CAGNOLI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CAGNOLI, Agostino

Renzo Negri

Nato a Reggio Emilia il 23 dic. 1810 da Luigi, noto letterato classicista, e da Lucia Orlandini, seguì nella sua città l'usuale corso di studi umanistici, e condusse un'esiste scialba di nobile provinciale cagionevole di salute, dedito alla poesia e al giro di amicizie accademiche ed epistolari.

Sposato nel 1831 con la marchesa Matilde Paolucci di Calboli, dalla quale non ebbe figli, fu legato sentimentalmente alla famosa cantante Marianna Brighenti (egli stesso usava scrivere per musica, e una volta offrì un suo testo a Verdi), figlia di un amico del Leopardi, il poeta al quale più d'ogni altro guardò il C. come maestro di stile ed esempio di vita aristocraticamente appartata e disillusa.

Pare che fosse iscritto a ben undici accademie (nel 1845 alla Tiberina di Roma), quindi in rapporto con diversi scrittori e artisti dell'epoca, specialmente dell'area classicistica cui apparteneva per nascita ed elezione, da P. Viani a C. Betteloni, e ciò si constata dalla collaborazione a numerosi periodici e raccolte occasionali, nonché dal carteggio inedito conservato nell'Archivio di Stato di Reggio insieme con molte pagine di appunti e memorie. Rari viaggi - in Toscana e a Milano; l'ultimo, per curarsi, a Guastalla - completano una biografia estremamente povera di eventi e di interventi, quasi del tutto estranea al gran flusso di idee romantico-patriottiche del primo Ottocento. Morì a Reggio il 5 ott. 1846.

Le date più significative, in una vicenda tutta interiore, sono quelle della pubblicazione dei suoi versi, su vari giornali - dall'austero Annotatore piemontese al Corriere delle dame -, in opuscoli sparsi e in quattro raccolte (Versi, Prato 1834; ibid. 1836; Nuovi versi, Milano 1838; Poesie, Reggio 1844), l'ultima delle quali, in due libri, offre il meglio della sua attività di poeta e di traduttore della Bibbia, di Gessner, Hervey, Uhland e altri. L'area classicistica - cui il C. partecipa - era notevole a Reggio, per effetto della scuola oraziana del ducato estense (Lamberti, Cassoli, Mazza, i due Paradisi, ecc.) e del prestigio che vi godeva il Monti. Pur accostandosi al racconto in versi di argomento medievale, sul gusto dei romantici (specialmente Grossi e Carrer), e in extremis al sentimento risorgimentale (lavorava da ultimo a una cantica su Pio IX), il C. rimase sostanzialmente fermo su posizioni conservatrici rispetto alla lingua e allo stile (cfr. gli Studi letterari, in L'educatore storico, Modena 1846, e il citato zibaldone manoscritto), lasciandosi aperto il campo a una copiosa e irrisolta sperimentazione di atteggiamenti languidi e melanconici nella costante idillica di ascendenza pindemontiana-leopardiana.

Leopardi infatti rappresenta, a partire dalla raccolta del 1836 - dunque subito dopo l'edizione Starita dei Canti -, la sua grande scoperta, per la quale il C. fonda una tradizione imitativa destinata a dilagare nella seconda metà del secolo, dalla scuola romana al Graf. Il senso della caducità e della morte, il colloquio tenero e solitario con la natura, il rimpianto del passato, il penchant lunare (sei composizioni, che gli guadagnarono il titolo di "gentile cantore della luna"), i moduli affettuosi e indeterminati del discorso sono tutti punti di convergenza col sistema espressivo dei Canti (primi e grandi idilli, con qualche timida puntata nel ciclo di Aspasia); dai quali tuttavia si distacca per gli approdi di consolazione e rassegnazione, per la morbida religiosità cui egli conduce il profondo pessimismo leopardiano. Anche le Scene villesche, ammirate da taluno come una delle prove più singolari del pieno Ottocento, a guardar bene si rivelano tutte intessute di un linguaggio realistico sapientemente costruito sui modelli quattrocenteschi, studiati con lungo amore negli anni della sua formazione.

Altri se ne possono indicare: Ariosto, Cesarotti, Parini, Foscolo, Manzoni, e fra gli stranieri i "notturni" inglesi e il Delille, presenti nei titoli e nelle assunzioni sentimentali ed espressive. Ciò conferma il giudizio di sensibile lettore e amatore di poesia, quella poesia alla quale assegnava il fine manifestato, con valore di poetica, nella canzone proemiale del suo ultimo libro: "Dolce raccoglie degli umani il pianto, / le mortali fatiche ella consola: / cara quando al pensiero / piove diletto, e quando illustra il vero".

Bibl.: A. Peretti, Biografia di A. C. reggiano, Modena 1847; E. Manzini, Mem. stor. dei reggiani più illustri…, Reggio Emilia 1878, pp. 303-310; C. Caraffa, Alla memoria di A. C., Reggio Emilia 1883; E. Costa, Un cart. ined. d'A. C., in Spigolature stor. e letter., Parma 1887, pp. 82-94; G. Crescimanno Tomasi, Alcuni poeti alla corte di Francesco IV di Modena, Palermo 1900, pp. 145-186; A. Melli, A. C. Studi e ricerche con una app. di versi ined. e rari, Reggio Emilia 1904; L. Baldacci, in Poeti minori dell'Ottocento, Milano-Napoli 1958, I, pp. 339 s.; R. Macchioni Jodi, A. C. fra idillio e poesia patriottica, in Poesia cultura tradizione, Urbino 1967, pp. 119-146; R. Negri, Leopardi nella poesia italiana, Firenze 1970, pp. 12-20.

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