PARTICIACO, Agnello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PARTICIACO, Agnello

Marco Pozza

PARTICIACO, Agnello (Partecipazio Angelo). – Nacque nella seconda metà dell’VIII secolo, probabilmente a Eraclea, antica capitale del ducato veneziano.

Il nome Agnello risulta dalle redazioni più affidabili di alcuni documenti antichi (il privilegio per S. Servolo (819), il testamento del figlio Giustiniano (829) e la cronaca di Giovanni Diacono (inizi XI secolo); è detto Angelo in un falso del XII secolo, attribuito al 1023 (Documenti, 1942, II, p. 197). Anche la forma cognominale Particiaco non è attestata prima della cronaca di Giovanni, che l’attribuisce solo al doge Orso II (911-932; Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di G. Monticolo, 1890, p. 132) ed è attribuita all’intera casata dalla tradizione posteriore. Appare comunque preferibile alla forma Partecipazio, adottata dall’erudizione otto-novecentesca.

Dopo la deposizione dei predecessori Obelerio e Beato favorevoli all’impero carolingio, a fine 810 o inizi 811 Agnello fu designato doge per volontà di Arsafio, comandante di una flotta bizantina intervenuta nell’alto Adriatico. Fu dunque la rivincita del partito filobizantino, dopo un contrasto decennale. Il nuovo doge trasferì la sede del potere da Malamocco a Rialto (l’attuale Venezia), ove risiedevano i suoi sostenitori; da qualche tempo sede vescovile, il nuovo sito era inoltre geograficamente centrale rispetto al territorio del ducato. Agnello diede subito inizio alla costruzione di un edificio adeguato: fu il primo palazzo ducale, prospiciente il bacino di S. Marco ed edificato – in forma di castello per difendersi da nemici esterni e interni – sul sito dell’attuale.

Il doge, come altri prima di lui, si propose di trasmettere il potere ducale per via ereditaria: attorno all’814 inviò a Costantinopoli il figlio Giustiniano, a cui l’imperatore Leone V conferì il titolo di ipato, e nominò coreggente l’altro figlio Giovanni. Ciò provocò l’opposizione di Giustiniano, che rifiutò di stabilirsi nel palazzo ducale e si trasferì presso la chiesa di S. Severo, ottenendo in tal modo dal padre un ripensamento: Giovanni fu esiliato a Zara e Agnello elevò alla dignità ducale Giustiniano e il figlioletto di costui Agnello.

Fuggito da Zara, dopo un soggiorno in territorio slavo, Giovanni riparò in Lombardia, a Bergamo, ponendosi sotto la protezione di Ludovico il Pio. Ma costui, non volendo turbare i buoni rapporti recentemente instaurati con i bizantini, estradò il figlio di Agnello nel ducato veneziano; il doge e il figlio maggiore lo inviarono immediatamente a Costantinopoli, perché non creasse ulteriori problemi. Nell’820 anche il giovane Agnello fu inviato nella capitale, in occasione dell’ascesa al trono di Michele II, e morì durante il soggiorno.

Nell’819 Agnello e Giustiniano beneficiarono i monaci benedettini di San Servolo (un’isola della laguna), donando all’abate Giovanni la cappella familiare di S. Ilario (nell’immediato entroterra, presso il fiume Brenta), perché la comunità vi si trasferisse abbandonando la primitiva sede, minacciata dal mare. Attorno all’821 Agnello, dopo un decennio di contrasti, allontanò il patriarca di Grado, Fortunato, di vecchie e mai sopite tendenze filofranche, e si appoggiò ancora all’abate di S. Servolo, imponendolo come patriarca. Ad Agnello e al figlio si dovette inoltre la costruzione della chiesa e monastero di S. Zaccaria.

Agnello morì probabilmente nell’827.

Lo lascia supporre il fatto che Giovanni Diacono fa seguire immediatamente alla sua scomparsa l’invasione musulmana della Sicilia che avvenne in quell’anno. Giustiniano rimase quindi il solo doge in carica.

Il brevissimo (827-829) dogado di Giustiniano fu segnato da un rilevante episodio: risolvendo un plurisecolare contrasto, la sinodo dei vescovi del regno italico (Mantova, 827) riconobbe la supremazia del patriarcato di Aquileia su quello di Grado (ubicato nella laguna veneta), subordinando in tal modo la Chiesa veneziana a un’autorità esterna al ducato. Non vi fu alcuna conseguenza concreta, ma Giustiniano ritenne di reagire immediatamente, promuovendo il trafugamento da Alessandria d’Egitto delle reliquie dell’evangelista Marco, fondatore della Chiesa aquileiese, e la costruzione accanto al palazzo ducale di una chiesa intitolata al santo, nuovo patrono di Venezia, destinata a ospitarne le spoglie e a svolgere le funzioni di cappella palatina, sottoposta al controllo diretto del doge.

L’importante testamento di Giustiniano consente di conoscere la parte del patrimonio che appartenne anche al padre Agnello. Oltre a estese proprietà nel ducato (Rialto, Iesolo, Torcello, Cittanova), nei lidi e nelle isole, comprendeva terre nel comitato carolingio di Treviso e a Pola in Istria; ma soprattutto risaltano le risorse finanziarie impiegate nel commercio, e le citate fondazioni ecclesiastiche (S. Ilario, S. Zaccaria, S. Marco ancora in costruzione).

Poco prima della morte (829) Giustiniano, privo di eredi, si riconciliò con il fratello Giovanni, richiamandolo da Costantinopoli e nominandolo coreggente e quindi suo successore. Il passaggio dei poteri fra i due fu però tutt’altro che pacifico, e mise in luce le profonde spaccature esistenti all’interno della classe dirigente veneziana.

All’indomani della morte di Giustiniano, l’ex doge Obelerio, cacciato a suo tempo da Agnello, dopo quasi un ventennio di esilio, ritornò in patria forte del sostegno degli abitanti della ‘sua’ Malamocco. Giovanni reagì in maniera spietata: sconfitti gli insorti, mise a ferro e fuoco la vecchia capitale; la testa dell’anziano ribelle fu infilzata su un palo piantato ai confini del ducato con il Regno Italico. Poco dopo, una congiura ordita da un tribuno di nome Caroso (che figurava tra i sottoscrittori del testamento del fratello) cacciò temporaneamente il doge, che si rifugiò presso la corte carolingia. I suoi sostenitori riuscirono però a rientrare nel ducato, e a reprimere la rivolta, accecando e cacciando Caroso e giustiziando i suoi sodali. Il ducato fu retto provvisoriamente dal vescovo cittadino Orso (identificato senza sicurezza come un Particiaco) e da due tribuni.

Dopo circa un anno, il doge legittimo rientrò in patria e riprese il potere. Dovette presto fronteggiare l’aggressività dei pirati che disturbavano i traffici in Adriatico: non solo i saraceni, ma anche gli slavi, annidati soprattutto lungo le foci della Narenta (Nerevta). Con questi ultimi Giovanni ricorse alla diplomazia, riuscendo a concludere, forse nell’830, una pace o una tregua che però venne violata attorno all’834-835, quando i Narentani intercettarono una spedizione mercantile veneziana, di ritorno da Benevento, trucidando gran parte dei suoi componenti.

La fortuna dei Particiaco, iniziata da Agnello un quarto di secolo avanti, finì (momentaneamente, se Orso I e Orso II Particiaco davvero appartennero a questa discendenza) con un atto di forza. Nell’836, gli oppositori di Giovanni attuarono infatti un colpo di mano decisivo: mentre usciva dalla chiesa cattedrale di S. Pietro di Castello, Giovanni fu preso, sottoposto a tonsura e costretto a prendere gli ordini sacri, per finire i suoi giorni presso la sede patriarcale di Grado.

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