [...> e giunsero alle disabitate isole della Venezia" (54). Da qui, cioè da una fonte che aveva interesse a testimoniare il coraggio dimostrato e i disagi patiti dalle popolazioni rifugiatesi sul litorale, si può ben credere sia stata fatta derivare la tradizione di un'antica laguna deserta, che poi passò alle cronache medioevali e infine agli studi moderni.

Una simile interpretazione appare comunque in netto contrasto anche con le ricordate parole di Cassiodoro circa quelle isole presso la costa adriatico-istriana, che sono descritte ben coltivate e capaci così di arricchire "magna ubertate cultores".

È in conclusione uno stato di cose che a livello morfologico generale, ma probabilmente anche antropico-insediativo (55), non sembra aver subito sostanziali o radicali modifiche almeno tra epoca romana ed epoca altomedioevale, se non addirittura fino ai nostri giorni, attraverso diverse vicende che tuttavia non alterarono i tratti significativi del territorio. Per ribadire ciò basta rileggere ancora lo stesso Paolo Diacono, allorché narra l'impresa del duca cividalese Lupo che entra "nell'isola di Grado [...> per una strada che era stata costruita in antico attraverso il mare [...>" (56), dove l'espressione "per mare" indica senza dubbio l'attuale specchio lagunare gradense (57). Ma si potrebbe ulteriormente proseguire con i rimandi del testamento di Giustiniano Particiaco dell'829 d.C. (soprattutto quelli pertinenti all'area di "Civitas Nova") (58) e con il lungo elenco di isole e di "ϰάστϱα" della fascia litoranea veneta riportato da Costantino Porfirogenito (59).

In realtà, se questi sono i dati quali si possono cogliere dalle fonti letterarie che fanno un qualche accenno alla fisionomia "paesaggistica" della "decima regio maritima", anche le informazioni che assai più recentemente ci vengono dall'utilizzo del "remote sensing" sembrano confermare, sebbene in un'area che si può considerare campione, quanto abbiamo fin qui sostenuto. È infatti in due contributi derivati da ricerche di teleosservazione che Paolo Baggio (60) ha presentato interessanti risultati relativi al territorio concordiese e in particolare alla sua porzione litoranea. Lo studioso, interpretando foto eseguite dal satellite Landsat 4-MSS (0.8-1.1 micron), dice che tale settore era caratterizzato in tempi antichi da "un'area lagunare, via via continentalizzata dagli apporti solidi alluvionali del Tagliamento e, in misura minore, dalla Livenza e dal Lemene [...>. Il limite interno della laguna [...> risponde [...>, in epoca storica, alle tracce di massima espansione barenale, al margine della quale si collocano gli abitati di Concordia e altri minori (S. Stino di Livenza, Giussago)". Queste affermazioni rivestono, come appare evidente, una non piccola importanza e vanno a meglio definire quello spazio rivierasco situato tra la laguna di Venezia e quelle di Caorle e di Marano/Grado, che oggi costituisce una vasta zona di bonifica, mostrandosi altresì di segno del tutto contrario e opposto alle posizioni di quanti si sono dichiarati e si dichiarano convinti dell'esistenza di estese terre emerse (addirittura centuriate) a ricoprire la quasi totalità delle attuali superfici lagunari (61).

In sostanza tutta la fascia costiera della "decima regio" dovette offrire grandi vantaggi per la praticabilità della rotta e la sicurezza della navigazione, sebbene risulti un poco dissonante, in questo quadro, l'espressione di Livio "[...> laeva importuosa Italiae litora [...>" (62): essa però, per la stessa evidenza testuale di quanto precede ("Doppiato il promontorio di Brindisi e portato dai venti nel mezzo del golfo adriatico [...>") e per l'aderenza e il riscontro morfologico, potrebbe intendersi piuttosto riferita alle coste più meridionali della penisola (per Catullo, del resto, l'Adriatico è "minax", ma subito si afferma anche che il suo "litus" non si nega alle imbarcazioni e agli approdi) (63). Non era poi disgiunta dalle citate comodità, secondo le parole di Vitruvio, una "incredibilis salubritas": qualità che dovette essere, insieme alle altre, una ragione determinante per la frequentazione dei luoghi già da epoca antichissima, se vogliamo seguire la suggestiva ipotesi, ancorché da verificare più partitamente, del Braccesi (64). È noto infatti che l'autore vede, indagando sulle tracce antenoree da Troia fino alle terre venete, una possibile colonizzazione pregreca della frangia lagunare, legata a mercanti Achei che commerciavano l'ambra e all'irradiazione dei popoli migranti - segnatamente i Focei, ma prima ancora sono adombrati i mitici Pelasgi ovvero coloro che venivano indicati con tale nome - da oriente a occidente alla ricerca di nuove sedi (assai importanti sono in questo senso i dati, riferibili al Bronzo finale e provenienti dagli scavi archeologici di Frattesina di Fratta Polesine/Rovigo, che documentano, tra l'altro, evidenti rapporti con l'ambiente del Mediterraneo centro orientale) (65).

Questa dunque era probabilmente l'"immagine" veneta più immediata che si mostrava a chi veniva dal mare: l'immagine di una terra "aperta" e disponibile, polo attivo di mediazione tra rotte marittime e itinerari terrestri. Noi sappiamo infatti da Plinio di quell'altra realtà più interna "mediterranea", che in parte accomunava la "decima" alla regione "undecima Transpadana" (le prime attestazioni, nella letteratura latina giunta a noi, del termine "Transpadanus" sono in Catullo e Cicerone) (66). Nell'ampia area dell'entroterra dell'Italia nord orientale si estendeva la grande pianura che Polibio considerava superiore per fertilità e superficie alle altre pianure d'Europa a lui note (67). Di essa egli delinea i confini, come se fosse racchiusa in un enorme triangolo: a settentrione le Alpi, a meridione gli Appennini, a oriente la base costituita dal litorale adriatico; in mezzo infine, quasi una bisettrice, il corso del Po, che la divide, nel senso della lunghezza, in due parti, di cui la maggiore si colloca tra fiume e Alpi. E su questi dati distintivi ritorna più volte Polibio, sia per sottolineare l'aspetto di pianura (68), sia per marcare uno stretto legame tra pianura e Po (69) o ancora tra pianura, fiume e Alpi (70); segnatamente in un passo (71), il Tozzi ravvisa infine "in germe per la prima volta l'idea di Italia settentrionale" (72). Queste stesse connotazioni di riferimento morfologico, non disgiunte dal calibro delle risorse naturali, sembrano essere pienamente riprese, oltre due secoli dopo, anche da Tacito, che ribadisce l'"ἀϱετή" territoriale (fertilità) polibiana con parole "florentissimum Italiae latus" e ugualmente i limiti del comprensorio, specificando "quantum inter Padum Alpesque camporum et urbium" (73).

In Polibio, si diceva, è proprio la descrizione della grande ubertosità e ricchezza della Padania che colpisce: addirittura di esse risulta difficile parlare (74). Così vi si trova grande abbondanza di frumento, orzo, vino, panìco, grano e miglio; inoltre la quantità di querceti e quindi di ghiande rende possibile un redditizio allevamento di maiali, tale da rappresentare la fornitura più cospicua, in termini percentuali, relativamente alla produzione complessiva in Italia, per i bisogni della popolazione civile in genere e dell'esercito (75). Ma sono in proposito da sottolineare almeno altre tre considerazioni che al contempo si possono trarre da Polibio. La prima vede l'alta produttività della pianura a sud dei rilievi alpini come motivo di una concreta incidenza, in ribasso, sui prezzi dei generi di consumo; la seconda fa corrispondere alle caratteristiche morfologiche dei suoli sia la fertilità, sia le possibilità di sviluppo agricolo della regione; la terza infine fa conseguire alla stessa feracità delle terre una proporzionata e comunque consistente densità demografica.

Credo vadano attentamente valutate tali parole, soprattutto se pensiamo che esse furono scritte nel II sec. a.C. e se le pensiamo anche correlate al valore militare e strategico che l'Italia settentrionale veniva prepotentemente assumendo appunto in quel periodo. Come sottolinea il Tozzi (76), prendendo spunto da Polibio (77), queste valenze, già evidenti probabilmente all'epoca delle incursioni e degli stanziamenti gallici (si tenga presente in proposito Livio, che afferma come l'area padana, fertile e ricca di prodotti agricoli e di allevamenti, doveva aver attratto i Galli per l'abbondanza appunto di vigne e di raccolti) (78), lo furono forse ancor di più durante la seconda guerra punica. Il che potrebbe far ritenere, secondo quanto suggerisce il Mazzarino, che lo storico greco veda una delle motivazioni della guerra annibalica proprio nell'economia fiorente e in espansione della pianura padana, che diveniva perciò una meta territoriale particolarmente appetibile (79).

In ogni caso, come ho avuto modo altrove di dire (80), seguendo in ciò l'autorevole intervento dello Chevallier (81), sembra oramai largamente accettato "il ruolo fondamentale che ebbe la 'Cisalpina' tutta nella progressiva espansione dell'egemonia romana verso i territori settentrionali d'oltralpe e le loro possibilità di mercato". Sono convinto infatti che le specifiche risorse (ampi e aperti spazi pianeggianti, praticabilità degli stessi, una ricca e articolata idrografia garante di una buona irrigazione costante dei terreni, resi così fecondi e produttivi) che la Padania poteva offrire ai Romani, che già dal III sec. a. C. avevano superato l'Appennino tosco-emiliano, rappresentassero di per sé una ben precisa incentivazione e una concreta occasione per un cambiamento e per un salto di qualità rispetto alle abitudini acquisite nell'ambito delle regioni centro meridionali dell'Italia, dalla morfologia chiusa o accidentata, se non talora perfino impervia: e tutto ciò nel segno sia di una strategia militare, sia di un approccio e di un interesse, ugualmente determinanti, locazionali e insediativi. Scelta insediativa di cui certo abbiamo la documentazione più completa e significativa nell'elencazione pliniana variamente ricordata, ma che già è ravvisabile in un passo di Strabone anch'esso sopra citato. Il geografo antico, dopo aver infatti discusso delle maree che interessano la regione dei Veneti, segnatamente la sua frangia costiera "paludosa", e aver accennato alle città che vi si situano "come isole", fa espresso riferimento a "città che si trovano al di là delle paludi nella terraferma [non a caso "ὑπὲϱ τῶν ἑλῶν ἐν τῇ μεσογαίᾳ"> e che hanno collegamenti fluviali degni di ammirazione, in particolare il Po" (82). Frase in realtà molto suggestiva, perché, oltre a confermare la presenza antropica "stabilizzata" in ambito "mediterraneo", la definisce con più precisa puntualità, caratterizzandola attraverso quegli aspetti idrografici che diventano anche e soprattutto idroviarii e sui quali ritorneremo più avanti per la loro importanza e per le attestazioni antiche in merito. Ma non solo: Strabone, nel mentre fornisce le sue spiegazioni sui flussi e riflussi della marea nella "λιμνοθάλαττα" veneta, rimanda pure a "una regolamentazione delle acque mediante canali e argini", che ha permesso, a suo dire, che "una parte di quei luoghi fosse prosciugata e resa fertile, mentre l'altra fosse aperta alla navigazione". È ben probabile che qui il riferimento sia sempre da volgere alla ristretta fascia costiera e paralagunare della regione, ma tuttavia è possibile che l'autore avesse insieme in mente le poderose e sistematiche opere di bonifica e di ristrutturazione del territorio interno che proprio tra I sec. a.C. e I d.C. dovettero attuarsi nella "decima regio" e nella Cisalpina in genere, in parallelo alla divisione agraria e alla distribuzione delle terre (83).

Ciò ci dà lo spunto comunque per ribadire la valenza precipua che, nel nostro caso, assumeva la centuriazione, dal momento che essa rappresentava non solo un possesso e una conseguente difesa dei suoli attraverso il loro sfruttamento da parte di contadini e coloni, ma soprattutto un intervento di "monumentalizzazione" degli stessi spazi agricoli e una configurazione "normalizzata" a scopi utilitaristici dell'ambiente nel suo complesso (84). Di fatto il catasto costituisce, come è stato detto, "un modo di organizzare il paesaggio" (la campagna in sé e il rapporto città/campagna), stabilendo, attraverso la "regola", la definitiva supremazia antropica rispetto agli indistinti nessi esistenti nella natura (85). E assai significativo in proposito ricordare alcuni versi di Virgilio: "[...> il contadino irato abbatté la foresta e tagliò i boschi per molti anni improduttivi, sradicò fin dalle radici le dimore antiche degli uccelli; questi volarono alto abbandonando i nidi; ma la terra incolta tornò fertile sotto l'impulso dell'aratro" (86). In essi emergono chiari gli aspetti di una impresa che inevitabilmente mutava in profondità, talora stravolgendola, la fisionomia originaria del territorio: si ponga mente appunto all'intenso disboscamento a cui furono sottoposti vasti settori della pianura padana; si pensi al grande progetto idraulico che dovette informare i moltissimi e disparati lavori volti a sovrintendere e a regolamentare, con canali e fosse, il libero e disordinato andamento delle acque di superficie. E basti ricordare, in merito a tale ricorrente e impegnativa questione degli interventi sulle acque, che ancora ai tempi di Catullo la città di Verona doveva presentare aree con palude stagnante ("cava palus"), con terreno fangoso ("lutum", "grave caenum") e acquitrinoso ("lacus") (87).

In sostanza un articolato imbrigliamento della natura permise la conquista vera della terra, il potenziamento e il pieno godimento, anche in senso economico, di quelle risorse e di quelle colture che abbiamo visto essere state decantate in particolare già da Polibio, ma che successivamente anche Plinio descrive ed esalta (segnatamente il vino, definito come il primo prodotto della "Transpadana" davanti al grano e alle rape, i vigneti, piantati sui pendii nord delle colline della Cisalpina al fine di una migliore resa, e ancora l'avena, il lino e il papavero) (88).

Credo sia sufficiente fermarci a questo punto nel nostro rapido "excursus" circa i propizi caratteri morfologici e ambientali dell'Italia settentrionale "mediterranea", peculiari tuttavia, e a più forte ragione, anche del suo settore veneto e orientale: fertilità e versatilità dei suoli, favorite dalle grandi estensioni alluvionali, irrigate da abbondanti acque fluviali di origine montana o di superficie, furono dunque gli aspetti essenziali di richiamo e di allettamento esibiti sin da principio da queste terre.

Ma la Padania, secondo quanto abbiamo letto in Polibio, era conclusa a settentrione dalle catene alpine, le "altae Alpes" di Catullo (89), che si ergevano a confine naturale e diaframma tra Italia e regioni dell'Europa centrale: da occidente si succedevano così le "Alpes Maritimae", le "Alpes Cottiae", le "Graiae", le "Poeninae" e poi le "Raeticae", le "Tridentinae/Venetae", le "Noricae", le "Carnicae", le "Iuliae", il monte "᾿ϕΟϰϱα" (oltre il quale si trovavano le "Alpes Pannonicae"), che venivano più propriamente a interessare la "decima regio". Di queste montagne, distintamente dalle Alpi orientali all'interno di un più complessivo quadro storico, si è occupato con una partita analisi delle fonti letterarie e del terreno il Bagnara, il cui lavoro, pur a distanza di anni e pur se vi si nota talora qualche svista di rilievo, conserva comunque inalterato lo spessore di un'indagine approfondita e specifica, nonché feconda di spunti (90). Ne viene fuori la descrizione di un paesaggio non certamente desolato e chiuso (come potrebbero far pensare le parole di Sidonio Apollinare "[...> aveva salito [il "trux Alamannus"> le Alpi e percorsi tra le montagne dei Reti lunghi tratti immersi nel silenzio [...>") (91), né "tremendo" e insuperabile (cf. le "Alpes tremendae" di Orazio) (92), ma piuttosto popolato da genti diverse, talora contraddistinte da un "implacidum genus" (ovviamente in relazione al punto di vista della strategia egemone e conquistatrice romana) (93) e in ogni caso protette dalla morfologia stessa dei luoghi ("Le Alpi infondevano sicurezza ai Norici, come se la guerra non potesse salire fino alle cime coperte di neve [...>", dice Floro) (94), che poteva essere adatta, oltre che alle imboscate, anche alla pratica del brigantaggio (come si legge in un'iscrizione, proveniente da Ajdoščina/Aidussina e attribuibile all'epoca di Settimio Severo, a proposito di un soldato della "XIII legione Gemina ucciso dai briganti di strada 'in Alpes lulias', in un luogo che è chiamato 'scelerata'") (95).

Segnatamente nel nostro contesto, merita sottolineare con giusto risalto il valore assunto, sin dalla più remota antichità, dai passi di montagna che si aprono lungo l'arco delle Alpi Retiche fino alle Giulie. In questo tratto infatti di rilievi a volte aspri e difficili si incontrano agevoli e praticabili valichi, quali quelli di Resia/Reschenpass (m 1507) e del Brennero/Brennerpass (m 1375), utilizzati da sempre, si può dire, come le più dirette possibilità di comunicazione tra regioni dell'Europa centrale o centro settentrionale e Italia nord orientale e viceversa. Essi corrispondevano poi alle grandi e importanti vallate dell'Adige, dell'Isarco/Eisack e della Rienza/Rienz, che dovettero consentire collegamenti e rapporti articolati tra popolazioni anche molto lontane tra loro. È ipotizzabile, secondo quanto suggeriscono gli stessi dati archeologici, che già a partire dal periodo del Bronzo finale le citate vie montane fossero ampiamente conosciute e frequentate e siano servite ai traffici dell'ambra e alla diffusione dei prodotti dello sfruttamento delle miniere di rame nella zona centrale alpina (Mitterberg e Nord Tirolo); poi, di seguito nel tempo, a valorizzare la presenza di giacimenti di ferro nell'attuale Carinzia/Kärnten e l'estrazione del sale nel Salisburghese (Hallstatt, Dürrenberg) (96).

Della frequentazione di queste direttrici montane in epoca romana (97) si trova poi testimonianza in Strabone, che nomina, tra i quattro valichi alpini a lui noti, quello "διὰ ῾Ραιτῶν" (98), da riconoscere con ogni probabilità nel passo del Brennero, a cui del resto si collegava la strada della valle dell'Isarco/Eisacktal (attraverso "Sublavio" e "Vipitenum") segnalata dall'Itinerarium Antonini e dalla Tabula Peutingeriana (99). Del passo di Resia invece si ha un'indiretta notizia attraverso l'iscrizione del miliare di Rablá/Rabland, presso Merano/Meran, posto dall'imperatore Claudio in ricordo della costruzione della via "Claudia Augusta" che già "il padre Druso aveva tracciato in direzione delle Alpi, una volta che queste erano state aperte e rese praticabili da operazioni di guerra" ("[...> Drusus pater Alpibus/bello pate/factis derexserat [...>") (100).

Oltre le Alpi Retiche (si ricordi il verso di Claudiano "dove l'aspra Rezia si estende con le sue Alpi che toccano le nubi") (101), proseguendo verso oriente, si trovano i passaggi di buona o facile praticabilità di Monte Croce Comelico (m 1636), in collegamento con la valle del Piave e in direzione dei valichi di Tauern (102), di Monte Croce Carnico/Plöckenpass (m 1362) (103), di Sella di Camporosso in Val Canale (m 816) (104), di Predil (m 1156) (105), di Selva di Piro (Hrušica, m 860 circa) (106), di Preval (m 570) (107). Quest'ultimo passo (presso Razdrto) dovrebbe corrispondere alle estreme propaggini delle "Alpes Iuliae" ed è forse da individuare non distante dal monte "Ocra ", citato due volte da Strabone come il tratto di più modesta altezza e quindi di più facile attraversamento di tutta la catena alpina ("ἡ δ᾿ ᾿ϕΟϰϱα ταπεινότατον μέϱοϚ τῶν ᾿ϕΑλπεών ἐστι") (108).

A molti secoli di distanza Paolo Diacono sembra quasi riprendere le medesime parole del geografo greco, quando afferma che "l'Italia [...> verso oriente, là dove si unisce alla Pannonia, ha un valico assai largo e di agevolissimo transito" ("Italia [...> largius patentem et planissimum habet ingressum"), al contrario che a occidente e a settentrione, dove "è così chiusa dai gioghi delle Alpi ("iugis Alpium ita circumcluditur"), che non si può trovarvi un passaggio se non per strette gole o attraverso gli alti valichi dei monti" ("per angustos meatus et per summa fuga montium") (109). E non a caso è "ab orientali vero parte" che Alboino perverrà, alla testa dei suoi Longobardi, "agli estremi confini dell'Italia" ("ad extremos Italiae fines"), il secondo giorno dopo la Pasqua del 569 d.C., dopo aver abbandonato "sedes proprias, hoc est Pannonia". Egli, secondo il racconto di Paolo, giunto al facile passo oggi conosciuto come Preval, "ascese il monte più alto di quei luoghi ("montem qui in eisdem locis prominet ascendit") e da lassù contemplò, fin dove poté spingere lo sguardo, le terre che gli si aprivano intorno. Narrano che quel monte si chiamò per questo, da allora, Monte del Re" ("Mons Regis appellatus est") (110).

Sono tutti valichi e direttrici, questi che abbiamo ora nominato, che testimoniano la relativa facilità di transito per le Alpi orientali (111), così da rendere in qualche misura comodi e comunque efficienti i collegamenti del territorio della "decima regio" con le aree transalpine (112).

In conclusione, se le Alpi furono sempre senza dubbio un segno inequivocabile di diaframma e di separazione, di confine naturale e di sbarramento protettivo (113), esse furono anche, soprattutto nel loro settore orientale, una porta aperta che consentiva, nel contesto di una situazione interna forte, un favorevole passaggio e un'ampia praticabilità "in uscita", ma che, in condizioni interne di debolezza difensiva, poteva immediatamente diventare, con pericolosissima reversibilità d'uso, un facile varco "in entrata" per eventuali "trasgressioni" in Italia "ab orientali parte". E fu proprio dopo aver sperimentato tale reversibilità con l'incursione dei Quadi e dei Marcomanni, nella seconda metà del II sec. d.C. (114), che fu creata una fascia militarizzata detta "Praetentura Italiae et Alpium" (115) ed estesa appunto a cavallo dei rilievi alpini orientali. Tale approntamento di difesa, come dice il Bosio, non dovette essere molto efficiente, organizzato e sicuro, se in seguito fu sentita la necessità di consolidarlo con una vera e propria linea fortificata, i "Claustra Alpium Iuliarum" da "Tarsatica" (Fiume) all'attuale Carinzia, che prevedeva "castra" e "castella" nei luoghi di più rilevante importanza strategica (116).

In ogni modo, pur con le loro proprie caratteristiche di transitabilità non difficile, le montagne della nostra regione furono sentite sempre, segnatamente in epoca tardoantica, fondamentali "chiusure" contro i pericoli dall'esterno e il fenomeno delle invasioni, ultimo baluardo, sebbene fragile e in più punti superabile, di una difesa altrimenti ardua, se non impossibile. Si ricordino in proposito le significative espressioni di Ammiano Marcellino, "[...> una volta aperta la strada delle Alpi Giulie [...>", "[...> dopo l'agguato e la cattura da parte dei soldati di Magnenzio, si aprì la strada per gli stretti passi delle Alpi Giulie [...>" (117), e di Pacato, "[...> che [...> una volta superate le Alpi Cozie aprisse la strada attraverso le strettoie delle Alpi Giulie [...>" (118). Così la Notitia Dignitatum, una fonte attribuibile all'inizio del V sec. d.C., ci riferisce espressamente di "un 'tractus' dell'Italia vicino alle Alpi" orientali che si trovava, per ragioni di sicurezza dei confini diremmo oggi, "sotto la giurisdizione di un uomo ragguardevole, 'comes' d'Italia" (119), così lo stesso Teoderico, dopo essersi impossessato della "Venetia" sconfiggendo Odoacre a "Ponte Sonti" e poi sull'Adige presso Verona, dovette presto preoccuparsi di meglio garantire la sorveglianza armata degli accessi portuali, del "limes" alpino e dei suoi passaggi, dal momento che si legge in Cassiodoro un preciso riferimento a "tutti i Goti e i Romani o a quelli che controllano i porti e i punti forti sulle montagne" (120). Ed è altresì comprensibile in questo quadro anche l'amaro sfogo dello storico-cronista Prospero (vissuto almeno fino alla metà del V sec. d. C.) sul fatto che il generale romano Ezio (che considerava più utile la difesa delle Gallie) non avesse adeguatamente contrastata proprio all'altezza delle "clusurae Alpium" venete l'incursione attilana (121). Prospero con ogni probabilità avvertiva nella "Venetia et Histria" e in particolare nella sua corona alpina la porta dell'Italia e di Roma e di conseguenza un legame stretto tra la stabilità e sicurezza delle une e il destino delle altre (122). Montagne dunque sentite da sempre come termini di passaggio, "clusurae" naturali, mai preclusive tuttavia di una possibile e talora agevole percorribilità e di molteplici itinerari e collegamenti attraverso le loro vallate e i loro valichi. Esse venivano a costituire in tal modo il terzo determinante elemento del paesaggio della "decima regio", articolata tra mare e lagune, distese pianure e massicci rilievi montuosi (123). Ma le funzionalità diverse di queste risorse ambientali che contraddistinguevano e distinguono tuttora il "Venetorum angulus" potevano godere di un'ulteriore particolarità volta a favorire ancor più lo sfruttamento complessivo delle caratteristiche originarie e originali ivi presenti. Ci si riferisce qui all'"abbondanza" di quei corsi d'acqua ("la maggior parte delle 'Venezie' è ricca di fiumi", dice Servio) (124) che sembrano partirsi a raggiera dalla frangia lagunare per risalire verso settentrione, aprendosi quindi progressivamente a ventaglio nel loro tratto medio-alto. Tali corsi rappresentavano in realtà i principali tramiti di raccordo tra costa e territorio interno, tra la regione "maritima" e quella "mediterranea": direttrici di penetrazione che garantivano sin dai tempi più remoti l'avvio delle merci più pesanti e ingombranti dal mare alle zone pedemontane/montane e viceversa e insieme contatti e rapporti più facilitati. Di ciò resta esplicita e chiara testimonianza nelle fonti letterarie, anche se cronologicamente differenziate: da una parte infatti Strabone, riferendosi a Oderzo, Concordia, Adria e Vicenza, le dice collegate al mare da "μιϰϱοῖϚ ἀνάπλοιϚ", cioè da brevi tratti fluviali che si potevano risalire navigando controcorrente (125); dall'altra Procopio, a cinque secoli di distanza, afferma che lungo tutto il litorale da Ravenna fino ad Aquileia vi era modo di dirigersi nell'entroterra utilizzando vie d'acqua navigabili ("ποταμοὶ ἅλλοι ναυσίποϱοι") (126). La stretta connessione tra ambiente rivierasco/marino e ambiente retrostante, legato alle acque dolci lacustri o fluviali, appare del resto evidente e precisa già in Catullo, che sembra riconoscere univocamente "due Nettuno" ("uterque Neptunus"), uno preposto "al vasto mare" ("in mari vasto"), l'altro piuttosto rivolto alla cura "delle correnti acque racchiuse" ("in liquentibus stagnis") (127). Come si vede non vi è dubbio che la vocazione delle "Venezie" a disporsi e a sentirsi tra mare e terra, tra interno ed esterno non solo topograficamente, ma pure culturalmente, ha origini e radici molto lontane nel tempo.

Così la grande pianura nord orientale dell'Italia, insieme a tutta la Padania, traeva parte di quella feracità di cui parla Polibio proprio dalla copiosa e costante irrigazione dovuta alla ricchezza e all'abbondanza delle acque di superficie che la percorrevano dalle montagne (per lo più) all'Adriatico. Sono fiumi talora limacciosi ("flavus", cioè torbido, è il Mella in Catullo) (128), ma solitamente a regime tranquillo ("molle flumen", sempre in Catullo) (129), che marcano il proprio corso con un lento e pigro divagare sinuoso, senza impeto di corrente. Basti ricordare in proposito il caso del Mincio (130), il fiume caro a Virgilio che lo descrisse con efficaci, sebbene delicate parole: "[...> là dove le abbondanti acque del Mincio formano lente divagazioni e hanno le rive intessute di tenera canna [...>" (131); ugualmente al Mincio con attributi che sottolineano ancora la sua lentezza e la sua tortuosità si riferiscono, assai più tardi, sia Claudiano che Sidonio Apollinare: "[...> tardus meatu/Mincius [...>" (132); "[...> calamis flexuosus/leve Mincius susurret [...>" (133); "[...> amne quieto [...>" (134); "[...> pigrum Mincium [...>" (135).

A queste note distintive vi sono poche eccezioni, né potrebbero esservene molte data la natura prevalente dei suoli, e si limitano soltanto a determinati fiumi. Uno di questi è l'Adige, a cui viene spesso associato un corso impetuoso e rumoroso, mettendo anche in relazione tale caratteristica con una sua precisa funzionalità in occasione di fatti d'arme: "[...> Athesis ille saxis asper et gurgitibus verticosus et impetu ferox oppugnatione prohibebat [...>" (136); "[...> velox Athesis [...>" (137); "[...> Athesis strepat choreis [...>" (138); "[...> velocem Athesim [...>" (139); ma si può pensare che la spiegazione di questa fama si trovi in quella sua origine torrentizia "ex Tridentinis Alpibus" (140), dal momento che al contrario Virgilio lo definisce (evidentemente in un contesto di pianura) "Athesis amoenus" (141) e sappiano poi che Venanzio Fortunato lo consiglia come direttrice navigabile (142). Un altro caso è probabilmente offerto dall'Isonzo (attestato solo in fonti della tarda antichità) (143), se è da riconoscere questo fiume, come pare, nel corso d'acqua "grandissimo e dalla corrente impetuosa" che bloccò la marcia di Massimino il Trace verso Aquileia, a causa dell'abbattimento del ponte operato dagli Aquileiesi, a circa 16 miglia dalla città (144).

Per il resto, secondo quanto si è detto, i modesti dislivelli di quota della piana alluvionale non potevano che favorire, in sostanza, non soltanto un andamento serpeggiante e tortuoso dei diversi alvei, ma pure, in talune circostanze, una tendenza diffusa all'impaludamento. Strabone, per esempio, ci informa che gran parte della pianura padana era in origine interessata da paludi e che, in origine solo alla fine del II sec. a.C., fu Marco Emilio Scauro a bonificare le zone basse tra Parma e il Po con lo scavo di canali di scolmamento praticabili anche da imbarcazioni (145).

Di questo stato di cose è una spia precisa lo "stagnum effusum" creato dal Mincio all'altezza di Mantova e citato da Livio (146) a proposito del fenomeno naturale del 214 a.C. (lo "stagnum" prese il colore del sangue), che costituì un malaugurato presagio per la battaglia di Canne: traspare alquanto chiara infatti l'indicazione di un'area paludosa determinata da una sovrabbondanza di acque e da una poco accentuata pendenza del terreno. Il fenomeno doveva essere frequente e abituale per lo stesso corso del Po e per i suoi rami deltizi, come sembrano confermare gli "stagna loquacia" (cioè gracidanti di rane) del pescoso "Padusa" virgiliano (147) o i "pueri" di Marziale che sono "Vaterno Rasinaque pigriores" (148) o i "lenta paludosae [...> stagna Ravennae" di Silio Italico (149); per Plinio infine il "Padus" era, per le piene, "agris quam navigiis torrentior" (150).

In questo quadro di acque talvolta stagnanti o di fiumi dal letto divagante e spesso poco profondo, non è fatto strano allora che Livio, narrando l'episodio di Cleonimo che tenta di risalire il "Meduacus" per colpire Padova (151), faccia espresso riferimento alla necessità di natanti particolari, comunque adatti a navigare su bassi fondali: si tratta di "imbarcazioni più leggere" ovvero di "navi da fiume, costruite con fondo piatto, in modo da poter superare i bassi fondali dei guadi" (152). Ugual cosa sembra dire lo stesso Servio a proposito delle "lintres fluviales naviculas", che rappresentavano quanto di meglio poteva essere usato nelle Venezie per le necessità del commercio, della caccia, delle colture dei campi (153).

Dai caratteri prevalenti dei fiumi della "decima regio" emerge dunque chiaro che il loro porsi quali collegamenti naturali tra mare e montagna (molto bene esemplificato dalle iscrizioni dei miliari appartenenti alla "Claudia Augusta" che la dicono stesa "da Altino" ovvero "dal fiume Po fino al fiume Danubio" attraverso "le Alpi rese aperte e praticabili" (154): oltre ai capilinea indicati nel Po/Altino-Adriatico e nelle Alpi, si devono considerare infatti da una parte i corsi del medio e alto Adige, dall'altra del basso e medio Piave e dell'alto Brenta) assumeva grande importanza e rilievo, in relazione soprattutto, come si è pure accennato, al regime delle loro acque e alla loro navigabilità per lunghi tratti. Così accadeva per l'Adige, per il Retrone/Bacchiglione, i "Meduaci duo" ("Maior, Minor")/Brenta, il Sile e il Piave, il Livenza, il "Reatinum"/Lemene, il "Tiliaventum Maius" e " Minus"/Tagliamento, l'"Anaxum-Varamus"/Stella-Varmo, l'"Alsa"/Aússa, il Natisone con il Torre, il Timavo infine, fiume già per gli antichi misterioso e insieme pieno di fascino (155). A quest'ultimo vengono ricollegate le mitiche figure di Giasone e degli Argonauti, di Antenore e di Diomede (156); sempre al Timavo le fonti attribuiscono l'aspetto ora di fiume, ora di specchio lacustre. Virgilio annota il fragore delle sue acque che scendono al mare (157); Posidonio in Strabone, invece, lo dice sprofondare e poi riapparire dalla terra, sgorgando da sette bocche e riversandosi subito in mare (158); vicino vi era un "ἱεϱόν" dedicato a Diomede, con un bosco sacro e un porto; Livio parla di un "lacus Timavi", dove il console Aulo Manlio Vulsone "castra posuit" e dove convenne pure una flotta di dieci navi guidata da Gaio Furio, al tempo della guerra del 178 a.C. contro gli Istri (159); Plinio ricorda le sorgenti salutifere che scaturivano nelle piccole isole situate alla foce del fiume (160); infine Marziale si augura, proprio anche per la vicinanza di tali acque terapeutiche, di passare la vecchiaia ad Aquileia (161).

Questo quadro d'insieme, costituito da fattori ambientali, credenze e aspetti di vita intrecciati al dato idromorfologico, contribuì in modo determinante a fare dei corsi d'acqua padani e della "Venetia" (quelli dell'"Histria" non ebbero mai un ruolo di effettivo rilievo, se non come linea confinaria) veri e propri poli di connessione tra ambiti territoriali diversi e talvolta distanti. La loro funzionalità è del resto ben riassunta dall'espressione, che più sembra appropriata, di "flumina navigera", secondo quanto si legge in un passo di Cassiodoro: il medesimo che ci informa, nel caso dell'Oglio, che era stata addirittura proibita la pesca, perché poteva risultare di ostacolo al passaggio dei natanti (162).

Ma bisogna ancora aggiungere, per meglio cogliere paesaggio e funzionalità, che tutti i fiumi in questione, oltre che un'origine per lo più alpina o prealpina (meno numerosi sono quelli di risorgiva come il Sile e in particolare alcuni altri friulani), avevano in comune il loro "capolinea" meridionale ovvero lo sbocco all'interno o nei pressi di quella frangia costiera e lagunare che abbiamo detto poter essere intesa quale "decima regio maritima". È in questa fascia territoriale così caratterizzata che il ventaglio dei corsi d'acqua e i loro scali terminali vanno a innestarsi e a trovare un'ulteriore via di collegamento e di comunicazione endolagunare e per canali interni in parte artificiali ("fossae") (163) sancita dalla suggestiva iscrizione funeraria di "Aufidia Venusta" (da S. Maria di Portomaggiore presso il Po di Volano) (164) beneaugurante per i viaggiatori di terra ("viatores") e di mare ("velatores") (165).

Tale panorama rivierasco, dove l'acqua e il paesaggio che essa configura sembrano ancora una volta essere termini di amalgama e di sutura di un ambiente altrimenti separato nelle sue parti e componenti, trovava infine la sua continuità naturale e uno dei suoi fulcri dinamici nel corso del fiume Po ("il Po, che dicono essere il 're'dei fiumi dell'Italia") (166), che veniva a costituire alla sua foce, con la complessità dei suoi rami, una sorta di nodo e cerniera di tutto il sistema idrografico della regione (167). In sostanza l'asse padano assumeva la funzione di grande collettore degli interessi commerciali ed economici di tutta la "Cisalpina", interessi che su esso gravitavano segnatamente (ma non solo) attraverso gli affluenti di sinistra. Fenomeno che doveva essere ben noto a Polibio, almeno da un punto di vista idromorfologico, se egli spiegava la grande portata del Po, superiore a quella di tutti i fiumi d'Italia, con il fatto che tutte le acque di superficie delle Alpi meridionali e degli Appennini settentrionali, senza esclusione, vi si convogliavano a motivo della pendenza dei suoli (168). L'importanza economica del fiume era invece ampiamente presente a Plinio, secondo il quale al territorio transpadano "arrivava ogni cosa dal mare attraverso il corso padano" definito "fructuosus" (169), e ugualmente, alcuni secoli più tardi, a s. Ambrogio, che affermava "essere il Po una sicura via di collegamento per i commerci marittimi" (170).

Una simile funzionalità si protrasse poi senza interruzione (per quanto ne sappiano) fino all'alto Medioevo: ne fanno fede segnatamente il Capitolare concesso dai Longobardi ai Comacchiesi, intorno al 715 (o poco più tardi), riguardo al commercio del sale e lo stesso "Pactum Lotharii" di oltre un secolo dopo (171).

È dunque in un tale contesto territoriale così denso di possibilità, che gli derivavano da una concentrazione inusuale di risorse naturali e ambientali, che si inserisce, a partire dal III sec. a.C., la politica egemonica ed espansionistica di Roma. Un simile intervento, che in progressione individua nel settore nord orientale dell'Italia dapprima una regione di frontiera militare e successivamente una regione di frontiera economica, modificò in larga misura il rapporto tra l'uomo e lo spazio che lo circondava, dando a quest'ultimo una valenza, un ruolo e una portata in precedenza sconosciuti. In fondo era proprio attraverso l'impatto con la realtà della terra e delle sue caratteristiche che si potevano misurare le qualità e le condizioni di un controllo logistico e di un possesso stabilizzato. Sotto questo aspetto noi possiamo allora vedere le grandi iniziative volte alla realizzazione di strade e necessariamente (visti i caratteri idrografici dei luoghi) alla costruzione di ponti, alla organizzazione di vaste divisioni agrarie (e le centuriazioni erano di fatto opere di bonifica, riassetto e regolamentazione del territorio, nonché di sfruttamento, dominio e difesa dello stesso) (172) soprattutto come una presa d'atto di una situazione favorevole, esistente nella "Cisalpina" in genere e nella "Venetia" in particolare, di cui tuttavia ci si doveva "appropriare" per mezzo di una "normalizzazione" attenta e sistematica e insieme di un potenziamento delle cosiddette infrastrutture e di ogni area funzionale della regione.

A un siffatto sforzo volto a razionalizzare e a trasformare, che si compì gradualmente nel corso del cosiddetto processo di romanizzazione e che si può anche in parte intravvedere dalle notizie, spesso purtroppo lacunose, delle fonti letterarie ed epigrafiche, oltre che archeologiche, si affiancò pure un altro fattore importante, che a mio avviso operò profondamente nel tessuto culturale della futura "decima regio", al punto da diventare quasi un "mental pattern" della sua stessa fisionomia e della sua identità, sia durante i secoli dell'impero, sia in seguito nel tempo, sebbene in un modo specialissimo. Intendo qui in realtà riferirmi a quel "floruit" inusitato della produzione letteraria che interessò in maniera particolare la "Venetia" del I sec. a.C. In tale secolo infatti troviamo uno dei più grandi poeti latini, Catullo (di Verona, circa 87-55 a.C.), e i due più grandi esaltatori del mito e dell'idea di Roma, un altro poeta, Virgilio (di Andes, presso Mantova, 70-19 a.C.), e uno storico, Tito Livio (di Padova, 59 a.C.-17 d.C.). E oltretutto non erano soli: si considerino, tra altri della "Cisalpina" (Valerio Catone, Elvio Cinna, Licinio Calvo, Cornelio Nepote forse, detto da Plinio "Padi accola" (173), lo stesso Plinio, di Como, nel I sec. d.C., etc.), il cremonese Furio Bibaculo, il veronese Emilio Macro (poeta didascalico, morto in Asia nel 16 a.C.), il vicentino Quinto Remmio Palemone (poeta di tipo alessandrino e grammatico, insegnante a Roma fin oltre la metà del I sec. d.C.), il patavino (forse) Quinto Asconio Pediano (grammatico con interessi storico-letterari, nato al principio del I sec. d.C. e vissuto fino a ottantacinque anni), il patavino d'origine Publio Clodio Trasea Peto (autore di una Vita Catonis, amico di Persio, oppositore stoico al principato, suicidatosi nel 66 d. C. per ordine di Nerone); infine, ma assai più avanti nel tempo, ancora di Padova è Lucio Arrunzio Stella (poeta elegiaco e "consul suffectus" alla fine del 101 d. C.) (174). Come si vede, questa produzione latina assai ricca copre un arco cronologico che, sebbene si inoltri nel I sec. d.C., trova un' "acmé" precisa soprattutto negli anni del I sec. a. C., cioè in un periodo assai significativo all'interno del quadro della strategia romana nell'Italia settentrionale. Non sembra infatti essere casuale che in un ambito ancora non propriamente "romano" (la "lex Roscia" è solo del 49 a.C. e rappresenta soltanto l'innesco di un "iter" più lungo) o comunque di nuova giurisdizione (sebbene un'antica consuetudine di rapporti fosse pure ben presente) si sia potuto sviluppare un nerbo vigoroso di cultura latina, al punto da produrre i massimi cantori, che potremmo definire in qualche modo "ideologici", del principato augusteo.

Io penso in proposito che proprio la possibile "funzionalità" territoriale, apparsa subito manifesta, della "Venetia" abbia fatto sì che molti degli interessi romani andassero a confluire in quella direzione, con l'intento consapevole e preciso di dare, prima e oltre le strutture logistiche, una solida impalcatura culturale; cultura che diventasse da una parte un momento ideologico di consenso e dall'altra una garanzia per altri successivi, più impegnati e decisivi sviluppi pratici di potenziamento. La regione si presenta perciò come lo spazio privilegiato per una serie di operazioni culturali, militari ed economiche che vanno a coagulare sempre più su uno sfondo unitario le variate individualità e le diverse storie delle componenti (ugualmente non univoche) etniche, ambientali e insediative venete. E la stessa leggenda troiana con gli eroi capostipiti Enea a Roma e Antenore a Padova sembra avere il valore, come è stato detto (175), di un suggello autorevole e senza discussione riguardo al ruolo parallelo e complementare che dovevano svolgere il centro del potere e la sua propaganda nella "decima regio". Potremmo anche aggiungere infine che in tale contesto non sembra essere un caso fortuito neppure la presenza dei "flores" della letteratura latina del I sec. a.C. concentrata segnatamente in realtà insediative di origine paleoveneta o comunque preromana e non tanto, come pure ci si potrebbe aspettare, nelle colonie di diritto latino (farebbe qui eccezione Furio Bibaculo, nativo di Cremona). Dovevano infatti rivestire più importanza nel senso della diffusione propagandistica delle idee di regime quelle aggregazioni insediative che meno potevano essere sospettate di manipolazione politica esterna o di clientelismo nazionalistico.

Soltanto con questa serie di considerazioni è possibile spiegare, a mio avviso, almeno il primo spunto di quel "floruit" a cui si accennava e che apparirebbe non molto comprensibile in una regione non ancora o solo da poco completamente "romanizzata". La cosa d'altronde è ancor meno strana e, al contrario, più convincente, se appena valutiamo il giudizio che si aveva, o si voleva propagandare, nel I sec. a. C., della "Cisalpina", come esemplarmente viene precisato da Cicerone in due riprese: nel 46 a.C., quando parla di "flos vel robur Italiae" ("fiore e forza dell'Italia") (176), e due anni dopo, nel 44, quando dice " [...> Né in verità si può tacere della virtù, della costanza, della serietà della provincia della Gallia. Quella è infatti il fiore ["flos"> dell'Italia, la salda sicurezza dell'impero del popolo romano, l'ornamento della sua dignità [...>" (177). Tutto ciò viene poi ulteriormente ribadito e senza incertezze confermato, alla fine del I sec. d.C., da Tacito: "[...> florentissimum Italiae latus [...>" (178).

Dal territorio alla città

Fin qui, attraverso l'ausilio delle fonti, si è inteso correlare, all'interno della "decima regio" e più specificatamente all'interno della "Venetia" nella sua accezione più ampia, un riscontro necessario e per quanto possibile concreto ai termini, in principio per loro stessi generici, di paesaggio, di territorio e di ambiente. Così sono emerse ancora una volta con evidenza la posizione topografica di grande valenza strategica propria di queste terre, la loro ricchezza e la feracità naturali, la loro diversità di aspetti e di funzioni e insieme la complementarietà delle caratteristiche qualitative e delle risorse. E si è potuto pure constatare come le articolazioni più differenziate e apparentemente disparate della morfologia trovassero in ogni modo una loro "comunicazione" e in sostanza una sintesi unitaria nell'elemento acqua, che non soltanto era rappresentato dal mare Adriatico che lambiva il lungo tratto costiero della regione, ma anche dalla grande distesa lacustre del "Benacus"/Garda (179) e soprattutto dai corsi fluviali, dove erano ravvisabili gli assi portanti di una comunanza territoriale, che si rifrangeva dal mare alla pianura, alla montagna e viceversa. L'avvento romano esalterà di fatto questa vocazione a una vasta unità (180), potenziando quanto in tal senso era già favorevole in funzione sia militare che logistica e al contempo intervenendo su una base culturale e di costume. In proposito si è visto che in questa direzione si mossero probabilmente gli scrittori veneto-cisalpini, che si configurarono di fatto, anche al di là di una reale consapevolezza, quali strumenti primari atti a organizzare in progressione il consenso di quelle classi sociali che erano in grado, in sede locale, prima di capire e poi di trasmettere diffusamente un messaggio di propaganda dal chiaro significato "ideologico".

Accanto a un tale disegno di stampo culturale si poneva tuttavia il progetto fondamentale di una grande trasformazione delle "infrastrutture", che, abbiamo accennato, passava attraverso la sistemazione e la regolamentazione del paesaggio agrario e attraverso un'organica rete di vie di comunicazione che dovevano unire con itinerari sempre aperti e percorribili le città e i centri insediativi presenti nel contesto regionale. Proprio questi interventi sembrano fare tra loro "sistema" nel quadro della strategia espansionistica romana: la strada infatti diventa una precisa direttrice dinamica di penetrazione e di raccordo, che supera il semplice valore di collegamento per caratterizzarsi piuttosto in una proiezione d'uso militare e di "arroccamento", oltre che di scambio commerciale; le città con le loro mura e i campi con le loro assegnazioni costituiscono invece il contrappunto statico di quanto è stato già raggiunto. Come l'una è mezzo di conquista e di progressiva aggregazione, così gli altri sono strumenti per l'affermazione e il controllo successivo della stessa conquista.

Anzi potremmo dire forse qualcosa di più: le città in particolare assumono spesso il ruolo progressivo, anche in aree decentrate o marginali (talora incentivate proprio da questa situazione), di detentrici dell'"immagine" pubblica, di facciata ed esterna, ma estremamente incisiva, di centro delegato dalla capitale e perciò di centro di potere e direzionale. E questo richiamo alla centralità non veniva semplicemente dai casi in cui esso poteva essere espresso in una sintesi simbolica come nel "Capitolium" (proiezione religiosa e insieme pure della stessa Roma), ma derivava il più delle volte la sua forza, laddove vi era la possibilità, da una calcolata integrazione di morfologia naturale e strutture artificiali, che interagivano e si modificavano a vicenda secondo una prospettiva di sviluppo e di organicità compatibili.

Non siamo in grado di stabilire quanto di questa sorta di "pianificazione monumentale" dei suoli, costituita da una salda connessione tra ambiente e impianto insediativo (ma pure dalle trasformazioni reciproche), fosse già un patrimonio in qualche modo acquisito, almeno per settori limitati, dai Veneti in epoca "preromana". Come è risaputo, di questo mondo "paleoveneto" noi conosciamo in misura adeguata una buona quantità di manufatti destinati a un'utilizzazione funeraria, quelli che si sono conservati cioè nelle necropoli indagate dagli scavi archeologici fin dal secolo scorso; per gli abitati invece siamo in possesso soltanto di lacerti molto lacunosi e solitamente di difficile lettura.

Ora io non credo, in ragione soprattutto dell'assenza di attestazioni, che si possa ravvisare nei centri paleoveneti molto di più "di case o capanne riunite in gruppi, forse a costituire piccoli villaggi o papi [...> vicini e [...> certo collegati tra loro", solo in rare e contingenti (perché pericolose) occasioni disponibili a un sistema "associativo" che riconoscesse anche un centro direzionale e quindi un riferimento di organizzazione più tradizionalmente urbano (una di queste occasioni potrebbe essere individuata nell'impresa contro Cleonimo (181), senza escludere le lotte e le alleanze contro i Galli (182) ). In proposito vengono piuttosto alla mente le affermazioni di Polibio circa i Veneti, che differivano, a suo dire, poco dai Galli per costumi e regime di vita (tranne che per la lingua), nonché per l'articolazione abitativa "diffusa in villaggi non protetti da mura" ("ϰατὰ ϰώμαϚ ἀτειχίστουϚ") (183).

Siamo dunque ben lontani da quanto sopra si diceva: tuttavia dalle scelte topografiche (o "locazionali") di insediamento dei tre centri di maggiore rilievo, quali Este, Padova e Altino (184), sembra emergere chiara l'attenzione alla presenza della componente o risorsa acqua, che nello specifico era data rispettivamente dai corsi dell'Adige e "Meduacus"/Brenta e dalla morfologia litoranea, barenicola e lagunare. E vale qui sottolineare in aggiunta che pressoché tutte le fonti letterarie tendono a ribadire un rapporto quasi connaturato tra Veneti, loro sedi e aree rivierasche: ciò accade per gli stessi Veneti della Paflagonia (185), dell'Adriatico (186) e dell'Illiria (187), per quelli ("᾿Ουενέδαι", "Venethi") dell'Europa centro settentrionale (188), per quelli dell'Armorica in Bretagna (189), per quelli attorno al "Venetus lacus"/lago di Costanza (190) e forse anche per i "Venetulani" menzionati da Plinio tra i popoli laziali scomparsi (191); si ricordi infine Livio che dice "[...> cacciati gli Euganei, che abitavano tra mare e Alpi, i Veneti e i Troiani ebbero il dominio di quelle terre [...>" (192) a confermare senza alcun dubbio una collocazione chiaramente definita e caratterizzata. Di fatto la coincidenza e i parallelismi geografici e addirittura topografici di questo popolo legato sempre in qualche modo all'acqua trovavano ampio riscontro nel settore nord orientale dell'Italia, dove sarebbe stato in realtà impossibile non avere a che fare con i problemi e i vantaggi di una situazione idromorfologica complessa, ma funzionale.

Con tale fondamentale risorsa ambientale, che si identificava con il mare, i corsi dei fiumi e gli specchi lacustri e di cui già i "Paleoveneti" dovettero essere partecipi e fruitori in larga scala, si misurarono alla fine anche i pianificatori e gli architetti-urbanisti romani. Ciò comporta di conseguenza, per quanti si vogliano occupare della questione dell'insediamento di epoca romana nella "decima regio", la necessità di prendere attentamente in considerazione questi presupposti ambientali che abbiamo fin qui sottolineato e di valutarne la connessione con lo sviluppo organico dei vari centri urbani (193). Sarà proprio seguendo le diversità delle condizioni morfologiche, così ampiamente discusse e verificate, che man mano apparirà chiara una linea di coerenza contestuale sottesa alla definizione delle città interne e "mediterranee" o delle città rivierasche e marittime, al loro articolato rapportarsi con la realtà soprattutto idrografica circostante, sia fluviale che lagunare. Si dovrà per questo seguire un itinerario che non terrà affatto in primo piano (o solo in minima parte) la consueta scansione cronologica, privilegiando piuttosto il problema della scelta locazionale e dell'adeguamento delle strutture e degli impianti a un paesaggio accettato preliminarmente nella sua peculiare fisionomia. Alla fine del percorso forse meglio si comprenderà da quale retroterra viene la scelta stessa di Venezia, che diventa poi, anche da tale punto di vista e per le sue medesime dinamiche interne e la sua storia successiva, un evento epocale senza confronti e nei fatti una "nuova" Roma.

"Brixia" (Brescia) fu il più importante insediamento ("[...> vicos Cenomanorum Brixiamque quod caput gentis erat [...>") "in Cenomanorum agro" (194) e la matrice di Verona ("Brixia Veronae mater amata meae", dice Catullo) (195). È situata allo sbocco in pianura della val Trompia, tra il corso del vicino Mella a occidente (196) e quello più lontano del Chiese a oriente (197). Forse è agli anni dopo la sua costituzione in colonia latina (dopo l'89 a.C.?) che si può far risalire la prima stesura dell'impianto urbano, che, con la costruzione di un santuario, sembra sin dall'inizio privilegiare le pendici meridionali del colle Cidneo (frequentate già in epoca preromana: tracce di uno stanziamento della tarda età del Bronzo sono attestate sulla sommità del colle) (198). Questo rappresentava del resto la caratteristica morfologica più evidente e definita del sito, elevandosi di circa un centinaio di metri rispetto al livello della campagna circostante. A un periodo successivo, cesariano-augusteo, sono probabilmente attribuibili le mura di cinta, che forse dovevano comprendere e inglobare il colle stesso, quasi a confermare la sua importanza e la sua valenza nel contesto insediativo: e non a caso Catullo dice espressamente "Brixia Cycneae [Cidneo> supposita speculae" (199).

Dopo essere diventata "municipium" e poi ancora colonia ("Colonia Civica Augusta Brixia": intorno al 27 a. C. o negli anni seguenti) (200), durante la guerra degli imperatori nel 69 a.C. fu fedele a Vespasiano e questo dovette contare molto per lo sviluppo successivo della città, poiché proprio a epoca flavia si può far risalire una serie di interventi determinanti per l'insieme dell'assetto urbano, quali quelli incentrati segnatamente nel complesso santuario/"Capitolium"-foro-basilica.

Il foro bresciano è un'ampia piazza rettangolare allungata in senso nord-sud tra area pianeggiante e pendio collinare. La sua pianta (che ricorda quella del foro di Pompei e di quello di Nerva a Roma) accentua il privilegio dato all'asse impostato sul Cidneo e ribadito dall'orientamento della strada di raccordo Cremona-Brescia, mentre un riferimento ortogonale era offerto dalla direttrice principale che attraversava la città in senso est-ovest (la via Verona-Bergamo) e delimitava anche, a settentrione, la piazza stessa (201). Questa si apriva a circa m 8 sotto il livello del terrazzamento capitolino, digradando ancora verso sud di altri m 4,50, così da rendere probabilmente necessaria una sistemazione pavimentale a piani differenziati e raccordati per ovviare al problema del troppo accentuato declivio (per soluzioni analoghe si possono ricordare i fori di "Augusta Praetoria"/Aosta e di "Iulium Carnicum"/Zuglio). Doveva presentare un prevalente assetto chiuso o "ingiuntivo", ridimensionato tuttavia dalla presenza della citata strada Verona-Bergamo sulla quale si affacciava il prospetto della terrazza del "Capitolium" con il suo paramento ad arcate cieche, interrotte da una scalinata centrale di accesso che metteva in comunicazione foro e settore cultuale.

Il lato sud era chiuso dalla fabbrica della basilica (detta comunemente, ma erroneamente, curia), di cui restano solo alcune strutture inglobate in edifici moderni. Secondo una proposta ricostruttiva e per quello che si può ancora verificare, la costruzione doveva essere provvista di più porte d'entrata e di numerose aperture finestrate; inoltre presentava un rivestimento in botticino scandito da lesene scanalate; è anche possibile che fosse presente un porticato, come si potrebbe desumere dalle tracce di un lastricato sopraelevato su tre gradini.

Su tutto, immediatamente a settentrione del foro, come si diceva, dominava, in posizione eminente sulle ultime propaggini del Cidneo, il "Capitolium", in parte insistente (con la terrazza e il pronao) su un precedente santuario di età repubblicana, impostato su un podio alto m 1,30 circa che sfruttava un'ampia area terrazzata (pianta a quattro celle e forse ciascuna con pronao tetrastilo). A questo santuario appunto si sovrappose con Vespasiano la costruzione capitolina, danneggiando in modo irreparabile le strutture più antiche (delle quali sono leggibili solo i due vani più orientali): posta su alto podio, era dotata di un pronao a corpo centrale più avanzato sul terrazzamento che sovrastava l'area forense (tutto l'edificio è poi isolato con una intercapedine dalla retrostante linea di pendio del colle Cidneo). Oltre che dal lato morfologico, il complesso cultuale era poi in particolare esaltato dall'inserzione di due fabbriche porticate che gli furono affiancate come ali, riprendendo in sostanza lo schema architettonico del foro di Augusto a Roma.

Se a tutto ciò si aggiunge la posizione del teatro, sempre a ridosso del colle e subito a oriente del "Capitolium", al quale si legava topograficamente e quasi strutturalmente (202), ben si comprende come in questo caso bresciano la pianificazione urbanistica, avvalendosi delle caratteristiche morfologiche del sito, abbia concretamente mirato a costituire un articolato comparto di architetture con valenze scenografiche di grande effetto, coniugando l'area forense meridionale con il rilievo del Cidneo. In mezzo, quasi a raccordo e cerniera tra le due realtà urbane, si inserivano l'asse viario e soprattutto la fabbrica capitolina, che rappresentava di per sé un punto di riferimento "nazionale" e simbolico, richiamando, com'è noto, il tempio della triade Giove, Giunone e Minerva innalzato a Roma sul Campidoglio (203).

Su questo rapporto privilegiato e interagente tra dato naturale e dato insediativo si impostava tutto il resto dell'assetto cittadino di Brescia con i suoi isolati più o meno regolari, le strade divisorie, le "domus" urbane. Il ritrovamento in via Mantova, nella parte sud orientale della città, di alcune strutture, da taluni studiosi datate incertamente tra epoca severiana e addirittura epoca gota, non sembra infatti spostare in alcun modo la questione. Si tratta di una banchina in botticino, in cui sono in opera elementi di spoglio risalenti al I sec. d.C. (si vedano le lastre con bucrani, ghirlande e lesene, appartenenti in origine a un monumento funerario) e che viene comunemente attribuita al "portus Brixianus", ricordato per il commercio "secundum antiquum" nel trattato di Liutprando del 715 (o 730) d.C. (204). C'è da dire in proposito che tale documento, riguardante i rapporti con i "Comaclenses" e l'uso dei porti da parte dei "milites", potrebbe in realtà indicare un porto non necessariamente situato a Brescia, quanto invece più a meridione, sulle rive dell'Oglio o alla confluenza di questo con il Po. I resti venuti alla luce dovevano comunque far parte di un porto canale piuttosto che di uno scalo fluviale: infatti la loro posizione nel settore opposto della città rispetto al Mella, dove più ragionevolmente si potrebbe pensare di trovare una stazione portuale, e ugualmente la loro lontananza dal Chiese sembrerebbero suggerire la presenza di un'opera di collegamento almeno in parte artificiale, come appunto un canale navigabile (205).

Un rapporto tutto terragno e "mediterraneo" con l'ambiente circostante è riscontrabile anche, per quel che si può ancora verificare, negli impianti dei "municipia" di Asolo e di Zuglio.

Sebbene i dati di riferimento siano pochi, tuttavia quello che conosciamo di "Acelum" (Asolo) ci porta a credere che la scelta per questo insediamento dovette tenere in conto, sin dal suo primo nucleo organizzato di epoca paleoveneta, la particolare morfologia dei luoghi. Così si sfruttò uno degli ultimi rilievi sud occidentali del sistema collinare che corre con orientamento SO-NE tra i corsi del Brenta e del Piave: posizione felicissima che consentiva da una parte di dominare la pianura altotrevigiana, dall'altra di volgersi verso la montagna, cioè verso l'acrocoro del Grappa, delimitato lateralmente dalle due profonde incisioni vallive dei fiumi sopra ricordati. È proprio in una funzione di nodo tra queste diverse realtà territoriali che Asolo dovette trovare spunto di sviluppo, segnatamente in periodo romano, oltre che preromano, affiancando la "risorsa" topografica a quella altrettanto naturale dei pascoli che incentivavano l'attività di allevamento e perciò stesso aumentavano la produzione della materia prima lana, destinata soprattutto alla manifattura patavina. Non a caso quindi il centro fu raggiunto abbastanza presto, probabilmente nel 74 a. C. (ovvero ancora durante il processo di romanizzazione), da una strada di collegamento o meglio di "servizio" come l'"Aurelia", che era strada anche di centuriazione, con capolinea meridionale appunto a Padova, e che venne a costituire una precisa anticipazione della direttrice fondamentale della "Claudia Augusta" (206).

"Acelum" romano si disponeva sulle pendici sud occidentali del Montericco, con esposizione solatia, adeguando sicuramente l'articolazione urbana (difficile da rilevare perché su essa insiste il borgo medioevale) alle possibilità di terrazzamento naturali o artificiali che lo stesso declivio offriva: si vedano in particolare l'area delle terme (orientate SO-NE), sotto l'attuale piazza del Mercato (o Brugnoli), adiacente a quella Maggiore o Garibaldi, e il teatro, nel giardino di Villa Freja, presso il portello di Castelfranco. Soprattutto quest'ultimo, con la cavea che non è appoggiata al colle, ma è costruita a valle in alzato (con orientamento lungo l'asse di NE-SO), sembra quasi ribadire l'importanza scenografica del Montericco, facendo rivolgere a esso gli occhi degli spettatori, oltre le architetture della scena e del "post scaenam" (207). Proprio il Montericco di recente, con l'intervento degli archeologi, ha rivelato la presenza sulla sua sommità, all'interno della Rocca (del XII secolo), di un'aula di culto paleocristiana/altomedioevale (VI-VIII sec. d.C.), pavimentata (in seconda fase) da un bel mosaico policromo con ornati vegetali e figurati, quasi a conferma della valenza del colle fin dall'antichità e insieme del suo significato di anello di congiunzione tra il "municipium Aceli" romano e il successivo "castrum Asyli" medioevale. Non a caso sembra accertato che lo stesso toponimo "Acelum", come affermano il Pellegrini e il Prosdocimi, derivi "da un tema ak' - 'aguzzo' (e suffissi) con probabile allusione al colle ove sorse la rocca medioevale" (208).

"Iulium Carnicum" (Zuglio) si trova a settentrione di Tolmezzo, presso il torrente But, che confluisce da sinistra nell'alto corso del Tagliamento. In quest'area fu probabilmente insediato un "castellum" intorno al 50 a.C., all'epoca cioè dell'intervento cesariano contro i "Iapudes" che avevano minacciato la stessa Aquileia. "Iulium Carnicum", dal nome della famiglia Giulia e dall'etnico delle popolazioni galliche ivi tradizionalmente stanziate, si doveva inserire dunque in un definito disegno di rafforzamento "romano" di tutto il settore nord orientale della "decima regio", che aveva i suoi punti di forza, oltre che in Aquileia e nello stesso Zuglio, in altri centri e "castella" sorti in quel periodo, come "Forum Iulii" (Cividale), il "Castellum Pucinum" (Duino), il "castellum" di Tricesimo. Si spiega anche così, con la funzione di scolta avanzata in ambito prealpino a guardia della sottostante pianura, la scelta del sito insediativo, in posizione morfologicamente favorevole, all'incontro di due incassi vallivi (dei torrenti But e Chiarsò), in presenza di un colle (quello di S. Pietro) e in vicinanza, verosimilmente, di un centro carnico precedente, se si volesse tenere in conto una suggestiva ipotesi di identificazione della vicina Sezza con la "Segesta" citata da Plinio (209). L'importanza del piccolo centro era per di più strettamente legata alla direttrice, di cui era una stazione di tappa, "Aquileia-Veldidena" (Wilten, presso Innsbruck) citata dall'Itinerarium Antonini (210). In realtà la strada doveva passare, seguendo le affermazioni del Bosio, sulla sinistra del But, lasciando alla destra del torrente il centro di "Iulium Carnicum", che tuttavia era collegato con la via principale mediante un raccordo. In epoca imperiale, proprio per le sue caratteristiche "locazionali", Zuglio dovette essere pienamente inserito dapprima nel sistema difensivo della "Praetentura Italiae et Alpium" e successivamente nei "Claustra Alpium Iuliarum".

Delle strutture del centro urbano poco ci resta, ma gli elementi costitutivi dell'area forense, che ancora si conservano, sono già importanti per misurare l'adeguamento dell'abitato a una precisa realtà territoriale, oltre che a una fase edilizia precedente. Di questa sono testimoni non tanto le cosiddette terme (risulta infatti non provato, per mancanza di definizione cronologica, che esse abbiano in qualche modo condizionato l'andamento del muro perimetrale forense), quanto la serie di ambienti rettangolari e la strada selciata parallela a essi, rinvenuti a un livello inferiore e con diverso andamento e orientamento rispetto alla piazza (forse ricollegabili al "vicus" originario del I sec. a.C.). Il foro in questione (databile forse ai primi decenni del I sec. d.C.) ha pianta leggermente trapezoidale, è delimitato tutt'intorno da un porticato sostenuto da colonne piuttosto rozze e senza base, a cui si accedeva salendo tre scalini e conserva, nella metà settentrionale della platea (pavimentata con lastre di calcare locale), i resti di un edificio cultuale con pronao tetrastilo e rampa di gradini in asse. L'aspetto tuttavia più significativo dell'intero impianto è certamente da ricercare nell'accentuata pendenza del terreno a cui si adattò l'intero complesso (come del resto a Brescia e ad Aosta, per citare esempi vicini e conosciuti), terrazzando il declivio prima di sistemare la lastricatura. Che la situazione delle quote di campagna fosse del tutto particolare lo conferma la stessa basilica, costruita a due piani sul lato corto meridionale del foro: ebbene, mentre al piano superiore si accedeva direttamente dal porticato, quello inferiore (diviso in due navate da una fila di colonne che sostenevano il soffitto dell'aula) restava quasi 3 m al di sotto dello stilobate dello stesso porticato (211).

Come si capisce, il costruttore romano dovette necessariamente approntare in questo caso una serie di soluzioni originali per conciliare architettura e ambiente, in un quadro contestuale di una qualche difficoltà (212). Non diversamente si dovette intervenire con sorvegliata attenzione nei siti dove sorsero Trieste e Pola, che, per l'organizzazione degli spazi urbani, sembrano essere gli insediamenti più rappresentativi tra quelli che mostrano caratteri mediati tra morfologia "mediterranea" e morfologia rivierasca, pur essendo entrambi centri di mare.

"Tergeste" (Trieste) è definita da Artemidoro "città dell'Illiria" (213), mentre Strabone ne parla come "villaggio carnico" (214); Plinio la considera all'interno del confine politico-amministrativo (dato dal fiume "Formio"/Risano) dell'Italia (215); Tolomeo invece la pone, con prevalenza del confine geografico fissato al Timavo, tra i centri istriani (216). Già queste citazioni inquadrano la città in un ambito territoriale dai volti variati e diversificati, qualificandola di fatto come centro di confine dalle molte anime, ma che proprio per questo era tuttavia in grado di aggregare interessi economici e commerciali da più parti (ruolo che mantenne in realtà almeno fino alla seconda guerra mondiale). Non è un caso, allora, ritrovare nello stesso toponimo quella radicale -*terg- che, al pari che in "Opi -*terg- ium" (Oderzo), sta a significare "piazza, mercato" (cf. oggi lo slavo "trg" = piazza) (217). Certo è che Trieste, colonia romana dedotta intorno alla metà del I sec. a. C., fu molto favorita dalla sua posizione topografica tra mare e collina, trovando nel colle di S. Giusto (che forse ospitò un nucleo insediativo già in epoca preistorica) un punto di riferimento preciso e sicuro, quasi di mediazione geomorfologica.

Il suo fiorire economico fu perciò in gran parte legato alla funzione che essa assunse di nodo e cerniera tra Aquileia, la "Venetia" e l'"Istria", nonché allo sviluppo dei suoi impianti portuali, strettamente in sintonia con quelli dislocati lungo le coste istriane e venete (ma non solo) (218). Nello stesso tempo si definiscono le sue strutture urbane a ridosso del colle di S. Giusto e verso il mare, che trovano il massimo potenziamento nel corso del I sec. d.C.

Così addirittura sulla sommità collinare si situa il complesso forense, in uno spazio limitato a settentrione dal pendio scosceso a cui si addossò, quasi per terrazzamento, un tratto delle mura urbiche. La piazza originaria va probabilmente ricercata nell'area antistante la cattedrale (dove furono trovate "forti sostruzioni di epoca romana" e dove "giungeva la strada più antica dell'abitato"), poiché la vasta platea rialzata e lastricata in calcare di Aurisima, a occidente dell'edificio della basilica romana, sembra essere piuttosto una sistemazione posteriore, forse per "dare alla città un luogo ai comizi e alle riunioni, disposto con logica coerenza di fronte alla basilica". Quest'ultima è allungata in senso NS, è di grandi dimensioni (88 x 23 m circa) e comprende tre navate; la facciata occidentale, prospiciente la piazza, era con ogni probabilità provvista di un porticato che correva su tutta la sua lunghezza e fungeva da raccordo con lo spazio scoperto.

Più importante è la strutturazione dell'area, riconosciuta come capitolina, dove, inglobati nel campanile di S. Giusto, si sono rintracciati i resti di una costruzione isolata, costituita da due avancorpi colonnati e da una grande scalinata centrale. Per le sue stesse caratteristiche tale edificio si deve intendere come un vero e proprio magniloquente propileo, un ingresso monumentale destinato a immettere in un recinto con funzione sacrale. Le fondazioni di tale recinto, all'interno del quale si può immaginare si trovasse il tempio, sono state rinvenute al di sotto delle navate di sinistra della cattedrale.

A questo punto viene naturale una significativa considerazione che di per sé le strutture forensi triestine ci sembrano proporre in tutta evidenza. Queste in sostanza si situano "in excelsissimo loco unde moenium maxima pars conspiciatur" (219), adeguandosi cioè per un verso alla ben nota norma vitruviana, per l'altro al suggerimento offerto dalla medesima morfologia del terreno, che fu sfruttata anche per la costruzione traianea del teatro. Si concretava in tal modo un'idea scenografica di ampio respiro, che trovava i suoi poli naturali di riferimento sia nel mare, che era più avanzato di oggi nel golfo e nella città, sia nella sistemazione monumentale del colle di S. Giusto, con il teatro, di cui si diceva, quasi affacciato sull'acqua e addossato al pendio collinare, a mediare la conclusione in alto, in asse verticale, simbolicamente definita dal complesso capitolino (220).

Anche Pola, chiamata da Plinio "colonia [...> Pietas Iulia" (221) e detta in un'iscrizione del II sec. d.C. "Iulia Pola Pollentia Herculanea" (222), derivò parte cospicua della sua fortuna dalla posizione geografica nell'Istria meridionale, presso un'insenatura sul mare: qui, vicino a una sorgente d'acqua dolce, la città si sviluppò, con ogni probabilità a partire dalla seconda metà del I sec. a.C., come insediamento avanzato oltre i confini dell'Italia di allora. Si organizzò poi progressivamente, assumendo da una parte una fisionomia centripeta, a tela di ragno tra la sommità e i lievi pendii di una collinetta prospiciente il mare, ma al contempo diventando dall'altra pure policentrica per la dislocazione delle sue aree urbane più importanti. Le strutture dovettero così adeguarsi al contesto morfologico, come sembrano testimoniare il reticolato insediativo e la distribuzione degli isolati, regolari nella città bassa, adattati alla conformazione collinare nella città alta. Anche la cinta muraria fece riferimento alla collina, circondandola e separandola dal mare, in modo da creare quasi due elementi contermini ben distinti, sebbene non di contrappunto. Nel tratto nord orientale delle mura erano dislocate quattro porte: la prima da nord (di cui restano pochi avanzi non visibili) era a cavaliere della via "Flavia" proveniente da "Tergeste" e "Parentium" (Parenzo) (223); poi seguivano la porta "Gemina", a due fornici fiancheggiati da semicolonne, probabilmente da riconoscere come monumento onorario e da assegnare alla metà del II sec. d.C., in epoca antonina; la porta di Ercole (cosiddetta per la figura del dio nella chiave di volta), la più antica, a un solo fornice, con i piedritti obliqui secondo la linea della strada che saliva all'interno, e infine la cosiddetta porta Aurea, demolita nel secolo scorso. L'importanza di quest'ultima (a cavedio, con unico fornice e torrioni quadrangolari esterni) è accresciuta dalla giustapposizione alla sua facciata interna, in epoca augustea, di un arco commemorativo della famiglia dei "Sergi" (a un fornice tra una coppia di semicolonne corinzie su alto zoccolo). La stretta connessione con la porta Aurea sembra nel caso attestare con chiarezza un'intenzione di arricchimento monumentale dell'accesso preesistente, così da presentare un'architettura di grande effetto (cf. gli esempi diversi, ma ugualmente significativi, nell'Italia settentrionale, ad Aosta e a Verona) a chi usciva dalla città lungo la strada (attuale via Sergia) che proveniva dall'area forense. Il foro infatti era situato nella zona bassa di Pola, a occidente della collina, ed era orientato con asse NO-SE. La piazza rettangolare era delimitata su tre lati da porticati, mentre il lato opposto a quello cui faceva capo la strada era occupato al centro probabilmente dal "Capitolium" (che non si è conservato) e lateralmente da due templi gemelli, di più ridotte dimensioni, di cui uno è superstite, a unica cella con pronao tetrastilo su podio, preceduto da una scalinata. L'iscrizione del fregio porta la dedica "Romae et Augusto Caesari divi f(ilio) patri patriae", a conferma dell'ufficialità del monumento che richiama la devozione a Roma e all'imperatore, come nelle analoghe e notissime architetture templari a Nîmes e a Vienne. È tuttavia alle spalle del tempio posto a oriente (di incerta attribuzione, cosiddetto "di Diana"), inglobato ora nel palazzetto del Municipio risalente al XIII sec., che va messa in evidenza la scoperta, nella seconda metà degli anni Settanta, di un edificio rettangolare, absidato sul lato corto di SO, orientato obliquamente rispetto al foro e allungato nel senso delle linee di quota che proseguivano verso settentrione la direzione della citata via Sergia. La cosa importante è che questa fabbrica (forse un mercato) è più antica (fase di fondazione della colonia?) di quelle prospicienti la piazza pubblica e anzi con ogni probabilità per costruire queste ultime si dovette abbattere e spianare la struttura preesistente, che manteneva un andamento più marcatamente "centripeto". La nuova fase edilizia previde dunque un allargamento dell'area utilizzabile verso la marina, venendo quindi a occupare terreni ancor più vicini all'acqua, più umidi e perciò meno solidi e sicuri, come sembrerebbe confermato dall'uso di fondazioni su palificate lignee negli edifici che lì subentrarono. Così a un primitivo impianto rispettoso dei limiti imposti dal contesto ambientale, si sostituì in progresso di tempo uno spazio attrezzato con intento scenografico ben preciso: una grande piazza che era raggiunta dalla strada più importante della città ed era definita su un lato dall'alta mole dei tre templi capitolini. In sostanza in epoca augustea si trasformò quel settore cittadino in un ornato percorso che sfociava in una sorta di spettacolare terrazzo panoramico sul mare.

Pure gli edifici di spettacolo si disponevano secondo la natura del suolo, organizzando spazi particolari. Dei due teatri di Pola, uno, più piccolo (II sec. d.C.), si inseriva all'interno delle mura, sulle pendici orientali della collina, ed era raggiungibile dalle due porte di Ercole e "Gemina"; l'altro, più grande, forse di epoca augustea, stava sul versante settentrionale del colle di Bošković, in una posizione scenograficamente prospettica di alto significato verso la città, le mura urbiche, l'area forense e il mare. Anche l'anfiteatro infine insisteva su un lieve pendio collinare, circa 200 m a NE delle mura urbiche, e per tale motivo la costruzione dovette progredire con livellamenti all'altezza delle sostruzioni e del primo ordine di arcate (che comprende perciò solo poco più della metà dell'intero perimetro della pseudoellissi, permettendo però la chiusura ad anello dei piani successivi). L'imponente fabbrica, posta com'era presso l'insenatura marina, separata da questa dal passaggio della via "Flavia", assumeva di fatto il ruolo di una sorta di grande monumento promozionale che, anche con appariscenti soluzioni di tecnica architettonica (cf. le quattro torri che sporgono all'esterno e che nascondevano le scale di legno per accedere alla cavea attraverso i vari ambulacri concentrici o radiali) (224), forniva un'immagine accattivante e prospera della città sia ai viaggiatori di terra, sia a quelli che venivano dal mare (e l'effetto è ancora oggi garantito per quanti vogliano arrivare a Pola da Venezia con un comodo aliscafo) (225).

Terra, mare, collina: qui, come altrove, i termini si confondono e si amalgamano in articolazioni variate, sempre però ricondotte a misura unitaria, anche quando viene a essere modificato l'orizzonte delle presenze delle "risorse" ambientali.

Ai due centri rivieraschi sopra ricordati, che sembrano tuttavia dividere il proprio impianto tra vocazione marittima e legami più dichiaratamente territoriali, corrispondono i ben più numerosi insediamenti che, all'interno della "decima regio", stabiliscono uno stretto rapporto biunivoco tra le proprie strutture e il fiume che li attraversa o li delimita. È a ben vedere la realtà insediativa più ampiamente diffusa nel "Venetorum angulus", appunto per quelle caratteristiche ambientali che coniugano insieme da sempre alti rilievi alpini ed estese pianure con minima pendenza, dove possono trarre origine e di poi avere corso tranquillo e sinuoso i fiumi che a raggiera attraversano la regione e che infine si riversano in mare lungo l'arco della frangia lagunare.

Lo spazio non consente di considerare tutti i centri in ugual misura, cosicché ci limitiamo a citare qui soltanto in cursoria elencazione Cremona, "Mantua" (Mantova), "castrum Tridentum" (Trento), "Forum Iulii" (Cividale), a planimetria comunemente detta castrense o, meglio, a isolati ordinati in senso ortogonale, lambiti su di un lato dal corso d'acqua vicino (rispettivamente il Po, il Mincio, l'Adige, il Natisone); a questi si potrebbe anche aggiungere "Bellunum" (Belluno) situato su una sorta di sperone allungato tra fiume Piave e torrente Ardo (226). Purtroppo per tali siti i dati archeologici finora noti dalle indagini o dalle scoperte soprattutto occasionali e di emergenza non consentono di individuare una fisionomia definita dal punto di vista urbano, ma solo di rilevare il forte condizionamento e il conseguente adattamento alla situazione segnatamente idrografica. Ma c'è anche da dire che la scelta insediativa in questi casi, come per altri che diremo, fu particolarmente determinata proprio dal fattore idrografico: si pensi a Cremona, sulla riva sinistra del Po, che diventa nel 218 a.C. una colonia fondamentale, insieme a "Placentia" (Piacenza) sulla riva destra, per il controllo della più grande via fluviale d'Italia (227); a Mantova, affacciata sullo "stagnum", che una volta si fece "effusum" (228), del Mincio, laddove questo si allarga in ampi specchi quasi lacustri, in posizione intermedia tra la confluenza con il corso del Po (che portava direttamente alla fascia costiera adriatica) e lo sbocco di defluenza del "Benacus"/Garda (229); a Trento, il "castrum" che fu base logistica per le imprese alpine e transalpine di Druso, posto in piano alla convergenza di tre vallate (quelle dell'alto e medio Adige e del Brenta), tra gli antichi alvei dell'Adige e del torrente Fersina, con una proiezione tuttavia alta nel Doss Trento, un rilievo isolato e dirupato in cui si è pensato di riconoscere il sito di "Verruca" citato da Cassiodoro (230) e di "Ferruge" nominato da Paolo Diacono (231), se non addirittura quell'oscuro "Trincto.inia" che si legge, accanto a "Tredentem", nell'Anonimo Ravennate (da confrontare con il "Tritonia" in Guido) (232); si pensi infine a Cividale, cittadina a impianto regolare, compresa tra il profondissimo incasso del Natisone (a meridione), "la decisa spaccatura formata dalle acque della Roggia dei Molini" (a occidente) e il taglio dell'antico corso del Rugo Emiliano (a oriente, deviato in seguito dai Veneziani per allargare il perimetro della cinta muraria) (233).

Un caso a parte nel quadro dei rapporti città-fiume si ha con "Vicetia" (Vicenza), centro di origine paleoveneta, come ci informano, oltre che i dati archeologici, sia Plinio (234) che Tolomeo (235). La città, le cui caratteristiche monumentali poco ancora conosciamo, ebbe probabilmente un graduale sviluppo urbano che poté sfruttare di fatto l'asse della via "Postumia" (all'incirca l'attuale corso Andrea Palladio), lungo il quale è forse da ricercare la piazza del foro; tuttavia Vicenza non dovette mai diventare un grande centro, né rivestire una rilevante importanza, se non come sito posto a cavallo appunto di una strada di grande valore strategico e logistico per la "decima regio". Non a caso quindi Strabone la elenca tra i "πολισμάτια", cioè piccoli centri (assieme a Oderzo, Concordia e Adria), che hanno come elemento comune un corso d'acqua "navigabile controcorrente" che li unisce al mare (236); Tacito la dice addirittura municipio di "modicae vires" (letteralmente "di poche forze") (237).

Ora, richiamandoci anche a quanto affermato da Strabone, è possibile credere che un'altra particolarità della cittadina fosse appunto la sua stessa posizione topografica, in un'area che vedeva la confluenza dell'antico corso dell'Astico (il suo alvo fu occupato in seguito dal Bacchiglione, dopo la deviazione della fine del XII sec.) con il Retrone e che quindi risultava per lo più circondata dalle acque. Così si comprende la presenza nel tessuto organico urbano di ponti, forse in antico più numerosi di quanto ci sia dato oggi di conoscere. In realtà anche i due unici manufatti che sopravvissero con strutture originarie fino alla seconda metà del secolo scorso, quando furono deliberatamente distrutti per far posto a nuove costruzioni, ci sono noti solo da fonti documentarie e iconografiche. Sono il ponte degli Angeli, che con tre arcate superava il corso dell'Astico all'uscita nord orientale della "Postumia" dalla città, e di S. Paolo, che collegava, sempre su tre arcate e oltrepassando il Retrone, il centro antico con l'area sud orientale, dove si situava il teatro. Questo, costruito all'esterno delle mura (nel quartiere denominato, in epoca medioevale, di Berga) (238), si trova ora inglobato in una serie di edifici (palazzo Gualdi, una filanda, etc.) che hanno mantenuto l'andamento semicircolare dell'alzato della cavea (rivolta a nord) e rettilineo dell'impianto scenico, nonché la planimetria delle strutture postsceniche (prima metà I sec. d.C. e successivi restauri di epoca traianea).

Da ultimo vale ricordare un ulteriore "monumento" vicentino, doppiamente significativo: l'acquedotto di Lobia (I sec. d.C.). Le poche e smozzicate arcate che ancora sussistono testimoniano di fatto pressoché l'unico esempio (dotato oltretutto di talune soluzioni tecniche assai interressanti) (239) superstite e ravvisabile di tale tipo di opera idraulica nella nostra regione (altri manufatti o sono perduti o sono poco leggibili o sono del tipo a condotta sotterranea); in secondo luogo lo stesso acquedotto sembra quasi indicare, insieme alla strada di "servizio" che lo doveva accompagnare, una sorta di proiezione territoriale della città verso il suo agro nord occidentale, dove forse nei pressi di Caldogno e Villaraspa di Motta di Costabissara avveniva la captazione delle acque di risorgiva (240).

Di altri due centri, come "Ateste" (Este) e "Tarvisium" (Treviso), poco possiamo dire con qualche attendibilità, dal momento che la sovrapposizione medioevale ha in gran parte coperto le tracce degli abitati antichi, che solo in questi ultimi anni, grazie a pazienti ricerche e a un rinnovato interesse "romano", stanno tornando in luce, sebbene parzialmente e "per intervalla".

Del primo, uno dei centri propulsori della cultura paleoveneta, va rimarcato lo stretto legame con il ramo dell'Adige che l'attraversava (in seguito avvenne la sua cattura in quello più meridionale), da cui in epoca romana derivò addirittura il nome ("Ateste" ⟨ "Atesis"; il nome paleoveneto ci è sconosciuto). Non è tuttavia sicuro l'andamento dell'alveo fluviale: è possibile che, a occidente, si portasse presso la loc. Casale, per poi passare vicino alla chiesa della Beata Vergine della Salute e proseguire infine per il quartiere di Canevedo e via Deserto (241).

Dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) Este fu colonia "Actiaca", poiché accolse i veterani di Ottaviano. Ed è all'epoca augustea e al I sec. d.C. che si può forse attribuire l'impianto urbanistico (il cui nucleo, insieme all'area forense, è da individuarsi nel settore occidentale dell'abitato moderno, tra villa Albrizzi, il cimitero, la citata chiesa della Salute e l'ospedale civile), che sembrerebbe orientato, per quanto è stato possibile riscontrare da lacerti di strade lastricate e da strutture di fondazione, in senso NE-SO, non in contrasto quindi con la direzione dell'Adige (NO-SE). E proprio sulla riva del fiume doveva sorgere un santuario dedicato ai Dioscuri, di cui ci resta un fregio dorico fittile; non molto lontano, nel serraglio Albrizzi, doveva invece estendersi un'area destinata ai privati, individuata da "un quartiere di eleganti ville" o "domus" residenziali (242).

Per Treviso (di cui Plinio affermava che "non valeva il conto parlare diffusamente") (243) il quadro appare ancora più indefinito e risulta perciò azzardato avanzare proposte non sostenute da un'adeguata documentazione. C'è solo da dire che il verso di Dante "[...> e dove Sile a Cagnan s'accompagna [...>" (244) serve bene a chiarire in modo emblematico la qualità dell'abitato, inserito profondamente in un contesto idrografico articolato, che sembra in parte ricordare il caso vicentino. Al contrario di Vicenza tuttavia, Treviso non sembra essere toccata da importanti vie di comunicazione (solo tracciati secondari la collegavano alla "Postumia", all'"Annia" e alla "Claudia Augusta") e perciò la sua strada principale più facile e diretta era rappresentata dallo stesso fiume Sile, che l'attraversava con acque tranquille e che la raccordava segnatamente con Altino, sul margine interno della laguna che sarà di Venezia, tappa della via "Annia" e capolinea meridionale della "Claudia Augusta". Il centro trevisano veniva così a costituirsi come tipica città di fiume, mentre Altino assumeva in sostanza il ruolo di uno scalo avanzato sulla gronda lagunare e sulla rotta di navigazione ivi organizzata tra Ravenna, Aquileia e le coste istriane (245).

Anche un'altra città "mediterranea" doveva essere strettamente collegata con Altino sia per via di terra che per via fluviale: "Opitergium" (Oderzo), che nel nome manteneva quella radice -*terg-, già rilevata in "Tergeste", con l'aggiunta di un prefisso a significare la presenza di un'originaria "piazza" o "mercato" a cui si poteva accedere (246). Di essa fino agli anni Ottanta si conosceva assai poco e in modo molto frammentario, poi una serie di scavi ha cominciato a dare maggiore consistenza organica alla fisionomia del sito, che sempre più sembra confermare la sua antica destinazione quale punto di riferimento logistico, posto su un rialzo o "motta", nella media pianura tra Piave e Livenza. L'abitato si era venuto formando, sin da epoca paleoveneta, su un'area a quota più alta rispetto alla campagna circostante, su una "motta", favorito anche dai corsi d'acqua che l'attraversavano, quali oggi si possono riconoscere nella Piavesella, Piavon e Monticano. I primi due sono sicuramente da considerare come divagazioni di sinistra del Piave; il secondo altrettanto sicuramente esisteva in epoca romana, stante la testimonianza di un ponte della via "Annia" che lo scavalcava poco a sud est di Ceggia (247), dove nelle tavolette IGM (F.0 39 III SE; F.0 52 IV NE) è ancora segnata una sorta di resto fossile dal nome significativo di "Canalat" (il "canal grande" o "canalazzo", dunque). E c'è da aggiungere che questo Canalat metteva capo, a meridione, alle lagune, proprio nei luoghi che sarebbero stati occupati molti secoli più tardi da "Civitas Nova". Il Monticano per parte sua doveva mettere in comunicazione Oderzo con il Livenza e soprattutto con il porto omonimo che era alla sua foce ("[...> il fiume Livenza che nasce dai monti Opitergini e il porto dallo stesso nome [...>") (248). Ma non bisogna dimenticare, in questo contesto di possibilità di rapporti, la grande arteria della "Postumia", che passava assai vicino al nucleo abitato.

Di questa realtà territoriale, inserita in una pianura "aperta" a itinerari terrestri e fluviali, dovette necessariamente tener conto l'assetto urbano di Oderzo. Importanti a questo riguardo sono perciò, come si è detto, gli scavi recenti, segnatamente quelli a occidente della città, presso un tratto di paleoalveo che, con buona probabilità, può essere anche inteso appartenente alla Piavesella (via delle Grazie). In ogni caso qui sono venute in luce le strutture di un canale arginato, provvisto di banchine lastricate e fondate su una robusta base di grossi pali di rovere (infissi e costipati secondo una tecnica diffusa in ambienti umidi e in suoli poco solidi), insieme a porzioni finitime di terreno bonificate con banchi di anfore; inoltre, poco distante, si sono trovate altre cospicue tracce di "un complesso sistema di arginature e barriere lignee, talvolta dotate di apparati spondali mobili, associate a 'cassoni' [...>". A questi resti pare poi corrispondere, in località Colfrancui, lungo il canale Navisego, ancora "una poderosa palizzata lignea, arginatura di sponda, probabilmente del medesimo corso fluviale, nei pressi della collinetta artificiale detta Mutera, vicino alla quale sembra verosimile localizzare un approdo". Non è sbagliato quindi pensare in proposito di collegare queste sistemazioni e questo scalo non a una pressoché impossibile navigazione ulteriore verso settentrione, ma piuttosto a un raccordo con la via di terra "ab Opitergio Tridento", testimoniata dall'Itinerarium Antonini (249). Si avrebbe dunque il caso di un attracco cittadino a cui sarebbe correlato un attracco, per così dire, "territoriale", rivolto a una funzionalità più ampia e diversificata.

Tra questa direttrice idrografica più occidentale e il Monticano a oriente, in un'area dove le quote di livello avevano valori più alti, si doveva distendere il nucleo più consistente dell'abitato opitergino, che si sviluppò in prevalenza tra I sec. a.C. e I sec. d.C. e che trovava il proprio fulcro nella piazza del foro (anch'essa parzialmente scavata negli anni Ottanta). Non a caso pertanto attorno a essa, per una superficie abbastanza estesa sul rialzo della "motta", furono dislocate residenze private di grande prestigio, che con ricchezza di ornamentazioni pavimentali coprono talora un arco cronologico sino al IV sec. d.C. (250).

Per Verona fu certo fondamentale la sua posizione topografica in pianura, allo sbocco della valle dell'Adige, su un'ansa del fiume stesso, non distante dal lago "Benacus"/Garda, in un punto di incontro tra popolazioni retiche, cenomani e venete, dove confluivano perciò gli interessi di varie etnie finitime, legate, fin da tempi remotissimi, con l'Europa centro settentrionale attraverso valichi alpini ben praticabili (già aperti da epoca protostorica: cf. le vie dei metalli, dell'ambra, del sale) (251). Confermano tale vocazione a polo di differenziate aggregazioni le due grandi e importanti strade che l'attraversarono: la direttrice verticale della via dell'Adige, da "Hostilia" (Ostiglia) e dal Po fino alle Alpi, e quella orizzontale della via "Postumia", stesa da un capo all'altro della "Cisalpina" (da Genova ad Aquileia) (252). E proprio sulla "Postumia", orientata in senso SO-NE, si svilupperà, in epoca tardo-repubblicana, il piano urbanistico a scacchiera regolare della città, tutto o quasi risolto all'interno della grande ansa fluviale, lungo la quale è incerta la presenza di una cinta difensiva (253), che invece racchiudeva i settori sud orientale e sud occidentale dell'abitato (la cinta repubblicana sarà ricalcata, a pochi metri di distanza, da una seconda cerchia, che comprenderà l'anfiteatro, in epoca gallieniana).

Sul lato di SE si apriva la porta oggi chiamata dei Leoni (254), di cui è stato ora proposto uno studio assai convincente (255). Era costruita in laterizi con inserzioni in pietra tenera e aveva due fornici sormontati, sulla facciata interna, da una doppia galleria (a finestrelle quella inferiore, a loggiato quella superiore): due corpi di fabbrica si allungavano lateralmente a comprendere un "cavaedium" quadrangolare e a raggiungere due torri poligonali che affiancavano i fornici esterni. Coeva e forse non molto diversa doveva essere la porta Borsàri (dal termine medioevale "bursarii", cioè "gabellieri") o meglio porta "Iovia" (poiché così era conosciuta in epoca romana secondo l'iscrizione di un'ara funeraria scoperta vicino) (256), che si situava sul versante di SO delle mura, a cavaliere della via "Postumia".

Abbiamo principiato a parlare degli accessi alla città con l'intenzione di sottolineare, anche in questa sede, come gli assi stradali su cui essi sono posizionati (la prosecuzione cittadina della via da Ostiglia e la "Postumia") trovino la loro naturale convergenza nell'area rettangolare del foro (piazza delle Erbe), dove si incontrano ortogonalmente all'altezza del lato corto settentrionale. Si stabilisce così una sintesi immediata tra gli elementi fondamentali e costitutivi dell'immagine della città: il perimetro della mura, le porte, le strade che penetrano nel centro urbano, il foro che ne è il cuore (257). Importante poi, in questo quadro, è che gli assi viari interni abbiano un punto nodale di sutura proprio laddove gli scavi recenti hanno chiaramente indicato l'ubicazione del tempio capitolino (un edificio a tre celle, "prostilo, esastilo, periptero sine postíco"), facendo superare nel concreto di una indagine sistematica l'ipotesi proposta un tempo dal Frothingham (e da tutti ripresa) di un "Capitolium" disposto sul lato occidentale del foro e confermando al contempo il valore di riferimento logistico dell'area a ridosso della "Postumia" (258).

Successivamente, con la costruzione dell'arco onorario della "gens Gavia", in epoca tardo augusteo-tiberiana, sembra completarsi l'immagine di Verona nel suo rapporto tra zona urbana interna e definita e territorio esterno (259). L'arco tetrapilo infatti, posto sulla più importante arteria stradale dell'Italia settentrionale, 550 m circa all'esterno di porta Borsàri (è incerto l'incrocio con una via secondaria suburbana, sebbene i fornici laterali minori risultino praticabili), si doveva proporre, in sintonia con la direttrice viaria, con le mura e in particolare con la porta urbica, come un ingresso avanzato nella campagna, un ben rappresentativo propileo che annunciava la città in chiave monumentale e non consueta, per quanto ne sappiamo, nella "decima regio".

A questo itinerario ritmato e mediato tra esterno e interno (e viceversa) che possiamo verificare nel settore occidentale di Verona corrispondevano analoghe soluzioni agli altri due poli significativi dello schema urbano, dove tuttavia in sostituzione dell'arco erano da una parte il ponte cosiddetto Postumio, che assieme al ponte Pietra doveva quasi inquadrare il colle di S. Pietro, sulle cui pendici fu costruito in seguito, in posizione dominante e panoramica, il teatro, dall'altra probabilmente ancora un ponte, che potremmo presumere al di fuori di porta dei Leoni. Ma c'è di più. Recenti ricognizioni sulla riva sinistra atesina hanno evidenziato, in corrispondenza dei ricordati ponti Pietra e Postumio, due porte, che risultano perciò anch'esse in posizione simmetrica rispetto al sito del teatro, oltre a essere tipologicamente analoghe (per il cavedio e le torri laterali) a quelle "Invia" Borsàri e dei Leoni di fase tardorepubblicana. In realtà il dato più interessante è che tali ingressi non sembrerebbero essere in connessione con una cinta stesa a comprendere il vicino colle, ma piuttosto, come monumenti a sé stanti, assumere il valore di ulteriori magniloquenti propilei, strettamente legati ai due ponti e quindi agli accessi della città, assai prima che in quell'area sorgesse l'edificio di spettacolo a definire compiutamente la qualità e la funzione urbana del sito. Tutto faceva "sistema", in una stretta correlazione articolata tra funzionalità e rappresentatività, che doveva poi trovare una sintesi unitaria nella piazza del foro e nell'edificio capitolino. Ciò significava anche, tra fine repubblica e primo impero, il segno tangibile del volto esterno di una nuova realtà politica egemone, valorizzato ulteriormente, intorno alla metà del I sec. d.C., con la ristrutturazione delle due porte veronesi, che si rivestono di pietra bianca di Valpantena (a copertura del laterizio repubblicano), mutano le scansioni di facciata in una trama più calcolata di linee e di piani e acquistano un'immagine "palaziale".

Nel contesto di quanto abbiamo fin qui discusso, viene dunque progressivamente ancora una volta esaltata la componente scenografica di mediazione tra dato interno e dato esterno, in cui il gioco delle prospettive e delle quinte su fondali, che via via si svelano attraverso i vari diaframmi frapposti, crea quasi, come è stato detto, una sorta di visione teatrale, dal carattere "trasgressivo" proprio per la consapevolezza della presenza di tali diaframmi (260). Se questo valeva per gli archi, i ponti e le porte che "aprivano" alla città, era lo stesso assetto interno del centro urbano che indicava poi con altri fondali e altri diaframmi ancora le direzionalità privilegiate e dinamiche da seguire, dal ponte Postumio, a porta Borsàri, dall'area capitolina a porta dei Leoni (261).

Anche "Patavium" (Padova), come Verona, si situa all'interno di un'ansa accentuata di un fiume, l'antico alveo del "Meduacus" (Brenta), occupato poi dalle acque del Bacchiglione. Fu in origine centro paleoveneto importantissimo, assieme alla vicina "Ateste", dislocato al di qua e al di là dell'ampio doppio meandro fluviale, uno degli ultimi scendendo la corrente dalla montagna, uno dei primi risalendo dal mare. Tale possibilità di collegamento via acqua viene in realtà messa in risalto fin dalla famigerata incursione dello spartano Cleonimo, che suscita la risposta "unitaria" dei "tre 'vici' marittimi di Padova" (262). Pare addirittura, dalla narrazione liviana, che allora fosse già quasi costituito quel forte nesso entroterra-aree rivierasche che sarà di fatto in seguito uno degli aspetti caratterizzanti il centro direzionale romano.

Sull'organizzazione urbana di Padova molto si è discusso e scritto, a causa soprattutto dei pochi dati archeologici superstiti alla sovrapposizione medioevale e di una idrografia ancora non ben definita nella sua ricostruzione storica (263). Senza voler ritornare, in assenza di ulteriori elementi di discussione, su questioni già con bibliografia ampia e recente, basterà qui solo ricordare in proposito che, mentre taluni studiosi (come il Galliazzo) (264) sostengono un impianto regolare e ortogonale, altri invece (come il Bosio in particolare) (265) non vedono le ragioni di una rivoluzione urbanistica rispetto al periodo precedente e sostengono piuttosto un incremento "naturale" dell'assetto insediativo. Inoltre, circa la complessa vicenda del "Meduacus" e delle sue divagazioni attorno al centro cittadino, si è successivamente affermata l'esistenza o di due rami che abbracciavano la cosiddetta "insula patavina" (266) o di un unico ramo che, entrando in città da occidente, ne usciva poi a oriente dopo aver formato ansa e controansa (267) o infine, dopo accurate e recenti analisi, di due rami ancora distinti del "Meduacus", associati a fasi di spostamento o di inserimenti di alvei, non sempre per ora documentabili nel dettaglio (268).

Ci sembra prudente, allo stato delle nostre conoscenze, sospendere il giudizio su entrambi i problemi, in attesa di verifiche più probanti, sebbene attualmente possa apparire più congrua l'ipotesi che l'intervento romano a Padova non abbia significato una soluzione di continuità di grande momento nel complesso del suo impianto abitativo. Impianto di cui possiamo riconoscere gli assi portanti nel tracciato urbano della via "Annia" (ancor oggi identificabile nella strada principale che attraversa la città in senso SO-NE-via Umberto I e via Roma, per poi piegare decisamente, all'altezza di piazza Garibaldi, verso est in direzione di Altino-via Altinate) e nell'ansa stessa del "Meduacus", segnatamente nel suo tratto orientale, parallelo alla strada. Soprattutto l'ansa doveva rappresentare il riferimento naturale del centro antico, che così si qualificava quale insediamento sorto su un fiume e strettamente correlato a esso. Per tale ragione la nota espressione di Livio, "in flumine oppidi medio", quando ricorda il "sollemne certamen navium" che si svolgeva come "monumentum" della battaglia vittoriosa contro Cleonimo (269), ci pare bene rappresentare il valore di questo corso d'acqua che letteralmente "passava in mezzo alla città" (cf. le arginature rinvenute in particolare presso piazza Garibaldi). E non è casuale che tra le opere riferibili a epoca tardorepubblicana siano da annoverare i ponti, che testimoniano per un verso un'alta e capace ingegneria idraulica (superando talora un alveo assai ampio: cf. le cinque arcate di ponte Molino e di ponte Pontecorvo), per un altro le direttrici fondamentali di collegamento con il territorio (a ovest ponte Tadi per Vicenza, a nord ponte Molino per Asolo lungo la via "Aurelia", a est il ponte Altinate per Altino lungo al via "Annia") (270).

Di fatto dagli assi costituiti dall'"Annia" e dal "Meduacus" dovettero essere fortemente influenzate anche le successive planimetrie cittadine, soprattutto quelle medioevali: ne potrebbero essere esempi sia la chiesa dei Servi con la sua pianta allungata nel senso di via Roma (del XIV sec., ma insistente su una costruzione precedente con medesimo orientamento), sia lo stesso palazzo della Ragione con la sua strana fabbrica sbilenca e non ortogonale anche rispetto agli isolati vicini. Appunto in quest'area è possibile forse situare il foro e non lontano, tra ponte Altinate e ponte S. Lorenzo, il porto fluviale, quasi a confermare le organiche interrelazioni tra strada, fiume e assetto urbano. Uniche "proiezioni" meno contestuali, come assai spesso accadeva per gli edifici di spettacolo, erano date dall'anfiteatro (subito a NE dell'ansa, presso l'attuale chiesa degli Eremitani) e del teatro (a Prato della Valle, dove convergevano l'"Annia" e la strada da "Bononia"/Bologna e da "Mutina"/Modena) (271).

A questo punto del nostro breve "excursus" sulle "formae urbium" romane nella "decima regio", proprio la tensione marittima di Padova (si ricordino i "vici maritimi", citati da Livio) ci conduce verso la conclusione sui precedenti antichi in più diretto rapporto con il fenomeno della nascita di Venezia. Tensione marittima, si diceva, perché verosimilmente "Patavium" fu unita alla frangia costiera attraverso il "Meduacus" e i suoi rami a valle della città ed ebbe almeno tre scali dislocati sul margine interno della lagune. Ne conosciamo anche i nomi dalla Tabula Peutingeriana (272): "Evrone" (che ricorda il "portus Aedro" di Plinio, formato dai "Meduaci duo ac fossa Clodia": sono entrambi da ubicare a Vallonga, a SE di Padova, non lontano da Chioggia) (273), "Mino Meduaco" (Lova) (274) e "Maio Meduaco" (Sambruson) che nel nome stesso tradiscono la loro posizione su bracci fluviali (cf. anche "ad Portum"/Porto Menai, come i precedenti a est di Padova, nell'entroterra lagunare). Un altro scalo doveva trovarsi sul cordone litorale del Lido, a Malamocco secondo un passo di Strabone (275) che afferma testualmente: "A partire da un grande porto [ἐϰ λιμένοϚ μεγάλου> si raggiunge Padova dal mare, risalendo per 250 stadi [45 km circa> un fiume che attraversa le paludi [᾿ανάπλουν ποταμῷ διὰ τῶν ἑλῶν φεϱομένῳ>; il porto si chiama ' ΜεδόαϰοϚ' come il fiume [ϰαλεῖται δ᾿ὁ λιμήν ΜεδόαϰοϚ ὁμωνύμωϚ τῷ ποταμῷ>" (276). Di questi scali agli sbocchi fluviali sul litorale era probabilmente ricco tutto l'alto Adriatico, lungo quella linea di navigazione paracostiera a cui si è accennato e di cui tratta in questo volume il Bosio (277), Ricordiamo soltanto l'insediamento di Corte Cavanella d'Adige (I-V sec. d.C.: la "mansio Fossis" della Tabula Peutingeriana?), attrezzato con "cavana" e barca e con strutture spondali a palificate lignee (cf. supra l'esempio opitergino) (278), senza contare in questa sede i casi molto più antichi (VI sec. a. C.) dei grandi empori sul delta del Po di Adria e di Spina, che sono in sostanza, per la loro stessa funzionalità marittima, gli archetipi più lontani nel tempo della futura Venezia (279).

Ma ora conta fermarci, per non allargare troppo la materia di discussione, al momento in cui invece conviene stringere le fila sugli ultimi centri non ancora considerati, che ci permetteranno infine di intravvedere Venezia: sono Aquileia, Concordia, "Civitas Nova", Altino (280).

Anzitutto va richiamata l'interpretazione proposta da Paolo Baggio di un'immagine da satellite, dove lo studioso identifica nel tratto territoriale a sud di Concordia un'ampia "area lagunare" che si inserirebbe tra quelle di Venezia e di Marano Grado (281). Ora, se noi prolunghiamo la linea di margine interno di tale antica laguna sia a occidente che a oriente, verificheremo che essa va pressoché a combaciare con quella delle lagune sopra citate; potremo anche osservare che questo margine lagunare interno, così ricostruito, si presenta abbastanza unitario nel suo disegno e sviluppo e soprattutto non passa molto distante (anzi per lo più pare quasi coincidere con essi) dai siti di quei centri antichi che stiamo per analizzare in conclusione della nostra rassegna (282). Ciò sembra voler dire in sostanza, se il "remote sensing" verrà avvalorato, come pare, da dati ulteriori e riscontri archeologici, che circa le origini di Aquileia, Concordia, "Civitas Nova", Altino (che coprono una cronologia da epoca preromana a epoca altomedioevale) prenderebbero più corpo e consistenza precise motivazioni di ordine topografico e morfologico, ben al di là di quanto si potesse ragionevolmente supporre; motivazioni che ribadirebbero un filo di continuità attraverso i secoli nel tipo di scelta insediativa, quale si può riconoscere nell'uguale ubicazione costiera, nella costante presenza di un corso d'acqua, nella simile vicinanza a spazi lagunari.

"Aquileia", toponimo che "non appartiene né alla toponomastica latina, né a quella celtica, probabilisticamente", ma che "dovrebbe essere venetico" (afferma il Prosdocimi, aprendo una questione di grande rilievo circa la natura del primo nucleo insediato) (283), fu, come si sa, colonia latina fondata nel 181 a. C. sulle rive del Natisone, a poca distanza dal mare (284). Città destinata a essere propugnacolo militare e insieme centro logistico/strategico con valore di ponte e cerniera tra oriente e occidente, essa si conformò subito con le sue mura e il suo porto alla morfologia e alle caratteristiche del terreno e soprattutto all'andamento e all'orientamento del fiume (che correva sul versante orientale). Questo lo si avverte assai bene guardando alla ristrutturazione (del 169 a. C. o più recente) della primitiva piccola cinta difensiva, laddove le mura non si sviluppano con conseguente ortogonalità, ma secondo una linea pressoché segmentata (senza tuttavia che venga meno la regolare scansione degli isolati interni), che segnatamente nella zona del porto si adatta in modo puntuale al limite di sponda del fiume. E per tutto il tempo in cui ebbe un senso e uno scopo la via d'acqua, essa sarà rispettata dalle mura, anche attraverso gli interventi che si succedettero tra III e IV sec. d.C., fino a quelli teodosiani che oblitereranno definitivamente lo scalo e insieme invaderanno il letto del Natisone. Prima di quest'ultima fase dovette al contrario mantenersi un preciso rapporto biunivoco tra nucleo urbano e scalo, rapporto sancito nella sua importanza dalla via principale che raggiungeva le strutture portuali e che era la medesima (fatta lastricare per la munificenza di una donna, "Aratria Galla") che delimitava a meridione l'edificio della basilica (sul lato corto sud dell'area forense: entrambi i complessi sono databili al II-III sec. d.C.).

Ausonio parla di Aquileia come "moenibus et portu celeberrima" ("celeberrima per le sue mura e il suo porto") (285): è una citazione d'obbligo e assai nota, ma che propone in sé una domanda precisa che molti studiosi si sono posti. Quel riconoscimento altisonante "portu celeberrima" si riferisce ai resti di epoca claudia e alle loro ristrutturazioni e aggiunte medio e tardoimperiali che noi conosciamo (286) o a qualcosa d'altro, a un complesso non ancora noto? In realtà il porto aquileiese che oggi vediamo sembrerebbe assai modesto rispetto alla sua fama acquisita e soprattutto rispetto alla mole di traffici e commerci che il centro romano dovette supportare in progresso di tempo. Tali considerazioni porterebbero perciò a credere all'esistenza di un altro scalo più importante e ora scomparso, da collocarsi in un settore del territorio circostante la città che avesse significato logistico adeguato al ruolo richiesto. Le ipotesi tuttavia che si possono fare in merito (presso il canale artificiale Anfora, che inserito nel reticolo centuriato, toccava la città a SO; presso lo sbocco del Natisone in laguna; Grado, presso il cordone litorale) lasciano, per mancanza di dati a suffragio, alquanto perplessi. Allo stato attuale delle nostre conoscenze credo invece che potrebbe essere più utile approfondire la ricerca nella direzione di recente prospettata dal Marchiori (287). Lo studioso indica infatti la possibilità che l'espressione di Ausonio possa più correttamente essere intesa in senso più lato, non diretta a un impianto accentrato e grandioso di edifici e di servizi, ma piuttosto a un "sistema" complesso e articolato di scali, dislocati tra Aquileia, le isole della laguna e il litorale marittimo, in modo da assicurare, oltre che una maggiore distribuzione logistica, anche più pertinenti settorialità funzionali. Non sembra peregrina neppure l'idea di confrontare, in questo caso, il decentramento "extra moenia", a SO di queste, del grande mercato pubblico aquileiese, che mantenne la sua attività per molti secoli (da epoca tardorepubblicana a quella tardoantica): a questo esempio aggiungerei anche quell'impianto termale (o edificio a carattere privato?) ritrovato non lontano, sulla sinistra del corso del Natissa (288).

Come si può immaginare, la verifica di tali ipotesi rivestirebbe una notevole importanza, dal momento che essa in sostanza coinvolge il tema assai più vasto della qualità del popolamento della fascia lagunare altoadriatica (289).

"Iulia Concordia" (Concordia), colonia fondata fra il 42 e il 40 a.C. (all'epoca del secondo triumvirato o della pace di Brindisi), è, come Oderzo, situata su un dosso rilevato rispetto alla campagna circostante e sulle rive di un fiume, il "Reatinum" (Lemene), provvisto di uno scalo a mare (290). La scelta insediativa fu legata certamente al quadro idrografico (un altro corso d'acqua a occidente dell'abitato - l'attuale Reghena? - doveva, assieme alle vicine lagune, caratterizzare la zona) (291), ma anche, e in modo determinante, alla convergenza nel sito di due strade di grande rilievo, come la "Postumia" e l'"Annia". Quadro morfologico/idrografico e quadro topografico portarono quindi di pari passo alla fondazione della città, che divenne così un centro logistico di rilievo e insieme, secondo quanto più volte è stato altrove detto, un anello di congiunzione tra la realtà aquileiese a oriente e la realtà veneta a occidente, nell'ambito di un territorio oramai "romanizzato". In questo contesto non venne mai meno il legame originario con l'elemento acqua: di ciò sono testimonianza da una parte quella iscrizione proveniente da Caorle (292) di un "classiarius miles", cioè di un marinaio di navi verosimilmente ivi stanziate, dall'altra soprattutto quella strana opera idraulica, un canale artificiale, che attraversava tutta Concordia da NO a SE (esigendo perciò l'approntamento e la presenza di ponti e passerelle) e per la quale era stata anche strutturata la sponda settentrionale, "attrezzata" con gradinate e muro di sostegno, come per una dispiegata e suggestiva scenografia fluviale.

Nell'attesa che il rinnovato impegno di indagine archeologica contribuisca a meglio definire il volto urbano dell'antica colonia, già si può considerare importante per il filo del nostro discorso il rinvenimento, nella piazza antistante la cattedrale, di strutture attribuibili a magazzini extraurbani. Conta sottolineare di essi sia la posizione poco distante dal Lemene e quindi da un probabile scalo fluviale cittadino, sia la particolare tecnica costruttiva, che impiegò per le sottofondazioni "robuste travi di legno formanti una piattaforma di bonifica", resa necessaria dalla situazione idrografica e altimetrica della zona (293).

Anche per "Altinum" (Altino) le indagini archeologiche degli ultimi decenni risultano determinanti per cominciare a capire uno straordinario e suggestivo assetto urbano. Da sempre invece si conosceva la sua favorevole ubicazione presso corsi fluviali di rilievo (il Sile e il Piave) e varie e praticabili direttrici terrestri: tutti aspetti che sin da epoca paleoveneta dovettero nel complesso mettere in secondo ordine talune difficoltà che poterono sorgere in un terreno non sempre solido e sicuro. Per l'epoca romana in particolare la qualità del sito, posto tra terra e lagune, viene ribadita da Vitruvio (294) e da Strabone (295) che confermano il preciso ruolo dell'idrografia e della morfologia della zona per le sorti propizie del centro altinate. Il primo, è noto, cita le "Gallicae paludes" che circondano Altino, esaltando la loro salubrità e il connubio, ivi avvenuto felicemente, tra dato ambientale naturale e intervento di bonifica operato dall'uomo (cf. le "fossae", cioè le canalizzazioni di scolmamento): accomunate per una medesima situazione contestuale sono Aquileia e Ravenna. Anche Strabone parla di paludi ("τὰ ἔλη") e di laguna ("ἡ λιμνοθάλαττα"), aggiungendo la presenza di isole e di città che sono disposte lungo la frangia costiera. Altino è paragonata a Ravenna, che sta in mezzo alle paludi ("ἐν δὲ τοῖϚ ἔλεσι"), è costruita interamente su palafitte, è attraversata da canali ("ξυλοπαγήϚ ὄλη ϰαὶ διάϱϱυτοϚ") ed è percorribile a mezzo di ponti e barche ("γεφύϱαιϚ ϰαὶ ποϱθμείοιϚ ὁδευομένη"). E si ricordino in proposito ancora Vitruvio (296) e quel legname a uso palafitticolo che veniva trasportato a Ravenna lungo il corso del Po.

Il quadro d'insieme della vita "anfibia" di Altino è completato dai suoi settori di attività economica: l'allevamento degli ovini e quindi la produzione della lana (297), l'allevamento delle vacche da latte (298), la raccolta dei nerissimi "pectines" (mitili?) (299). Attività che, insieme ai traffici e ai commerci che si svolgevano con l'ausilio di imbarcazioni (cf. le "lintres" di Servio) (300), dovevano permettere quell'opulenza annotata implicitamente da Marziale nella seconda metà del I sec. d.C., quando guardava alle ville allungate sul litorale, emule, a suo dire, di quelle di Baia (301). Con molta efficacia il Bosio, a riguardo, commenta: "Sembra di avere davanti agli occhi l'immagine di Venezia, anzi, per dir meglio, di come doveva presentarsi la Venezia delle origini" (302).

Gli scavi, a cui sopra si accennava, sembrano confermare in gran parte sia le fonti, sia il topografo moderno, mostrando a poco a poco una realtà territoriale e di paesaggio articolata tra dossi emergenti e canali, tra aree basse e paludose e aree regolate idrograficamente dall'uomo. Ed è in età tardorepubblicana e augustea che il volto di Altino romana prende consistenza per poi svilupparsi ancora nel corso del I sec. d.C.

Per i dati che conosciamo possiamo pensare in sostanza a una città di impianto ambivalente ("anfibia", si è detto prima), con caratteri terragni e lagunari, sebbene la prevalenza dei secondi sia innegabile. Si ponga mente così alle strade che passavano o avevano capolinea proprio alla sua immediata periferia (la via "Annia", la "Claudia Augusta" e ora quelle per Oderzo e, forse, per Treviso), ma soprattutto alla presenza di un sistema di canali, spesso arginati e sistemati a banchine poggianti su costipamenti di robuste palafitte, presso le quali potevano situarsi moli e strutture di attracco, nonché edifici porticati (forse con funzioni di magazzini o empori). Uno di questi "moli" fu individuato ancora negli anni Trenta lungo il corso del Sioncello (settore di NE del centro antico) ed era costituito da una palificata e da blocchi lapidei; un altro (probabile) è venuto in luce nel settore insediativo occidentale, in località Fornasotti, costruito in grossi conci di arenaria, sempre su fondazioni palificate, con "un avancorpo collegato da un lato ad un'arginatura di tavole e pali infissi nel terreno, dall'altro alle basi di otto pilastri". Ancora arginature dunque ad aree porticate, se non anche ponti (l'avancorpo dello scavo Fornasotti?). A resti di spalla di un ponte, in verità, si è pure attribuito l'avancorpo che si trova all'esterno della porta urbica, con cavedio e torrioni quadrangolari e forse due fornici, scavata a settentrione del Museo altinate. La scoperta, che risale a indagini svolte tra il 1972 e il 1984, riveste importanza non piccola: infatti più che evidenziare tipologie architettoniche o tecniche struttive (le fondazioni sono come al solito su palificate), si deve qui piuttosto rimarcare l'accertata presenza di un corso d'acqua o canale a ridosso, in quel tratto, dell'ingresso. Si potrebbe avere cioè, in questo caso, secondo quanto sembrerebbero suggerire i dati di scavo pubblicati, un esempio con valenza scenografica di una porta canale, provvista di ponte di accesso e magari pure di una riva attrezzata con gradini (303). Tale scenografia si poteva inoltre collegare alla configurazione urbanistica propria del settore nord orientale di Altino, dove, presso l'asse del Sioncello e della strada a esso parallela, insieme alle banchine d'attracco citate sono venuti alla luce quartieri di abitazione con specifici caratteri residenziali o "di installazioni mercantili e di impianti produttivi".

Infine le stesse mura di cinta, di cui si sono trovate le tracce vicino alla porta urbica, più che a opere funzionali di difesa (si tenga pure conto della loro datazione augustea), farebbero pensare, in presenza di una idrografia complessa, a strutture con valore prevalente di contenimento delle aree asciutte insediate, con un ruolo a un di presso simile a quello delle mura degli isolotti lagunari veneziani, detti "ottagoni" (304).

La fisionomia altinate, che abbiamo così rapidamente riassunto e che sembra avere correlazione con Ravenna ancor più che con Aquileia, trova a mio avviso un'ulteriore corrispondenza, a distanza di, molti secoli, nell'insediamento che precede direttamente la nascita di Venezia e che abbiamo riconosciuto dislocato, come Altino, Concordia e Aquileia, sul margine interno di una possibile frangia lagunare, un tempo in gran parte unitaria da Chioggia a Grado.

Il sito di "Civitas Nova" (in seguito Eraclea ora Cittanova) (305) ha infatti mostrato, attraverso un'accattivante serie di foto aeree, la presenza antica di dossi e rialzi di colore più chiaro, delimitati da canalizzazioni più scure e da un grande canale mediano meandriforme che non hanno potuto e non possono non richiamare gli esempi di analoghi arcipelaghi lagunari, come Chioggia, Murano, Burano, Torcello, oltre che la stessa Venezia (306). Il fatto che recenti ricerche di superficie e taluni sondaggi archeologici non abbiano dato esito positivo, prospettando tuttavia la questione di un abitato posto più a settentrione e di campi coltivati più a meridione (le tracce chiare sabbiose sarebbero appunto i segni di tali campi), non intacca il valore delle considerazioni circa l'organizzazione di un probabile assetto urbano civitatino, in ogni caso ben assimilabile complessivamente agli esempi citati (307).

In definitiva, anche da un punto di vista strutturale, sembra quasi che l'esito di "Civitas Nova", preparato probabilmente attraverso secoli di abituale frequentazione dell'agro e degli spazi lagunari a meridione di Oderzo, rappresenti per se stesso un raccordo, come già lo fu un tempo in un altro contesto la colonia di Concordia, tra le realtà insediative precedenti nella "decima regio", mediterranee o rivierasche, ma sempre tenacemente terragne, e la nuova situazione storica e topografica, maturata nei secoli VI e VII, che di fatto poteva offrire solo una proiezione verso il mare.

Tramontata l'idea del Cessi (308) di isole lagunari disabitate e in abbandono, occupate soltanto a partire dai vari trasferimenti sulla costa in epoca tardoantica o alto-medioevale, resta tuttavia la domanda di quale vita organizzata si potesse svolgere in questi siti. È a ben guardare il tema a cui si accennava a proposito di Aquileia e di alcune osservazioni di metodo offerte dal Marchiori (309). Senza volere in questa sede approfondire il problema, che si intende volutamente lasciare aperto, conta forse ancora ricordare che tutta la frangia lagunare altoadriatica era interessata da una linea di navigazione che collegava Ravenna ad Altino, ad Aquileia e alle coste istriane. Lungo questa rotta vi erano stazioni e scali che potevano servire contemporaneamente sia l'itinerario d'acqua, sia, come ho spiegato altrove (310), un itinerario terrestre, paramarittimo, in gran parte riconoscibile nella direttrice Ravenna-Adria (via "Popillia")-diversione perilagunare-Altino-Aquileia (via "Annia"). Ora proprio nell'ambito della futura laguna veneziana si dovevano trovare alcune tappe di tale doppia percorrenza: "Evrone" (Vallonga), "Mino Meduaco" (Lova), "Maio Meduaco" (Sambruson), "ad Portum" (Porto Menai), Altino, sul margine interno, e "Brundulum" (Brondolo), "Clodia" (Chioggia), Portosecco (lido di Pellestrina), "ΜεδόαϰοϚ" (Malamocco), forse Tre Porti/Portosecco (non distanti dalla bocca di porto di S. Nicolò di Lido) ed "Equilum" (Iesolo), sui cordoni litorali (che si possono riconoscere nel "tenue praetentum litus" di Livio). Pare naturale pensare dunque che lungo questa rotta e queste tappe non fossero affatto sconosciute agli antichi navigatori quelle isole e quelle barene che saranno poi intensamente popolate nell'altomedioevo. Anzi si può ragionevolemente immaginare che su di esse, come sembra suggerire Cassiodoro (311), vi fossero nuclei insediativi, ancorché modesti e limitati in estensione ("domus" e "domicilia"), dediti per lo più alle attività della pesca e della produzione del sale. Se questo è vero, è possibile anche inserire in tale quadro ambientale la particolare valorizzazione di alcuni siti rispetto ad altri e insieme la organizzazione di diversificati scali e approdi intermedi, uniti e collegati a un centro "direzionale" primario (per riprendere le parole del citato Marchiori). Potremmo così pensare a due fondamentali "sistemi" portuali nell'ambito della "Venetia" lagunare: uno da riconoscere nel settore sud occidentale afferente con tutta probabilità a Padova, l'altro nel settore nord orientale afferente ad Altino. E sarebbe certo suggestivo, a proposito di questo secondo "sistema", poter in parte interpretare come scali e approdi anche quelle "villae" del litorale che tanto colpirono l'attenzione di Marziale (312). In ogni caso possono essere spiegati con questi precedenti di frequentazione non solo l'"ἐμπόϱιον μέγα", il grande emporio di Torcello, citato da Costantino Porfirogenito alla metà del X secolo (313), e, ancor prima, nel VII sec., la fondazione della cattedrale torcellana, ma anche e soprattutto, all'estremità orientale dell'arcipelago maggiore, il primo nucleo di Venezia, quel "castrum Helibolis" (o Olivolo, l'attuale Castello) dove sorse la prima diocesi della città (314).

Venezia però, pur nel solco di una tradizione e di una vocazione al mare di antica memoria, opera al contempo un taglio netto con il passato, o meglio lo reinterpreta, ponendosi, come sottolinea il Bosio (315), al centro delle lagune (ma, con Rivoalto, anche sulla grande ansa "fluviale" del Canalgrande) (316), svincolata dal retroterra e da una pianificazione terragna (317). L'arcipelago lagunare acquista cioè in progresso di tempo una fisionomia ben definita, come sembra indicarci l'Anonimo Ravennate con le parole "[...> in regione Veneciarum [...> civitas ipsa Venecia appellata, sed veteri more Venecia nuncupata [...>". Si ribaltano in tal modo le prospettive urbane e territoriali, che ora sono rivolte univocamente al mare, al punto che Paolo Diacono, secondo quanto abbiano riportato all'inizio di questo capitolo, non può fare a meno di ricordare che "la 'Venetia' non è solo in quelle poche isole, che ora noi chiamiamo 'Venetia', ma si estende dai confini con la Pannonia al fiume Adda". All'epoca di Paolo tutto questo non era in realtà più vero: era solo oramai una precisazione storica, di cui tuttavia dovette tener conto la Serenissima Repubblica molti secoli dopo, quando, bloccata la sua espansione sul mare, rivolse da "dominante", attenzione al suo "mediterraneo" e ripristinò in sostanza, quasi come una nuova Roma, l'antica unità della "Venetia et Histria".

1. Per i "sentimenti" di un "affascinato forestiero captato dalla città" cf. Fernand Braudel, Amar Venezia per capirla, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 15-22.

2. Un altro e diverso "punto di vista" è quello di Robert Seymour Conway, The Venetian Point of View in Roman History, in Id., New Studies of a Great Inheritance, being Lectures on the Modern Worth of Some Ancient Writers, London 1921; cf. Santo Mazzarino, Il concetto storico-geografico dell'unità veneta, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, 1, Dalle Origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 1-3 (pp. 1-28).

3. "Venetia enim non solum in paucis insulis, quas nunc Venetias dicimus, constat, sed eius terminus a Pannoniae finibus usque Adduam fluvium protelatur. Probatur hoc annalibus libris, in quibus Pergamus civitas esse legitur Venetiarum" (Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 14).

4. Cf. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico, pp. 3 ss.

5. Da ultimo cf. Claudio Zaccaria, Il governo romano nella "Regio X" e nella provincia "Venetia et Histria", in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, pp. 75-78 (pp. 65-103).

6. Livius, Ab urbe condita libri, I, 1, 2-3. Per le fonti letterarie cf. ora Clizia Voltan, Le fonti letterarie della "Venetia et Histria". I: da Omero a Strabone, "Memorie dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 42, 1989.

7. Plinius, Naturalis Historia, III, 129: "[...> et, nunc finis Italiae, fluvius Arsia […>".

8. Ibid., III, 127: "[...> Formio amnis [...> anticus auctae Italiae terminus […>".

9. Cf. Tacitus, Historiarum libri, III, 8; Plinius, Naturalis Historia, III, 130.

10. Cf. Maria Capozza, La voce degli scrittori antichi, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, I, Verona 1987, pp. 35-36 (pp. 3-58) e Luciano Bosio, Il territorio: la viabilità e il paesaggio agrario, ibid., p. 61 (pp. 61-102) con bibl. ivi citata. In precedenza cf. C. Zaccaria, Il governo romano, pp. 77-78 e bibl. ivi.

11. Livius, V, 33, 10.

12. Strabo, Geographica, V, 1, 9, 215: "Μετὰ δὲ τὸ Τίμαυον ἡ τῶν ᾿Ιστϱίων ὲστὶ παϱαλία μέχϱι ΠόλαϚ". Cf. anche Livius, II, 1; Servius, Qui feruntur in Vergilii carmina commentarii. Aeneidos librorum commentarii, I, 244-245.

13. Plinius, Naturalis Historia, III, 127: "[...> terminus, nunc vero Histriae".

14. Ibid., loc. cit.

15. Ptolemaeus, Geographia, III, I, 27: "[...> ᾿ΙστϱίαϚ ὁμοίωϚ, μετὰ τήν ἐπιστϱοφήν τοῦ μυχοῦ τοῦ χόλπου τοῦ ᾿Αδϱίου,/Τέϱγεστϱον χολωνία [...>". In precedenza cf. Artemidorus Ephesius, Undecim Geographiae libri (Epitome di Marcianus Heracleensis), in Geographi Graeci Minores, a cura di Karl Müller, I, Hildesheim 1965, IV, 9, p. 575 e Mela, De chorographia libri tres, II, 3, 57 che non sembrano aver affermato cosa diversa da Tolomeo, definendo Trieste città dell'Illiria (intesa quest'ultima appunto come Istria).

16. Strabo, VII, 5, 2, 314: "[...> ἐϰ Τεϱγέστε χώμηϚ ΚαϱνιϰῆϚ […>".

17. Giulia Fogolari, La cultura, in Giulia Fogolari - Aldo Luigi Prosdocimi, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988, pp. 136-139 (pp. 15-195).

18. Plinius, Naturalis Historia, III, 126-127.

19. Ibid., III, 130.

20. Ibid., loc. cit. Cf. anche, con alcune differenze, Strabo, V, 1, 9, 215-216; Ptolemaeus, III, 1, 23-32.

21. Plinius, Naturalis Historia, III, 127.

22. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico, p. 5.

23. In realtà il Timavo è detto da Virgilio (Vergilius, Georgicon, a cura di Friedrich A. Hirtzel, Oxonii 1959, rist., III, 475) "Iapys" (giapidico), il che può apparire un poco strano. Tuttavia Strabone dice che i "Iapudes" abitavano anche il versante occidentale delle Alpi orientali (IV, 6, 10, 207; cf. inoltre IV, 6, 1, 202 e VII, 5, 2, 313-314 e 4, 314) e perciò potrebbe essere in qualche maniera comprensibile una estensione dell'etnico al non distante corso del Timavo (soprattutto al suo tratto medio-alto). Nel caso della descrizione pliniana, la "regio Iapudum" precede le altre indicazioni geografiche forse per la fama che tale popolazione si era conquistata con gli interventi di Cesare prima e Ottaviano dopo. Cf. János Szilágyi, s. v. Iapodes, in Der kleine Pauly, 2, München 1979, col. 1319; Massimiliano Pavan, s.v. Giapidi, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, pp. 724-725 (e bibl. ivi).

24. Cf. in merito Guido Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia" orientale: osservazioni intorno a un famoso passo pliniano, "Aquileia Nostra", 50, 1979, coll. 217-220 (coll. 173-256).

25. Plinius, Naturalis Historia, III, 126-131.

26. Nereo Alfieri, Topografia antica della regione, in AA.VV., Cultura popolare nell'Emilia Romagna. Le origini e i linguaggi, Milano 1982, p. 52 (pp. 34-53) e bibl. ivi. Cf. Martialis, Epigrammaton libri, III, 4, 2; VI, 85, 6; X, 12, 1.

27. Plinius, Naturalis Historia, III, 115-125: "[...>regio undecima, tota in mediterraneo, cui marina cuncta fructuoso alveo inportat".

28. In particolare su "castellum Pucinum" cf. Luciano Bosio, Pucinum, Puciolis, Potium, "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Udine", ser. VII, 9, 1970-72, pp. 359-376; Alberto Grilli, La strada romana sul Carso triestino, "Centro studi e documentazione sull'Italia romana. Atti", 10, 1978-79, pp. 63-80; Id., Il territorio di Aquileia nei geografi antichi, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'antichità (A.A., 15), Udine 1979, pp. 25-55; Id., Aquileia: il sistema viario romano, ibid., pp. 223-257, su "Agida" cf. Francesco Semi, Capris, centro religioso criptopolitico della romanità?, "Ateneo Veneto", n. ser., 10, 1972, pp. 81-98; Luciano Bosio, L'Istria nella descrizione della 'Tabula Peutingeriana', Trieste 1974, pp. 56 ss. e bibl. ivi.

29. Per l'attributo geografico cf. Strabo, V, 1, 5, 212 e Ptolemaeus, II, 8, 7; III, 1, 28-30.

30. Cf. Santo Mazzarino, Note di storia giuridica in territorio cenomane e problemi di storia culturale veneta, "Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 'Vittorio Scialoja'", ser. III, 12, 1970, pp. 51-55 (pp. 35-57); Id., "Ius italicum" e storiografia moderna, in Atti del Convegno Internazionale sul tema "I diritti locali nelle province romane con particolare riguardo alle condizioni giuridiche del suolo" (Roma, 26-28 ottobre 1971), "Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei", qual. 194, 1974, pp. 370-371 (pp. 357-372); Franco Sartori, ibid., pp. 378-379 (pp. 378-380); S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico, pp. 4 ss.; Id., Un testo sulla salubrità di Ravenna (a proposito di due recenti discussioni), in ID., Antico, tardoantico ed era costantiniana, II, Bari 1980, pp. 295-299.

31. Plinius, Naturalis Historia, III, 126.

32. Ibid., III, 121.

33. "[...> vadit [...> Illyrici reliqua, Hadriaticum mare, Aquileiam, Altinum, Venetiam, Vicetiam, Patavium, Veronam [...> " (ibid., VI, 218).

34. Cf. Strabo, V, 1, 5, 212.

35. Anonymus Ravennas, Cosmographia, in Itineraria Romana, II, a cura di Joseph Schnetz, Leipzig 1940, V, 25.

36. Cf. Plinius, Naturalis Historia, XVII, 201; XXXV, 20; XXXVI, 167; Livius, XXXIX, 22, 6-7 (sul passo liviano si veda il fondamentale articolo di Franco Sartori, Galli Transalpini transgressi in Venetiam, "Aquileia Nostra", 31, 1960, coll. 1-40); Velleius Paterculus, Ex historiae Romanae libris duobus quae supersunt, II, 76, 2; Servius, Aeneidos librorum commentarii, I, 1.

37. Giovan Battista Pellegrini, L'individualità storico-linguistica della regione veneta, "Studi mediolatini e volgari" (Istituto di Filologia Romanza, Università di Pisa), 13, 1965, pp. 143-160; Luigi Polacco, Individualità e continuità dell'arte antica nella Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 124, 1965-66, pp. 411-431. Cf. anche Giovan Battista Pellegrini, Venezia, la laguna e il litorale nell'interpretazione toponomastica, in Id., Ricerche di toponomastica veneta, Padova 1987, pp. 125-157 (e in AA.VV., La "Venetia" dall'Antichità all'Alto Medioevo, Roma 1988, pp. 21-44).

38. Herodotus, Historiarum libri IX, V, 9. Così anche Livius, V, 33, 10: i "Veneti" sono quelli "che abitano attorno all'insenatura del mare" ("qui sinum circumcolunt maris"). Cf. Franco Sartori, Introduzione, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, I, Verona 1987, pp. X-XI (pp. IX-XIII). Sull'Adriatico in generale cf. Raymond Chevallier, Geografia, archeologia e storia della Gallia Cisalpina, I, Il quadro geografico, Torino 1988 (1980), pp. 117 ss. (pp. 34 ss. sulle conoscenze geografiche degli antichi circa l'Italia settentrionale).

39. Polybius, Historiae, II, 14, 4-12.

40. Vitruvius, De architectura, I, 4, 11-12. Sul tema delle "paludi" nell'antichità cf. Giusto Traina, Paludi e bonifiche del mondo antico. Saggio di archeologia geografica, Roma 1988; su Vitruvio e l'Italia settentrionale in genere cf. Antonio Corso, Territorio e città dell'Italia settentrionale nel "De architectura" di Vitruvio, "Archeologia Veneta", 6, 1983, pp. 49-69.

41. Strabo, V, 1, 5, 212 e 7, 213-214, dove si ritorna sul tema delle maree e sulla "incredibilis salubritas" delle "paludes" ravennati e altinati; Claudianus, Carmina, XXVIII, 494-499.

42. Livius, X, 2, 5-6. Su Cleonimo cf. ora la nuova "suggestione" di Lorenzo Braccesi, L'avventura di Cleonimo (a Venezia prima di Venezia), Padova 1990.

43. Plinius, Naturalis Historia, III, 119-120: "[...> Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur […>". Cf. Luciano Bosio, I "Septem Maria", "Archeologia Veneta", 2, 1979, pp. 33-44.

44. Imperatoris Antonini Augusti itineraria provinciarum et maritimum. Itinerarium Antonini, a cura di Otto Cuntz, in Itineraria Romana, I, Leipzig 1929, 126: "[...> ab Arimino recto/itinere Ravenna/inde navigatur/Septem Maria/Altinum usque […>.

45. Tabula Peutingeriana (Codex Vindobonensis 324), a cura di Ekkehard Weber, Graz 1976, segm. III, 4-5.

46. Herodianus, Ab excessu Divi Marci, VIII, 6-7: "[...> διέπλευσαν τὰϚ τε λίμναϚ ϰαὶ τὰ τενάγη ‹τὰ› μεταξὺ ᾿Αλτίνου ϰαὶ ῾ΡαβέννηϚ [...>", dove sono compresi esplicitamente gli "῾Επτὰ πελάγη" sopra citati. Cf. anche espressioni analoghe in Procopius, De bello Gothico, I, 1, 16-23; IV, 26.

47. Cf. C.I.L., V, 7992 (= I.L.S., 5860) - 7992a e Giovanni Brusin, Epigrafi aquileiesi in funzione di pietre miliari, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 114, 1955-56, pp. 283-286, 289, nrr. 5-6 (pp. 281-290): "[...> viam Anniam longa incuri[a>/neglectam influentibus/palustrib[us> aquis eververatam/sic et commeantib[us> inviam/[...> providentissim[us> /princeps restituit". Cf. Patrizia Basso, I miliari della "Venezia" romana ("Archeologia Veneta", 9, 1986), Padova 1987, pp. 196 s.

48. Cf. anche i restauri testimoniati dalle iscrizioni rinvenute presso Torviscosa, in Giovanni Brusin, Sul percorso della via "Annia" fra il Piave e la Livenza e presso Torviscova. Nuovi appunti, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 108, 1949-50, pp. 125 ss. (pp. 115-129): "[...> Maximinus [...> viam [...> Anniam [...> longi temporis labe corruptam munivit ac/restituit". Cf. G. Brusin, Epigrafi aquileiesi, pp. 283-286, 289, nrr. 3-4 e "L'Année épigraphique", 1953, nr. 31; 1979, nrr. 256-257; da ultima P. Basso, I miliari, p. 196.

49. Cassiodorus, Variarum libri, in M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, a cura di Theodor Mommsen, 1894, XII, 24. Cf. Luciano Bosio - Guido Rosada, Le presenze insediative nell'arco dell'alto Adriatico dall'epoca romana alla nascita di Venezia, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, pp. 532 s. (pp. 509-567); Giovanni Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina in età romana, in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29, 2), Udine 1987, pp. 347 s. (pp. 305-354); Id., Aspetti archeologici della navigazione interna nella Cisalpina, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 175-196 e bibl. ivi.

50. Cassiodorus, Variae, XII, 22: "[...> Habet [...> baias suas ubi undosum mare terrenas concavitates ingrediens in faciem decoram stagni aequalitate deponitur [...> Additur [...> ordo pulcherrimus insularum qui amabili utilitate dispositus et a periculis vindicat naves et ditat magna ubertate cultores [...>".

51. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 14.

52. Anonymus Ravennas, V, 25.

53. Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Venezia 1957, pp. 343-345, 363-368 (pp. 181-401).

54. Constantinus Porphyrogenitus, De administrando imperio, a cura di Gyula Moravcsik - Romilly J. H. Jenkins, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae, I, Washington 19672, 28.

55. Cf. Strabo, V, 1, 5, 212, che indica più precisamente l'esistenza di "città che sono come isole".

56. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, V, 17: "Hic Lupus in Grados insulam [...> per stratam quae antiquitus per mare facta fuerat introivit [...>".

57. Cf. Luciano Bosio, Grado e la sua laguna in età romana, in AA.VV., Grado, Udine 1980, pp. 12-20 e anche Fernando Rebecchi, Sull'origine dell'insediamento in Grado e sul suo porto tardo-antico, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 1980, pp. 41-56.

58. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Secoli V-IX, a cura di Roberto Cessi, Padova 1940, nr. 53, pp. 95 s.

59. Constantinus Porphyrogenitus, 27-28.

60. Paolo Baggio, Il telerilevamento come mezzo per la lettura e l'interpretazione del terreno antico, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 120-129, fig. 88; Id., Interazione tra uomo e territorio antico: l'esempio di Iulia Concordia, Veneto Orientale, in AA.VV., Mappa archeologica. Gli insediamenti di epoca romana nell'agro concordiese, Torre di Mosto (Venezia) 1985, pp. 142-149, tav. 3.

61. Cf. in particolare Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983.

62. Livius, X, 2, 5-6.

63. Catullus, Carmina, IV, 6-7. Cf. sulla questione Nereo Alfieri, Insediamenti litoranei tra il Po e il Tronto in età romana, "Picus", 1, 1981, pp. 26-39 (pp. 7-39), il quale, ricordando in particolare un giudizio analogo di Strabone (la costa italica sull'Adriatico era "᾿αλίμενοϚ"/importuosa, mentre al contrario era "ἐυλίμενοϚ" quella illirica: Strabo, VII, 5, 10, 317), spiega tali valutazioni, apparentemente negative, in relazione a quei porti che potevano invece essere accessibili, senza limitazioni di sorta, anche alle grandi navi onerarie. Cf. anche R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 124 ss. e L. Braccesi, Cleonimo, pp. 25 ss.

64. Lorenzo Braccesi, La leggenda di Antenore da Troia a Padova, Padova 1984, pp. 11-163.

65. Cf. le sintesi in Maurizia De Min, La necropoli protovillanoviana di Frattesina di Fratta Polesine (Ro). Notizie preliminari, "Padusa", 18, 1-4, 1982, pp. 3-27; Ead., Frattesina di Fratta Polesine (Ro). L'abitato e la necropoli protovillanoviani, in AA.VV., Il Veneto nell'antichità. Preistoria e protostoria, II, Verona 1984, pp. 651-660; Ead., Frattesina di Fratta Polesine. Scavo della necropoli protovillanoviana. Campagna 1984, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 1, 1985, pp. 28-30 (si vedano pure i volumi miscellanei su Preistoria e protostoria nel Polesine, "Padusa", 20, 1984 e su L'antico Polesine, Padova 1986). Un aggiornamento è in Anna Maria Bietti Sestieri, La campagna di scavo 1989 nell'abitato protostorico di Frattesina di Fratta Polesine, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 6, 1990, pp. 64-66.

66. Catullus, XXXIX, 13; Cicero, Epistulae ad familiares, II, 17, 7; VIII, 1, 2; XII, 5, 2.

67. Polybius, II, 14, 7: "[...> πεδία [...> ᾿αϱετῇ ϰαὶ μεγέθει διαφέϱοντα τῶν ϰατὰ τήν Εὐϱώπην, ὅτα πέπτωϰεν ὑπὸ τήν ἡμετέϱαν ἱστοϱίαν […>".

68. Ibid., II, 14, 8 e 12; 15, 3 e 8; 16, 1, 4 e 7; 17, 1-2.

69. Ibid., II, 31, 8; 35, 4; III, 39, 10; 56, 3.

70. Ibid., III, 34, 2.

71. Ibid., II, 14, 7-12.

72. Pierluigi Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica sull'Italia settentrionale nella Roma del II sec. a.C., "Athenaeum", n. ser., 54, 1976, p. 40 (pp. 28-50). Ancora sui caratteri morfologici citati da Polibio cf. Strabo, V, 1, 3-4, 211-212.

73. Tacitus, Historiae, II, 17, 1, (cf. anche I, 70, 4: "latissima Italiae pars" e III, 8, 2: "[...> patentes campi […>"). Ancor prima Virgilio parla di "viridis campus" (Georgicon, III, 13).

74. Polybius, II, 15, 1 e anche III, 34, 2; 44, 8, 48, II. In realtà l'abbondanza della produzione agricola cisalpina diventa quasi un "topos": cf. Plinius Minor, Epistulae, IV, 6, 1, ("In regione Transpadana summa abundantia[...> ").

75. Polybius, II, 15, 1-6; 34, 10 e III, 69, 2. Su temi analoghi cf. anche Strabo, V, 1, 4, 212 e 12, 218.

76. P. Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica, pp. 48 ss.

77. Polybius, II, 14, 2-3; III, 34, 2-5; 44, 8; 48, 11.

78. Livius, V, 33, 2-3. Circa le viti cf. Catullus, LXII, 49-58. È interessante osservare che simili argomentazioni propone anche Floro, quando ricorda come i Cimbri fossero stati impressionati nella "Venetia" dalla dolcezza del clima e dalla particolare qualità del vino, della carne cotta e del pane (cf: Florus, Epitomae libri II, I, 38, 11-13).

79. Santo Mazzarino, Il tema della terra Italia da Polibio a Dionisio e ai gromatici, in Id., Il pensiero storico classico, II, 1, Bari 1966, pp. 216 ss. (pp. 2I2-232); inoltre P. Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica, pp. 48 ss. Su produzione e traffici legati alla navigazione interna della Cisalpina cf. G. Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina, pp. 314-321; in generale da ultimo Ezio Buchi, Assetto agrario, risorse e attività economiche, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, I, Verona 1987, pp. 105-184.

80. Guido Rosada, Funzione e funzionalità della "Venetia" romana: terra, mare, fiumi come risorse per un'egenomia espansionistica, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 22 s. (pp. 22-37).

81. Raymond Chevallier, La romanisation de la Celtique du Pô. Essai d'histoire provinciale, Roma 1983, con ricca bibliografia riferita a prima degli ultimi anni Settanta. Cf. anche Id., Geografia, archeologia, a cui in particolare si rimanda per un confronto generale con i temi considerati nella prima parte di questo capitolo.

82. Strabo, V, 1, 5, 2I2.

83. L. Bosio, Il territorio, pp. 74 ss.

84. Luciano Bosio, Capire la terra: la centuriazione romana nel Veneto, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 15-21.

85. Gérard Chouquer - Monique Clavel Lévèque - Françoise Favory, Catasti romani e sistemazione dei paesaggi rurali antichi, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1984, pp. 39-49.

86. Vergilius, Georgicon, II, 207-211: "[...> iratus silvam devexit arator/et nemora evertit multos ignava per annos,/antiquasque domos avium cum stirpibus imis/eruit; illae altum nidis petiere relictis;/at rudis enituit impulso vomere campus".

87. Catullus, XVII, 4, 9-11, 25. Cf. Antonio Corso, Ambiente e monumenti della Cisalpina in Catullo, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 583 s. (coll. 577-592). Sulle bonifiche, oltre a G. Traina, Paludi e bonifiche, cf. R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 282 s. e ancora Giusto Traina, Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990, passim.

88. Plinius, Naturalis Historia, XVII, 20-21; XVIII, 127-128, 205; XIX, 9 e 16-17; cf. anche Plinius Minor, Epistulae, IV, 6. Per un quadro generale F. Buchi, Assetto agrario, pp. 112 ss.; sul tema della fecondità e produzione cf. anche R. Chevallier, Geografia, archeologia, p. 50.

89. Catullus, XI, 9.

90. Mario Bagnara, Le Alpi orientali in epoca classica. Problemi di orografia storica, Firenze 1969 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova, 47). Cf. insieme Ludwig Pauli, Le Alpi: archeologia e cultura del territorio. Dall'Antichità al Medioevo, Bologna 1983 (1980); Alberto Grilli, Geografia e storia: le Alpi orientali in Strabone, "Numismatica e antichità classiche", 14, 1985, pp. 171-182 R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 67 ss. Molto utile è infine il volume miscellaneo di Denis Van Berchem, Les routes et l'histoire, Genève 1982, in particolare per i contributi Nyon et son "praefectus arcendis latrociniis", pp. 47-53; Du portage au péage. Le rôle des cols transalpins dans l'histoire du Valais celtique (1956), pp. 67-78; Conquête et organisation par Rome des districts alpins (1962), pp. 79-85; Les Alpes sous la domination romaine (1980), pp. 185-217.

91. Sidonius Apollinaris, Carmina, V, 373-374: "[...> conscenderat Alpes/Raetorumque iugo per longa silentia ductus [...>".

92. Horatius, Carmina, IV, 14, 12.

93. Ibid., IV, 14, 10. Per le popolazioni alpine sottomesse da Augusto cf. Plinius, Naturalis Historia, III, 136-137.

94. Florus, IV, 12, 4 (II, 22, 4): "Noricis animos Alpes dabant, quasi in rupes et nives bellum non posset ascendere".

95. Ettore Pais, Corporis Inscriptionum Latinarum Supplementa Italica, Roma 1884, 58= I.L.S., 2646=I..I., X, 4, 339: "[…> XIII Gemin[ae> [inter>/fecto a latro[ni>/bus in Alpes Iul[ias>/loco quod appella/tur scelerata [...>". Cf. R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 82 ss. Sul tema del brigantaggio cf. anche D. Van Berchem, Nyon et son "praefectus arcendis latrociniis".

96. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 87-90; L. Pauli, Le Alpi, pp. 40-50, 214-226, 263-279; G. Rosada, Funzione e funzionalità della "Venetia", p. 23, n. 3. Per tematiche più specifiche, oltre ai rimandi bibliografici del Pauli, si tengano in considerazione i volumi miscellanei Atti del Convegno Internazionale sulla comunità alpina nell'antichità (1974), "Centro studi e documentazioni sull'Italia romana. Atti", 7, 1975-1976; AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976.

97. Cf. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 90 ss.; L. Pauli, Le Alpi, pp. 50 ss., 226 ss. e v. qui sopra alla n. 96.

98. Strabo, IV, 6, 12, 209.

99. Cf. Itinerarium Antonini, 274-275; Tabula Peutingeriana, segm. III, 1-3. Al Brennero fanno ancora cenno in epoca tardoantica/altomedioevale sia Venanzio Fortunato (Opera poetica, in M.G.H., Auctores antiquissimi, IV, pars prior, a cura di Friederich Leo, 1881, Carminum epistularum exspositionum libri undecim, Praefatio, 4; Vita S. Martini, IV, 644-647), sia Paolo Diacono (Historia Langobardorum, II, 13). Sulla strada per la valle dell'Isarco cf. in particolare Monica Olivi, La strada romana da Bolzano a Ponte Gardena, "Archeologia Veneta", 7, 1984, pp. 245-260; in generale su questa e sulla strada per la val Pusteria Luciano Bosio, Itinerari e strade della "Venetia" romana, Padova 1970, pp. 67-79, 163-170.

100. Cf. C.I.L., V, 8003 = Inscriptiones Bavariae Romanae, a cura di Friederich Vollmer, München 1915, 465 e L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 129-143; P. Basso, I miliari, pp. 101 ss.

101. Claudianus, VIII, 442: "[...> aspera nubiferas qua Raetia porrigit Alpes [...>".

102. La "Tabula Peutingeriana" (Tabula Peutingeriana, segm. III, 5) sembra registrare i passaggi di Obertauern con l'indicazione "in Alpe", che potrebbe anche definire l'importanza "orografica" dell'itinerario segnalato. Cf. Luciano Bosio, La 'Tabula Peutingeriana'. Una descrizione pittorica del mondo antico, Rimini 1983, pp. 48, 123.

103. Con ben tre iscrizioni incise nella roccia e menzionanti la via che lì passava e i lavori di manutenzione e di ripristino della stessa. Cf. C.I.L., V, 1862= I.L.S., 5885; C.I.L., V, 1863= I.L.S., 5886; C.I.L., V, 1864 e M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 107 ss.; L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 163-170.

104. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 113 s.; L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 147-160; Marisa Rigoni, Camporosso in Val Canale: probabile identificazione dell'antica stazione romana sul tracciato Aquileia-Virunum, "Aquileia Nostra", 43, 1972, coll. 21-40; Ead., Camporosso: una stazione romana tra la "Venetia" e il "Noricum", "Aquileia Nostra", 48, 1977, coll. 193-208.

105. Cf. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 115 s.; L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 181-184.

106. Ibid., pp. 187-198; Id., Strade ed opere fortificate dalla romanità all'alto medioevo, in AA.VV., Castelli del Friuli, V, Udine 1981, p. 50 (pp. 43-59). L'"Itinerarium Burdigalense" (Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque et ab Heraclea per Aulonam et per Urbem Romam Mediolanumque usque, a cura di Otto Cuntz, in Itineraria Romana, I, Leipzig 1929, 560), come sottolinea il Bosio, dopo la "mutatio Castra" (probabilmente oggi Aidussina) e la segnalazione "inde surgunt Alpes/Iuliae", ricorda la stazione di "ad Pirum summas Alpes"; non molto distante doveva poi essere la "mansio" della "Tabula Peutingeriana" (Tabula Peutingeriana, segm. III, 5) "in Alpe Iulia", forse l'odierna Kalce. Sulle Alpi Giulie in generale cf. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 57-66 (sul passo della Selva del Pero pp. 116 ss.); Jaro Šašel, luliae Alpes, in AA.VV., Atti del Convegno Internazionale sulla comunità alpina nell'antichità (1974), "Atti del Centro studi e documentazione sull'Italia romana", 7, 1975-1976, pp. 601-618.

107. Cf. Luciano Bosio, La "Venetia" orientale nella descrizione della "Tabula Peutingeriana", "Aquileia Nostra", 44, 1973, coll. 65 s. (coll. 37-84); L. Bosio, Strade ed opere fortificate, p. 50.

108. Strabo, IV, 6, 10, 207 e VII, 5, 2, 314. Cf. M. Bagnara, Le Alpi orientali, pp. 67 ss.; Luciano Bosio, L'Istria nella descrizione della "Tabula Peutingeriana", Trieste 1974, pp. 40 s.

109. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 9. Sugli stretti passaggi delle Alpi Giulie cf. anche Ammianus Marcellinus, Rerum gestarum libri qui supersunt, XXI, 12, 21 (in generale Strabo, IV, 6, 6, 204).

110. Cf. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 7-8. Attualmente si conserva ancora il nome di Monte Re/Pleša (m 1262).

111. Per una esagerazione in tal senso cf. il panegirico di Mamertino dedicato a Massimiano, dove si apprende che l'imperatore superò le Alpi Giulie (ma pure le Cozie) senza alcuna difficoltà, quasi come camminando "su ampie spiagge da cui la marea si fosse ritirata" ("[...> relictas aestu arenas patentium litorum [...>"). Si tratta infatti con tutta evidenza di uno scoperto e iperbolico slancio elogiativo verso il potente. Mamertinus, Panegyricus Genethliacus Maximiano Augusto dictus, in XII Panegyrici latini, a cura di Emil Baeherens-Wilhelm Baeherens, Leipzig 1911, XI, 9, 3.

112. Cf. in proposito il viaggio "ideologico-religioso" di Venanzio Fortunato presso la tomba di s. Martino di Tours (Venantius Fortunatus, Praefatio, 4; Vita S. Martini, IV, 644 ss.) e insieme, sullo stesso viaggio, Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 13.

113. Cf., ancora sulle Alpi Giulie, il passo di Pacatus, Panegyricus Theodosio Augusto dictus, in XII Panegyrici Latini, a cura di Emil Baeherens - Wilhelm Baeherens, Leipzig 1911, II, 38, 2, e 40, 1.

114. La memoria storica ci potrebbe tuttavia riportare anche assai più indietro nel tempo, a rintracciare altre "trasgressioni", alcune di grande rilievo per successivi sviluppi: anzitutto quelle dei Galli del V-IV sec. a.C., della prima metà del II sec. a.C. - quando "Galli Transalpini transgressi in Venetiam" - e della fine dello stesso secolo - quando Marco Emilio Scauro trionfò "de Galleis Karneis" -, poi quella dei Cimbri di poco successiva e infine il violento attacco dei "Iapodes" verso la metà del I sec. a.C., che dovette già indurre a pensare a una prima opera o comunque a un sistema di difesa con la stabilizzazione di "castella". Cf. in particolare Fasti Triumphales, in I.I., XIII, 1, pp. 84 s., fr. XXXVI; Aulus Hirtius, in Caesar, De bello Gallico, VIII, 24, 3; Livius, XXXIX, 22, 6-7; Ammianus Marcellinus, XXIX, 6, 1 e F. Sartori, "Galli Transalpini"; Luciano Bosio, Veneto romano, in AA.VV., Storia della Cultura Veneta, I, 1, Dalle Origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 63-81; da ultimo M. Capozza, Scrittori antichi, pp. 3-58.

115. Cf. I.L.S., 8977.

116. Cf. L. Bosio, Strade ed opere fortificate, pp. 52 ss. e ivi bibliografia precedente.

117. Ammianus Marcellinus, XXIX, 6, 1: "[...> perruptis Alpibus Iuliis [...>"; XXXI, 11, 3: "[...> quo per fraudem a Magnentiacis militibus capto claustra patefacta sunt Alpium Iuliarum […>".

118. Pacatus, II, 30, 2: "[...> ut [...> superatis Alpibus Cottiis Iulia quoque claustra laxaret […>".

119. Notitia Dignitatum, a cura di Otto Seeck, Frank furt am Main 19622, Occ. XXIV, 5: "Sub dispositione viri spectabilis comitis Italiae: tractus Italiae circa Alpes". Cf. L. Bosio, Strade e opere fortificate, p. 52 e n. 99.

120. Cassiodorus, Variae, II, 19: "[...> universis Gothis et Romanis vel his qui portibus vel clusuris praesunt […>". Cf. Luciano Bosio, Le fortificazioni tardoantiche del territorio di Aquileia, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'antichità (A.A., 15), Udine 1979, pp. 515-536; Massimiliano Pavan, La "Venetia et Histria" fra Occidente e Oriente, "Clio", 17, 4, 1981, pp. 452-468 e bibl. ivi.

121. Prosperus Tiro, Epitoma chronicon, in M.G.H., Auctores antiquissimi, IX, Chronica Minora, saec. IV. V. VI. VII, I, a cura di Theodor Mommsen, 1882, pp. 1364 ss.

122. Cf. Santo Mazzarino, L'area veneta nel "Basso Impero", in AA.VV., Storia delle civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 42 (pp. 41-50). Ma il concetto di "fauces Alpium" ("quelle che Catulo non riuscì a difendere nel 102/101 a.C."), intese come "mura di Roma", risale, secondo lo stesso Mazzarino, a tempi molto più antichi, almeno a partire "dall'età di Livio" (cf. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico, p. 11). Cf. Cato, Origines, in Historicorum Romanorum Reliquiae, a cura di Hermann Peter, I, Leipzig 19142 (rist. Stuttgart 1967), fr. 85; Polybius, III, 54, 2-3; Livius, XXI, 35, 8-9.

123. Cf. per un quadro riassuntivo R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 63 ss.

124. Servius, Qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, In Georgica, I, 262: "[...> pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans [...>".

125. Strabo, V, 1, 8, 214 e anche 5, 212. Per un altro corso d'acqua, il "Meduacus"/"Brinta"/Brenta, di cui era possibile risalire la corrente fino a Padova, cf. lo stesso Strabo, V, 1, 7, 213, oltre che Livius, X, 2; per il Po cf. Polybius, II, 16.

126. Cf. Procopius, De bello Gothico, I, 1, 16-23 e IV, 26, 23. Cf. inoltre i "flumina navigera" in Cassiodorus, Variae, V, 17.

127. Catullus, XXXI, 2-3. Cf. A. Corso, Ambiente e monumenti, col. 580; G. Uggeri, La navigazione interna, pp. 314 ss.

128. Catullus, LXVII, 33.

129. Ibid., loc. cit.

130. Il fiume è inserito da Plinio (Naturalis Historia, II, 224 e IX, 75) tra "le acque dolci che si sovrappongono tra loro [...>, nel Benaco il Mincio, nel Sebino l'Oglio [...>" o tra quelle che sono "attraversate" da altre. Lungo il suo corso, segnatamente laddove esso ha origine, diventando emissario del Garda, veniva effettuata in autunno la pesca delle anguille, secondo una particolare procedura descritta sempre da Plinio (ibid., IX, 75). Cf. anche Isidorus, Etymologiarum sive originum libri XX, a cura di Wallace Martin Lindsay, Oxford 1911, XIII, 19, 7 e Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, II, 14.

131. Vergilius, Georgicon, III, 14-15: "[...> tardis ingens ubi flexibus errat/Mincius et tenera praetexit harundine ripas […>".

132. Claudianus, XXVIII, 196-197.

133. Ibid., XII, 12-13.

134. Ibid., XXV (Carm. min.), 105-108.

135. Sidonius Apollinaris, Epistulae, a cura di Paul Mohr, Leipzig 1894, I, 5, 4. Sul Mincio cf. anche R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 184, 191.

136. Cf. Panegyricus Constantino Augusto dictus, in XII Panegyrici Latini, a cura di Emil Baeherens - Wilhelm Baeherens, Leipzig 1911, XII, 8, 2.

137. Claudianus, XXVIII, 196.

138. Ibid., XII, 11.

139. Sidonius Apollinaris, Epistulae, I, 5, 4.

140. Plinius, Naturalis Historia, III, 121.

141. Vergilius, Aeneidos, IX, 680.

142. Venantius Fortunatus, Praefatio, 4; Vita S. Martini, IV, 678.

143. Cf. Cassiodorus, Chronica, in M.G.H., Auctores antiquissimi, XI, Chronica minora, saec. IV. V. VI. VII, II, a cura di Theodor Mommsen, 1894, p. 159 (1320, a. 489); Id., Variae, I, 18 e 29; Anonymus Valesianus, Pars posterior, in M.G.H., Auctores antiquissimi, IX, Chronica minora, saec. IV. V. VI. VII, I, a cura di Theodor Mommsen, 1892, p. 316 (11, 50); Fasti Vindobonenses priores, ibid., 316 (639, a. 490); Auctor Havniensis, ibid., p. 317 (a. 490); Iordanes, Getica, LVII, 292-293; Paulus Diaconus, Historia Romana, in M.G.H., Auctores antiquissimi, II, a cura di Hans Droysen, 1879, XV, 15, p. 214. Si vedano ancora la Tabula Peutingeriana, segm. III, 5 e un'aretta votiva con iscrizione (cf. Giovanni Brusin, Aquileia. Iscrizioni scoperte casualmente negli ultimi anni, "Notizie degli Scavi di Antichità", ser. VI, I, 1925, pp. 20 ss. - pp. 20-28); infine Luciano Bosio, Il ponte romano alla Mainizza, in AA.VV., Gardis'cia, Udine 1977, pp. 3-17 (estr.).

144. Herodianus, VIII, 2; 4, 2. Cf. L. Bosio, Il ponte romano, pp. 5 s.; Luisa Bertacchi, Il Basso Isonzo in età romana. Un ponte e un acquedotto, "Aquileia Nostra", 49, 1978, col. 44 (coll. 29-76).

145. Strabo, V, 1, 11, 217. Cf. G. Uggeri, La navigazione interna, p. 337, n. 142. Sulle bonifiche in genere cf. G. Traina, Paludi e bonifiche.

146. Livius, XXIV, 10.

147. Vergilius, Aeneidos, XI, 457-458. Cf. Servius, Ad Aeneidem, XI, 457-458.

148. Martialis, III, 67.

149. Silius Italicus, Punica, VIII, 601.

150. Plinius, Naturalis Historia, III, 117.

151. Livius, X, 2. Cf. L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo.

152. "[...> leviora navigia [...>"; "[...> fluviatiles naves, ad superanda vada stagnorum apte, planis alveis, fabricatas […>".

153. Servius, In Georgica, I, 262: "[...> quia pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans, lintribus exercet omne commercium, ut Ravenna, Altinum, ubi venatio et aucupia et agrorum cultura lintribus exercetur […>". Per i vari tipi di imbarcazioni cf. Luisa Bertacchi, L'imbarcazione romana di Monfalcone, in AA.VV., Studi Monfalconesi (A.A., 10), Udine 1976, pp. 39-45; Marco Bonino, Barche e navi antiche tra Aquileia e Trieste, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17, I), Udine 1980, pp. 57 ss. (pp. 57-83); G. Uggeri, Aspetti archeologici della navigazione, pp. 187 ss.; Fortuna maris. La nave romana di Comacchio, a cura di Fede Berti, Bologna 1990 e bibl. ivi.

154. C.I.L., V, 8002=I.L.S., 208; G.I.L., V, 8003 = Inscriptiones Bavariae Romanae, a cura di Friederich Vollmer, München 1915, 465; "[...> ab Altino (a flumine Pado) usque ad(at) flumen Danuvium [...> Alpibus patefactis [...>". Cf. P. Basso, I miliari, pp. 89 ss., 101 ss.

155. Plinius, Naturalis Historia, III, 125-127. Cf. G. Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia", coll. 173 ss.; Id., "Portus Aedro" - Vallonga (Padova), "Archeologia Veneta", 3, 1980, pp. 69-96; Id., Funzione e funzionalità della "Venetia" romana, pp. 22 ss.; G. Uggeri, La navigazione interna, pp. 305 ss. Per la fluitazione del legname lungo il corso del Piave cf. Carlo Anti, Altino e il commercio del legname con il Cadore, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Convegno per il retroterra veneziano, Venezia 1956, pp. 19-25; per il problema del Sile/Piave cf. Luciano Bosio, Il fiume Sile in età romana: problemi e prospettive di ricerca, "Quaderni del Sile e di altri fiumi", 1, maggio 1978, pp. 30-33; Franco Pianetti, Altino e il Sile, ibid., 2-3, febbraio 1979, pp. 30-33.

156. Hans Philipp, s.v. Timavus, in R.E., VI A, Stuttgart 1936, coll. 1242-1246; Gerhard Radke, s.v. Timavus, in Der kleine Pauly, V, München 1975, col. 840; L. Bosio, La "Venetia" orientale, coll. 47 s., 51 ss.; Id., L'Istria, pp. 22 ss.

157. Vergilius, Aeneidos, I, 244-246.

158. Posidonius, in Strabo, V, 1, 8, 214-215. Cf. Plinius, Naturalis Historia, II, 225-226 e Mela, De chorographia libri tres, II, 4, 61.

159. Livius, XLI, 1, 2. Cf. la "mansio" di "Fonte Timavi" della Tabula Peutingeriana, segm. III, 5 (e v. qui sopra, la n. 156).

160. Plinius, Naturalis Historia, II, 229; III, 151; cf. Antonio Marchiori, Le terme romane di Monfalcone, localizzazione del centro termale, "Aquileia Nostra", 53, 1982, coll. 101-128; Id., Le acque salutifere nella "Venetia": l'utilizzazione razionale di una risorsa, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 80 s. (pp. 77-84).

161. Martialis, IV, 25, 5, 5-8. Sulle acque salutifere in genere e sul Timavo cf. anche R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 133, 172 ss.

162. Cassiodorus, Variae, V, 17. Cf. ancora sul tema della navigabilità Procopius, De bello Gothico, I, 1, 18 e IV, 26, 23 ("ποταμοί [...> ναυσίποϱοι") e, assai più indietro nel tempo, già Polybius, 11, 16, 6-15; Strabo, V, 1, 6-8, 213-214; Livius, X, 2, 5-15. In merito alla praticabilità dell'Oglio si può ricordare la narrazione tacitiana sugli ultimi giorni di Otone. Questi, nell'aprile del 69 d.C., prima di uccidersi, dispose infatti che i suoi, stanziati a "Betriacum" (oggi riconosciuto come S. Andrea di Calvatone: cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 101 ss.) presso le rive del fiume, avessero imbarcazioni e mezzi per andarsene (Tacitus, Historiae, II, 48). Cf. anche R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 159 ss.

163. Si vedano in merito soprattutto Plinius, Naturalis Historia, III, 119-121, 126-129; Itinerarium Antonini, 126; Herodianus, VIII, 6-7; Edictum Diocletiani et Collegarum de pretiis rerum venalium, a cura di Marta Giacchero, Genova 1974, pp. 310-313 (35, 107); Tabula Peutingeriana, segm. III, 4-5; Cassiodorus, Variae, XII, 24; Procopius, De bello Gothico, IV, 26, 18-25.

164. C.I.L., V, 2402.

165. Tornano alla mente in proposito le parole di Plinio (Naturalis Historia, XVI, 178) "namque iis [cioè con i giunchi di palude> velificant non in Pado tantum nautici [...>" ("non soltanto lungo il Po fanno vela i naviganti"). Sul "sistema" endolagunare e sulla viabilità connessa, oltre al contributo del Bosio in questo volume (con relativa bibl.), cf. Luciano Bosio, I problemi portuali della frangia lagunare veneta nella antichità, in AA.VV., Venetia. Studi miscellanei di archeologia delle Venezie, I, Padova 1967, pp. 13-96; Giovanni Uggeri, La romanizzazione dell'antico delta padano, "Atti e Memorie della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria", ser. III, 20, Ferrara 1975, pp. 21 ss., 155 ss. (181 ss. per le imbarcazioni); Id., Vie di terra e vie d'acqua tra Aquileia e Ravenna in età romana, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A., 13), Udine 1978, pp. 45-79, G. Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia", coll. 173-256; Giovanni Uggeri, Aspetti della viabilità romana nel delta padano, "Padusa", 17, 1981, pp. 40-58; G. Rosada, Funzione e funzionalità della "Venetia" romana, pp. 26 ss.; G. Uggeri, La navigazione interna, pp. 305-354; Id., Aspetti archeologici della navigazione, pp. 175 ss. e Guido Rosada, La direttrice endolagunare e per acque interne nella "decima regio maritima": tra risorsa naturale e organizzazione antropica, in AA.VV., La "Venetia" nell'area padano-danubiana. Le vie di comunicazione (Atti del Convegno internazionale, Venezia 6-10 aprile 1988), Padova 1990, pp. 153-182. Su diversa posizione W. Dorigo, Venezia, pp. 127 ss., 351 ss.

166. Iordanes, Getica, XXIX, I 50: "[...> Padus quem Italiae soli fluviorum regem dicunt [...>". Cf. in precedenza Vergilius, Georgicon, I, 482.

167. Cf. Polybius, II, 16, 6-15; Strabo, V, 1, 5, 212; Mela, De chorographia libri tres, II, 4, 62-63; Plinius, Naturalis Historia, III, 119-121. Inoltre n. 165 e Luciano Bosio, L'antico delta del Po, in AA.VV., Il delta del Po, Maniago (Pordenone) 1981, pp. 3-16; Id., s.v. Po, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 151-152; R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 134 ss., 160 s., e da ultimo Mauro Calzolari, Il Po tra geografia e storia, "Civiltà padana", 1, 1989, pp. 13-43 e bibl. ivi.

168. Polybius, II, 16, 7-12.

169. Plinius, Naturalis Historia, III, 123: "[...> marina cuncta fructuoso alveo inportat […>".

170. s. Ambrosius, Hexaemeri libri sex, a cura di Robert Otto Gilbert, Leipzig 1840, II, 3, 12 "[...> Padus maritimorum commeatuum Italicis subsidiis fidus invector [...>". Cf. ancora Polybius, III, 75, 2-3, Livius, XXI, 57, 5, Strabo, IV, 6, 5, 203-204; Cassiodorus, Variae, IV, 45 e V, 17, 5

171. Cf. G. Rosada, Funzione e funzionalità della "Venetia" romana, nn. 56-66.

172. Cf. L. Bosio, in questo volume, che riprende, con la consueta competenza, l'argomento.

173. Plinius, Naturalis Historia, III, 127. Si potrebbe aggiungere anche Cornelio Gallo, amico carissimo di Virgilio, forse originario di "Forum Iulii"/Cividale, e ancora, come patavino, quel tal Volusio degli Annali, reso famoso dalle iperboli catulliane (Catullus, XXXVI, XCV; cf. Antonio Corso, Mosaici antichi di Padova: considerazioni sull'aspetto formale e sul problema urbanistico, "Archeologia Veneta", 5, 1982, p. 117, n. 91 - pp. 83-119 - e bibl. ivi).

174. Per i caratteri della produzione latina in ambito cisalpino e in particolare nella "decima regio" cf. Alberto Grilli, Incontri e scontri nel mondo letterario della X Regione, in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, pp. 105-118; Id., Convergenza e divergenza nella letteratura della "Venetia", in AA.VV., La "Venetia" dall'Antichità all'Alto Medioevo, Roma 1988, pp. 79-88; Id., Letteratura e cultura latine in Italia settentrionale, in AA.VV., La città nell'Italia settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle "regiones" X e XI (Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 13-15 marzo 1987), Trieste-Roma 1990, pp. 211-224. Cf. anche su letteratura e cultura R. Chevallier, La romanisation, pp. 307 ss., 503 ss.

175. Cf. L. Braccesi, La leggenda di Antenore.

176. Cicero, Orator, 34.

177. Id., In M. Antonium orationes Philippicae XIV, III, 5, 13: "Nec vero de virtute, constantia, gravitate provinciae Galliae taceri potest. Est enim ille flos Italiae, illud firmamentum imperii populi Romani, illud ornamentum dignitatis".

178. Tacitus, Historiae, II, 17, 1: "[...> la regione più fiorente e splendida d'Italia […>".

179. Strabone - IV, 6, 12, 209 ne riporta le dimensioni, esagerando di molto la lunghezza, 500 stadi, e non calibrando adeguatamente la larghezza, 50 stadi (lo stadio corrisponde a circa m 185). Cf. anche Polybius, XXXIV, 10, 19. La praticabilità del lago e un sistema correlato di navigazione interna delle sue acque, organizzato in sedi proprie a Riva e a Peschiera, sono testi moniati da alcune iscrizioni di "collegia nautarum" o "naviculariorum" (cioè corporazioni di marinai). Cf. C.I.L., V, 4015-4017, 4990. Una raccolta di fonti sul "Benacus" è in Carlo Bovo, Il Benaco nelle fonti letterarie greche e latine, "Il Garda", 3, 1987, pp. 47-56. Cf. G. Uggeri, La navigazione interna, pp. 312 ss. (in part. pp. 327 s.); R. Chevallier, Geografia, archeologia, pp. 59, 132 s.; G. Uggeri, Aspetti archeologici della navigazione, p. 178.

180. Su questa "unità" cf. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico. Sui temi delle foto aeree come termini moderni per un codice sintetico del paesaggio cf. R. Chevallier, Geografia, archeologia, p. 195 (sull'archeologia del paesaggio, p. 223).

181. Livius, X, 2. Cf. L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo.

182. Polybius, II, 18, 3; 23, 2; 24, 7.

183. Ibid., II, 17, 6 e 9. Per i riferimenti al mondo paleoveneto si vedano i testi fondamentali Giulia Fogolari, La protostoria delle Venezie, in AA.VV., Civiltà dell'Italia antica, IV, Roma 1975, pp. 63-222; AA.VV., Il Veneto nell'età antica. Preistoria e protostoria, I-II, Verona 1984; G. Fogolari - A. L. Prosdocimi, I Veneti antichi.

184. In merito agli insediamenti paleoveneti e alla loro struttura cosiddetta "protourbana" cf. la n. precedente e inoltre AA.VV., Padova Preromana, Padova 1976 (segnatamente i contributi di Luciano Bosio, Problemi topografici di Padova preromana, pp. 3-9 e Giulia Fogolari, Padova preromana, pp. 11-24); AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981 (segnatamente i contributi di Luciano Bosio, Padova e il suo territorio in età preromana, pp. 3-23 e Anna Maria Chieco Bianchi, La documentazione archeologica, pp. 49-73); Bianca Maria Scarfì - Michele Tombolani, Altino preromana e romana, Musile di Piave (Venezia) 1985.

185. Homerus, Iliados, II, 851-852; Livius, I, 1.

186. Herodotus, V, 9; Theopompus Chius, in F. Gr. Hist., II, 115, fr. 274, pp. 594 s. (= Antigonus Carystius, Mirabilia, in Paradoxographorum Graecorum Reliquiae, a cura di Alessandro Giannini, Milano 1965, 173, pp. 106 s. = Aelianus, De natura animalium libri XVII, XVII, 16); Strabo, V, I, 4, 212; XII, 3, 8, 544 e 25, 553; Plinius, Naturalis Historia, XXXVII, 43; cf. anche Polybius, II, 17, 5-6; Anonymus (Scymnus Chius), Orbis descriptio, in Geographi Graeci Minores, I, 387-388, p. 212.

187. Herodotus, I, 196.

188. Plinius, Naturalis Historia, IV, 97; Tacitus, Germania, 46, 2; Ptolemaeus, III, 5, 1, 15, 19-20. Sui Veneti dell'Europa centro orientale cf. ora il recente lavoro di Jerzy Kolendo, I Veneti dell'Europa centrale e orientale. Sedi e realtà etnica, "Atti Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 143, 1984-85, pp. 415-435 e bibl. ivi.

189. Caesar, II, 34; III, 7-11, 16-18; VII, 75; Strabo, V, 1, 4, 212.

190. Mela, III, 2, 24.

191. Plinius, Naturalis Historia, III, 69.

192. Livius, I, 1: "[...> Euganeisque, qui inter mare Alpesque incolebant, pulsis Enetos Troianosque eas tenuisse terras [...>".

193. Cf. sui temi dell'urbanizzazione in generale R. Chevallier, La romanisation, pp. 81 ss.

194. Livius, V, 35, I; XXXII, 30, 6; Strabo, V, 1, 6, 213; Plinius, Naturalis Historia, III, 130; Ptolemaeus, III, 1, 31.

195. Catullus, LXVII, 34. Cf. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico, pp. 20 ss.

196. Catullus, LXVII, 33; Vergilius, Georgicon, IV, 278; Servius, In Georgica, IV, 278; Anonymus Ravennas, IV, 36.

197. Polybius, II, 32, 4 (discussa è però l'identificazione); Tabula Peutingeriana, segm. III, 5; Anonymus Ravennas, IV, 36.

198. AA.VV., Archeologia urbana in Lombardia, Modena 1984, pp. 26, 38 ss., 84 ss.

199. Catullus, LXVII, 32.

200. Colonia cosiddetta "fittizia": in realtà con questo titolo onorifico si intendeva ribadire una certa priorità storica di alcuni centri di più antica tradizione.

201. Sulle direttrici citate si veda L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 83-92, 95-98.

202. Considerando anche l'interposta aula cosiddetta "a pilastri", il cui muro di fondo a tre nicchioni sembra verosimilmente connesso con il santuario repubblicano, poi ristrutturata con i pilastri in epoca flavia per una sua utilizzazione funzionale a sostegno del soprastante porticato e come vano chiuso accessibile dal teatro.

203. Il "Capitolium", proprio per la sua funzione e il suo valore simbolici, doveva trovare posto e collocazione, secondo le raccomandazioni vitruviane (Vitruvius, I, 7, 1), "in excelsissimo loco", da dove si potesse vedere e controllare la maggior parte della cerchia delle mura urbiche.

204. Annapaola Zaccaria Ruggiu, Indagini sull'insediamento longobardo di Brescia, "Contributi dell'Istituto di Archeologia", 2, 1969, pp. 144-146 (pp. 100-150); cf. più in generale Gina Fasoli, Navigazione fluviale - Porti e navi sul Po, in AA.VV., La navigazione mediterranea nell'alto Medio Evo, II, Spoleto 1978 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto Medio Evo, XXV), pp. 565-607.

205. Su Brescia e la sua struttura urbana si vedano principalmente: Mario Mirabella Roberti, Archeologia e arte di Brescia romana, in AA.VV., Storia di Brescia, I, Brescia 1961, pp. 231-320; A. Zaccaria Ruggiu, Indagini sull'insediamento longobardo di Brescia, pp. 100-150; Hans Gabelmann, Das Kapitol in Brescia, "Jahrbuch des römischger-manischen Zentralmuseums", 18, 1971, pp. 124-145; Pierluigi Tozzi, I fattori topografici di Brescia romana e lo sviluppo urbanistico della città, in Id., Saggi di topografia storica, Firenze 1974, pp. 29-43; Atti del Convegno Internazionale per il XIX Centenario della dedicazione del "Capitolium" e per il 150° anniversario della sua scoperta (Brescia, 27-30 settembre 1973), I-II, Brescia 1975; Cesare Saletti, Le basiliche romane dell'Italia settentrionale, "Athenaeum", fasc. spec. (Convegno in memoria di Plinio Fraccaro, organizzato dall'Istituto di Storia antica dell'Università di Pavia, Pavia 8-10.IX.1975), Pavia 1976, pp. 137 ss. (pp. 122-144; Alberto Albertini, Romanità di Brescia antica, Brescia 1978; AA.VV., Brescia romana, I-II, Brescia 1979; Clara Stella-Luisa Bezzi, Itinerari di Brescia romana. Guida e Carta archeologica di Brixia, Brescia 1979; AA.VV., Archeologia urbana, pp. 38-41, 81-98, 157-173 e bibl. ivi; Maria Pia Rossignani, Gli edifici pubblici nell'Italia settentrionale fra l'89 a.C. e l'età augustea, in AA.VV., La città nell'Italia settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle "regiones" X e XI (Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 13-15 marzo 1987), Trieste - Roma 1990, pp. 305-339; Antonio Frova, Il Capitolium di Brescia, ibid., pp. 341-363 (in questi due ultimi contributi cf. la bibliografia e talune interessanti ipotesi ricostruttive).

206. Sulla via "Aurelia" cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 123-126 e Andrea Ranzato, Un contributo allo studio della via "Patavium-Acelum" (via "Aurelia"), "Quaderni di Archeologia del Veneto", 4, 1988, pp. 304-312 e bibl. ivi. Sul tema della transumanza e dell'allevamento, in particolare per la area in questione, si veda da ultimo Antonio Marchiori, Pianura montagna e transumanza: il caso patavino in età romana, in AA.VV., La "Venetia" nell'area padano-danubiana. Le vie di comunicazione (Atti del Convegno internazionale, Venezia, 6-10 aprile 1988), Padova 1990, pp. 73-85 e bibl. ivi. Sulla "Claudia Augusta" cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 129 ss. e ora in questo volume (cf. anche Gioia Conta, Romanizzazione e viabilità nella regione altoatesina, in AA.VV., La "Venetia" nell'area padano-danubiana. Le vie di comunicazione (Atti del Convegno internazionale, Venezia, 6-10 aprile 1988), Padova 1990, pp. 223-251 e bibl. ivi). La "Claudia", della metà del I sec. d.C., sta a significare in sostanza il proseguimento della politica degli assi di penetrazione verticale su scala assai piú ampia, sebbene con finalità analoghe, rispetto ai tempi precedenti. Al vecchio capolinea con funzione direzionale costituito dalla "mediterranea" Padova, si sostituisce Altino, al centro di una rotta di navigazione endolagunare aperta tra mare e terra; alle aree di riferimento della media valle del Piave si aggiungono e in parte si sostituiscono nuove realtà insediative come Trento e nuove realtà amministrative come le provincie transalpine nord orientali.

207. Da non considerare in proposito (come hanno del resto attestato anche nostri sondaggi recenti: cf. Indagini archeologiche ad Asolo. Scavi nella Rocca medioevale e nel Teatro romano, a cura di Guido Rosada, Padova 1989, pp. 72-99; Asolo. Teatro romano: indagine 1989, a cura di Guido Rosada, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 6, 1990, pp. 92-116), perché del tutto errati i dati riportati e le conseguenti valutazioni, Paola Furlanetto, Asolo, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 430-432 (pp. 427-439).

208. Cf. Giovan Battista Pellegrini, Introduzione alla toponomastica veneta (1979), in Id., Ricerche di toponomastica veneta, Padova 1987, p. 35 (pp. 27-43); Aldo Luigi Prosdocimi, La lingua, in G. Fogolari - A. L. Prosdocimi, I Veneti antichi, p. 402 (pp. 221-420). Su Asolo in generale cf. Gaspare Furlani, Notizie di Asolo, ms. dell'anno 1718, Archivio del Museo Civico di Asolo (Treviso); Pacifico Scomazzetto, "Notizie degli scavi di Antichità", 1876, pp. 81, 178-179; 1877, pp. 235-240 (insieme a Matteo Sernagiotto); 1881, pp. 205-213; 1882, pp. 268-269; Progetto Rocca di Asolo, a cura di Guido Rosada, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 1, 1985, pp. 113-138, 2, 1986, pp. 38-84; 3, 1987, pp. 19-76; 4, 1988, pp. 40-58; Indagini archeologiche ad Asolo, pp. 5-72; Guido Rosada - Anna Nicoletta Rigoni, La Rocca asolana nel Pedemonte della Grapa (Treviso), in AA.VV., Lo scavo archeologico di Montarrenti e i problemi dell'incastellamento medievale. Esperienze a confronto (Atti del colloquio internazionale, Siena, 8-9 dicembre 1988), "Archeologia Medievale", 16, 1989, pp. 205-226; "Quaderni di Archeologia del Veneto", 6, 1990, pp. 66-92. Cf. anche AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, pp. 427-439 (per la bibliografia ivi) e anche Italo Riera, L'acquedotto romano di Asolo, tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1987-88.

209. Plinius, Naturalis Historia, III, 131: "[...> ex [...> Carnis Segesta […>".

210. Cf. Itinerarium Antonini, 279-280. La direttrice, in quel punto, non era distante da quella per "Virunum" (Zollfeld presso Klagenfurt), anch'essa ricordata dall'Itinerarium Antonini, 276 (e pure dalla Tabula Peutingeriana, segm. III, 4-5, IV, 1-2). Su queste strade cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 163-170 e in questo volume (si veda anche Alberto Grilli, Sulle strade augustee nel Friuli, "Centro studi e documentazione sull'Italia romana. Atti", 7, 1975-76, pp. 315-351).

211. Su Zuglio cf. Attilio Degrassi, Il confine nord-orientale dell'Italia romana, Bernae 1954, pp. 37 s. Placida Maria Moro, "Iulium Carnicum" (Zuglio), Roma 1956; Luisa Bertacchi, Il foro romano di Zuglio, "Aquileia Nostra", 30, 1959, coll. 49-60; Mario Mirabella Roberti, "Iulium Carnicum" centro romano alpino, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino Orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 91-101; C. Saletti, Le basiliche romane, pp. 123 ss.; Luciano Bosio, Zuglio in epoca romana, in AA.VV., Darte e la Cjargne, Udine 1981, pp. 40-65; Antonio Marchiori, Alcune considerazioni sulla possibile presenza di un centro termale ad Arta in epoca romana, ibid., pp. 339-344. Cf. anche Alessandra Tomè, La basilica forense di "Iulium Carnicum", tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1989-90.

212. Una situazione urbana tutta "terragna" presumibilmente assimilabile a queste di Asolo e di Zuglio, pur con il corso di un fiume come il Piave poco distante (si tenga anche conto del passaggio nei pressi della via "Claudia Augusta"), doveva presentare il "municipium" di "Filtria" (Feltre), sebbene i dati archeologici finora conosciuti non permettano considerazioni particolari. Cf. Marisa Rigoni, Feltre, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 449-452.

213. Artemidorus, in Geographi Graeci Minores, I, p. 575.

214. Strabo, VII, 5, 2, 314.

215. Plinius, Naturalis Historia, III, 127.

216. Ptolemaeus, III, 1, 27.

217. Cf. per Oderzo e Trieste Giovan Battista Pellegrini - Aldo Luigi Prosdocimi, La lingua venetica, I, Padova 1967, pp. 432-433, A. L. Prosdocimi, La lingua, pp. 397-401 e anche Giovan Battista Pellegrini, Introduzione alla toponomastica veneta (1979), in Id., Ricerche di toponomastica veneta, p. 35 (pp. 27-43).

218. Per i porti dell'Istria v. il sempre valido Attilio Degrassi, I porti romani dell'Istria, in AA.VV., Anthemon, Firenze 1955, pp. 119-169; e L. Bosio, L'Istria; per i porti veneti G. Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia", coll. 173 ss.; in generale cf. Silvio Panciera, Porti e commerci nell'alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Istria (A.A., 2), Udine 1972, pp. 79-112. Per la viabilità terrestre cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 201 ss.

219. Vitruvius, 1, 7, 1. Cf. supra, n. 203.

220. Il teatro diventava così "quasi un perno di un sistema urbanistico quale poteva risultare dal largo" (Mansuelli). Per Trieste cf. Valnea Scrinari, Tergeste, Roma 1952; Guido Achille Mansuelli, Urbanistica e architettura della "Cisalpina" romana fino al III sec. e.n., Bruxelles 1971, passim e p. 217; C. Saletti, Le basiliche romane, pp. 142 ss.; Mario Mirabella Roberti, Urbanistica romana di Trieste e dell'Istria, in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, pp. 185 ss. (pp. 185-200); Franca Maselli Scotti, Tergeste, in AA.VV., Aquileia e l'alto Adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 333-345, Ead., Trieste alla luce delle recenti indagini, in AA.VV., La città nell'Italia settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle "regiones" X e XI (Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 13-15 marzo 1987), Trieste - Roma 1990, pp. 617-633.

221. Plinius, Naturalis Historia, III, 129.

222. C.I.L., V, 8139.

223. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 208 ss.

224. Mario Mirabella Roberti, Le scale lignee nelle torri dell'arena di Pola, in AA.VV., Saggi in onore di Guglielmo De Angelis d'Ossat (Roma 1987), "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura", n. ser., fasc. 1-10, 1983-1987, pp. 57-60.

225. Su Pola cf. Luigi Crema, L'architettura romana, in Enciclopedia Classica, sez. III, Archeologia e storia dell'arte classica, XII, Archeologia (Arte romana), Torino 1959, pp. 176, 205 ss., 212, 256 ss., 447; Bruna Forlati Tamaro, s.v. Pola, in Enciclopedia dell'Arte Antica, VI, Roma 1965, pp. 261-264; Stefan Mlakar, Die Römer in Istrien, Pula 19663, pp. 27 ss.; Branko Marušić, Das spätantike und byzantinische Pula, Pula 1967; G. A. Mansuelli, Urbanistica e architettura, passim; Gustavo Traversari, L'arco dei Sergi, Padova 1971; Štefan Mlakar, The Amphitheatre in Pula, Pula 1971; Id., Das antike Pula, Pula 19722; AA.VV., Archeologia e arte dell'Istria, Pula 1985, pp. 67 ss. (in particolare p. 83); M. Mirabella Roberti, Urbanistica romana, pp. 194 ss.; Guido Rosada, Mura, porte e archi nella "decima regio": significati e correlazioni areali, in AA.VV., La città nell'Italia settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle "regiones" X e XI (Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 13-15 marzo 1987), Trieste-Roma 1990, pp. 383, 394-395 (pp. 365-409); Robert Matijašić, Breve nota sui templi forensi di Nesario e Pola, ibid., pp. 635-652. Roma 1990.

226. Per Belluno e il Bellunese cf. Marisa Rigoni e Paola Zanovello, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 443-455.

227. Per Cremona cf. AA.VV., Archeologia urbana, pp. 105 ss. e bibl. ivi; AA.VV., Cremona romana. Atti del convegno per il 2200° della fondazione della colonia, Cremona 1985.

228. Livius, XXIV, 10.

229. Per Mantova cf. AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso mantovano, Modena 1984; AA.VV., Archeologia urbana, pp. 116 ss.

230. Cassiodorus, Variae, II, 48.

231. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, III, 31.

232. Anonymus Ravennas, IV, 30; Guido, Geographica, in Itineraria Romana, II, 16; sul tema infine Anna Nicoletta Rigoni, La "Venetia" nella "Cosmographia" dell'Anonimo Ravennate, "Archeologia Veneta", 5, 1982, pp. 228 ss. (pp. 207-235). Per Trento cf. da ultimo AA.VV., Trento. Immagine e struttura della città. Materiali per la storia urbana di Trento, a cura di Renato Bocchi e Carlo Oradini, Bari 1983, soprattutto pp. 16 ss.

233. Per Cividale cf. C. Saletti, Le basiliche romane, pp. 128 ss.; Luciano Bosio, Cividale del Friuli, I, La storia, Udine 1977, pp. 6, 12 ss.; Amelio Tagliaferri, Coloni e legionari romani nel Friuli celtico. Una ricerca archeologica per la storia, I, Pordenone 1986, pp. 119 ss.

234. Plinius, Naturalis Historia, III, 130.

235. Ptolemaeus, III, 1, 26.

236. Strabo, V, 1, 8, 214.

237. Tacitus, Historiae, III, 8.

238. Forse da "Beriga, Berica": cf. Dante Olivieri, Toponomastica veneta, Venezia - Roma 19612 (riprod. anast., Firenze 1977), p. 29 e Giovan Battista Pellegrini, Attraverso la toponomastica medievale in Italia (1974), in Id., Ricerche di toponomastica veneta, pp. 306-307 (pp. 295-349).

239. Cf. in particolare i piloni cruciformi di rinforzo e la zoccolatura di fondazione di diversa profondità, probabilmente per equilibrare i carichi statici e al tempo stesso trovare e garantire una base di imposta solida (Roberta Manfron, L'acquedotto romano di Vicenza, tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1981-1982).

240. Per Vicenza cf. AA.VV., Il Berga. Il teatro romano, Vicenza s.d. (1978); Gianpaolo Marchini, Vicenza romana, Verona 1979; Marisa Rigoni, Vicenza, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 109-133; AA.VV., Storia di Vicenza, I, Il territorio. La preistoria. L'età romana, Vicenza 1987 (e in particolare Marisa Rigoni, La città romana: aspetti archeologici, pp. 159-188).

241. Cf. Bruno Marcolongo, Paleoidrografia tardo-quaternaria della pianura veneta sud occidentale e il suo significato in una ricostruzione paleoclimatica, Padova 1987, pp. 7 s.

242. Anna Maria Chieco Bianchi, Este, in AA.VV., Il Veneto nell'Antichità. Preistoria e protostoria, II, Verona 1984, pp. 693-724, Elisabetta Baggio Bernardoni, Este, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 219-234. Per il toponimo cf. A. L. Prosdocimi, La lingua, pp. 396 s.

243. Plinius, Naturalis Historia, III, 130: "[...> quos scrupulosius dicere non attineat [...> Tarvisani […>".

244. Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, IX, 49.

245. Precisi scambi "culturali" tra i due centri potrebbero essere testimoniati dalle stele figurate trevisane, che sembrano di tipica produzione altinate (a meno che non siano state "portate" in epoche successive). Per Treviso cf. da ultimo Anselmo Malizia, Treviso, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 347-356 e bibl. ivi. Riguardo alla "Claudia Augusta", recentemente ho indicato la possibilità che, al contrario di quanto si afferma di solito, questa attraversasse Treviso, secondo una plausibile direttrice Altino - Treviso - Postioma - Montebelluna - Fenèr.

246. Cf. qui sopra, alla n. 217.

247. Cf. G. Brusin, Sul percorso della via Annia, pp. 115 ss.

248. Plinius, Naturalis Historia, III, 126 ("[...> flumen Liquentia ex montibus Opiterginis et portus eodem nomine […>") e anche Strabo, V, 1, 8, 214. Cf. G. Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia", coll. 173 ss. Per il telerilevamento dei paleoalvei si veda Emilio Giovani - Nicoletta Rigoni, L'agro opitergino e i paleoalvei alla sinistra del Piave dai dati del "remote sensing", "Quaderni di Archeologia del Veneto", 2, 1986, pp. 135-139; ora però nuovi dati in AA.VV., Cittanova - "Heraclia" 1987: risultati preliminari delle indagini geomorfologiche e paleogeografiche, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 4, 1988, pp. 112-135, Guido Rosada, Dati e problemi topografici della fascia costiera fra Sile/Piave e Tagliamento, in AA.VV., Aquileia e l'arco Adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 79-101.

249. Itinerarium Antonini, 280-281 e L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 129 ss. Cf. Margherita Tirelli, Oderzo, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 366 ss. (pp. 359-390).

250. Per Oderzo cf. Margherita Tirelli, Oderzo. Zona monumentale e quartieri di abitazioni di epoca romana tra via Roma e via Mazzini, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 1, 1985, pp. 31-34; Anselmo Malizia, Oderzo. Rinvenimento nel canale Navisego, ibid., 2, 1986, pp. 86-88; Margherita Tirelli, Oderzo. Rinvenimento di un molo fluviale in via delle Grazie, ibid., 3, 1987, pp. 81-85; Ead., La "domus" di via Mazzini ad Oderzo, ibid., pp. 171-192 (e aggiornamento ibid., nelle annate successive) Ead., Oderzo, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, pp. 359-390; cf. anche Quaderni di archeologia opitergina, I, a cura di Bruno Callegher-Luciano Mingotto - Maria Antonietta Moro, Pordenone 1987. Si veda ora Maria Stella Busana, Proposte per una ricostruzione urbanistica di Oderzo romana, in AA.VV., Tipologia di insediamento e distribuzione antropica nell'area veneto-istriana dalla protostoria all'alto medioevo (Atti del Seminario di studio, Asolo - Treviso, 3 - 5 novembre 1989), c.s. Nei testi citati si trova la bibl. precedente.

251. In generale sull'utilizzazione dei valichi alpini cf. L. Pauli, Le Alpi.

252. Cf. L. Bosio, Itinerari e strade, pp. 27 ss., 67 ss.

253. Lascia sempre perplessi questa ipotizzata assenza di mura difensive nel contesto di un corso d'acqua finitimo alla città. Di fatto, viste la praticabilità e la funzionalità delle vie fluviali e perciò stesso la loro pericolosità come direttrici di penetrazione, le mura sembrerebbero necessarie anche e soprattutto in quei settori urbani più esposti in tal senso. In proposito si legga quanto consigliato da Vitruvio (I, 4, 11) per due centri rivieraschi e lagunari come Ravenna e Altino, per i quali parrebbe a tutta prima superflua la costruzione di una cinta difensiva.

254. "[…> poiché la contrada per due leoni antichi di pietra, che tuttavia sussistono, fu sempre chiamata de' Leoni [...>": così spiega Scipione Maffei (Verona illustrata, I, Verona 1782, riprod. anast., Bologna 1974, col. 348).

255. Giuliana Cavalieri Manasse, Porta dei Leoni: appunti per la ricostruzione di un monumento, in AA.VV., Scritti in ricordo di Gabriella Massari Gaballo e di Umberto Tocchetti Pollini, Milano 1986, pp. 159-172.

256. Cf. Lanfranco Franzoni, "Collegium iumentariorum Portae Ioviae" in una nuova iscrizione veronese, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 617-632.

257. G. A. Mansuelli, Urbanistica e architettura, p. 88.

258. Cf. Arthur Lincoln Frothingham, Discovery of the Capitolium and Forum of Verona, "American Journal of Archaeology ", 18, 1914, pp. 129-145 (i resti individuati dallo studioso sono piuttosto attribuibili alla curia, che così veniva a occupare, assieme alla basilica, il lato lungo occidentale del foro). Un'analisi forzata e quindi deviata/deviante è in Giusto Traina, Le Valli Grandi Veronesi in età romana, Pisa 1983, pp. 86-89. Cf. per le recenti scoperte Giuliana Cavalieri Manasse, Verona. Palazzo Maffei. Resti di edificio pubblico, "Quaderni di Archeologia del Veneto", I, 1985, pp. 47-50; Giuliana Manasse - Simon Thompson, Verona: Monte dei Pegni - Scavo del "Capitolium", ibid., 3, 1987, pp. 119-122; Giuliana Cavalieri Manasse, Verona, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 12 ss., 24 ss. (pp. 3-57) Ead., Il foro di Verona: recenti indagini, in AA.VV., La città nell'Italia settentrionale in età romana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle "regiones" X e XI (Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 13-15 marzo 1987), Trieste-Roma 1990, pp. 579-616.

259. Cf. Giovanna Tosi, L'arco dei Gavi, Roma 1983.

260. Cf. Luigi Polacco, Il significato delle porte veronesi, in AA.VV., Il territorio veronese in età romana (Atti del Convegno tenuto a Verona il 22-24 ottobre 1971), Verona 1973, pp. 1-9.

261. Funzione di quinta e di snodo urbano doveva avere anche l'arco di Giove Ammone, situato tra porta Borsàri e il foro, all'incrocio di una via perpendicolare alla "Postumia" e a contrappunto interno dell'arco dei Gavi. Cf. Giovanna Tosi, Un problema di interpretazione della documentazione grafica rinascimentale: l'arco romano di Giove Ammone a Verona, "Archeologia Veneta", 4, 1981, pp. 73-98 e 5, 1982, pp. 35-62; Giuliana Cavalieri Manasse, Nota sull'arco veronese detto di Giove Ammone, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 521-564. Per Verona cf. AA.VV., Verona e il suo territorio, I, Verona 1960; Vittorio Galliazzo, Nuove considerazioni sull'idrografia e sull'urbanistica di Verona romana, in AA.VV., Il territorio veronese in età romana (Atti del Convegno tenuto a Verona il 22-24 ottobre 1971), Verona 1973, pp. 33-54; Lanfranco Franzoni, Immagine di Verona romana, in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, pp. 345-373; Giuliana Cavalieri Manasse, Verona, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 3-57; Ezio Buchi, Porta Leoni e la fondazione di Verona romana, "Museum Patavinum", 5, 1987, pp. 13-45; G. Rosada, Mura, porte, e archi, in particolare pp. 383 ss.; Giuliana Cavalieri Manasse, Le mura di Verona, in AA.VV., Mura delle città romane in Lombardia (Atti del Convegno, Como, 23-24 marzo 1990), c.s.

262. Livius, X, 2: "[...> Tribus maritimis Patavinorum vicis colentibus eam oram [...>". Cf. L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo.

263. Per esempio non si hanno ancora dati certi per l'ubicazione precisa del foro e neppure si è sicuri della presenza a Padova di mura di cinta (cf. però i casi di Vicenza e Verona, in particolare v. qui sopra alla n. 253). In mancanza di riscontri archeologici solo indicazioni tutte da verificare possono venire da talune fonti. Cf. il passo di Cicerone (Cicero, Philippicae, XII, 4, 10) in cui si dice che, per fedeltà al senato romano, "Patavini alios excluserunt, alios eiecerunt missos ab Antonio" e la traduzione del Sartori (Franco Sartori, Padova nello stato romano, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, p. 125 - pp. 99-189) che propone "i Patavini degli inviati di Antonio alcuni tennero fuori delle mura, altri cacciarono via [...>". Più puntuale sembrerebbe essere il rimando di un'iscrizione (C.I.L., V, 2856: non si conosce il luogo originario di rinvenimento), dove si legge che Lucio Perperna Amianto richiede all'"ordo decurionum" la concessione del "locum columnarioru[m> /extra portam Ro/manam". Incerta è tuttavia l'identificazione del sito (dove forse "lavoravano gli operai addetti alla fabbricazione delle colonne"): presso il ponte delle Torricelle, presso porta S. Croce o altrove? Cf. Maria Silvia Bassignano, Il municipio patavino, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, p. 196, n. 20 (pp. 193-227).

264. Vittorio Galliazzo, I ponti di Padova romana, Padova 1971, pp. 162 ss.

265. Luciano Bosio, Padova in età romana. Organizzazione urbanistica e territorio, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, pp. 231-248; cf. anche G. A. Mansuelli, Urbanistica e architettura, pp. 77 s.

266. Cf. Andrea Gloria, Intorno al corso dei fiumi dal secolo primo a tutto l'undecimo nel territorio padovano, "Rivista periodica dei lavori dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova", 27, 1877, pp. 115-204; V. Galliazzo, I ponti, pp. 155 ss.

267. Cf. Bruno Marcolongo, Fotointerpretazione sulla pianura alluvionale tra i fiumi Astico e Brenta in rapporto alle variazioni del sistema idrografico principale, "Studi Trentini di Scienze Naturali", sez. A, 50, 1, 1973, pp. 3-18; L. Bosio, Padova e il suo territorio, pp. 3-23.

268. Cf. Giovanni Battista Castiglioni, Questioni aperte circa l'antico corso del Brenta nei pressi di Padova, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", 94, 1981-82, pp. 159-170; Id., Abbozzo di una carta dell'antica idrografia nella pianura tra Vicenza e Padova, in AA.VV., Scritti geografici in onore di Aldo Sestini, I, Firenze 1982, pp. 183-197; Giovanni Battista Castiglioni - Adolfo Girardi - Giuliano Rodolfi, Le tracce degli antichi percorsi del Brenta per Montà e Arcella nei pressi di Padova: studio geomorfologico, "Memorie di Scienze geologiche", 39, 1987, pp. 129-149.

269. Livius, X, 2.

270. Cf. V. Galliazzo, I ponti di Padova romana.

271. Sul Prato della Valle cf. AA.VV., Prato della Valle. Due millenni di storia di un'avventura urbana, Padova 1986 e in particolare Luciano Bosio, L'età preromana e romana, ibid., pp. 37-49. Per Padova cf. nn. precedenti e inoltre Giovanna Tosi, Aspetti e problemi dell'edilizia privata in Padova romana, "Archeologia Veneta", 1, 1978, pp. 103-116; AA.VV., Padova antica; A. Corso, Mosaici antichi; Anna Maria Chieco Bianchi, Padova, in AA.VV., Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria, II, Verona 1984, pp. 725-744; Giovanna Tosi, Padova e la zona termale euganea, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 159-193 e bibl. ivi. Nuovi spunti di conoscenza su Padova romana potranno venire infine dai dati della cartografia archeologica numerica la cui elaborazione ora sto curando con il supporto dell'Amministrazione Comunale.

272. Tabula Peutingeriana, segm. III, 5.

273. Plinius, Naturalis Historia, III, 121. Cf. G. Rosada, "Portus Aedro", pp. 69 ss.

274. Cf. Antonella Trenti, Linee per una proposta di ricostruzione dell'ambiente antico nel territorio di Lova (Venezia): i dati archeologici, tesi di laurea, Università di Padova, a. a. 1985-86. Recenti e importanti ritrovamenti sono ancora inediti.

275. Strabo, V, 1, 7, 213-214.

276. Viene alla mente in proposito il "tenue praetentum litus" di Livio (X, 2).

277. Cf. anche L. Bosio, I problemi portuali, pp. 13 ss.; Guido Rosada, Torcello (Venezia): i dati topografici, "Archeologia Veneta", 4, 1981, pp. 143-149; L. Bosio, Il territorio, pp. 89 ss.; G. Rosada, La direttrice endolagunare; Id., Nota preliminare per un progetto di carte tematico-archeologiche nel comprensorio della laguna di Venezia, in AA.VV., Venezia e l'archeologia (Atti del Convegno internazionale, Venezia, 25-29 maggio 1988), Roma 1990, pp. 291-297.

278. Lucia Sanesi Mastrocinque, L'insediamento di Corte Cavanelle di Loreo, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 293-300 e bibl. ivi.

279. Cf. Paolo Emilio Arias, s.v. Spina, in Enciclopedia dell'Arte Antica, VII, Roma 1966, pp. 446-453; Giulia Fogolari - Bianca Maria Scarfì, Adria antica, Venezia 1970; Maurizia De Min, Adria, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 257-268.

280. Di questi centri, come del resto abbiamo fatto per i precedenti, prenderemo in considerazione soprattutto il significato del loro assetto urbano nel contesto ambientale in cui si trovavano inseriti.

281. P. Baggio, Il telerilevamento, pp. 12 ss.; Id., Interazione tra uomo e territorio antico, pp. 142 ss. Cf. ora anche AA.VV., Cittanova-"Heraclia" 1987; G. Rosada, Dati e problemi topografici della fascia costiera.

282. Cf. Guido Rosada, "Da Civitas Nova" a "Heraclia". Il possibile caso di una tradizione di propaganda sulle origini "antiche" di Venezia, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 909-928.

283. Aldo Luigi Prosdocimi, Contatti di lingue nella "Decima Regio", parte nord-orientale, in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, p. 19 (pp. 15-42); Id., La lingua, pp. 403 s.

284. Cf. Plinius, Naturalis Historia, III, 126: "[...> Natiso cum Turro praefluentes Aquileiam coloniam XV p. a mari sitam [...>". Per la distanza dal mare più corretto è Strabo, V, 1, 8, 214.

285. Cf. Ausonius, Opuscula, a cura di Sesto Prete, XXI (Ordo urbium nobilium), 9, 67.

286. Posteriore comunque a quello a cui si dovette riferire Strabone (V, 1, 8, 214), di cui il Brusin mise in luce qualche lacerto nei primi anni Trenta. Cf. Luisa Bertacchi, Il sistema portuale della metropoli aquileiese, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 227-253.

287. Cf. Antonio Marchiori, Aquileia: porto e "sistema" portuale, "Aquileia Nostra", 60, 1989, coll. 113-148; Id., Sistemi portuali della Venetia romana, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 197-225.

288. Giovanni Brusin, Aquileia. Scavo parziale di terme, "Notizie degli Scavi di Antichità", 1929, pp. 109-138; Luisa Bertacchi, Topografia di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e Grado (A.A., I), Udine 1972, pp. 43-57, Maria José Strazzulla, Programmi decorativi privati di età augustea: una villa imperiale ad Aquileia?, "Annali della Facoltà di Lettere di Perugia, 1, Studi Classici", n. ser., 20, 1982-83, pp. 463-487.

289. Per Aquileia cf. qui sopra, alla n. precedente e Aristide Calderini, Aquileia romana, Milano 1934; Giovanni Brusin, Scavi di Aquileia, Udine 1934; la rivista "Aquileia Nostra" e la collana "Antichità Altoadriatiche" (veri e propri repertori di fondamentale riferimento per tematiche per lo più aquileiesi); infine AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980 e ora Luisa Bertacchi, Il foro romano di Aquileia, "Aquileia Nostra", 60, 1989, coll. 33-112.

290. Cf. Strabo, V, 1, 8, 214; Plinius, Naturalis Historia, III, 126.

291. L'orientamento della colonia su un asse SO-NE e la sua peculiarità planimetrica (si restringe a settentrione, adottando anche tratti obliqui di muro di cinta) sembrano aver origine appunto dalle particolari presenze idrografiche. Cf. anche Luisa Bertacchi, Il ponte romano di Concordia, "Aquileia Nostra", 58, 1987, coll. 189-220.

292. C.I.L., V, 1956.

293. Da verificare sarebbe la "storia" delle vie Carneo e 1o Maggio che delimitano a settentrione e a SO la zona in questione (a oriente c'è il corso del Lemene): tali strade sembrerebbero ricalcare la traccia di un paleoalveo, cf. Ministero Lavori Pubblici, Magistrato Alle Acque, Rilievi aereofotogrammetrici. Carta degli aspetti idrogeologici dell'analisi termografica, Brescia 1983, Fiume Lemene (F. 4, 1: 10.000). Per Concordia cf. AA.VV., "Iulia Concordia" dall'età romana all'età moderna, Treviso 19782; Luisa Bertacchi, Architettura e mosaico. Concordia, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, pp. 311-331; AA.VV., Concordia Sagittaria: scavo nell'area nord del piazzale, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 3, 1987, pp. 86-98; Pierangela Croce Da Villa, Iulia Concordia, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 393-423; AA.VV., Concordia Sagittaria. Quartiere nord ovest, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 4, 1988, pp. 136-202; 5, 1989, pp. 118-144; AA.VV., La città nella città. Un intervento di archeologia urbana in Concordia Sagittaria, Portogruaro (Venezia) 1989 (nei testi citati si trova la bibl. precedente; aggiornamenti nei "Quaderni di Archeologia del Veneto").

294. Vitruvius, I, 4, 11.

295. Strabo, V, 1, 5, 212 e 7, 213-214.

296. Vitruvius, II, 9, 10-11, 16.

297. Strabo, V, 1, 12, 218 (dove oltre che della superiorità della Cisalpina nella produzione agricola, si parla della lana dei dintorni modenesi, più morbida e superiore di qualità rispetto a quella ruvida del territorio patavino); Columella, De re rustica, V-IX, a cura di Edward S. Forster -Edward H. Heffner, Cambridge, Mass.-London 1954, VII, 2, 3; Martialis, XIV, 155; Tertullianus, De pallio, III, 5-6.

298. Columella, VI, 24, 5.

299. Plinius, Naturalis Historia, XXXII, 150.

300. Servius, In Georgica, I, 262. Cf. insieme Horatius, Sermones, I, 5, 20.

301. Martialis, IV, 25.

302. Luciano Bosio, Note per una propedeutica allo studio storico della laguna veneta in età romana, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 142, 1983-84, p. III (pp. 95-126).

303. È da tenere presente tuttavia che la funzionalità di questo canale non dovette durare molto nel tempo, dal momento che esso subì un rapido interramento (nel corso del I sec. d.C.).

304. Si è già ricordato comunque che la presenza di mura di cinta in siti con morfologia lagunare era cosa normale per Vitruvio (I, 4, 11). Per Altino cf. B.M. Scarfì - M. Tombolani, Altino; Michele Tombolani, Altino, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 311-344; Bianca Maria Scarfì, Gli scavi e il museo di Altino, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 311-327. Per il ponte ritrovato a oriente di Altino cf. AA.VV., Musile di Piave: ponte romano lungo l'Annia, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 6, 1990, pp. 165-188.

305. Cf. G. Rosada, Da "Civitas Nova" a "Heraclia", coll. 909 ss.

306. Si veda la bella pubblicazione di Pierluigi Tozzi - Maurizio Harari, Eraclea Veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984, con assai ricca bibliografia. In merito poi alla caratteristica delle anse fluviali che attraversano un centro abitato, non si dimentichino gli esempi "mediterranei" di città come Verona, Vicenza, Padova e naturalmente della "marittima" e medioevale Venezia.

307. Per le ricerche recenti sul campo cf. AA.VV., Cittanova - "Heraclia" 1987, AA.VV., Ricerche archeologiche a Cittanova (Eraclea) 1987-1988, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 6, 1990, pp. 77-114; Sandro Salvatori, "Civitas Nova Eracliana": risultati delle campagne 1987-1988 e prospettive generali, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 299-309; G. Rosada, Dati e problemi topografici della fascia costiera.

308. Cf. in particolare Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Venezia 1957, pp. 343-345, 363-368 (pp. 181-401) e anche G. Rosada, Nota preliminare.

309. Cf. qui sopra, alla n. 287.

310. G. Rosada, Torcello, pp. 143-149.

311. Cassiodorus, Variae, XII, 24.

312. Come succedeva lungo la costa istriana: cf. A. Degrassi, I porti romani dell'Istria, pp. 119-169. Per un'analisi interpretativa preliminare sulla realtà lagunare antica (in particolare per l'area torcellana) attraverso il "remote sensing" cf. Rosa Bonetta Lombardi - Bruno Marcolongo, Fotointerpretazione archeologico-ambientale della laguna di Torcello e zone limitrofe, "Rivista di Archeologia", 5, 1981, pp. 86-92 (cf. anche Gherardo Ortalli, Qualche osservazione in margine alla carta fotointerpretativa e archeologico-ambientale della laguna di Torcello, ibid., pp. 93-97).

313. Cf. Constantinus Porphyrogenitus, 28, 93.

314. I dati di proiezione riguardanti Castello in epoca tardoantica/altomedioevale sembrerebbero ora confermati da scavi in corso e non ancora pubblicati presso la chiesa di S. Pietro di Castello. Cf. anche L. Bosio - G. Rosada, Le presenze insediatine, pp. 556 s.

315. L. Bosio, Direttrici di traffico e centri di interesse logistico della "Venetia" dall'età romana all'epoca longobarda, in AA.VV., La "Venetia" dall'Antichità all'Alto Medioevo, Roma 1988, pp. 13-19.

316. Cf. vari contributi in Atti del Convegno per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, Venezia 1960.

317. Si pensi in tal senso all'accorpamento dei due nuclei religioso (a Castello) e civile (a Rivoalto) avvenuta di fatto, secondo la tradizione, quando fu costruito, verso la fine del IX secolo, il "civitatis murus" che, in funzione anti-ungara, doveva correre "a capite rivuli de Castello usque ad ecclesiam sancte Marie, que de Iubianico dicitur" (ora S. Maria del Giglio). Giovanni Diacono, La cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 131. Cf. L. Bosio - G. Rosada, Le presenze insediatine, p. 557, n. 196 e bibl. ivi.