CENTURIONE, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CENTURIONE, Agostino

Giovanni Nuti

Nacque a Genova il 25 nov. 1584 da Stefano, del ramo dei Becchignoni, e Vincenza Lomellini. Essendo stato il padre nominato governatore del principato di Melfi, il C. ancor piccolo vi si recò con la famiglia, alloggiando nel castello di Crispano, feudo paterno, ivi compiendo i suoi primi studi sotto precettori privati. Alla fine del 1599 ritornò a Genova e in città, mentre i genitori collaboravano con la beata Maria Vittoria Strata alla fondazione dell'Ordine delle turchine, egli continuava i suoi studi, trasferendosi quindi, per un certo periodo probabilmente nel Collegio Romano, che lasciò per ritornare a Genova nell'autunno 1604. Nel 1612 sposò Geronima Lomellini. Venne poi eletto capitano urbano e sindicatore minore con l'incarico di rivedere le sentenze civili. Nel 1617, benché ancora giovane, fu scelto come uno dei sindicatori di Alessandro Giustiniani, quando questi terminò il suo dogato, venendo in seguito ascritto al magistrato degli Straordinari. Per due anni ebbe, in qualità di commissario, il governo della fortezza di Savona e successivamente fu inviato come sindicatore nella Riviera di Levante per sgominarvi i banditi. Nella estate del 1620 si trovava a Vienna, quando fu invitato dal governo a sostituirsi all'ambasciatore Costantino Pinelli, partito in quei giorni dalla corte imperiale, e a Lelio Della Torre, residente genovese ammalatosi gravemente, nel seguire le pratiche riferentisi al possesso di Sassello.

La Repubblica aveva acquistato i due terzi di questo feudo ricevendone investitura dall'imperatore Rodolfo II. In seguito l'altra parte venne acquistata da G. B. Doria, il quale la cedette alla Repubblica dietro approvazione dell'imperatore Mattia, che ne concesse anche l'investitura. Morto Mattia e a lui succeduto Ferdinando II, sorse il problema se chiedere anche al nuovo imperatore l'investitura per quel che concerneva la terza parte acquistata dal Doria. L'opinione prevalente fu che ci si dovesse comportare in tal senso e il governo incaricò il C. di compiere gli opportuni passi, dietro presentazione di un memoriale, affinché si procedesse a tale conferma.

Nel novembre dello stesso anno il C. venne estratto senatore ed aggregato ai governatori della Repubblica con l'incarico nel magistrato della Sanità e fu anche consultore per gli affari della Germania. Nel luglio 1626 poneva la prima pietra del monastero delle turchine dell'Incarnazione, da lui voluto e che ebbe come prima priora Benedetta, sua sorella minore. Nel frattempo, la Riviera di Ponente veniva invasa da Carlo Emanuele I duca di Savoia, alleatosi con la Francia, mentre a Genova insorgeva il popolo. I Collegi incaricarono alcuni senatori, tra i quali il C., di sedare il tumulto e lo inviarono poi quale commissario, insieme a G. B. Saluzzo, a Savona, nominandolo infine generale in capo dell'esercito ligure; giunti i rinforzi spagnoli comandati dal marchese di Santacroce, l'invasione piemontese poté essere arrestata. Scoperta la congiura di Giulio Cesare Vachero, ispirata dal duca di Savoia, la Spagna si adoperò perché non si arrivasse a un conflitto tra il governo genovese, intenzionato a giustiziare i congiurati, e Carlo Emanuele I, che minacciava di far uccidere i prigionieri genovesi per ritorsione, qualora i responsabili della congiura fossero stati condannati a morte. Il C. venne inviato, nel maggio 1628, al campo spagnolo sotto Casale, presso il governatore di Milano don Gonzalo de Cordova, che si stava adoperando per ottenere la liberazione dei congiurati, dandone segreta assicurazione al duca di Savoia; ma il C. si limitò a promettere che il nome del duca non sarebbe stato fatto nel caso di procedura contro i congiurati, dei quali venne rifiutata la liberazione: la notte tra il 30 e il 31 maggio il Vachero fu giustiziato. Il C. continuò a rivestire la sua carica nel magistrato di Guerra e nel 1630 entrò a far parte del magistrato degli Inquisitori di Stato; l'anno seguente incontrò con Stefano Balbi il duca di Feria, che si recava a Milano a prender possesso della carica di governatore. Nel settembre veniva nominato ambasciatore a Roma presso Urbano VIII, ma ne fu in seguito dispensato. Venne poi incaricato di sindacare i giurisdicenti e gli ufficiali di Stato della Polcevera, del Bisagno e di Sestri Ponente. Eletto l'anno dopo padre del Comune, sospese tale carica perché nominato ambasciatore straordinario in Francia, presso Luigi XIII.

La Francia aveva fatto pressioni perché fosse accolto in città un suo console, inviandovi come agente il signor di Sabran, con l'incarico di perorare la pace tra la Repubblica di Genova e il duca di Savoia. Un incidente aveva rischiato, però, di interrompere il lento processo di riavvicinamento tra Genova e Francia. Francesco di Sanson, un corso naturalizzato francese e castellano del Bastion de France, aveva tentato di avvelenare, d'accordo con alcuni fornai, gli abitanti di Tabarca, per attaccare quest'isola che, sotto il governo dei Lomellini, costituiva una temibile concorrente per i Francesi nella pesca del corallo lungo le coste africane. Il tentativo fallì per il tempestivo intervento del governatore che sorprese il Sanson, uccidendolo e condannando all'impiccagione i fornai. Il C. presentò le sue credenziali alla corte di Luigi il 10 febbraio, venendo ricevuto in udienza il 13 maggio: a nome della Repubblica egli accettava la richiesta francese di un consolato in città. Quando gli si chiese ragione dell'incidente di Tabarca, rispose che l'isola non apparteneva alla Repubblica, ma a privati genovesi che provvedevano alla sua custodia, spiegando altresì i gravi motivi che avevano portato all'uccisione del Sanson. Terminata la sua missione, nel viaggio di ritorno visitò il celebre monastero di Clairvaux e ottenne in dono dall'abate Claude d'Argentière una reliquia di s. Bernardo che egli depositò, giunto a Genova, nella cattedrale di S. Lorenzo.

Venne quindi eletto sindicatore supremo per due anni, ma fu in seguito inviato a Milano con G. B. Zoagli, come rappresentante della Repubblica nelle trattative di pace tra Genova e il duca di Savoia, non essendo state eseguite le clausole previste dal trattato di Madrid del 1631. Già durante la sua missione in Francia, il governo genovese lo aveva tenuto informato sull'andamento delle trattative che si svolgevano in Milano tra gli emissari di Vittorio Amedeo I e Agostino De Mari. Nonostante l'arbitrato del re di Spagna, infatti, l'accordo non era stato ratificato dal duca se non dopo mille difficoltà e comunque non posto in esecuzione. Avendo poi il negoziato in Milano superato la fase critica, il C. vi veniva inviato nell'aprile 1634, unendosi allo Zoagli nei colloqui con gli emissari sabaudi e col cardinale infante.

Le trattative, sempre più serrate, si svolsero parallelamente a Genova e a Milano, proseguendo sino ai primi di luglio, nonostante il C. chiedesse di essere sollevato dall'incarico. L'arrivo a Milano di Francisco de Melo, ambasciatore spagnolo a Genova, affrettò la conclusione dei colloqui e a Como veniva firmato un nuovo trattato di pace il 5 luglio.

Nel 1635 fu fatto conservatore della Pace e nel novembre venne estratto senatore e posto tra i Procuratori della Repubblica. Dopo due anni, venne eletto preside del magistrato di Corsica e quindi protettore del Banco di S. Giorgio.

In tal veste, egli ordinò il sequestro di una tartana al servizio del re di Spagna, rea di aver trasgredito alle leggi della Casa. Il governatore di Milano reagì, ordinando per rappresaglia la confisca dei beni che i Protettori possedevano nel suo Stato, intendendo in tal modo colpire la libertà di decisione delle magistrature genovesi. A tale grave fatto la Repubblica rispose stabilendo che in futuro venissero risarciti i magistrati danneggiati nei beni a causa delle loro sentenze.

Il C. fu quindi eletto governatore di Corsica (1639-1640) e nel maggio del 1642 inviato a Roma presso Urbano VIII col compito di discutere alcuni delicati problemi di giurisdizione.

La sua missione avveniva in un momento particolarmente difficile dei rapporti tra Stato e Chiesa a Genova: nel 1637 l'arcivescovo Stefano Durazzo si era rifiutato di incoronare il doge Agostino Pallavicini, vanificando gli sforzi compiuti dal governo per vedere riconosciuta, la Repubblica quale "testa coronata" dopo l'acclamazione della Vergine Miria a "signora e regina di Genova". Lo scontro era divenuto sempre più violento, alimentato dalla Curia romana, che intendeva rifiutare le onoranze regie pretese dalla Repubblica. A Roma il C. doveva sperimentare l'ostilità non solo dell'ambiente pontificio, ma anche degli stessi prelati genovesi, che non onorarono l'ambasciatore, come avrebbero dovuto e rifiutarono di cedergli il posto d'onore in occasione dei funerali del cardinale Borghese, protettore della Repubblica presso la S. Sede. Il governo incaricò il C. di insistere perché la Repubblica fosse riconosciuta "testa coronata" anche dall'ambasciatore spagnolo e da quello francese a Roma, e di seguire da vicino la pratica che la città e il governatore di Savona intendevano portare avanti contro il Vescovo Francesco Maria Spinola, che, in linea con l'atteggiamento del Durazzo, si era scontrato duramente col governatore, Bartolomeo da Passano, circa le onoranze reciproche ed era stato pertanto espulso dalla città. Il C. fu informato anche del grave incidente del quale furono protagonisti i canonici della cattedrale col loro rifiuto di partecipare alle esequie del doge Giovanni Agostino de Marini. Il governo ottenne dal vicario ecclesiastico che i più animosi tra i canonici fossero allontanati dalla città, ma questi si appellarono presso la Congregazione dell'Immunità per ottenere la revoca della sentenza: il C. ebbe l'incarico di vigilare affinché questa pratica non avesse seguito. A Roma si trattenne per circa un anno; con mossa assai opportuna, durante la sua permanenza alloggiò in un povero convento di carmelitani scalzi, a sottolineare i sentimenti religiosi che animavano l'attività sua e del governo da lui rappresentato.

Al suo ritorno a Genova venne estratto senatore, ma venne esonerato per qualche mese dall'ufficio di procuratore della Repubblica per permettergli di attendere ai suoi affari: egli compì un lungo viaggio in Germania e in Lombardia, dove possedeva beni immobili e aveva forti interessi finanziari, approfittandone per visitare la sorella Vittoria, che aveva fondato il Carmelo di Vienna. Quattro mesi dopo, al suo ritorno, riprese la carica di procuratore, diventando nel 1644 preside del magistrato di Guerra e conservatore del Mare. Fu poi uno dei tre delegati al magistrato delle Monache e si adoperò per estirpare dalle Riviere i banditi. Nel 1645 fu aggregato alla giunta di Giurisdizione, quindi alla consulta per gli affari della Germania e incaricato di trattare questioni finanziarie con le Compere di S. Giorgio. Si occupò anche della direzione della flotta ligure e divenne nel 1646 supremo sindicatore. Il 23 ag. 1650 veniva eletto doge e incoronato il 29 maggio 1651. Sotto il suo dogato, furono stroncate varie bande alla guida delle quali si trovavano patrizi datisi al brigantaggio e venne costruito il grande muraglione del fossato di S. Tommaso per rifornire d'acqua la fabbrica delle polveri del Lagaccio. Nel 1652, uscito di carica, divenne procuratore perpetuo, fu scelto a preside degli Inquisitori di Stato e, nel gennaio 1653, a preside del magistrato di Guerra, carica che rivestì per due anni. Già da tempo il C. meditava di rinunciare ad ogni attività politica per seguire l'esempio del padre, entrato anziano tra i barnabiti: a dissuaderlo fu la sorella Vittoria che lo sollecitava a tener fede ai suoi impegni politici e ai suoi doveri verso la famiglia. Solo nel 1654 il C. depose la carica di preside del magistrato di Guerra e non potendo, per la sua età e per il suo stato di salute, abbracciare secondo il suo desiderio la regola austera del Carmelo, entrò nella Compagnia di Gesù, compiendo il suo noviziato a Chieri. Morì a Genova il 7 dic. 1657.

Dalla moglie Geronima Lomellini, morta nel 1639, ebbe numerosi figli, tra i quali Stefano, Giovanni Battista, Giuseppe, Domenico, Giovanni e varie figlie.

Fonti e Bibl.: Arch. di St. di Genova, Arch. segreto, Manuali del Senato, voll.860-903; Ibid., Istruz. a ministri, 3/2710; 4/2711; Ibid., Lett. ministri Roma, 12/2353; 13/2354; Ibid., Registri litter.,nn. 112/1888, pp. 20-22; 122/1898, pp. 30, 41; 123/1899, pp. 19, 33; 125/1901, pp. 230-245; 128/1904, pp. 1-35; Ibid., Lettere ministri Milano, 4/2300; Ibid., Lettere ministri Francia, 3/2179; Ibid., Relaz. di ministri, 3/2700; Ibid., Giunta di Marina, Consoli, filza I; Istruzioni e relaz. di ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, II, Roma 1955, pp. 250, 252, 257, 328; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, V,Genova 1799-1800, pp. 86, 199, 202, 205 s., 214, 216, 246; F. Podestà, L'isola di Tabarca e le pescherie di corallo del mare circostante, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XIII(1894), pp. 1027-1031; F. Donaver, La storia della Repubblica di Genova, II,Genova 1913, p. 296; L. M. Levati, Vita del servo di Dio Stefano Centurione, Genova 1918, pp. 59, 131, 134, 146-150, 165, 167; L. Volpicella, I libri dei Cerimoniali della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XLIX (1921), pp. 256, 266-268; L. M. Levati, I dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, II, Genova 1930, pp. 123-138; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), pp. 17, 56, 58, 116, 140; R. Quazza, Preponderanze straniere, Milano 1938, p. 167; G. Guelfi Camaiani, Il "Liber nobilitatis genuensis" e il governo della Repubblica fino all'anno 1797, Firenze 1965, p. 126.

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