BONUCCI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 12 (1971)

BONUCCI (Bonuccio), Agostino

Boris Ulianich

Nacque probabilmente a Monte San Savino (Arezzo) nel 1506. Nulla sappiamo dei genitori. Ancora fanciullo, quasi certamente nel 1514, fu accettato nel convento dei servi di Maria di Arezzo.

Era allora generale dell'Ordine Angelo di Arezzo il quale, terminato il Concilio lateranense V, risiedette quasi stabilmente ad Arezzo. Negli anni tra il 1521 e il 1528, in cui ferveva la polemica controversistica con i luterani, il B. è a Firenze, nel convento della SS. Annunziata, per il noviziato e gli studi di filosofia e teologia. In questo periodo lo Studio dell'Ordine di Firenze era sotto l'influenza di Girolamo Amadei, che prese parte con vari scritti alle controversie con i protestanti. Fra il 1524 e il 1526 fu reggente dello Studio di Firenze Lorenzo Mazzocchi, dottore in teologia della Sorbona, che si era occupato anch'egli, sin dal 1520, della confutazione delle dottrine luterane. Con il Mazzocchi il B., che lo volle vicino a sé a Trento, mantenne sempre una viva, fedele amicizia. A Firenze il B. ebbe come maestro Romolo de Laurentianis (Laurenzini), teologo scotista, che pubblicò le Scoti Collationes, commenti ad opere di Aristotele, e fu, secondo la testimonianza degli Annali, "Malleus omnium errorum".

È in questa atmosfera e a contatto con questi uomini e la problematica più viva del tempo che si forma il Bonucci. Dal 1533 al 1536 priore provinciale di Toscana, insegna contemporaneamente filosofia a Siena, nello Studio dell'Ordine. Non è certo ch'egli leggesse filosofia anche in quella università, come afferma il Poccianti. Nel 1536, allo scadere del triennio di provincialato, il B. fu nominato reggente dello Studio dell'Ordine in Bologna. Trattandosi di uno Studio maggiore, il B. doveva già essere maestro in teologia e, in effetti, in questo anno egli viene ricordato nei documenti come "magister". Durante il periodo della reggenza bolognese (1536-1542) si fece seguire da alcuni suoi allievi fiorentini, quali Michelangelo Naldini e Stefano Bonucci, succedutigli piu tardi nella stessa carica. Fu anche priore del convento della SS. Annunziata in Firenze negli anni 1538-1539, ma non si sa come il B. potesse contemporaneamente esercitare l'uno e l'altro ufficio, considerato anche che egli veniva spesso richiesto come predicatore (già nel 1537 aveva predicato, con grande affluenza di popolo, la quaresima in S. Maria dei Servi in Venezia e il giorno di Pasqua in S. Marco; e nel 1538 aveva predicato l'Avvento nel duomo di Firenze. È proprio in rapporto con questa predicazione che Pietro Aretino scrisse una lettera piena di ammirazione e di lodi per il Bonucci). Nel 1538 il B. ricoprì la carica di vicario generale dell'Ordine a cui l'aveva chiamato il generale Dionisio Laurerio. Nel maggio 1542 fu deciso dai padri vocali, convocati a Faenza per il capitolo generale, che il B. presiedesse il capitolo stesso come vicario generale.

Il B. - come reca il Regestum del suo generalato - si mise subito all'opera "regendo et moderando le cose del Capitulo secondo l'inspiratione de Iddio, et consiglio de' padri, sempre al giusto attendendo...". Si trattò tuttavia di un fortunoso capitolo sotteso da dure tensioni fra Congregazione dell'osservanza e conventuali. La Congregazione dell'osservanza intendeva eleggere fra' Ciriaco da Padova, un candidato ad essa imposto, sembra, con le minacce. Fra' Polidoro Scaiola, vicario generale dell'Osservanza, accompagnato da due rappresentanti della stessa congregazione, voleva far valere i voti degli aventi diritto della congregazione, anche se assenti. I conventuali, richiamandosi ad una vecchia clausola - secondo cui nulli erano i voti di coloro che non partecipassero di persona alla celebrazione del capitolo - rinnovata per l'occasione dal Laurerio attraverso fra' Alessandro da Sassuolo, riuscirono a far eleggere generale il Bonucci. Egli fu favorito in pieno dal cardinal Laurerio, il quale era rimasto per volere di Paolo III ancora per tre anni al governo dell'Ordine, nonostante la dignità cardinalizia. Se è vero infatti che il Laurerio scrisse ai provinciali parlando di assoluta libertà nella scelta del suo successore e anche se egli non partecipò al capitolo e neppure nominò il vicario generale che avrebbe dovuto presiederne i lavori, si sapeva molto bene chi egli favorisse. E del resto giunse a Faenza una bolla di Paolo III, riportata nel Regestum, in cui si diceva, fra l'altro: "Scitote Generalem Faventiae per malas artes creatum, Romae per bonas artes explosum non sine ignominia, atque reiectum iri". Nonostante la Congregazione dell'osservanza avesse deciso di non riconoscere il generale eletto in una simile votazione, il B. riuscì nel settembre 1542 ad ottenere anche il riconoscimento dell'Osservanza e condusse poi in porto, tre anni più tardi, una quasi completa riconciliazione tra l'Ordine e l'Osservanza stessa. Il 30 ott. 1545, alla vigilia dunque dell'apertura del concilio di Trento, il B. poteva scrivere al duca di Ferrara che si era terminato in un solo giorno, "per via di charità et amore", "quello che per via di liti in Roma non si è potuto in diciassette anni conseguire": i rappresentanti dell'Osservanza avevano promesso che sarebbero stati - come reca il Regestum - "buoni figlioli di obbedienza...".

Terminato il ciclo di lezioni a Bologna, il B. si recò a visitare i conventi dell'Ordine in Emilia, nel Veneto e nella Lombardia. L'anno seguente presiedette quattro capitoli provinciali e visitò i conventi della Toscana. Nel 1544 fece la visita canonica ai conventi dell'Umbria e si recò nel Veneto e nella Lombardia. Egli voleva farsi un quadro preciso della situazione dell'Ordine, per il quale, ne era ben conscio, s'imponeva una vera riforma. Va notato peraltro che in questo periodo l'Ordine dei servi aveva un elevato numero di teologi presenti nei vari studi d'Italia. Già la pattuglia di teologi, piccola ma teologicamente molto preparata, che il B. portò con sé a Trento - e fra essi in primo luogo il finissimo e focoso Lorenzo Mazzocchi e poi Stefano Bonucci - sta a dimostrarlo. L'11 maggio 1545 il B. era già a Trento per ordine di Paolo III che lo aveva riconfermato generale senza che si facesse capitolo: fu certamente questo il motivo per cui il B. non si recò a visitare i conventi dell'Italia meridionale come pure i conventi di altre regioni europee. La sua presenza a Trento è documentata sino al 4 settembre.

Poiché l'apertura del concilio veniva sempre di nuovo rinviata, il B. lasciò, con il permesso dei legati, Trento per affrontare prima a Milano e quindi a Padova alcuni problemi che si ponevano con urgenza all'Ordine: il dissidio della provincia narbonense che rivendicava la propria autonomia e la riconciliazione con l'Osservanza, di cui si è già detto. Il problema della provincia narbonense che il B. tentò di risolvere con l'invio di fra' Girolamo Sacco da Sommariva, dopo una parvenza di composizione, si ripresentò più acuto all'indomani del capitolo generale del 1548 e vani furono gli sforzi allora compiuti. Anche nell'Ordine dei servi si riscontra in questo periodo una forte crisi della autorità centrale ed un certo rilassamento nell'osservanza della regola.

Il ritorno del B. a Trento avvenne il 19 novembre, come è ricordato in una lettera dei cardinali legati al cardinal Farnese. Il 13 dic. 1545, giorno dell'apertura del concilio, il B. presenziò alle cerimonie inaugurali insieme ad altri quattro serviti. Restò a Trento ininterrottamente sino al trasferimento del concilio a Bologna (marzo 1547). Prima di allora gli fu impedito di allontanarsi da Trento anche per necessità dell'Ordine. Il B., che era imparentato con il primo presidente del concilio, Giovanni Maria Del Monte, ed era assai stimato dagli altri due legati, Cervini e Pole, ebbe modo di stringere amicizia con il Seripando, con gli abati della congregazione di S. Giustina, che egli sentiva particolarmente affini, con Bonaventura da Costacciaro e numerosi vescovi. Non gli mancarono tuttavia, a causa della sue idee, avversari aperti come Domingo de Soto o subdoli come il Grechetto. A Trento egli si mantenne a sue spese e non volle ricompensa alcuna. Di ciò il B. si faceva forte in una lettera del 6 ag. 1547 al cardinal Farnese in cui aggiungeva: "ma ben mi doglio che in ricompensa delle mie fatiche e fedel servitù, la mia Religione sia estirpata da Perugia". Sempre in questa lettera si manifesta un tratto del carattere deciso del B.: "Ho scritto a Sua Santità, che quando mi sarà fatto un sì gran torto, che anderò ai piedi suoi, et gli rinuntierò il segillo et registro che tengo, e l'habito insieme, che ho portato per trentatrè anni, della Beata Vergine". Pur non potendo muoversi da Trento egli rimase costantemente in contatto con l'Ordine. E provava dolore per non aver potuto compiere nel 1546 le visite ai conventi. Trasferito il concilio a Bologna, egli poté partecipare nel giugno 1547 alla celebrazione del capitolo della provincia di Genova e da qui passò in Lombardia per una visita ai conventi di quella regione. Agli inizi del 1548 si diede a preparare il capitolo generale che fu tenuto a Budrio il 23 apr. 1548: in esso il B. fu riconfermato generale. Durante il capitolo promulgò le Costituzioni, di cui non pochi capitoli recano tracce evidenti delle decisioni tridentine. All'attuazione della riforma da esse dettata il B. dedicò il resto della sua vita.

Il 15 ag. 1550 fu incaricato da Giulio III (il nome assunto come pontefice dal cardinal Del Monte) di presiedere insieme con l'arcivescovo di Genova, vicelegato di Bologna, alla riforma del convento bolognese di S. Maria dei Servi. Come conseguenza dell'opera di riforma, si ebbe un "buonissimo ordine così al culto divino quasi prima interlasciato, come al governo delle entrate". In tale questione, di natura esclusivamente disciplinare, era stato coinvolto dall'apposita commissione creata dal senato bolognese lo stesso generale. Gli si rimproverava che "per causa di regnare, manteneva lì un suo allievo per regente et vicario generale con un grosso numero di forestieri, affine che tengano oppresso la natione bolognese". Stefano Bonucci e Angelo d'Arezzo furono allontanati da Bologna e privati per tre anni dei gradi accademici.

Rieletto generale il 1º maggio 1551 nel capitolo generale di Rimini, il B. concordò con il vicario generale dell'Osservanza una comune attività di riforma dell'Ordine. La sua salute andava declinando. Nel 1552 passò dai Bagni di San Casciano alle Acque di San Filippo, vicino al monte Andata. Tornò quindi a Roma, dove il 4 giugno 1553 morì nel convento di S. Marcello. Stefano Bonucci, allora procuratore generale, ne fece trasportare il corpo nella chiesa dei servi di Arezzo dove gli fece innalzare un monumento funebre dal Montorsoli.

Del B. non esistono lavori destinati alla stampa, se si eccettuino le Costituzioni dell'Ordine. Ma esse, pur recando una sua chiarissima impronta, non si lasciano ricondurre esclusivamente al Bonucci. Di lui restano peraltro alcuni trattati filosofici, la Conversio Pauli e, soprattutto, gli interventi al concilio di Trento. Il non molto materiale è certamente insufficiente per ricostruire una linea sistematicamente compiuta. Tuttavia, per la sua pregnanza, esso aiuta a mettere a nudo i punti focali del pensiero teologico del Bonucci.

I trattati filosofici restati nella trascrizione data da Michelangelo Naldini negli Augustini et Angeli de Aretio Opera Speculativa (Bibl. Naz. di Firenze, Conv. Soppr. G 5, n. 1289) sono appunti relativi alle lezioni tenute dal B. nel convento dei servi di Siena negli anni 1533-1534. Di essi si può fare un uso assai cauto. Si tratta di esplicazioni scolastiche di Aristotele, Scoto e Syrreto. Più che a cogliere il pensiero personale del B., possono servire come indicazione degli autori che allora si leggevano nei primi corsi di filosofia negli studi dell'Ordine.

La Conversio Pauli, dedicata a Paolo III con una lettera datata 1º febbr. 1545, è conservata nel codice ms. Vat. lat. 3638 della Bibl. Apostolica Vaticana. Della sua esistenza sapeva già il Tozzi. Di essa si era occupato, anche se ne riportava soltanto alcuni brani, lo Jedin nella monografia dedicata al Seripando. Ora la Conversio Pauli è stata integralmente pubblicata dall'Aldrovandi. È probabile che essa sia nata direttamente, piuttosto che come omelia tenuta forse il giorno della conversione di s. Paolo e poi riveduta, come trattazione da dedicarsi a Paolo III. La breve lettera dedicatoria spiega l'occasione che avrebbe spinto il B. a stendere le sue riflessioni su questo argomento: il fatto che Paolo III celebrasse "persancte" la festa della conversione di s. Paolo. Ma lo scopo a cui tende il B. con la Conversio, toccato già nella dedica e reso ancor più esplicito nelle ultime righe del trattato, è di incitare Paolo III a perseverare non solo nella decisione di convocare il concilio a Trento, ribadita, dopo il 1542, nella bolla Laetare Ierusalem del 19 nov. 1544, ma ad iniziarlo e a condurlo in porto. Il B. si manifesta fautore deciso della celebrazione del concilio, dal quale si ripromette non solo il ritorno alla Chiesa degli eretici (un ritorno che in un passo il B. non esita a volere sull'esempio della conversione di s. Paolo, coatto), ma anche la conversione di tutti gli infedeli. L'ossatura di quest'opera è costituita dai brani relativi alla conversione e alla missione di Paolo che si riscontrano negli Atti degli Apostoli e nelle lettere paoline. Il discorso si snoda in modo eminentemente biblico: è la Scrittura a costituire il filo conduttore del trattato. Dopo la Scrittura, l'autore di preferenza citato è Agostino. Non mancano riferimenti ad Origene, Girolamo, Beda, Tommaso (rinviando al De veritate così il B. difende il libero arbitrio: "liberum arbitrium utique a Deo immutari potest, at cogi minime"), Dionigi l'Areopagita. Particolare rilievo riveste, in ordine al rapporto fra teologia e filosofia secondo il B., la puntualizzazione della differenza intercorrente fra la conoscenza della Scrittura e quella delle "physicae disciplinae": "illae inflant, haec humiliat". La conoscenza naturale si acquisisce con il lume naturale dell'intelletto agente, dei sensi, ecc., mentre quella della Scrittura si ha "fide, Christique spiritu, intus revelante...". Distinzione netta tra fede e scienza. La scienza della Scrittura ("sapientia" paolina che ingloba necessariamente la "metanoia") non è un portato dello sforzo dell'uomo, ma un dono della fede. L'intelligenza dei contenuti di fede, per ciò che è possibile, può avvenire soltanto nella fede. Se un rapporto si pone fra ragione e fede è quello della ragione che vede in quanto illuminata dalla fede. Considerando alcune delle idee che con maggior insistenza affiorano nella Conversio, oltre talune espressioni come "ecclesia Christi" (che indica tanto la Chiesa universale quanto una chiesa particolare) e "fides Christi" di chiara estrazione agostiniana, va notata la particolare posizione assunta dal B. nell'ambito della "theologorum communis sententia" circa il rapimento di Paolo al terzo cielo durante il periodo trascorso a Damasco, subito dopo la folgorazione. Paolo, secondo il B., avrebbe appreso in questo rapimento "evangelium etiam Christi ore". Questa affermazione sta particolarmente a cuore al B. che la ripete per ben otto volte. D'altra parte Paolo avrebbe predicato non tutto quanto vide e apprese, ma soltanto "saluti humanae necessaria", vale a dire: fede nel Cristo come messia promesso ai patriarchi e come vero figlio di Dio. Queste le verità necessarie alla salvezza, che sono per il B. contenute nel Vangelo. Se si tien presente per altro l'intero svolgersi del pensiero del B. in questo lavoro, appare all'evidenza come egli fondi la giustificazione sulla sola grazia: è Dio che giustifica e salva in Cristo, annunciato nel Vangelo. Il più diametralmente distante dalla salvezza è colui che ritiene di salvarsi con le opere della legge, perché la giustizia "solo Christo in(est)". La predicazione ha da essere incentrata per il B., come quella di Paolo, nel Cristo crocefisso. La croce al centro dell'annuncio è indissolubilmente legata, per il B., alla Chiesa che è corpo di Cristo e quindi a lui unita nella croce.

La Conversio Pauli riveste notevole valore per cogliere alcune delle posizioni di fondo che si esplicheranno negli interventi del B. al concilio di Trento: e questi a loro volta vanno valutati nel contesto dei lavori conciliari che hanno certamente agito da stimolo su di lui. Il B. si manifesta estremamente attivo sin dalle prime battute del concilio. Il 4 genn. 1546, circa il problema se si dovesse porre in testa al decreto da promulgarsi nella sessione di gennaio la formula che il concilio rappresentava "universalem ecclesiam" come proponeva il vescovo di Fiesole Braccio Martelli, il B. obiettò come questa espressione fosse "recens inventa" e sconosciuta agli antichi concili. Stando al Severoli, il B. sarebbe stato il primo ad assumere un simile atteggiamento; la sua posizione, anche se non ne viene ricordato il nome, è tenuta presente dai legati nella lettera da essi scritta al Farnese il 5-6 genn. 1546.

Il concilio, secondo il B., avrebbe dovuto affrontare due ordini di questioni: definizione della vera dottrina cattolica nei confronti degli attacchi e delle distorsioni degli eretici; riforma della Chiesa "in capite et in membris". E in ciò si trovava sulla stessa linea dei padri conciliari che erano, più o meno profondamente e univocamente, convinti di ciò. Un atteggiamento assunto invece soltanto da un'esigua minoranza può caratterizzare più da vicino la posizione del Bonucci. Difendendo la tesi già sostenuta dal Cervini, il B. sostiene il 22 genn. 1546 la necessità di trattare e definire in primo luogo la dottrina e discutere e fissare quindi, in un secondo momento, le linee per una riforma della Chiesa. Egli si diceva d'accordo con il giudizio pronunciato dagli eretici quando affermavano: "malos nostros mores ex mala institutione procedere". Una volta stabilito anche che il concilio avrebbe dovuto occuparsi contemporaneamente e del dogma e della riforma, il B. non mancò di difendere la validità della sua posizione nella predica dell'8 apr. 1546. Si trattava in effetti di una posizione che finiva per coincidere - anche se con tutt'altra motivazione - con quella di Paolo III, che della decisione presa dal concilio ebbe a lamentarsi con i legati.

Membro dal 2 febbraio della prima classe delle congregazioni particolari che si riuniva sotto la presidenza del Del Monte, passò poi, almeno dal 18 febbraio, alla seconda classe, in cui si trovava anche il Seripando e che aveva come presidente il Cervini.

L'8 febbraio, ispirandosi al modo di procedere degli antichi concili - già esplicitamente ricordato nell'intervento del 4 gennaio -, il B. respinge la proposta del Del Monte di dichiarare "que scripture sint canonice, et que non", in quanto "nulla est inter nos et Luteranos controversia". Questo intervento, riportato stringatamente negli Atti, pone in evidenza la chiarezza con cui il B. distingueva fra canonicità, ispirazione e autenticità della lettera agli Ebrei e della lettera di Giacomo: canonicità e ispirazione accettate da Lutero che di queste lettere negava l'autenticità. E del resto Lutero e i luterani - e ciò era ben chiaro al B. - per ciò che concerneva la questione del canone si ponevano nella scia di Girolamo e di Erasmo, vale a dire nella stessa scia in cui si era posto anche il cardinal Gaetano. Una volta approvata la proposta del Del Monte, il B. si oppose il 12 febbraio a che il concilio distinguesse fra "canon fidei" (libri canonici autentici) e "canon morum" (libri canonici ed ecclesiastici), come avevano sostenuto il Seripando e il vescovo di Fano l'11 febbraio nella classe seconda, e propose l'accettazione in blocco del canone fiorentino. L'argomentazione: il concilio non prenda posizione - "quod ecclesia facere non consuevit" - in questioni in cui "inter se Augustinus et Hieronymus dissentiunt". Il Severoli - che è da considerarsi sino al 1º apr. 1546 la fonte più autorevole per le congregazioni generali - così sintetizza la posizione del B.: "omnino relinquendam esse intactam huiusmodi questionem". Questa volta la maggioranza dei padri aderì alla proposta del Bonucci. Il 15 febbraio fu deciso che si accettasse il canone fiorentino senza alcuna aggiunta e che "li libri sacri si piglino et si riverischino, senza fare alcuna mentione di gradi tra loro o differentia di autorità", come scrivono i legati al cardinal Farnese il 16 febbraio. Nella congregazione particolare della seconda classe, in cui il 15 febbraio si discusse se si dovesse trattar prima delle tradizioni apostoliche o degli abusi "qui circa ipsam scripturam irrepserunt" oppure "simul et semel" ambedue gli argomenti, il B. si pose sulla stessa linea dei cardinali Tagliavia e Campeggi, del vescovo Piccolomini e del Seripando che aveva parlato prima di lui: si iniziasse dalle tradizioni e si passasse poi a trattare degli abusi. Ma il B. aggiunse anche che si dovevano accettare esplicitamente i canoni degli apostoli, i concili e le decretali dei pontefici in quanto queste venivano rifiutate e disprezzate dagli eretici "nostri temporis". Il Diarium III del Massarelli reca una specificazione che non collima perfettamente con il passo riportato negli Atti redatti dallo stesso Massarelli. In esso si afferma che il B. avrebbe espresso l'opinione che fra le "scripturae sacrae" si dovessero nominare anche "apostolorum canones, sacra generalia concilia et summorum pontificum decretales". Si ha in questo passo un uso di "scripturae sacrae" che non appare negli Atti. Ma, poiché il Diarium III contiene il protocollo delle congregazioni particolari tenute nella seconda classe di cui gli Atti danno resoconti molto più sintetici, è a quanto riportato dal Diarium III, nonostante le perplessità che il passo può destare, che bisogna rifarsi. Cosa intendeva dire il Bonucci? L'espressione va considerata e inserita nel contesto delle discussioni o delle dichiarazioni che si ebbero nel corso della congregazione particolare. Ora, ad esempio, il vescovo di Feltre, che aveva preso la parola prima del B., aveva affermato nel suo intervento che "praeter sacros libros et apostolicas traditiones ecclesiasticas scripturas esse...". Evidentemente il B. intendeva che dopo i libri canonici in senso stretto (scritture sacre per eccellenza) il concilio dovesse ricevere anche le scritture ecclesiastiche di cui cita alcuni esempi. Senza questa chiarificazione si impedisce la comprensione della problematica e della terminologia impiegata dal B. anche nelle seguenti congregazioni della sessione III e nella congregazione particolare del 23 marzo. Nella congregazione particolare della classe seconda del 23 febbraio il B. espresse parere favorevole a che venissero accettate le "traditiones", laddove per "traditiones" è qui da intendersi senza alcun dubbio, stando alle parole introduttive del Cervini, "traditiones apostolicae". Aggiunse tuttavia il B.: "displicere tamen, quod articuli indigesti relinquerentur". Ma alla domanda del Cervini sul come egli avrebbe voluto che questi venissero articolati, rispose "ex improviso id exprimi non posse, sed deputandi cogitent". Con il problema delle "traditiones" si tocca uno dei punti più controversi ai quali rimane legato il nome del Bonucci. Dagli Atti e dalle altre fonti del concilio emerge che i termini "traditio, traditiones" vengono spesso impiegati consensi non univoci. L'atteggiamento del B. circa il rapporto Scrittura-tradizione si esprime con chiarezza nel corso del dibattito sullo schema di decreto avutosi nella congregazione particolare della seconda classe, il 23 marzo. Egli intende "evangelium" in senso strettamente etimologico come annuncio della salvezza: salvezza e remissione dei peccati "in fide mediatoris Christi". Il Vangelo così inteso non sarebbe stato "primum" (come nell'abbozzo del decreto) promulgato da Cristo stesso, sebbene "in ipso mundi exordio". Quanto poi all'affermazione che la "verità evangelica" sarebbe contenuta "partim... in libris scriptis, partim sine scripto traditionibus", il B. nega recisamente tale formulazione in quanto ritiene "omnem veritatem evangelicam scriptam esse, non ergo partim". Se si tien presente quanto egli aveva sostenuto nella Conversio Pauli, la "omnis veritas evangelica" dovrebbe avere lo stesso senso di tutto quanto è necessario per la salvezza. Secondo il B., la rivelazione neotestamentaria non scaturisce da due fonti ("partim... partim") - Scrittura e tradizione - ma si esprime compiutamente nella Scrittura. E in ciò il B. si riallaccia e si inserisce in un filone di pensiero che annovera tra i suoi rappresentanti Ireneo, Vincenzo di Lerins, Scoto. Le tradizioni si pongono per lui su di un piano qualitativamente diverso rispetto alla Scrittura, come appare anche dall'atteggiamento assunto dal B. nei confronti del "pari pietatis affectu" proposto nello schema di decreto. Quella espressione avrebbe potuto, secondo il B., essere impiegata unicamente per le tradizioni scritte e quelle non scritte, ma non per queste e i libri canonici. La Chiesa ha talora mutato le tradizioni degli apostoli, ma non il "verbum Dei" che è immutabile. E qui il B. ricalca assai da vicino le posizioni già espresse dal domenicano Nacchianti il 26 febbraio, quelle sostenute il 23 marzo dal vescovo di Fano, P. Bertano, anch'egli domenicano, e dal Le Jay, procuratore del card. Truchsess von Waldburg, vescovo di Augusta. Sempre nell'intervento del 23 marzo, la discriminazione di fondo fra libri canonici e tradizioni si rivela nella posizione assunta dal B. circa il quesito se si dovesse comminare l'anatema nei confronti di coloro che non accettassero "libros et traditiones" o unicamente di coloro che non accettassero le tradizioni. Il B. è per l'anatema soltanto nel secondo caso. Questa posizione veniva rafforzata con un canone del VII sinodo. Nel primo caso invece l'anatema gli sembrava superfluo non solo perché senza esempio nei concili, ma anche perché questa pena era "apposita... a spiritu sancto". Sembra quasi di vedere un parallelismo di giudizi: libri canonici e ispirati: anatema già comminato dallo Spirito Santo; tradizioni in potere della Chiesa: sanzioni comminate dalla Chiesa. Il 1º aprile, se nel rifiuto assoluto - senza quindi alcuna proposta di sostituzione del "pari" con "simili" o del "pari pietatis affectu" con "debita reverentia" - il B. si trovò accanto unicamente i tre abati della Congregazione di S. Giustina, egli rimase completamente solo nel sostenere quella posizione che il 26 febbraio era stata anche del Nacchianti e nella congregazione particolare del 23 marzo era stata sostenuta anche dal Bertano e dal Le Jay. Egli rifiutò ancora una volta categoricamente con un "non placet" il "partim... partim", anche se si deve aggiungere che nei quattordici "dubia" sottoposti ai padri in rapporto allo schema di decreto sulla S. Scrittura e la tradizione mancava una esplicita richiesta di parere su questo punto. Alle congregazioni generali del 3 e del 5 aprile il B. non partecipò. In quella del 5 aprile la opposizione al "pari" fu sostenuta dal Fonseca, vescovo di Castellammare di Stabia, dal Bertano e, con estrema violenza, dal Nacchianti. Ma la posizione del B. era già stata sufficientemente chiarita e venne ribadita nella congregazione particolare del 6 aprile. Se nel 1º decreto della sessione IV (8 apr. 1546) restò il "pari pietatis affectu ac reverentia", il "partim... partim" fu sostituito con "et... et". E ciò, senza dubbio, nonostante manchino documenti a testimoniare i motivi all'origine del ritocco (cosa che ha costituito argomento di tutta una serie di studi e interpretazioni ancor oggi discordanti), anche per merito dell'opposizione sostenuta con estrema coerenza dal Bonucci. L'intervento più completo del B. al concilio di Trento è senza dubbio costituito dall'omilia tenuta l'8 aprile 1546, nella sessione IV. Essa può esser considerata l'espressione più pregnante delle sue posizioni di fondo, che si presentano qui in concatenazione organica, e racchiude in nuce un sostanzioso e ricco abbozzo di ecclesiologia. Il fatto che l'omilia fosse tenuta il giovedì precedente la domenica di passione potrebbe a prima vista spiegare perché il B. riservi uno spazio tanto ampio alla croce. Ma la domenica di passione è per il B. soltanto l'occasione immediata a cui attingere per esporre una teologia che nella croce trova la sua struttura portante.

Il B. parte dalla considerazione della Chiesa così come essa si presenta nella realtà storica del suo tempo, "perturbata et deformata" da tanti errori, scismi, eresie, immoralità, e si chiede come mai il Cristo che ha promesso di conservarla invitta, senza ruga e macchia, possa permettere ciò. Per spiegare e la realtà storica e l'interrogativo che emerge dalla considerazione di questa, il B. spinge la sua analisi alla radice stessa della genesi della Chiesa: la Chiesa non si comprende senza la croce. È qui non solo il suo atto di nascita, ma anche la legge della sua vita, la molla della sua crescita, la chiave interpretativa della sua storia. Gli errori, gli scismi, le eresie che si manifestano in modo così impetuoso sono per il B. segni della croce permessi dalla sapienza di Dio. Di queste prove e tentazioni Dio si serve - e qui si avverte l'eco di tutta una tradizione già viva in Agostino - per purificare la Chiesa: "ut in dies magis renovata sua intimior fiat cum Christo societas". D'altra parte è proprio di questa Chiesa visibile, concreta, non ancora in possesso della realizzazione piena della santità (dimensione escatologica), così sostanzialmente legata a Cristo e alla croce (a tal punto che il Cristo soffre ancora la sua passione nella Chiesa) e alla quale appartengono buoni e cattivi, che Dio si serve per la evangelizzazione. Il B. è contro ogni considerazione trionfalista della Chiesa, la quale è sulla terra "in militia constituta". Egli è ben distante dalla posizione sostenuta dal Laurerio nella Compositionum defensio e molto vicino alla concezione della Chiesa che sottende le esigenze e le aspirazioni dei maggiori esponenti della riforma cattolica. Nella omilia del B. si ha una distinzione netta fra Chiesa visibile, che accoglie nel suo seno giusti e ipocriti, e Chiesa "(Deo) soli nota" che abbraccia unicamente coloro che, credendo con fede viva nel Cristo, sono stati "ante saecula praedestinati, et determinato tempore vocati, iustificati, magnificati". Strettissimo il rapporto fra Chiesa e fede: la Chiesa è generata dalla fede, la fede dal Vangelo, il Vangelo dalla croce. Èla fede che costituisce "in unica famiglia del padre celeste, in unico corpo di Cristo" i credenti, cementandoli quasi "con un santo vincolo". La Chiesa può così essere definita "fidelium omnium coetus". Ma come va intesa e cosa è la fede? Qui il B. tocca il nucleo più vivo della probleinatica della Riforma protestante. È contro ogni riduzione intellettualistica della fede ai contenuti di fede, alla "notitia" di misteri i quali "velut methodo quadam in apostolorum symbolo liquido traduntur". La fede cristiana, perfetta, implica essenzialmente la sicura speranza e la certa fiducia nella bontà e clemenza di Dio che condona i peccati attraverso il Cristo. Così il B. può affermare che la persona semplice che nutre grande fiducia in Dio e possiede appena un minimo di assenso storico nel Vangelo supera di gran lunga nella fede esimi dottori che ripongono poca fiducia in Dio e sanno invece discutere con raffinata dottrina e forbita eloquenza intorno ai misteri del Vangelo. La fede - e in ciò il B. si contrappone nettamente alla dottrina sostenuta da Lutero - è un "habitus" infuso, da Dio, che si accompagna in modo indissolubile alla carità e alla speranza. Essa, "radix et summa sanctae vitae", non nasce dalla dottrina o dalla erudizione della legge, ma dalla parola salvifica del Vangelo. La contrapposizione fra legge e Vangelo, così accentuata in Paolo e così radicalizzata in Lutero, ritorna anche nel discorso del B. in un contesto e tradendo spinte schiettamente evangeliche, nel senso delle istanze più vive e profonde dell'evangelismo. Non sono le opere della legge che rendono l'uomo giusto; esse possono portare solo ad una "falsa giustizia" (analoga posizione è assunta dal B. nella Conversio Pauli). La giustizia annunciata dal Vangelo cerca i peccatori e dà ad essi "gratis", purché pentiti, "il favore della divina clemenza, la remissione dei peccati, la giustizia - e qui il B. sottolinea come intenda parlare della "prima giustizia": un accenno discreto alla dottrina della doppia giustizia sostenuta dal Seripando? -, la trasformazione della volontà, la santità e la gloria dei figli di Dio. Ma anche il discorso della giustizia "ex fide" vien ricondotto dal B. alla croce. Chi crede nel Vangelo per ciò stesso diventa una cosa sola con il Cristo crocefisso e muore con lui e in lui al mondo, al peccato, e partecipa così di tutto quanto è di Cristo. La croce soltanto è in tal modo il principio, la radice storica e ontologica della giustificazione, come essa è il presupposto storico e ontologico necessario perché si abbia Vangelo, fede, Chiesa. Una chiarissima definizione della dottrina della giustificazione che coglie - pur nella recisa condanna dei riformatori e in particolare di Lutero, considerato come un nuovo Giuda, un apostata in cui è entrato Satana per sconvolgere la Chiesa e "omnes omnium ordinum magistratus profanos et sacros", secondo il giudizio allora corrente in ambito cattolico e, pur se con segno contrario, avallato anche dallo Sleidan - le esigenze di fondo a cui attinge la Riforma stessa. E con l'incentrare ogni suo discorso e tutta la realtà del Vangelo, della fede, della Chiesa nella croce, egli è continuamente vicino alla teologia della croce di Lutero che con ogni probabilità non aveva colto, e neppur forse sospettava esistesse in Lutero in quella misura così radicale in cui è effettivamente presente. Ma non manca nella omilia del B. un accenno assai sostanzioso alla struttura gerarchica della Chiesa visibile. È ai vescovi come corpo che è stata delegata "cura Ecclesiae".

Ad essi spetta mantenere intatto quanto concerne le fede e i costumi. E come essi sono detentori della "dignitas" e della "auctoritas" episcopale, così hanno da essere, in base alla loro realtà di pastori, "veluti viva lex", "veluti animata(e) leges et viva decreta" per il popolo ad essi affidato. Tale posizione riceve ulteriore esplicitazione negli interventi conciliari del 21 maggio, 20 giugno, 26 luglio e 23 ag. 1546. Proprio perché i vescovi sono pastori della loro diocesi, il B. ritiene la residenza "de iure divino". Strettamente connesso con l'obbligo della residenza è il dovere della predicazione, a tal punto che egli propone l'allontanamento dalla diocesi di quei vescovi che non predichino. Ma qual è il loro rapporto con il papa? Il papa - questa dimensione non è però toccata nella omilia - vien definito dal B. "universi orbis episcopus". Questo episcopato universale si configura in modo più esplicito in relazione agli altri vescovi, quando il B. afferma che i vescovi non hanno "ius eligendi et ordinandi a Deo", ma, soltanto, "mediate", dal papa. In effetti secondo il B., che si rifà al Torquemada, allo Eck, al Gaetano, sia la potestà di ordine sia quella di giurisdizione sono state date da Cristo a Pietro e da Pietro provengono alla Chiesa. La Chiesa si presenta dunque al B., appena egli la consideri nella sua struttura gerarchica e societaria, come una piramide che ha alla base il popolo cristiano e all'apice sommo il papa, successore di Pietro. Un posto speciale nella struttura gerarchica della Chiesa spetta ai religiosi, i cui privilegi il B. difende ad oltranza nella scia del Seripando e del generale dei carmelitani. Ma tutta la gerarchia, come ribadisce il B. nella omilia, ha funzione ministeriale: compito precipuo della Chiesa e dei suoi ministri è la missione.

Nonostante nella omilia dell'8 aprile venga ancora ribadita la completezza e la sufficienza della Scrittura, ciò non induce mai il B. a svalutare la tradizione, ma lo spinge a sottolinearne il valore specifico. Si può affermare con lo Jedin che "la tradizione è da lui intesa essenzialmente come interpretazione autoritativa della Scrittura e non come suo completamento", anche se va puntualizzato ulteriormente il rapporto che si pone, nel discorso dell'8 aprile, fra "traditiones" e "consuetudo". Quando parla di "traditiones" il B. intende "traditiones apostolicae"; laddove il concetto di "consuetudo" ha valore di "multarum quin etiam a Chisto aetatum omnium usu receptum" che sembra essere la traduzione di "quecunque conciliorum et patrum auctoritate longo aetatum usu firmata sunt", espressione usata dal B. poco prima della precedente. Con ogni probabilità si tratta di una distinzione apportata dal B. in vista della decisione conciliare promulgata il giorno stesso in cui fu tenuta l'omilia.

Fedele al principio enunciato nell'intervento del 22 gennaio, egli si occupa anche della riforma, che presuppone per lui un inserimento vivo nel corpo di Cristo e si traduce in croce e conformità con il Cristo. Essa riguarda vescovi, sacerdoti, principi e tutto il popolo cristiano. Ma il compito primo spetta ai vescovi. Essi debbono liberare e consolare la "diletta sposa di Cristo, la Chiesa, madre nostra e di tutti" che si presenta "dehonestata vultu, violata corpore, minisque ac terroribus percussa". Altrimenti, "alius expectandus est Nabuchodonosor". La omilia termina con una invocazione al Cristo e alla sua croce che si sostanzia del riconoscimento del proprio peccato e trova compiuta espressione nella invocazione: "Miserere Domine, miserere, quoniam si non essent peccata nostra, nullus esset misericordiae tuae locus".

Il Severoli annotava nella sua cronaca che il B. aveva parlato "docte et diserte de cruce Christi et eius triumpho, ac demum de Ecclesia et dogmatibus controversis". Eppure questo discorso fu attaccato da varie parti. Il vescovo di Castellammare di Stabia definì il B. "ussita". L'oratore cesareo Francisco de Toledo si disse fortemente scandalizzato. Domingo de Soto, teologo imperiale e procuratore del generale dei domenicani, definì l'omilia, stando al Pratano, "errorum seminarium". Sembra quasi che il B. prevedesse simili reazioni. In un punto della sua omilia - e questo tratto getta maggior luce sulla sua personalità - aveva ribadito la necessità di salvaguardare le antiche tradizioni, ma aveva anche attaccato coloro (e in ciò il Soto aveva ravvisato un attacco a se stesso) che identificavano la fede con delleformule di scuola e gridavano all'eretico non appena avessero sentito qualche affermazione non in linea con la loro dottrina. L'unico libro al quale il B. voleva attenersi, al di là e al di sopra delle dottrine delle scuole, era il Vangelo. Questo atteggiamento lo poneva in una posizione di maggior disponibilità e gli impediva di riconoscersi compiutamente in uno schema chiuso, scolastico, pur mantenendo il B. talune posizioni di ispirazione scotistica. L'incidente con il Soto fu composto, non senza strascichi, dei quali si è occupato Beltran de Heredia, il 18 aprile. Il B. ne uscì a testa alta. Il 12 aprile egli aveva affermato - cosa che può scoprire un aspetto del suo carattere - che, se in qualche punto la sua orazione avesse potuto esser provata come eretica, volentieri si sarebbe sottoposto "mortis supplicio". In caso contrario, il suo accusatore venisse fustigato "in platea".

Si potrebbe chiedere come mai un'omilia che vale più di un trattato (molto problematico appare il giudizio dell'Aldrovandi: "L'oratore ha una finalità pratica. Vuol spingere all'azione, più che illustrare delle verità") e che si stacca, come osserva lo Jedin, per forma e contenuto da tutte le precedenti, sia stata sostanzialmente ignorata dal Sarpi. Si potrà forse ricordare che le controversie sollevate dalla predica del B. impedirono che questa venisse stampata, come invece avvenne quasi di regola per molte altre orazioni. Ma si può pensare che il Sarpi non fosse informato neppure della opposizione del B. al "partim ... partim" e al "pari" prima e al "simili pietatis affectu" poi? Nessuna parola si fa della posizione del B. - che era poi così vicina al modo di pensare del Sarpi - nella discussione relativa alla Scrittura e alla tradizione. Mancava al Sarpi una sufficiente base documentaria, oppure egli per motivi diversi non intendeva parlare del Bonucci?

Nell'intervento del 15 aprile sul decreto "de lectoribus et praedicatoribus", riportato negli Atti dal Massarelli in modo assai schematico, compaiono degli elementi che contribuiscono a chiarire ulteriormente talune posizioni del Bonucci. È una conseguenza della convinzione più volte espressa dal B. che cattivi costumi derivassero "ex mala institutione", la proposta che, ad evitare gravi lacune nella guida delle diocesi, venissero scelti vescovi soltanto fra i "doctores". Un simile atteggiamento potrebbe far pensare ad una spinta umanistica, ad un influsso di stampo erasmiano. Ma le radici più profonde vanno forse ricercate altrove. La dottrina che il B. richiede deve essere fondata sulla Scrittura. La primazia del dotto è veramente tale soltanto quando egli sia dotto "in sacra pagina". Questa primazia che trova riscontro nei Padri e nella primissima scolastica e che tradisce echi e trasparenze di filoni evangelici italiani appare indirettamente ribadita nella proposta dello studio di Pier Lombardo avanzata dal B. il 13 aprile. Attraverso la teologia di Pier Lombardo, la sua ricchezza patristica - in primo luogo agostiniana - e la sua chiarezza dogmatica sembrava forse al B. più agevole l'accesso alla fonte prima, alla Scrittura. Una Scrittura interpretata alla luce dei Padri.

Di notevole interesse sono le posizioni assunte dal B. sia nella discussione sul peccato originale (di cui resta una stringatissima documentazione) sia in quella relativa al problema della giustificazione (di cui si hanno numerosi frammenti sufficienti per ricostruire il pensiero del B., almeno in alcuni punti essenziali). Il 31 maggio il B. sostenne - per quanto è desumibile dalla risposta data al Campeggi, vescovo di Maiorca, che lo aveva accusato di allegare le autorità dei Padri in favore dei protestanti - che il rimedio del peccato originale (dal quale il B. riteneva esente la Madonna) è dato dalla morte e dal sangue di Cristo applicati al credente attraverso il battesimo. A proposito della dibattutissima questione della concupiscenza, il B. osservò che, quantunque essa non fosse "vere peccatum", potesse tuttavia dirsi "aliquo modo peccatum, quia inclinat nos ad peccatum". E in ciò si era richiamato a Paolo, Agostino, Gregorio da Rimini e aveva esortato i padri conciliari a procedere nella condanna degli eretici in modo tale da non coinvolgere gli stessi dottori della Chiesa.

La tematica della giustificazione, già toccata nell'omilia, riceve ulteriori approfondimenti negli interventi sugli schemi presentati in concilio. Una idea di fondo emerge con estrema chiarezza. La giustizia di Dio non si ottiene attraverso le opere, in quanto il presupposto del bene operare è dato dalla giustificazione. E la giustificazione avviene "ex fide", ed è la fede "caritate formata" che rende possibile l'applicazione al credente della passione di Cristo. D'altra parte il B. si discosta da Lutero sia per ciò che egli intende per "gratia seu caritas" - un dono dello Spirito inerente nell'anima ma che non si identifica con lo Spirito - sia per il rifiuto di una interpretazione forense della giustificazione. La quale importa per il B. un'effettiva "iustitiae susceptio et acquisitio" che si traduce nella remissione dei peccati e nella acquisizione di una "duplice giustizia". Le opere compiute prima della giustificazione e dunque senza la fede non giustificano. Tuttavia - e anche in questo particolare il B. prende implicitamente posizione nei confronti di Lutero - esse non vanno considerate "simpliciter mortua". Le opere compiute invece "post fidem" giustificano non in senso assoluto, ma in quanto accrescono la grazia. Accrescono la grazia - specifica il B. in un altro suo intervento (23 luglio 1546)non "effective", ma "ex Dei benignitate et meritis Christi". Vale a dire, le opere buone sono meritorie della vita eterna in quanto Dio le accetta, non "quatenus nostra", ma in quanto provengono dallo Spirito Santo "nos adiuvante". E sono accettate in quanto, attraverso la fede, sono congiunte ai meriti di Cristo. Quale la parte di Dio e quale l'apporto dell'uomo nel processo della giustificazione? Secondo il B., che segue Cipriano e Gregorio Magno, sia la mozione della volontà, sia l'assenso, sia il permanere nella giustizia, sia il risorgere dal peccato sono "principaliter" dipendenti da Dio (16 luglio 1546). Anche negli interventi sul secondo schema di decreto sulla giustificazione presentato dai legati il 23settembre e sul quale il B. aveva già avuto modo di apporre numerose postille - il Massarelli lo aveva sottoposto al suo parere per ben tre volte - il B. sottolinea con alcuni "modi" la strettissima relazione intercorrente tra fede e giustificazione. Interessante notare una sua presa di posizione nei confronti del libero arbitrio che nel cap. II dello schema si diceva gravemente colpito dal peccato originale. Secondo il B. se si intende parlare della libertà dal peccato, essa è del tutto inesistente. A proposito di una proposizione del cap. VII, dalla quale emerge una fede generale nella remissione dei peccati e non nella propria effettivamente avvenuta remissione dei peccati, il B. si discosta dal Seripando il quale, unico, sosteneva che la tesi di Lutero, alla quale esplicitamente si richiamava il B. ricordandone la condanna nella Exsurge Domine, potesse ricevere una interpretazione cattolica. Al Seripando tuttavia il B. sembra essere assai vicino - nonostante non si possegga una documentazione sufficiente per chiarire più in profondità e i precisi punti di contatto e le eventuali differenze - nella dottrina delladoppia giustizia. In un intervento (27 nov. 1546)sul terzo schema della giustificazione il B. afferma, dopo aver puntualizzato il contenuto della giustizia imputativa: "Semper tamen ad misericordiam Dei recurrendum est...". Un atteggiamento perfettamente in linea con la posizione del Seripando. Centralità assoluta del Cristo, gratuità piena della giustificazione, meritorietà delle opere del giustificato ma in quanto partecipazione ai meriti di Cristo, sono elementi costanti che ricorrono negli interventi del Bonucci. Non si può per altro non vedere la stretta affinità intercorrente fra queste posizioni e quelle difese dal Seripando nel suo intervento del 26-27 nov. 1546 (il 27novembre il B. era intervenuto subito dopo di lui). L'intervento del 27 novembre riveste notevole significato perché in esso il B. risponde anche alla questione sulla certezza della grazia. Egli era stato accusato dal Grechetto in una lettera inviata a Roma il 2 agosto - certamente in rapporto a quanto il B. poteva aver esposto nell'intervento del 30 luglio - di mirare con spirito filoluterano ad inserire nel decreto la certezza della grazia. Al B., oltre che al Seripando e al Costacciaro, si sarebbe richiamata - secondo una lettera del vescovo di Terracina del 20 ott. 1546 - la"fattione" dei teologi che era per la certezza della grazia. Tuttavia con la proposta di sostituire nel canone 14, alla espressione "communiter", "de communi lege", il B. sembra far propria una espressione preferita dai tomisti, anche se non da essi soltanto, e si discosta dalla posizione degli scotisti e da quella del Costacciaro, il quale si era detto contrario sia al "communiter" sia al "de communi lege". Circa la fede acquisita invece e la terza proposizione proposta dal B. ("Iustificatus debet pie credere, se esse in gratia Dei, et sic accedere ad sacramenta") sembrerebbe che il B. si trovasse sulle stesse posizioni sostenute dal Costacciaro il 26 novembre: vi si ritrovano delle espressioni quasi identiche. Nel dibattito del 10 dicembre sulla forma III riformata (IV forma) del decreto sulla giustificazione, il B., rifacendosi nell'ordine a Tommaso e ad Agostino e richiamandosi - come egli fa abbastanza spesso - a Fano, propone, ad evitare che la fede stessa potesse venir non considerata come grazia, di inserire nel decreto le parole di Ambrogio e Agostino: "quia fides, unde bona quaecumque sunt merita, gratis datur". Anche nell'intervento del 13 dicembre il B. si richiama espressamente a Tommaso e ad Agostino e, fra i padri conciliari, al Seripando. Egli insiste, come aveva già fatto altre volte, sul fatto che la fede giustificante è la fede "caritate formata" e non quella "informis". E in questa sua posizione il B. viene a trovarsi accanto al Seripando e ai tomisti. Il suo accostarsi ai tomisti in questa specifica questione appare evidente anche nell'intervento del 21 dicembre, quando il B., circa la interpretazione da darsi al passo dell'Epistola aiRomani 3, 28, si richiama espressamente al generale dei domenicani. Anche qui non manca però un esplicito rinvio ad Agostino che vien ricordato insieme a Pier Lombardo. In questo caso egli si discosta dalla corrente scotista, la quale sosteneva si dovesse considerere la fede "solo" come causa dispositiva alla giustificazione. Nella congregazione dei prelati teologi del 28 dicembre, dopo l'intervento del generale dei domenicani che si portava sulle posizioni del Costacciaro, le posizioni tomiste e scotiste sembrano non più opporsi. Il B. in questa nuova situazione, anche se sembra in qualche punto convergere con la nuova linea (vescovo di Bitonto, generale dei predicatori, generale dei conventuali ealtri), almeno per ciò che concerne la fede intcsa come causa strumentale o strumento "ex parte recipientis", sembra restar fedele al suo specifico orientamento e nello stesso tempo riccheggiare le ultime espressioni dell'intervento del Seripando quando afferma, richiamandosi al teologo controversista lovaniense Giovanni Driedo: "fide vero iustificari dicimur, quia fide viva applicantur nobis merita Christi, a quibus fluit gratia, qua formaliter iustificamur". Negli interventi del 21 febbr. e 1º marzo 1547, a proposito dei sacramenti, va sottolineata la estrema prudenza dimostrata dal B. circa gli anatemi: vanno condannati errori precisi e chiaramente dimostrabili.

Durante il periodo bolognese del concilio - il B. fu tra coloro che approvarono il trasferimento del concilio, anche se con il vescovo di Senigallia avrebbe preferito venisse prima informato il papa - va ricordato almeno il voto, pubblicato recentemente per esteso e pronunciato dal B. il 16 maggio 1547, circa i canoni relativi alla eucaristia. Si tratta di un discorso teologico intessuto di riferimenti alla tradizione (Agostino, Crisostomo, Ambrogio, Cirillo, Ilario, Tommaso) e dal quale risulta una diretta conoscenza degli scritti dei riformatori (rinvii espliciti a Lutero, a Bullinger - "maledictus ille Bullingerus" - a Bernardino Ochino - "ille qui ex nobis exiit..., quia non erat ex nobis"). Interessante una enunciazione di principio opposta al Bullinger e che ricorda un'analoga affermazione della Conversio Pauli: non bastano le "humanae litterae" per la interpretazione della Scrittura. Quanto alla sostanza del voto, il B. sostiene come la consacrazione si attui con la ripetizione delle parole di Gesù. Per quanto concerne la comunione sotto una sola specie (can. V), egli sostiene che essa ha lo stesso valore di quella "sub utraque". Il canone così formulato non discorderebbe "a concordia a comitiis Augustensibus a Cesarea Maiestate Lutheranis oblata ad imitationem concilii Basiliensis cum bohemis...".

Il 16 luglio, dopo un periodo di assenza da Bologna, il B. riprende la parola sui canoni relativi all'olio santo e all'ordine. Sul matrimonio stende per il Cervini due abbozzi di canone per quanto riguarda la indissolubilità dei matrimoni clandestini dei minorenni, traendo argomenti dallo studio approfondito del lavoro di Giovanni Brent.

Il B. fu uno dei pochi padri tridentini, insieme al Feltre, Claude Lejaye e Seripando, che possedessero un'effettiva, diretta conoscenza della letteratura protestante. Egli, può esser stato facilitato in ciò dal contatto che ebbe, all'interno stesso dell'Ordine durante il periodo della sua prima formazione, con dei maestri controversisti. Ma va riconosciuto che, nella sostanza, il B., a differenza dei controversisti, cerca di cogliere il senso più vero di ciò che dicono e vogliono i suoi avversari. Combatte gli avversari e anche duramente, ma questo atteggiamento non gli fa velo: non falsifica mai, né consapevolmente né inconsciamente.

Le sue posizioni variano a seconda dei problemi trattati e sembrano oscillare, nell'ambito di un agostinismo di fondo, tra scotismo e tomismo. Ma anche queste posizioni sono criticamente vagliate alla luce della Scrittura, la cui primazia assoluta è costantemente affermata. Il suo continuo attingere alla Scrittura, la sua spiccata predilezione per Paolo, il suo persistente orientarsi su Agostino lo rendono vicino, quasi naturalmente, a Girolamo Seripando. Anche se può sembrare che il B. vivesse all'ombra del Seripando e si modellasse su di lui - un simile giudizio sorvolerebbe però troppo facilmente sugli aspetti peculiari del B. -, egli resta una personalità teologicamente autonoma, di primo piano. La concordanza che talora si rivela in alcune argomentazioni e soluzioni rinvia a radici più lontane e che in parte almeno sono comuni e al Seripando e al Bonucci.

Il B. non fu né un protestante né un criptoprotestante. Così poterono considerarlo teologi troppo chiusi nei loro sistemi scolastici o padri che non avevano conoscenza delle dottrine riformate e per i quali il protestantesimo era divenuto la parola d'ordine con cui esorcizzare ogni spinta di rinnovamento profondo nella Chiesa. Combatté le dottrine della Riforma. ma ne seppe cogliere, dal di dentro di un approfondimento biblico, anche le istanze positive. Non si può dubitare della ortodossia del B., sia per quanto concerne la sua ecclesiologia sia per quanto riguarda la tradizione, che il B. costantemente valorizzò nella concretezza del suo pensare e delle sue argomentazioni.

Per quanto riguarda l'attività legislativa nell'Ordine, fu per consiglio e iniziativa del B. che nel capitolo generale di Faenza, furono prese le diverse decisioni "ad... Ordinis statum conservandum". Esse, raccolte dapprima nel Regestum sotto la data del 18 ag. 1542, sono state pubblicate nel secondo volume degli Annali. Oltre al richiamo ad una lettura corale e raccolta dell'ufficio divino, alla celebrazione attenta e partecipata alla messa e oltre alcune regole intese a mantener fedeli alla loro vocazione comunità e singoli relligiosi, si hanno delle norme concernenti la formazione intellettuale dei frati e gli studi nell'Ordine. Così nel cap. 10 si inculca l'esercizio "in aliqua honesta arte" e lo studio, un'ora al giorno, di "plana... musica". Nel cap. 19 si stabilisce ancora secondo quale piano il reggente dovesse tenere lezioni "ex phisicis" e "ex sententiis", come pure in quale periodo dovesse leggere un libro dalla logica di Aristotele o di Scoto. Nel cap. 20 si fissa inoltre che il baccelliere e il maestro dello Studio dovessero tenere ogni giorno "pro iunioribus" unalezione sulla logica di Aristotele. Gli autori consigliati sono Aristotele e Scoto, che avevano costituito l'ossatura dei suoi trattati filosofici durante il primo periodo di insegnamento, e Pier Lombardo, che già dalla metà del XIV secolo (capitolo di Parma del 1353) era entrato nella formazione dottrinale dei giovani serviti e il cui studio il B. propose in concilio. Ma di portata maggiore sono le Costituzioni che traggono origine da una decisione presa nel capitolo generale di Budrio e che furono pubblicate nel 1548. Esse rispondono alle esigenze che avevano ispirato il discorso del B. dell'8 apr. 1546 e in genere tutta la sua attività al concilio di Trento e muovono dalla volontà di restaurare nell'Ordine quella primitiva "forma... pie recteque vivendi" divenuta ormai irriconoscibile. Le Costituzioni attingono certamente a molte delle norme antiche, ma in esse si attesta tutta una serie di nuovi elementi che obbediscono alla volontà di adeguare l'Ordine alle decisioni del concilio e di eliminare qualsiasi possibilità di attecchimento dell'eresia. Così nel cap. V viene stabilito che venissero puniti come "infames et Lutheranae haeresis suspecti" i frati che non si confessassero almeno una volta la settimana "sciente priore". E nel cap. VI è statuito che i sacerdoti dovessero celebrare la messa "secundum formam integram" della Chiesa romana. Stabilita nel cap. XXII una più stretta vigilanza nei confronti della "interpretatio ac enarratio" della Scrittura (che richiedeva, per esser svolta, un permesso esplicito del generale), si ha nei capp. XXVII-XXX la presa di posizione più dura contro ogni sospetto di eresia. Nel cap. XXVII è comminata la scomunica per i frati che avessero tenuto presso di sé qualsiasi libro di Lutero, oppure di Melantone, Brent, Calvino, Bullinger, Martin Buzer e altri (in questo ordine vengono citati). Il sospettato di eresia non avrebbe potuto esser accettato in alcun convento (cap. XXVIII). Nel cap. XXIX si stabiliscono gli argomenti (nell'ordine: confessione, purgatorio, indulgenza, autorità del sommo pontefice, suffragi dei defunti, culto dei santi, venerazione delle immagini) e il modo come i predicatori avrebbero dovuto trattarne. Per tutta la tematica del peccato originale, della giustificazione, del libero arbitrio, delle buone opere, questi avrebbero dovuto attenersi alle decisioni tridentine, sottolineare "impios per fidem et gratis iustificari" e condannare "inanem haereticorum fiduciam". Coloro che nella predicazione avessero affermato qualcosa di contrario ai concili, o fossero stati di scandalo al popolo, o apparissero sospetti di eresia, avrebbero dovuto esser condannati al carcere oppure alle triremi (cap. XXX). Le pene sancite nei vari capitoli delle Costituzioni sono particolarmente dure. Come antidoto contro ogni infiltrazione dell'eresia, il B. si preoccupa di una valida preparazione teologica e di una adeguata formazione spirituale (cap. XI). Sembra di risentire in questo come in altri capitoli l'argomentazione espressa dal B. a Trento: i cattivi costumi sono effetto della cattiva dottrina, dell'ignoranza. Gli autori esplicitamente ricordati dopo la Scrittura, che va interpretata "receptis ac probatis eius expositoribus inhaerendo" (cap. XXI) e letta a vantaggio spirituale (cap. XIII), sono Scoto e Tommaso. Tommaso non appariva nelle decisioni adottate nel capitolo generale del 1542, in cui era invece dato ampio spazio ad Aristotele. V'è stata una sensibilizzazione del B. per Tommaso durante il concilio? Sta di fatto che già il Laurerio aveva tentato di introdurre, ma senza successo, il tomismo nell'Ordine e che il nome di Tommaso non compare più nelle Costituzioni edite dal Mazzocchi nel 1556 e dal Faldossi nel 1569.

Con queste Costituzioni il B. tenta anche di ripristinare nell'Ordine una vita genuinamente claustrale: a questo fine egli inculca l'osservanza piena e rigida della regola di s. Agostino (il rapporto con Agostino può, almeno in parte, spiegare l'esistenza nell'Ordine di un consistente filone di agostinismo). D'altra parte i frati non possono dimenticare che essi sono con l'apostolo crocefissi al mondo (cap. XII), che dunque sono necessarie la penitenza (cap. XVI) e la povertà e che, in ultima analisi, il loro termine di paragone è dato da "Christus servator noster" (cap. XL).

Oltre le puntualizzazioni e le valutazioni espresse sin qui, resta difficile enunciare un giudizio sintetico sul B. che, nelle sue aperture teologiche e nei motivi che le animano, si rivela personalità evangelicamente profonda e viva, anche se, fino ad oggi, purtroppo poco conosciuta e studiata.

Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Naz. Centr., Conv. Soppr., G 5, n. 1289: Augustini et Angeli de Aretio Opera Speculativa; Conversio Pauli, in M. Aldrovandi, Fra' A. B. priore generale O.S.M. e padre al concilio di Trento, Roma 1966, pp. 83-119 (contiene, alle pp. 123-27, il votum sulla eucaristia del 16 maggio 1548); per gli interventi al concilio di Trento si veda: Concilium Tridentinum, ed. a cura della Società Goerresiana, I-XII, Friburgi Brisgoviae 1901-1930, passim; Documentos ineditos Tridentinos sobre la iustificación, a cura di J. Olazarán, Madrid 1957, pp. 245, 247 s., 267 s., 279; per l'attività svolta dal B. all'interno dell'Ordine come generale e per le questioni ad essa connesse: Roma, Arch. Gen. O.S.M., Regesta Priorum Generalium 27, Regestum Generalis Augustini Bonucci de Aretio (1542-1548); Ibid., ibid. 35, Registrum P. Generalis Jacobi Tavanti ab a. 15... et varia praecedentium Generalium, f 54v; Ibid., ibid. 36, Litterae patentes Generalis Jacobi Tavanti aliorumque Generalium, f.8v; Arch. di Stato di Bologna, S.Maria dei Servi, 182/6272, f. 2; Lettere del Senato, 2 (1544-1550), ff. 475, 482, 487; Arch. di Stato di Firenze, SS. Annunziata, 33, f. 87; 34, f. 31; 201 (Memorie), f. 132; Arch. Segr. Vat., Arm. 41, n. 31, ep. 815; n. 57, ep. 740; le Costituzioni del 1542 sono pubblicate in Annalium Sacri Ordinis Fratrum Servorum B. Mariae Virginis, II, Lucae 1721, pp. 132-133 (per l'attività del B., ibid., pp. 75, 105, 125, 129-134, 140, 147, 160, 162, 165, 196, 199); le Costituzioni del 1548 sono ristampate in Monumenta Ordinis Servorum Sanctae Mariae, a cura di A. Morini e P. Soulier, VI, Bruxelles 1903-1904, pp. 63-77; M. Poccianti, Chronicon rerum totius Sacri Ordinis Servorum B.M.V., Florentiae 1567, p. 307; Ph. Tozzi, De scriptoribus Ordinis Servorum B.M.V., a cura di P. Branchesi, Bologna 1964, p. 30; Memorabilium Sacri Ordinis Servorum B.M.V. Breviarium, a cura di A. F. Piermei, II, Romae 1929, pp. 135, 145 s., 157; III, ibid. 1931, pp. 191, 213; IV, ibid. 1934, pp. 717, 29 s., 123, 131, 136, 152, 159, 165 s., 236, 238, 242, 244; A. Vicentini, Iservi di Maria nei documenti e codici veneziani, II, 1, Vicenza 1932, p. 62; I, 1, ibid. 1933, pp. 159, 176; cfr. inoltre: P. Sarri, Istoria del concilio tridentino, a cura di G. Gambarin, I, Bari 1935, p. 257; P. Pallavicino, Istoria del concilio di Trento, I, Roma 1656, pp. 572, 616 s.; G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrhunderts, Paderborn 1910, pp. 10 ss., 205 s., 236 s., 322 s.; Fr. Lauchert, Die italienischen literarischen Gegner Luthers, Freiburg I. Br. 1912, pp. 679-681; F. Cavallera, Le décret du Concile de Trente sur le péché originel, in Bulletin de littérature ecclésiastique, V (1913), pp. 241-258, 289-315; F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1915, p. 53; E. Stakemeier, Der Kampf um Augustin. Augustinus und die Augustiner auf dem Tridentinum, Paderborn 1937, pp. 17, 84 s.; Id., Glaube und Rechtfertigung. Die Verhandlungen und Lehrbestimmungen des Trienter Konzils über den Glauben als Anfang,Fundament und Wurzel aller Rechtfertigung, Freiburg I. Br. 1937, pp. 64 s., 98, 106, 113 s., 125 s., 140 s., 191; H. Jedin, Girolamo Seripando. Sein Leben und Denken im Geisteskampf des 16. Jahrhunderts, I, Würzburg 1937, pp. 313, 325, 352 s., 361 s., 378 s., 389, 391, 416, 427, 434; A. Giuriato, Le tradizioni nella IV sessione del concilio di Trento, Vicenza 1942, passim; V.Beltran de Heredia, Domingo de Soto en el Concilio de Trento, in Ciencia Tomista, LXIII (1942), pp. 113-147; LXIV (1943), pp. 60-82; N. Milani, Il p. A. M. B.,generale dei Servi di Maria..., Vicenza 1943; C. Boyer, Ildibattito sulla concupiscenza, in Gregorianum, XXVI (1945), pp. 65-84; A. M. Rossi, Iservi di Maria al concilio di Trento, in Contributi degli ordini religiosi al Concilio di Trento, Firenze 1945, pp. 59-96; I. Salaverri, La tradición valorada como fuente de la Revelation en el Concilio de Trento, in Estudios ecclesiasticos, XX (1946), pp. 33-61; A. Stakemeier, Das Konzil von Trient über die Heilsgewissheit, Heidelberg 1947, pp. 97, 112 s.; B. Emmi, Il posto del "De ecclesiasticis Scripturis et dogmatibus" nelle discussioni tridentine, in Ephemerides theologicae lovanienses, XXV (1949), pp. 588-597; V. Heynck, A Controversy at the Council of Trent concerning the doctrine of Duns Scotus, in Franciscan Studies, IX (1949), pp. 1181-258; E. Ortigues, Ecritures et traditions apostoliques au Concile de Trente, in Recherches de science religieuse, XXXVI(1949), pp. 271-299; J. Auer, Die "schotistische" Lehre von der Heilsgewissheit, in Wissenschaft und Weisheit, XVI (1953), pp. 1-19; P. Pas, La doctrine de la double justice au Concile de Trente, in Ephemerides theologicae lovanienses, XXX (1954), pp. 5-53; V. Heynck, Zur Kontroverse über die Gnadengewissheit auf dem Konzil von Trient, in Franz. Studien, XXXVII (1955), pp. 1-17; J. R. Geiselmann, Das Missverständnis über das Verhältnis von Schrift und Tradition und seine Überwindung in der katholischen Theologie, in Una Sancta, XI (1956), pp. 131-150; A. M. Rossi, Manuale di storia dell'Ordine dei servi di Maria (MCCXXXIII-MCMLIV), Roma 1956, pp. 84-87, 93, 469-470, 544; H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, II, Brescia 1962, pp. 33, 41, 73, 85 s., 92, 106 s., 110 s., 113 ss., 125 ss., 139, 144, 173, 178, 218, 226, 278, 285, 289, 340, 342, 377, 441, 443 ss., 527, 536, 560; A. Ibañez Arana, Escritura y tradición en el Concilio de Trento, in Lumen, VII (1958), pp. 336-344; H. Lennerz, Scriptura sola?, in Gregorianum, XI, (1959), pp. 38-53; Id., Sine scripto traditionibus,ibid., pp. 624-635; H. Holstein, La tradition d'après le Concile de Trente, in Rech. de sc. rel., XLVII (1959), pp. 367-390; F. Bruno, Le tradizioni apostoliche nel Concilio di Trento, in Studi di scienze ecclesiastiche, Napoli 1960, pp. 317-334 (lo cita come Benucci); V. Beltran de Heredia, Domingo de Soto. Estudio biográfico documentado, Madrid 1961, pp. 134, 148 s., 154; N. Hens, Was sagt der vorliegende Text der IV. Sitzung des tridentinischen Konzils über das Verhältnis von Schrift und Tradition? Eine philologische Erklärung, in Schrift und Tradition, Essen 1962, pp. 85-88; J. L. Albizu, La Escritura y la tradición en los teólogos franciscanos españoles del siglo XVI, in Verdad y vida, XXI, 1963), pp. 61-119; M. Schmaus, Zu einem Werke über die Geschichte der Überlieferung, in Münchener Th. Zeitschrift, XIV (1963), pp. 188-193; G. Besutti, Scriptura et traditio apud aliquos auctores ex O.S.M., in De Scriptura et traditione, Romae 1963, pp. 97 ss.; M. Aldrovandi, Fra' A. B.,priore generale P.S.M. e padre al concilio di Trento, Roma 1966.

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