MONOSINI, Agnolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75 (2011)

MONOSINI, Agnolo

Vanna Arrighi

– Nacque a Pratovecchio, piccolo comune oggi in provincia di Arezzo, il 29 ott. 1568 da Dionigi di Agnolo.

I Monosini erano sicuramente originari della località del Casentino, dato che questo cognome, spesso malinteso ed alterato in Morosini perfino nei documenti dell’epoca, non è riscontrabile altrove. Del padre si ignora la professione, ma si sa che era membro della compagnia religiosa laicale di S. Maria della Neve, che si riuniva per scopi devozionali presso l’oratorio annesso all’omonimo convento di suore domenicane, dove una sorella del M. si monacò.

La famiglia era di modeste condizioni economiche, dato che in occasione del censimento fiscale del 1569-70 il padre del M. denunciò il possesso della sola casa di abitazione, situata nel minuscolo centro del paese, a ridosso delle mura castellane, e in quello successivo, risalente al 1596, in aggiunta alla casa, di due modesti appezzamenti di terra. Vantava però un livello culturale piuttosto alto, in quanto diversi membri erano notai, fra i quali si possono annoverare anche il nonno paterno del M., Angelo di Raffaele, il prozio, Francesco di Raffaele e il figlio di questi, Ascanio. Gli ultimi due furono accomunati al M. anche dagli interessi letterari, che coltivarono in margine alla professione notarile. In particolare Francesco (circa 1510-1568), dopo alcuni anni trascorsi come notaio itinerante presso varie corti di giustizia della Toscana, divenne notaio di fiducia del monastero di Camaldoli e di altri centri religiosi del Casentino (i suoi protocolli in Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, 14427-14430), circostanza che influenzò molto la sua attività intellettuale. Fu  traduttore dal latino in volgare di diverse opere, stampate tutte a Venezia da B. Imperatore: Trattato della grandezza delle misericordie del Signore di Erasmo Roterodamo (1551); Il parto della vergine del Sannazaro Napolitano... Con il lamento a gli huomini della morte di Christo nostro Signore (1552), Trattato d'amare i nimici del reverendo padre d. Hippolito [Ballarini] da Novara monaco camaldolense, molt'utile a tutti i fedeli (1555); Vita del Beatissimo Romoaldo Romito ... (1556).

Molto diversa fu l’ispirazione del figlio Ascanio (circa 1540-1591), che dopo aver iniziato la professione notarile a Pratovecchio nel 1568-69, se ne distaccò per circa un ventennio, trasferendosi presumibilmente a Siena e tornando poi a Pratovecchio verso il 1589 (i suoi protocolli in Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, 14426; Notarile moderno-protocolli, 7540 s.). Di lui conosciamo le Rime... nella traduttione delli duoi libri di monsignor Vida Cremonese sopra li vermi che fanno la seta, e del giuoco de' scacchi (Firenze, G. Marescotti, 1586) e un sonetto premesso alla Vita del gloriosissimo san Galgano, opera del domenicano senese Gregorio Lombardelli (Siena, L. Bonetti, 1577). Ascanio ebbe un figlio di nome Francesco, che fu soldato di guarnigione nella fortezza di san Giovanni Battista di Firenze e che nel 1592, poco dopo la morte del padre, stipulò un concordato con il padre del M. (Arch. di Stato di Firenze, Notarile moderno, Protocolli, 1156, c. 5v; 11272, c. 3v).

Sono pertanto frutto di enfasi retorica le affermazioni dei biografi del M., in particolare di G.V. Rossi, secondo il quale egli nacque «obscurissimis summaque laborantibus inopia parentibus» (p. 205). Il M. ricevette la prima educazione nel paese natale ove, pur trattandosi di località piccola e appartata fra le alture del Casentino, è attestata fin dai tempi più antichi la presenza di un maestro di grammatica a spese del pubblico. Da Pratovecchio, avendo maturato la decisione di entrare nell’ordine ecclesiastico, emigrò a Firenze dove completò la sua formazione culturale nell’ambito delle istituzioni ecclesiastiche cittadine. Rossi e Prezzolini (ma presumibilmente quest’ultimo si limita a riprendere la notizia dal primo) citano come maestro del M. tale Taddeo Ciotino, ma si tratta della corruzione di Matteo Cutini, personaggio piuttosto noto, che fu maestro dei chierici della Chiesa metropolitana fiorentina almeno dal 1574 al 1609 (cfr. O. Gambassi, Pueri cantores nelle cattedrali d’Italia fra Medioevo e età moderna, Firenze 1997, p. 113). Si ha motivo di ritenere infatti che il M. abbia completato il curriculum per diventare sacerdote presso la scuola per chierici nota come Collegio eugeniano, esistente presso la chiesa cattedrale di Firenze, cui il M., benché proveniente dalla diocesi di Fiesole, aveva la possibilità di accedere in virtù della bolla di fondazione da parte di papa Eugenio IV del 1436 dove era espressamente previsto che tale scuola fosse riservata ai chierici di entrambe le diocesi.

Che il M. abbia compiuto studi regolari è provato dal verbale della sua promozione ai quattro ordini minori a opera del vescovo di Fiesole Francesco Cattani da Diacceto il 24 sett. 1588, dove egli è annoverato fra gli «scolares Fesolane diocesis idoneos repertos», mentre del suo apprendistato presso la chiesa cattedrale fiorentina è indizio la definizione del M. come «clericus Fesolane diocesis descriptus in Metropolitana Florentina» contenuta nel verbale della promozione al suddiaconato, risalente al 22 sett. 1590. Anche questa, come le promozioni agli ultimi due gradi dell’ordine ecclesiastico, il diaconato, da lui conseguito il 21 sett. 1591, e il presbiterato, ottenuto il 19 dic. 1592, avvenne per mano dello stesso vescovo di Fiesole.

Quest’ultima circostanza inficia fortemente l’affermazione di Fabroni, secondo il quale il M. avrebbe trascorso tutto l’anno 1592 presso l’Ateneo patavino, grazie a un sussidio del granduca di Toscana, il quale oltre tutto perseguiva uno stretto protezionismo in campo universitario, obbligando tutti i sudditi a servirsi dello studio di Pisa. Anche il nome dell’insegnante riportato da Fabroni, Andrea Adriani, è presumibilmente errato: con ogni probabilità si trattava invece di Marcello Adriani, noto umanista che fino alla sua morte, nel 1605, insegnò latino e greco a Firenze, nell’ambito della sede distaccata dell’Ateneo pisano che vi funzionava. Di Adriani, come anche del domenicano Tommaso Buoninsegni, docente di teologia nella stessa sede fiorentina, il M. dovette seguire le lezioni dopo la sua consacrazione a sacerdote, coprendo le relative spese con i proventi della sua attività di ripetitore privato presso le famiglie dell’aristocrazia. In un sommario reportage su di lui, stilato nel 1602 da Cappone Capponi, provveditore dell’Università di Pisa, in vista di una candidatura per l’insegnamento di latino e greco, resosi vacante presso la stessa università, si legge infatti: «Questo è giovane di anni 32 [in realtà ne aveva 34]. Ha buon aspetto, buona vita, bonissime letture [...]. È stato maestro quattro anni di giovani nobili fiorentini e poi in studio come scolare in theologia» (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria del Regio Diritto, 9, c. 599v).

La sua professione di insegnante privato, come verosimilmente le sue angustie finanziarie, erano però terminate fino dal 31 marzo 1598, quando aveva ottenuto, grazie alla benevolenza della famiglia Vecchietti, una delle più antiche e influenti del patriziato fiorentino, il beneficio curato della chiesa parrocchiale di S. Donato, detta appunto de’ Vecchietti o tra Vecchietti, per essere ab antiquo di patronato di questa famiglia e per il fatto di trovarsi in mezzo alle case di loro proprietà. Grazie alle rendite di questo beneficio il M. si poté trasferire a Pisa, dove l’11 nov. 1600 si matricolò al corso di diritto e il 30 ott. 1609 si laureò in utroque iure. Oltre a seguire i corsi istituzionali di diritto, sembra che approfittasse del soggiorno pisano per dedicarsi anche ad altre attività: seguiva le lezioni di filosofia di Francesco Buonamici e faceva studi di matematica e geografia astronomica. Quando si progettò di ingaggiarlo per l’insegnamento di latino e greco, si pensò di aggiungere al programma consueto anche il compito di leggere «la sfera in casa» (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria del Regio Diritto, 9, c. 269r). Inoltre il M. aiutava i dirigenti dell’università nel selezionare gli studenti idonei fra coloro che facevano richiesta dei posti di studio presso il Collegio di Sapienza. Per questi meriti la candidatura del M. come insegnate di lettere latine e greche fu avanzata al sovrano una prima volta per l’anno accademico 1602, ma non ebbe esito positivo. Dopo la morte improvvisa nell’estate del 1608 di Roberto Titi (o Tizi ) da Sansepolcro la candidatura del M. fu riproposta e questa volta accettata. Il suo insegnamento si protrasse per due anni accademici, quelli 1608-09 e 1609-10, dopo di che fu sostituito con Grazio Maria Grazi. Fabroni parla di un solo anno accademico e riporta, per la morte di Titi e per l’inizio dell’insegnamento del M. date lievemente discordanti, dovute probabilmente a una diversa interpretazione dello stile (fiorentino o pisano) di datazione dei documenti originali. Il successore del M. nell’insegnamento delle lettere umane, Grazio Maria Grazi, non aveva – secondo Fabroni, il quale non riesce a spiegare i motivi di questo repentino avvicendamento – requisiti migliori di lui. La causa più probabile potrebbe essere stata un richiamo del M. ai suoi doveri pastorali da parte dell’arcivescovo di Firenze, ipotesi già adombrata in occasione della prima candidatura del M. del 1602. Sembra risalire a questa esperienza didattica la redazione da parte del M.del manoscritto intitolato De arte rhetorica, che segue lo schema di appunti per lezioni ed è ora conservato presso la Biblioteca nazionale di Firenze (Magl., VI.37).

Intanto fino dagli anni fiorentini il M. aveva intrapreso studi sulla lingua italiana, concentrandosi soprattutto sull’etimologia. Frutto di questi studi fu la sua unica opera a stampa, i monumentali Floris Italicae linguae libri novem. Quinque de congruentia Florentini, sive Etrusci sermonis cum Graeco, Romanoque: ubi, praeter dictiones, phraseis, ac syntaxin, conferuntur plus mille proverbia, et explicantur. In quatuor ultimis enodatae sunt pro uberiori copia ad tres adagiorum chiliades, stampata a Venezia, presso G. Guerigli nel 1604.

L’opera, uscita con dedica a Cosimo Ridolfi (1570-1619), patrizio fiorentino e, a detta del M., «maecenati suo colendissimo», riscosse un cospicuo successo e fu accolta dalla fiorentina Accademia della Crusca, assurta a custode della vera lingua italiana, come  testo di lingua, cui attingere per la redazione del Vocabolario. Secondo l’opinione malevola di Placido Puccinelli, riportata da Fontanini (p. 62), l’opera sarebbe quasi per intero frutto dell’ingegno di un allievo del M., Raffaele Colombani, cui la morte prematura avrebbe impedito di portarla a termine, ma la notiiza non è corredata da alcuna prova e rimase senza seguito. Il Flos  non riscosse però soltanto plausi, bensì urtò in qualche passo la suscettibilità dell’erudito senese Scipione Bargagli, pugnace assertore della superiorità del volgare senese sul fiorentino, che se ne lamentò con il comune amico Bernardo Davanzati. Questi si adoperò per ricomporre la vertenza che si concluse senza strascichi.

Il riconoscimento del M. da parte degli ambienti culturali fiorentini aveva preceduto l’uscita per le stampe dell’opera; fino dal dicembre 1603 il M. era stato ammesso all’Accademia della Crusca, dove, contrariamente alla consuetudine, non assunse alcuno pseudonimo. Rivestì più volte la carica di consigliere e partecipò con un ruolo di primo piano  alla compilazione del Vocabolario, apparso a Venezia nel 1612, specialmente nei campi dell'etimologia e dei proverbi. La permanenza del M. presso la sua chiesa non ebbe lunga durata: nell’autunno del 1611 lasciò nuovamente Firenze per essere stato nominato vicario del vescovo di Montepulciano.

Titolare della diocesi era, fino dal 1° ott. 1607, Roberto Ubaldini, membro di una delle famiglie più antiche del patriziato fiorentino, ma egli quasi contemporaneamente era stato inviato come nunzio apostolico in Francia. La diocesi era stata allora affidata in amministrazione al cardinale Roberto Bellarmino, originario di questa città, che, non potendo lasciare Roma, si servì come suo emissario del nipote abate Angelo Della Ciaia. Questi seguì con grande zelo le direttive del cardinale. Bellarmino era deciso ad applicare con il massimo rigore nella diocesi i dettami del concilio di Trento ed il suo operato, specialmente le pressioni per chiudere la scuola di grammatica comunale e favorire l’affluenza al collegio dei gesuiti e il tentativo di rimaneggiare la distribuzione territoriale delle parrocchie cittadine, avevano destato non solo rimostranze e proteste da parte delle persone laiche ed ecclesiastiche direttamente interessate dai cambiamenti, ma anche una diffusa animosità nei suoi confronti, giunta fino al punto di concretizzarsi in minacce di morte (I. Calabresi, Bellarmino e Montepulciano, in Bellarmino e la controriforma..., Sora 1990, pp. 439-516). Fu lo stesso cardinale a comunicare  alla granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena, alla quale per testamento era stato affidato dal marito Ferdinando I il governo della città e del suo territorio (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 6001 alla data 23 sett. 1611), la sua decisione di lasciare ad altri il governo della diocesi di Montepulciano e a richiedere il parere di quest’ultima per la designazione di un «vicario a proposito». Evidentemente fu la granduchessa a segnalare il nome del M. per quest’incarico, dato che in una lettera del successivo 29 ottobre Bellarmino comunicò: «conforme a’ cenni di V.A. ho preferito il sig. A. M. a ogni altro nel vicariato di Montepulciano» (ibid., c. 558r).

Cominciò così la parentesi poliziana del M., destinata a durare fino all’estate del 1613. Dalle sue lettere dirette alla corte di Toscana e da quelle dei suoi amministrati appare chiaramente che il suo operato si incanalò nel solco tracciato da Bellarmino e per questo motivo era destinato a esasperare il malcontento del clero e della popolazione locali, per i quali egli, a differenza del Bellarmino rappresentava un elemento estraneo alla comunità. Le proteste contro di lui e le richieste di una sua sostituzione «con persona che ami la pace [...] e non procuri sedizioni» (ibid., 6005, alla data 25 luglio 1613) cominciarono a pervenire sempre più numerose alla corte medicea, tanto da parte del capitolo della cattedrale che da quella degli organismi di vertice dell’amministrazione locale, così alla fine si decise di sostituirlo ed il 1° sett. 1613 prese servizio il suo successore, Alessandro Ambrogini.

Sull’ultimo periodo della vita del M., che presumibilmente rimase sempre a Firenze presso la sua parrocchia, si hanno scarse notizie. Da alcuni indizi si ricava che avesse stabilito relazioni con il cardinale Carlo de’ Medici: nel 1621 stipulò un contratto stando nello scrittoio dello stesso cardinale, presso il quale era forse stato introdotto da Cosimo Mannucci o Pietro Accolti, entrambi familiari del cardinale e già suoi colleghi di studi e di insegnamento presso lo Studio pisano.

Il M. morì a Firenze e fu sepolto nella sua chiesa di S. Donato de’ Vecchietti il 5 luglio 1626.

Fonti e Bibl.: Fiesole, Archivio diocesano, Atti anagrafici parrocchiali, 1092, c.139v; Sacre ordinazioni, 9, cc. 177r, 192r, 208r, 226v; Arch. di Stato di Firenze, Decima granducale, 7001 (1569) c. 20v; 7002, c. 96r; 7003, c. 94r; Notarile moderno, Protocolli, 5154 c. 144v (15 luglio 1603); 10242, c. 48r; Notarile antecosimiano, 13584, cc. 107r-108r (16 febbr. 1566); Mediceo del Principato, 6001, c. 558r; 6003, alle date 12 e 15 dic. 1612; 6005, alla data 25 luglio 1613; 6047, cc. 368r, 399r, 415r, 469r-470r, 478r, 495r, 508r-509r, 514r, 531r, 594r; Segreteria del Regio Diritto, 9, cc. 268v, 599v; 14, c. 478v; 4402, c. 118;  B. Davanzati, Opere, I, Firenze 1852, p. 475; II, ibid. 1853, pp. 550 s., 602; [G.V. Rossi], Iani Nicii Erithraei  Pinacotheca imaginum, illustrium, doctrinae vel ingenii laude, virorum, qui, auctore superstite, diem suum obierunt, III, Colonia 1648, pp. 204-207; A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, II, Pisis 1792, pp. 450-452; G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza, II, Parma 1803 pp. 62, 79 s., 87;  P. Prezzolini, Storia del Casentino, I, Firenze 1859, pp. 186 s.; P. Porcellotti, Illustrazione critica e descrittiva del Casentino, II, Firenze, 1865, p. 193; S. Parodi, Gli atti del primo vocabolario [dell'Accademia della Crusca], Firenze 1974, passim; G. Volpe, Acta graduum Academiae Pisanae, II, Pisa 1980, pp. 40, 466, 577; R. Del Gratta, Libri matricularum Studii Pisani, Pisa 1983, p. 123; P. Bembo, Gli Asolani, a cura di G. Dilemmi, Firenze 1991, p. XIII; Storia dell’università di Pisa, I, Pisa 2000, pp. 526, 566.