BERTANI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BERTANI, Agostino

Bruno Di Porto

Nacque a Milano, il 19 ott. 1812, da Francesco e da Giuseppina Parravicini. In famiglia si coltivavano i ricordi del periodo francese e del Regno italico, si mantenevano amicizie con esponenti liberali: la madre partecipò personalmente a cospirazioni antiaustriache dal 1821 in poi. Nella facoltà di medicina e chirurgia del collegio Borromeo di Pavia il B. ebbe tra i professori l'anatomista e fisiologo B. Panizza, C. Cairoli, il padre dei noti patrioti, e L. Del Porta. Di quest'ultimo, che insegnava clinica chirurgica, divenne assistente, dopo aver brillantemente superato, nel luglio 1835, l'esame di laurea. Ampliò la sua cultura medica mediante la conoscenza di opere straniere, da lui anche tradotte in italiano, per esempio il manuale di chirurgia di M. J. Chelius, e con un viaggio di studio per l'Europa, nel 1839, durante il quale si manifestò il suo interesse, rimasto poi costante, per gli aspetti sociali connessi con il progresso della medicina. Al ritorno in Lombardia si legò in amicizia con C. Cattaneo, che allora fondava il Politecnico; tre anni dopo, sul suo esempio, diede vita, col Panizza e alcuni colleghi, alla Gazzetta medica di Milano, periodico inteso ad abbinare il progresso scientifico a quello civile e del quale fu redattore sino al 1848.

Durante l'insurrezione milanese del marzo 1848 diresse l'ospedale militare di S. Ambrogio: dapprima vicino alle posizioni di C. Cattaneo, che egli spinse a porsi a capo del Consiglio di guerra, si discostò poi da lui a causa delle questioni sollevate dall'intervento piemontese, concordando con l'impostazione di G. Mazzini per la collaborazione di tutte le forze italiane, anche sotto la direzione regia, nella guerra contro l'Austria. Col Mazzini, conosciuto allora personalmente, fu anche d'accordo nella protesta per il metodo seguito nel plebiscito per la fusione della Lombardia con il Regno sardo.

Tornati gli Austriaci a Milano, nell'agosto 1848, il B. andò peregrinando attraverso il Piemonte, la Liguria e la Toscana, finché, nel giugno 1849, raggiunse Roma. Qui, nella fase conclusiva dello scontro con i Francesi, diede alla Repubblica il suo contributo di medico presso l'ospedale di Trinità dei Pellegrini, dove rimase, anche dopo l'occupazione francese, fino a tutto l'agosto.

Il B. stabilì quindi la propria residenza a Genova. Poiché la sua azione ufficialmente era stata limitata solamente alle funzioni di medico, potè sfuggire alle persecuzioni delle autorità; ottenne anzi un favorevole attestato dalla prefettura di polizia francese in Roma e, il 10 febbr. 1850, la naturalizzazione come cittadino degli Stati sardi. In Genova esercitò la professione, prodigandosi durante l'epidemia di colera del 1854, e strinse relazioni con l'ambiente dell'emigrazione democratica.

Andò spesso a Locarno, in visita al Cattaneo, e nel settembre 1854 si recò a Londra, dove incontrò nuovamente Mazzini, insieme con altri esuli della democrazia europea, con i quali rimase in costante contatto epistolare. Nel 1855 progettò con A. Panizzi una spedizione per fare evadere L. Settembrini dal penitenziario di Santo Stefano, ma l'impresa non ebbe fortuna. Rifiutò, invece, il piano di C. Pisacane, che fin dal settembre 1856 gli aveva chiesto di partecipare alla spedizione di Sapri e sconsigliò fino all'ultimo l'amico. Fu ugualmente contrario ai moti mazziniani di quegli anni, propendendo per un'iniziativa democratica, da inserirsi, con un largo margine di autonomia, entro gli sviluppi diplomatici e militari della politica piemontese.

Tale orientamento lo allontanò da Mazzini, avvicinandolo a Garibaldi, che preparava la campagna di volontari per il prossimo conflitto contro l'Austria. All'inizio del 1859, insieme con Medici, Bixio e altri patrioti, organizzò in Genova un gruppo di giovani, curandone anche l'istruzione nelle armi, e fu tra gli ispiratori di un giornale, che si intitolò dapprima Il 1859, poi San Giorgio e infine La Nazione. Accettò anche l'offerta fattagli da Garibaldi di dirigere i servizi sanitari nel corpo dei Cacciatori delle Alpi (26 apr. 1859).

Conclusasi la guerra, il B. venne eletto deputato a Milano, e fu tra i primi repubblicani ad entrare nel parlamento di Torino. Alla Camera, il 14 apr. 1860, in seguito all'insurrezione palermitana, chiedeva l'intervento in Sicilia, mentre insieme con Bixio, Medici e Crispi invitava Garibaldi a porsi a capo di una spedizione. Essendone progettata anche una dal governo, egli si tenne in contatto con gli organizzatori, specialmente con V. Errante, e nel corso di intense trattative, svoltesi tra il 17 e il 20 aprile, concordò la fusione dei due progetti nel programma di una spedizione che sarebbe stata comandata da Garibaldi.

Lo stato maggiore della spedizione si riunì nella casa del B., che diventò anche il centro di raccolta dei volontari. All'atto della partenza Garibaldi gli affidò il compito di raccogliere e convogliare uomini e mezzi di soccorso: così il 7 maggio, in antagonismo con la Società nazionale del La Farina, il B. istituì la Cassa di soccorso a Garibaldi, articolata in commissioni di lavoro e in diramazioni locali, poi denominate Comitati di provvedimento.

Scopo della Cassa era di raccogliere denaro e organizzare reparti per le successive spedizioni, senza dipendere dal governo di Torino, realizzando così l'autonomia del Partito d'azione. Nei rapporti coi governo, però, si aprì ben presto un dissidio di fondo circa le mete delle operazioni dei volontari: Garibaldi aveva previsto e sollecitato, accanto allinvio di soccorsi in Sicilia, sbarchi e azioni di guerra nelle regioni continentali del Regno di Napoli e nello Stato pontificio, mentre Cavour intendeva, per il momento, localizzare l'intervento nell'isola, per non compromettere il governo sul piano internazionale e per contenere, altresì, l'iniziativa del Partito d'azione. Lo stesso Garibaldi, poi, impegnato nelle operazioni e sconsigliato dagli inviati di Torino, finì con l'accantonare l'originario programma: chi lo raccolse fu, a questo punto, il B., il quale ne fece lo scopo principale della sua attività.

A capo della spedizione per l'apertura del fronte sul continente avrebbe dovuto porsi G. Medici, il quale, però, inclinò presto verso i consigli dei cavouriani e si diresse in Sicilia a capo di una seconda spedizione. Dopo Medici, si sottrassero anche E. Cosenz e e G. Sacchi, ma il B. non desistette dai suoi piani, trovando consensi e collegamenti tra i patrioti dell'Italia centrale. I rapporti con la Società nazionale e con gli ambienti governativi peggiorarono al punto che si parlava di guerra aperta tra lafariniani e bertaniani. Un tentativo dei deputati A. Bargoni e O. Regnoli per utilizzare il B. quale intermediario tra Cavour e Garibaldi era destinato a fallire: un suo viaggio a Torino, in una veste che poteva apparire di cedimento verso il governo, avrebbe ottenuto maggiori aiuti all'organizzazione dei soccorsi a Garibaldi, evitandogli di addossare alle finanze siciliane cambiali per milioni, ma avrebbe, in cambio, portato una maggiore ingerenza governativa nei movimenti dei volontari. La pretesa mediazione del B. tra Cavour e Garibaldi falli, dunque, non tanto per mancanza di modestia e di tatto nel B. - conforme alla tesi del Luzio (v. Una scorsa all'archivio B., in Corriere della Sera, 1° marzo 1910), riaffiorata, in parte, nello storico inglese D. Mack Smith (v. Cavour e Garibaldi nel 1860, Torino 1958) - quanto, soprattutto, per l'obiettiva collocazione politica del B. tra Garibaldi e Mazzini e non tra Garibaldi e Cavour, che definì il B. un "rosso", un "mazziniano", un "pericoloso" suscitatore di "torbidi" (in Lettere edite ed inedite di C. Cavour, a cura di L. Chiala, III Torino 1884, p. 260), chiedendo infine a Garibaldi di sostituirlo presso il governo con altro rappresentante, che fu il conte M. Amari.

Verso il B. però convergevano le speranze degli oppositori di Cavour, a cominciare da Mazzini, il quale, per tutta la primavera e parte dell'estate 1860, considerò la posizione di forza da lui raggiunta come un punto d'appoggio per la propria politica: sottoscrisse per la Cassa, ma cercò a sua volta di attingervi, e favorì i piani per l'Italia centrale.

Il B., dal canto suo, pur traendo dalla vicinanza di Mazzini, nascosto in Genova, incitamento a insistere nella propria linea rivoluzionaria, nutrì tuttavia nei suoi confronti una certa diffidenza e detenne gelosamente la direzione delle forze e dei mezzi, di cui si andava provvedendo. Nel tempo stesso, mediante l'intesa con il barone Ricasoli, favorevole alla progettata spedizione nello Stato pontificio, poté controbilanciare sia gli effetti della compromettente alleanza con Mazzini, sia l'inimicizia sempre più grave con Cavour e La Farina.

Nel frattempo, il governo, dopo avere invano chiamato a Torino il B. per fargli porre un termine ai preparativi, parve accedere a un compromesso, consentendo il raduno dei volontari in una base lontana, il Golfo degli Aranci in Sardegna, a patto che vi si dirigessero partendo da luoghi e in tempi diversi. Ma i reparti, ivi pervenuti in successivi scaglioni, furono invece costretti, per ordine del ministro dell'Interno L. C. Farini, lo stesso, che aveva trattato il compromesso, a deviare verso la Sicilia, cosicché quando il B. giunse in Sardegna insieme con Garibaldi, per adoperare quelle truppe per lo sbarco sul continente, vide scompigliati i suoi piani: Garibaldi completò il trasferimento dei volontari in Sicilia. Al B. non restò che tornarvi lui stesso, mentre le truppe garibaldine sbarcavano in Calabria.

Perduta ogni speranza di agire nell'Italia centrale, il B., alla fine di agosto, sbarcò a Tropea, alla testa di due brigate, che poi vennero aggregate alla divisione Turr, continuando la campagna, verso nord, al seguito diretto di Garibaldi.

Insieme con Crispi, il B. dissuase il generale dal procedere all'immediata annessione della Sicilia, richiestagli con insistenza dagli ambienti moderati e dal prodittatore dell'isola, A. Depretis, venuto per questo motivo nella determinazione di dimettersi. Il B. intendeva ritardare le annessioni per conseguire la totale unificazione italiana in Roma capitale e per assicurare al Partito d'azione, fino al raggiungimento di tale obiettivo, i vantaggi del potere. Ma gli autonomisti siciliani, attratti dalle promesse di Cavour, preferivano l'annessione al Regno sardo alla eventualità di una nuova soggezione alla supremazia napoletana.

Garibaldi, oltre a condividere l'idea unitaria e il proposito di toglier Roma al papa, si mostrava comunque assai ben disposto verso il B. anche per l'acuirsi del dissidio con Cavour: certo nelle movimentate vicende del Sud la ferma volontà e il lineare radicalismo del B. operarono come elemento di rottura nel clima oscillante della politica dittatoriale, la quale peraltro continuava a risentire di contrastanti impulsi. Infatti, entrato in Napoli, il dittatore addiveniva a un compromesso coi cosiddetti "napoletanisti", guidati da Liborio Romano, componendo un governo piuttosto moderato, ma, per controllarne appunto le attività e controbilanciare le tendenze, nominava in pari tempo il B. segretario della dittatura (8 sett. 1860).

Dilatando al massimo i poteri inerenti alla sua carica, questi svolse, per un breve periodo, una vera opera di governo ispirata a vasti criteri di rinnovamento.

Con decreto dell'11 settembre, pubblicato il 21 sul Giornale ufficiale di Napoli, il governo dittatoriale ordinò, oltre alla soppressione dei gesuiti, la trasformazione in patrimonio nazionale dei beni delle mense vescovili, garantendo in cambio emolumenti per i vescovi e un dignitoso mantenimento dei basso clero. Che in tale provvediniento abbia avuto parte decisiva il B. lo dimostra il fatto che, dopo le sue dimissioni, esso fu sospeso, con decreto del 13 ott. 1860. Tra gli ecclesiastici, egli usò particolare energia nei confronti dell'arcivescovo di Sorrento, F. S. Apuzzo, segnalandolo al ministro di polizia R. Conforti per l'atteggiamento ostile al governo, e ordinandone quindi, insieme col ministro, l'arresto. Cordiali rapporti ebbe, invece, col vicario generale della diocesi d'Ischia, G. Postiglione, che aveva compiuto atto di adesione al nuovo regime. Abolì i fondi segreti dei ministeri, ordinò inchieste nell'amministrazione cittadina partenopea, provvide direttamente nei settori urbanistico e sanitario.

Da questa molteplice attività derivarono conflitti di competenza e contrasti di natura politica con parte dei ministri, mentre gli agenti cavouriani e la stampa moderata individuavano chiaramente nel B. l'avversario da combattere. Il 22 settembre, per protesta contro di lui, il ministero rassegnò le dimissioni al dittatore, e il 25 seguirono quelle dello stesso Bertani. Garibaldi accettò le dimissioni dei ministri più apertamente annessionisti, senza però sostenere con slancio il B., cosicché questi, non volendo rimanere più oltre in Napoli privo dell'appoggio del dittatore, il 30 settembre partì per Genova.

Contro di lui si scatenò un'ondata di diffamazioni, inerenti sia all'amministrazione della Cassa di soccorso sia al periodo napoletano, alimentata specialmente dal Nazionale di Napoli, diretto da R. Bonghi, e dalla Perseveranza di Milano, diretta da P. Valussi. Tra l'altro, lo si accusò di aver ordinato al comandante di Teramo, A. Trippoti, di accogliere ostilmente le truppe piemontesi e di aver indotto Garibaldi a firmare un disonesto contratto ferroviario, dal quale avrebbe tratto un cospicuo guadagno. Egli si querelò, difeso dall'avv. R. Sineo, e riuscì a far condannare gran parte dei diffamatori. Preparò inoltre accuratamente il resoconto del bilancio della Cassa di soccorso, che fu presentato a Garibaldi alla fine dell'anno (Cassa centrale di soccorso a Garibaldi. Resoconto di A. B., Genova 1860). Le accuse di corruzione e di illeciti arricchimenti son da ritenersi calunniose e ingiuste; più fondate, forse, quelle di carattere politico, alle quali mostrò di credere lo stesso Garibaldi, come risulta, in particolare, da un autografo esistente nel Museo Centrale del Risorgimento in Roma (busta 395, n. 19) con un preciso riferimento al presunto dispaccio inviato dal B. a Teramo, e dallo scritto di Garibaldi del 1870 Ai miei concittadini. Nel 1869, in risposta agli attacchi polemici contenuti nell'epistolario di G. La Farina, edito a cura di A. Franchi, il B. pubblicò a Firenze le Ire politiche d'Oltre tomba. Nel libro mosse anche alcune critiche a Garibaldi, il quale reagì sdegnato, accomunandolo ai mazziniani, e poi, negli scritti autobiografici, minimizzò la parte avuta dal B. nelle sue imprese.

Sul terreno politico e parlamentare, tuttavia, dopo i lunghi scontri coi moderati, il B. adottò un tardivo atteggiamento conciliativo con il discorso tenuto alla Camera il 9 ottobre, in cui esortò Cavour a ristabilire la piena concordia con Garibaldi. Tale atteggiamento veniva da lui giustificato in una lettera a Crispi del 31 ott. 1860, come dovuto alla constatazione della debolezza, alla prova dei fatti, delle correnti democratiche. Non rieletto alla Camera dal collegio di Milano nelle votazioni per l'VIII legislatura, vi rientrò tuttavia per il collegio di Milazzo nelle votazioni suppletive. Dopo la morte di Cavour, si dichiarò favorevole al governo Ricasoli, per il quale, nonostante la differenza di colore politico, aveva grande stima personale. Votò, invece, unico tra i deputati garibaldini, contro Rattazzi, quasi prevedesse l'atteggiamento di quel ministero, dimostrato, prima ancora che dall'episodio di Aspromonte, dallo scioglimento dell'Associazione emancipatrice, derivata dalla fusione dei garibaldini Comitati di provvedimento con le tendenzialmente mazziniane Associazioni unitarie, che egli aveva contribuito ad organizzare dal settembre 1861. Si oppose pure al governo Minghetti, proponendo un'inchiesta sui metodi di polizia in Sicilia, e siccome la proposta fu bocciata dalla maggioranza, si dimise dalla Camera in segno di protesta, seguito da una ventina di deputati dell'Estrema che suggellavano con tale clamoroso gesto la loro opposizione all'indirizzo governativo e parlamentare della Destra. All'orientamento democratico in materia politica e sociale il B. affiancava la richiesta di un'azione risoluta per il compimento dell'unità, conducendo, specialmente con Crispi, l'attacco all'attesismo dei governanti, che altri uomini vicini a Garibaldi, perfino un Bixio, talora giustificavano.

Si dedicava intanto allo studio di problemi economici e giuridici, sulle orme di C. Cattaneo, ancora valido modello per lui sia in campo scientifico sia per la funzione di oppositore democratico.

Nello scritto Dell'opposizione parlamentare (Milano 1865) il B. attenuò fra l'altro il proprio unitarismo, suscitando non a caso la reazione, improntata a fine umorismo, del mazziniano F. Campanella. Mazzini, tuttavia, dopo una fase di lamentele sul conto del B. e della sua "agenzia" (cioè la Cassa di soccorso, che dall'ottobre '60 era diretta dall'ex segretario del B., F. Bellazzi), tornò a ricercar l'accordo con lui, specialmente in vista di un'azione nel Veneto. Il B. si adoperava per il suo ritorno e gli era indubbiamente devoto, pur spesso paventando il suo proposito di controllarlo e vincolarlo a remote finalità.

Nel 1866, scoppiata la terza guerra d'indipendenza, il B. tornò al suo compito di medico-capo tra i garibaldini, condividendo i pericoli della giornata di Bezzecca. L'anno successivo, pur contrario all'impresa nel Lazio, accorse, in un secondo tempo, a Monterotondo, per aver notizie degli amici Cairoli, e si trattenne quindi tra i combattenti di Mentana, prestando assistenza sanitaria. Sempre nel 1867 fondò a Firenze, con F. Crispi, F. De Boni, B. Cairoli e G. Carcassi, il giornale La Riforma, che dedicò la propria attenzione ai problemi sociali. Oltre alla fondazione del giornale fiorentino, notevole fu la parte avuta dal B. nell'amministrazione e nei problemi del finanziamento di altri organi di stampa democratici, quali Il Diritto, La Nuova Europa, La Lega della Democrazia.

Fra le attività cui si dedicò in questo periodo figura anche un tentativo di impresa industriale, con l'apertura di una fabbrica di concimi chimici in Genova. Scarsa fu invece fino al 1870 la sua operosità in Parlamento. dove rappresentò, dal 1866, il collegio di Lecce.

Eletto a Pizzighettone, nel 1871, deputato per la XI legislatura, rappresentò poi Rimini nella XII e XIII (1875-1880) e, non rieletto nella XIV, tornò alla Camera nella XV nel 1882, raccogliendo il frutto della sua lunga battaglia per l'allargamento del suffragio con l'elezione nei collegi di Rovigo, Ravenna e Milano, tra i quali scelse quest'ultimo. Nella sua base elettorale così ampliata, cospicuo fu l'apporto dei voti operai, affluiti attraverso l'azione organizzativa e propagandistica di associazioni popolari vicine al movimento radicale, tra le quali soprattutto il Consolato operaio milanese. La sua iniziativa più importante, in sede parlamentare, fu l'inchiesta agraria, da lui proposta nel dicembre 1871.

Un'altra proposta analoga, recante inizialmente il nome di M. Minghetti, si differenziava da quella del B. per la priorità attribuita alla ricerca sulle condizioni economiche e tecniche della produzione agricola vista nel suo complesso, laddove egli intendeva far luce anzitutto sulle condizioni fisiche, igieniche ed economiche dei contadini, sui rapporti che legavano questi ultimi alle fonti di produzione, per poi risalire alle questioni generali dell'agricoltura. Tale divergenza di punti di partenza e quindi di metodo nell'inchiesta rese assai laboriosa la fusione delle due proposte: i proprietari terrieri e i conservatori, ritenendo pericolosa la priorità dell'impostazione sociale, erano propensi al criterio di una rilevazione tecnica e complessiva (proposta Minghetti), mentre la Sinistra, particolarmente l'Estrema, aderiva all'istanza sociale, implicita nella proposta del Bertani. Nominate due commissioni, esse concordarono una relazione unica e il successivo dibattito parlamentare si concluse nel 1876 con la formazione di una commissione per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola. Se tale denominazione indicava una sintesi dei due criteri, in realtà, dal tenore della relazione e dalla composizione della giunta, traspariva chiaramente la prevalenza dell'impostazione conservatrice. Presidente fu il conte S. Jacini, vicepresidente il B., ma subito si ebbe un grave disaccordo sul metodo di suddivisione del lavoro, propugnando il B. che fosse fatta sulla base delle diverse competenze, mentre la maggioranza decise di assegnare ad ogni commissario una zona geografica, col compito di una globale informazione al riguardo. Per evitare le sue dimissioni, fu tuttavia accordato al B. l'incarico speciale di un'inchiesta collaterale sulle condizioni igienicosanitarie delle popolazioni rurali, oltre a quella generale da svolgere nella sua zona comprendente le province di Porto Maurizio, Genova e Massa Carrara.

Invero, lo studio della questione sanitaria costituiva per il B. l'occasione per riportare in primo piano l'indagine sulla personalità del contadino italiano, con particolare riguardo alle sue condizioni sociali e alle carenze igienico-sanitarie del settore. Ma le spese, da lui compiute a scapito dell'inchiesta principale, e l'invadenza con cui sconfinava negli argomenti delle singole zone suscitarono l'opposizione dei colleghi, contro cui egli ricorse al governo, presieduto dall'amico Depretis.

Ottenne così dal ministero dell'Interno l'incarico di un lavoro preparatorio per un codice di pubblica igiene e di specifiche ricerche sull'igiene rurale, ma tali interferenze dell'esecutivo esacerbarono maggiormente i commissari. I lavori dell'inchiesta principale procedettero, tra varie vicende, fino a concludersi nel 1885. Nello stesso anno il B. presentò lo schema di codice per la pubblica igiene, mentre concludeva i lavori la commissione d'inchiesta sulla prostituzione, della quale egli pure aveva fatto parte.

Il suo atteggiamento di fronte alla Sinistra ministeriale fu oscillante: appoggiò, in un primo tempo, Depretis, accettando anche le convenzioni ferroviarie, cui era nell'intimo contrario, in cambio della riforma elettorale; lo criticò, poi, a fondo, salutando, invece, con entusiasmo, il governo di B. Cairoli, suo fraterno amico. in occasione del suo avvento, nel marzo 1878, pronunciò il famoso discorso "L'Italia aspetta", in cui riconosceva non solo la possibilità ma altresì indicava le condizioni dell'accordo tra monarchia e democrazia. Egli forniva con ciò ai radicali, che sotto la sua guida si costituivano in partito autonomo, un'impostazione politica, precisata poi con l'esposizione del loro programma nell'intervento parlamentare del 22 giugno 1884.

La sua azione parlamentare, ispirata a un difficile e personalissimo equilibrio tra spirito rivoluzionario e riformismo costituzionale, tra alternativa repubblicana ed evoluzione democratica della monarchia, fece del B. non solo la guida dei radicali, ma l'esponente più qualificato per rappresentare le varie gradazioni dell'Estrema. D'altro canto, tale orientamento, unito alla mancanza di abilità tattica nel procurarsi una schiera fissa di seguaci, lo rege talora isolato perfino tra i deputati più affini e fedeli.

Il radicalismo del B. era il punto di arrivo della sua maturazione ideologica nel periodo successivo all'unità: al generico liberalismo iniziale diedero spiccato contenuto di sinistra l'eredità, da lui assunta, della democrazia federalistica di Cattaneo, gli insegnamenti dell'etica sociale mazziniana (significativa la menzione, nel discorso del 22 giugno 1884, dei "doveri della proprietà") ed infine i notevoli punti di contatto con l'ispirazione del nascente socialismo italiano nei suoi aspetti umanitari e non dottrinali. La sua ideologia si caratterizzò con vasti postulati sociali, con la richiesta di una riforma dello statuto, con l'assoluto separatismo in materia di legislazione ecclesiastica; sul piano economico essa era anzitutto antimonopolistica, ma nei momenti di maggiore polemica contro i ceti ricchi (come in occasione del dissidio per l'inchiesta agraria) giunse a investire gli stessi capisaldi dell'economia classica liberale, cui venne opponendo la concezione degli interventi equilibratori dello Stato. Il B. appartenne alla massoneria, dei cui gran maestro A. Lemmi fu intimo amico.

Negli ultimi armi il B. visse a Roma ove morì il 30 apr. 1886.

Opere: Dopo la morte di Cattaneo, cui aveva assistito come medico e amico, aveva tenuto in custodia i suoi importanti documenti storici, relativi al governo provvisorio di Lombardia nel 1848, e aveva raccolto, ordinandoli poi sistematicamente, tutti i suoi scritti, dei quali curò la pubblicazione presso la casa editrice Le Monnier di Firenze a partire dal 1881 (Opere edite ed inedite di Carlo Cattaneo, raccolte e ordinate per cura di A. Bertani, Firenze 1881-1892).

Oltre poi a quelle citate, si ricordano L'avvocato e il dottore. Botta e risposta tra F. Campanella e A. Bertani, s. l. 1866; Programma del giornale "La Riforma", Firenze 1867; L'Italia aspetta, Roma 1878; Sull'inchiesta agraria. Note di A. Bertani, Roma 1880; La prostituzione patentata e il regolamento sanitario. Lettera ad A. De Pretis, ministro per l'Interno, Milano 1881; Scritti e discorsi, scelti e curati da J. W. Mario, Firenze 1890; Discorsi parlamentari, pubblicati, per deliberazione della Camera dei deputati, a Roma nel 1913.

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