CHIGI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CHIGI, Agostino

Francesco Dante

Nacque a Siena da Mariano e Caterina Baldi nel 1465 circa (Croce indica il 1º dic. 1466).

I Chigi, antica famiglia senese di mercanti, acquistarono il titolo di nobili nella persona di Lorenzo, trisavolo del C., che sedette in concistoro nel 1377. Divenuto pontefice Giulio II, la Signoria di Siena, ricordando che Francesco Della Rovere - il futuro Sisto IV - era stato per diversi anni lettore di teologia nello Studio senese e antico proprietario della villa della Sugara, cercò di dimostrare che la famiglia Della Rovere aveva avuto le sue origini in Siena. Decise quindi di donare al nuovo pontefice quelle tenute che allora appartenevano per una parte ad Alessandro Saracini e per l'altra ai Chigi, i quali cedettero subito la loro quota ad un prezzo molto basso. Giulio II gradì particolarmente il magnifico dono e per riconoscenza ai Chigi, nel 1509, concesse loro di fregiarsi dello stemma della famiglia Della Rovere e rilasciò loro "patenti" in teologia, filosofia, medicina e giurisprudenza.

Nel XV sec. la famiglia si divise in due rami: Mariano e Benedetto. Mariano (1439-1504), famoso banchiere ed esperto in affari politici e finanziari, si occupò di delicati incarichi per conto della Signoria di Siena. Ricostruì nel 1473-74, il palazzo di via del Casato in Siena e commise al Perugino la celebre tavola del Crocifisso per l'altare della famiglia in S. Agostino. Nel 1490 fu per sei mesi uno dei consoli di Mercanzia e, nel 1502, insieme a Pio di Goro Lori e Gerolamo Sergardi, ambasciatore presso il papa e il duca di Romagna. Nel 1496 fu provveditore di Biccherna. Risiedé in Concistoro nei bimestri sett.-ott. 1467 e luglio-agosto 1479; fu gonfaloniere nel 1485 e capitano nel novembre-dicembre 1493. Ebbe due figli, Agostino e Sigismondo. Sigismondo (1479-1525), genero di Pandolfo Petrucci, adornò il palazzo della famiglia in Siena con i dipinti del Sodoma ed eresse la principesca villa delle Volte.

Il C. si sposò due volte: dalla prima moglie, Margherita Saracini non ebbe figli; dalla seconda, Francesca Andreazza (o Ardeasca), ebbe quattro figli: Lorenzo Leone, Alessandro Giovanni, Margherita, Camilla. Un quinto figlio, Agostino, nacque dopo la morte del Chigi.

Il rapporto con Francesca, donna bellissima, non fu facile: il C. la rapì e la sposò solo dopo sette anni di vita comune, il 28 ag. 1519, con un rito celebrato dallo stesso Leone X, che da lungo tempo insisteva perché regolarizzasse la sua posizione. Oltre al papa, parteciparono al matrimonio molti cardinali, l'ambasciatore di Polonia e la maggior parte della nobiltà romana del tempo. Francesca morì forse avvelenata sette mesi dopo il C., che le aveva lasciato un'eredità di 20.000 ducati in contanti e 20.000 in gioielli.

Il C. compì il suo apprendistato presso l'azienda del padre, nei due banchi che Mariano gestiva a Siena e a Viterbo.

Gli ultimi anni del XV sec. videro uno sviluppo enorme della tecnica bancaria e mercantile. Per quel che riguarda la parte contabile si praticava "l'aguaglio in uno die", l'attuale "adeguato di scadenza". Per un più facile computo degli interessi, si fissava una scadenza media del totale dei capitali diversi, che scadevano in date successive ma ravvicinate. Per la contabilità, l'anno aveva inizio il 1º luglio. Nello stesso periodo fecero la loro comparsa i libri contabili, il conto profitti e perdite e il conto capitali. Nelle operazioni commerciali, per avere un'unità di misura omogenea, le monete erano ridotte a moneta unica.

Incerto è il tempo in cui il C. rimase a Viterbo: dovette ben presto dare buona prova delle sue capacità, se intorno al 1487 il padre lo mandò a Roma per completare l'apprendistato presso il banco di Ambrogio Spannocchi, venendosi così a trovare sotto la guida e nell'ambiente dei più alti finanzieri di Roma, insieme con l'amico Stefano Ghinuccio.

Il momento in cui il C. si trasferì a Roma fu particolarmente felice, perché fu in quegli anni che Alessandro VI preferì i senesi ai Medici nell'affidare loro importanti uffici. All'inizio del suo pontificato infatti il Borgia sostituì gli Spannocchi ai Medici nell'ufficio di cassieri della Camera apostolica.I rapporti del C. con i Borgia furono stretti: tra il novembre e il dicembre 1499, raggiunse a Bologna e poi a Modena il Valentino che, dopo la campagna di Romagna, gli aveva chiesto un prestito di 3.000 ducati. Il 18 novembre il C. scrisse al padre implorandolo di concedere il prestito, preoccupato della propria incolumità personale, conoscendo bene i modi di agire del figlio del papa. L'onere del prestito sarebbe andato diviso con il socio. Tra il 1501 e il 1502 concesse altri due prestiti direttamente ad Alessandro VI: il primo, dell'entità di 20.000 ducati, che detrasse, tre anni dopo, dalle tasse sulla concessione per l'estrazione dell'allume, poiché il papa non gli restituiva la somma; il secondo, di 11.189 ducati, prima del 31 ott. 1502, al tempo della seconda campagna di Romagna. Tra i nomi dei finanziatori figurava anche Stefano Ghinuccio.

L'attività del C. a Roma si sviluppò nell'ultimo decennio del XV sec. con l'apertura del banco Chigi, la cui definitiva costituzione avvenne solo nel 1502, quando il C. divenne socio alla pari con il padre e il fidato amico Francesco di Matteo Tommasi, e con piena libertà di azione.

In questo periodo il banco fu gestito de iure da Mariano Chigi e de facto dal C.: l'attività del banco si indirizzò verso la corte pontificia. Il capitale iniziale fu dell'ordine di 8.000 ducati, versati dai tre soci e cioè: 3.250 da parte di Mariano, 3.250 dal C. e 1.500 dal Tommasi. I profitti si sarebbero dovuti dividere in venti quote: due in beneficenza, sette rispettivamente ai due soci di maggioranza e quattro al Tommasi. Il C. già da allora assunse di fatto una posizione preminente, relegando in un ruolo subordinato gli altri due soci; li obbligò alla residenza in Roma, rendendoli responsabili delle operazioni in perdita; allo stesso tempo si ritenne in diritto di trattare affari in prima persona senza previa consultazione. La sede del banco, presso la piazza che per lungo tempo fu chiamata "cortile Chigi" e che in seguito prese il nome di "arco di Banchi" comprendeva cinque "botteghe". Il banco vero e proprio era costituito da una grande stanza di 50 palmi per 34 (m 11 × 7 circa), con volte a lunette, sostenute da tre pilastri. La casa dei Chigi, attigua al banco, aveva un piano terra e due piani superiori. Il C. vi abitò stabilmente, mentre la villa che poi fu detta Farnesina era luogo di incontro per le famose feste della Roma cinquecentesca. Il banco aveva un cifrario segreto a due sistemi: uno "proprio", in cui ad ogni lettera corrispondeva un determinato numero, ed uno "improprio" in cui ad ogni parola corrispondeva un'altra parola convenzionale (es.: "Nostro Signore" il medico; il papa "messer Accursio"; vescovado "pensione", ecc.).

All'inizio il C. non era che uno tra i tanti "mercatores Romanam curiam sequentes", ma un'accorta politica di finanziamento condotta nei confronti di Alessandro VI, a cui fornì il grano in un momento di grave crisi per Roma, gli permise di accattivarsi la sua fiducia, che ben presto ottenne i frutti desiderati. Nel 1492 ottenne dal Borgia la direzione di tutte le saline dello Stato pontificio, assieme alla gestione della dogana e delle imposte della Curia: questi incarichi costituirono un elemento importante nell'attività del giovane finanziere, sotto due punti di vista. Da una parte lo legarono a filo doppio con il papa e dall'altra gli permisero, con i notevoli e immediati profitti personali, di formarsi, fuori dello Stato pontificio, mercati ed interessi ben più vasti.

Il C. fu ritenuto il più ricco mercante della sua epoca, il re della banca, non solo in Italia ma anche in Europa. Gli si attribuiva un capitale di 800.000 ducati e una rendita che si aggirava intorno ai 70.000. Possedeva, da solo, più argenteria di tutta la nobiltà romana. Ebbe alle sue dipendenze più di 20.000 uomini e la proprietà di cento navi. La sua banca aveva succursali ad Alessandria, Costantinopoli, Il Cairo, Lione, Londra, Anversa; solo in Italia aveva più di cento uffici. Per metterlo in difficoltà, i suoi concorrenti si accordarono per richiedere nello stesso momento il saldo dei debiti contratti dal suo istituto bancario. Il C. pagò tutto, sia i debiti in denaro sia quelli in natura. Il sultano lo chiamava "il grande mercante della cristianità".

Dal 1494 al '97 ebbe in concessione dalla Camera apostolica l'appalto della dogana dei pascoli del Patrimonio di S. Pietro, attraverso la quale esercitava il controllo su tutto il movimento delle mandrie e delle greggi. In questo ambito si adoperò per combattere il brigantaggio nell'Agro romano, la cui gravità fu posta bene in luce dalla relazione da lui stilata il 14 marzo 1497. Il 23 ag. 1494, in qualità di sorvegliante fiscale delle merci, curò, il trasporto a Roma di 500 moggi di grano per conto di Alessandro VI, a motivo della carestia di cui si è detto.

Il C. sfruttò intelligentemente la grande disponibilità di denaro liquido che gli proveniva dalla sua attività e comprese che i prestiti, se da una parte potevano costituire un rischio, dall'altra, con gli interessi, erano la base dell'ampliamento dei suoi traffici.

Il 17 maggio 1496 concesse un prestito di 4.000 ducati (con atto notarile di Francesco Pianoso) a Piero de' Medici che aveva urgente bisogno di denaro per riprendere il controllo di Firenze da cui era stato bandito. In pegno ricevette 15 balle di arazzi, stoffe, pietre preziose e 167 cammei incastonati in tavolette d'argento. Il 18 aprile dell'anno successivo prestò 111.173 ducati a Guidobaldo da Montefeltro, duca di Urbino. In pegno ricevette 547.512 libbre d'argento. Il prestito gli venne rimborsato il 22 novembre del 1497 attraverso i procuratori del duca con una ricevuta liberatoria. Estese i suoi traffici con la Grecia, già dal 1499, scambiando partite di lana con vino greco.

L'entità dei profitti delle miniere di Tolfa dovette essere rilevante se il C. poteva far fronte a prestiti non indifferenti: nel 1513 ottenne dalla Camera apostolica il rimborso di 10.000 ducati.

La spesa dell'estrazione del minerale, in effetti, compresa la lavorazione e il trasporto, non superava i 4 carlini il cantaro, oltre alle tasse dovute alla Camera apostolica la cui somma si aggirava intorno ai 100.000 ducati l'anno. Nel 1519 tre soli acquirenti acquistarono 10.000 carichi e l'anno successivo si produssero 300.000 cantari, con l'utile netto di un ducato al cantaro.

L'Inghilterra fu uno dei migliori clienti del Chigi. L'agenzia mercantile di Londra, diretta da Antonio di Iacopo, senese, veniva chiamata lo "scalo d'Inghilterra".

Qui, dopo il 1514, previo accordo con la ditta appaltatrice, il mercante lucchese Giovanni Paolo Gigli si occupava del commercio dell'allume che gli veniva rimesso da un altro mercante lucchese, Giovanni Campucci. L'Inghilterra si serviva della nave regia "Le Sovaren" per l'importazione dell'allume italiano a cui preferì ad un dato momento quello turco perché meno caro. Il C. fece intervenire il papa. Fu infatti il medesimo nunzio apostolico a Londra, Pietro Grifo, ad interporre i suoi buoni uffici, convincendo il re a bloccare le vendite dell'allume turco in Inghilterra per cinque anni e, nello stesso tempo, a permettere la vendita di 5.000 "centenaria" (peso di cento libbre) di allume italiano. Ridusse inoltre la tassa di licenza da 2,5 nobili ogni 100 libbre a 1,5, pari a 10 soldi in moneta inglese. L'accordo prevedeva che ognuna delle cento libbre non doveva essere venduta a più di 26 soldi e 8 denari, in modo da costituire un valore complessivo annuo di 10.000 marchi. Il trasporto in Inghilterra sarebbe stato effettuato a mezzo di navi del Regno al costo di 1.000 marchi l'anno. La tassa di importazione in caso di trasporto a mezzo di navi non inglesi venne fissata a 13 soldi e 4 denari per ogni cento libbre di allume importato. Il C. si impegnò in seguito a risarcire al re il valore delle navi vittime di attacchi corsari e a vincolare il capitale ricavato dal commercio dell'allume all'acquisto di merci inglesi.

La rete commerciale del C. si estendeva in buona parte dell'Europa e dell'Oriente: da Napoli, Porto Ercole, Venezia, Lione, Londra a Bisanzio, Alessandria d'Egitto, Menfi. Gli agenti curavano non solo i suoi interessi commerciali ma lo informavano periodicamente sulla situazione politica del paese in cui risiedevano in modo da fornire elementi sufficienti al banchiere per orientare i suoi traffici e per prevedere l'andamento del mercato.

Per questo motivo il C. curò particolarmente la rete dei suoi collaboratori, tra cui alcuni diedero prova di grande abilità, come Antonio Bonconti da Pisa, primo cassiere delle miniere; Giovanni Betti, Alessandro Fiorentino, Francesco Terisio, Bernardino Morozzo, viterbese. Nell'ufficio di cancelliere ebbe come collaboratore un altro viterbese, Cornelio Benigno.

L'abilità del C. emerse con l'elezione del nuovo papa, Giulio II, acerrimo nemico di Alessandro VI, col quale il finanziere si era ampiamente compromesso. La politica di avvicinamento al Della Rovere da parte del C. ebbe successo perché il papa aveva urgente bisogno di denaro liquido per far fronte allo stato di abbandono - reso più visibile da una grave carestia - in cui la città era stata lasciata da Alessandro VI.

La Camera apostolica fece in seguito ancora ricorso alle finanze del banchiere per acquistare i rubini della tiara del papa: la restituzione dei 3.000 ducati avvenne il 7 dic. 1504. Giulio II, come ringraziamento, gli rinnovò gli appalti stipulati sotto Alessandro VI ed inoltre lo nominò notaro, abbreviatore pontificio ed approvò l'atto di cessione del tesorierato della Chiesa che Galeazzo di Nastoccio Saracini aveva fatto in favore del C. il 12 sett. 1506. In tal modo il più potente banchiere del tempo ebbe la sovrintendenza di tutte le finanze pontificie a cui aggiunse, insieme con i Fugger, anche il controllo della zecca pontificia.

Nel 1506 fu a fianco del papa nella guerra contro i Bentivoglio di Bologna, tesa a riconquistare i territori persi durante il pontificato del Borgia. Il C. colse il momento propizio per richiedere, e ottenere, il cappello cardinalizio in favore del senese Alfonso Petrucci. La dimestichezza che il C. aveva con il papa era tale che il banchiere riuscì a trarne vantaggio anche nella guerra contro Alfonso d'Este, duca di Ferrara e pericoloso concorrente in Piemonte e Lombardia al sale pontificio di Cervia, di cui il C. aveva ottenuto la concessione insieme con l'estrazione del sale di Comacchio.

Il 1510 fu un anno favorevole per le attività del Chigi. Nel novembre estese la sua attività commerciale a Cetona (Siena) formando una società con Virgilio Turamini e Mariano Marsili, per la vendita di ogni tipo di mercanzia. Nel dicembre ottenne da Giulio II la riconferma dell'appalto della dogana del Patrimonio.

Il più famoso prestito del C. al Della Rovere consistette in 40.000 ducati d'oro garantito dalla mitra di Paolo II: i denari gli vennero restituiti dopo pochi mesi dalla scomparsa del pontefice. Abilissimo come finanziere, il C. seppe muoversi con accortezza nella concessione dei crediti. Mentre si mostrò infatti sempre paziente e cauto nelle richieste di saldo alla Camera apostolica, ben sapendo quanto potesse essergli utile l'amicizia con il papa, ed inoltre - quando la restituzione del prestito tardava a venire - poteva rifarsi rapidamente scalando il credito dalle tasse che doveva allo Stato pontificio, con i creditori privati si rivelò inflessibile. Nel momento in cui infatti il fiorentino Dionigi Nasi tardò a saldare un debito di 200 ducati, immediatamente il C. si rifece contro tre fiorentini che esercitavano il commercio in Roma: dovette intervenire il rappresentante della Repubblica fiorentina per impedire un sopruso simile.

L'attività creditizia del C. si estese, fuori dello Stato pontificio, soprattutto nei confronti di Venezia. Il 21 apr. 1510 ricevette il mandato di versare 3.000 ducati d'oro ai condottieri di Città di Castello, Chiappino e Vitello Vitelli, assoldati dalla Repubblica con un contingente di centocinquanta uomini e con una donazione di 150.000 ducati.

Il prestito, accordato in un momento difficile per Venezia dopo la lega di Cambrai, fu effettuato parte in contanti (25.000 ducati) e parte garantito in cambiali. Anche da questa operazione il C. uscì bene senza rischiare molto: aveva incamerato, come garanzia, buona parte dei beni dei mercanti veneziani. Fu accolto inoltre in Venezia come un salvatore e gli venne concesso il titolo di "figlio di S. Marco" e il privilegio di sedere in Senato vicino al doge Leonardo Loredan. Il motivo in verità per il viaggio a Venezia e la concessione del prestito rispondeva ad altri interessi che il C. aveva nella città. Doveva recuperare 17.000 ducati di cui era rimasto creditore nei confronti di Alessandro VI. La somma era stata sottratta dalle casse della Camera apostolica dall'agente finanziario del Borgia, Alessandro Betti Francia, che aveva lasciato Roma alla volta di Venezia, in seguito alla morte del papa, per non incorrere nelle ire di Giulio II. Il C. riuscì a farlo imprigionare e recuperò l'intera somma. La questione fu così risolta dagli Avogadori che in cambio concessero la libertà al Betti, nella seduta del 21 luglio 1513.

Il C. dovette essere particolarmente contento dell'elezione del nuovo papa, Leone X, nel 1513, perché la sua amicizia con Giovanni de' Medici risaliva ai primi anni del secolo.

Nel 1501, infatti, su richiesta del cardinale e di suo fratello Piero, il banchiere si era impegnato a inviare alcune lettere di credito ad Alessandro Colombini e soci, mercanti in Lione, perché costoro rimettessero a Giuliano, fratello del cardinale e di Piero, la somma di 3.000 scudi d'oro. Giovanni garantì che avrebbe effettuato il rimborso della somma, a Roma, non appena avesse ricevuto comunicazione dell'avvenuto versamento a Giuliano da parte del Colombini. Il cardinale medesimo si era fatto garante anche delle spese dell'operazione, degli interessi e del rischio. Testimoni dell'atto, che fu steso in casa del futuro papa al rione Ponte, furono Cornelio Benigno da Viterbo, Antonio di Francesco da Bibbiena e Silvio Rosato Passarini. Avallarono la promessa del cardinale: Piero de' Medici, Lorenzo Pucci, protonotario, Ilarione Patrizio di Colle Nullo, procuratore delle cause della Camera apostolica, ed Alessandro Campofregoso, vescovo di Ventimiglia.

Il C. dimostrò la sua amicizia al papa finanziando in buona parte le spese per l'incoronazione, ivi compresa l'elargizione di monete d'oro e d'argento che era usuale compiere durante il passaggio del corteo papale. Il prestito si aggirò intorno ai 75.000 ducati. Leone X gli diede in pegno un pettorale con un diamante e pietre preziose, che ricoprivano la metà del prestito; per il rimanente aggiunse un triregno con gemme.

Alcuni anni dopo il C. concesse un secondo prestito alla Camera apostolica di 12.000 ducati. Leone X lo ricambiò generosamente, minacciando pene canoniche ai suoi debitori insolventi. Nel 1517 il papa diede prova della stima che aveva per il banchiere, graziando sotto le sue pressioni uno dei cardinali della congiura contro la sua persona, il cardinale Riario, amico del banchiere, che pagò un terzo della pena pecuniaria, 50.000 ducati.

Gli ultimi anni di attività del C. furono intensi e lo videro impegnato in operazioni finanziarie e commerciali rilevanti. Il 1º sett. 1517 ottenne dalla Corona l'appalto, per sei anni, delle saline napoletane. Nello stesso mese, il 20, chiese e ottenne la facoltà di utilizzare il territorio in località Badia di Siena - tranne quello già concesso a terzi - per lo sfruttamento dei solfati. L'accordo non lo legava alla Badia, per quel che riguardava la cessione del prodotto estratto, ed era inoltre esente da gabelle o altre imposte di qualsiasi genere.

A poco meno di un anno dalla morte concesse l'ultimo grande prestito a Venezia, di ben 20.000 ducati d'oro, prendendo in pegno dal governo della città un ingente quantitativo di preziosi, con la malleveria dei cittadini più facoltosi. L'impegno venne rispettato e l'8 agosto del medesimo anno il doge Leonardo Loredan e il Senato restituirono i 20.000 ducati tramite il cardinal Corner.

Il 20 marzo 1520 il C. partecipò al primo tentativo di prestito pubblico in Roma, una vera società per azioni con capitale iniziale di 400.000 ducati. La società, detta "Cavalieri o Militi di S. Pietro", venne ideata da Francesco Armellini, camerlengo di Santa Romana Chiesa, come tentativo per risanare le finanze pontificie.

L'istituzione, costituita in ente morale, era composta da quattrocentoun membri, ognuno dei quali si impegnò a versare 1.000 fiorini d'oro di Camera, sui quali avrebbe percepito un interesse del 10% annuo. Alcuni dei "militi" erano a disposizione del vicecamerlengo, altri si occupavano del commercio dell'allume, altri ancora erano preposti al controllo dei conti e delle frodi commerciali, assieme ai chierici e ai commissari della Camera apostolica.

Il C. dovette la sua fortuna all'appalto concessogli da Alessandro VI e in seguito rinnovato da Giulio II e Leone X, per l'estrazione e il commercio dell'allume di cui era stata scoperta un'ingente quantità presso Tolfa. La felice intuizione del giovane banchiere consistette nel non essere solo finanziere ma anche commerciante, sostenendo l'una attività con l'altra. Per questo, non limitò la sua attività all'estrazione del minerale, ma si occupò di coprire il ciclo completo, fino alla vendita diretta.

Le miniere di allume, presso Tolfa, erano state scoperte da Giovanni di Castro, figlio del giureconsulto Paolo, nel 1460-61. Erano localizzate sul fianco meridionale del monte detto delle Grazie, a quattro chilometri da Tolfa. Il C., dopo aver preso l'appalto, vi costruì nei pressi il villaggio di Allumiere, a cinquecento metri sul mare, fornito di case per operai, strade e servizi, considerato come uno dei primi esempi di capitalismo illuminato. Le miniere principali furono quelle di Monte Roncone e della Trinità. La scoperta dell'allume fu di un'importanza fondamentale per l'economia europea: fino ad allora lo si era dovuto importare principalmente dall'Oriente. L'allume veniva utilizzato nell'industria per la concia delle pelli, come mordente per la colorazione della lana e nell'arte farmaceutica come astringente ed emostatico.

Il 24 dic. 1500 il C. ottenne l'appalto per la durata di dodici anni, in un momento in cui le miniere erano in uno stato di abbandono. Socio principale fu Francesco Tommasi, lo strumento fu rogato dal notaio Gentile Gentili di Foligno, il 16 febbr. 1501. Anche gli Spannocchi si associarono all'impresa con la partecipazione del 40% (8 soldi per ogni lira di 20 soldi). Il padre del C., Mariano, finanziere di vecchio stampo, estremamente prudente nella conduzione degli affari, non condivise l'intraprendenza del figlio: da questo momento la divergenza si fece sempre più profonda fino alla sua morte nel 1504, quando il C. assunse personalmente la direzione completa degli affari.

Nella convenzione per l'appalto delle miniere, si instaurò un nuovo regime minerario. La Curia romana, che fino ad allora aveva sperimentato una gestione strettamente statale, mutò indirizzo. Il C. avrebbe versato alla Camera apostolica 34.000 ducati l'anno, ma avrebbe riservato a sé il diritto di gestire direttamente l'appalto, ponendo le premesse per un rapido arricchimento. Decise di dare un nuovo assetto all'azienda nella nuova mentalità aderente al nascente capitalismo: migliorò il prodotto, diminuendo la spesa, aumentando il rendimento, razionalizzando il settore commerciale e incrementando l'esportazione. Chiamò esperti turchi che richiedevano un salario minore e nello stesso tempo istruivano le nuove maestranze. Fece inoltre eseguire sondaggi alla ricerca di vene più ricche di allume. I primi saggi furono eseguiti in località La Concia, in seguito in località La Bianca e nelle selve di Cibona, a tre chilometri da Tolfa. Il numero della manodopera impiegata, circa ottomila unità, e la capacità produttiva, che raggiunse le 1.400 tonnellate annue, contribuirono a dare alle miniere il carattere di una nascente impresa capitalistica.

Sei mesi dopo la concessione della Tolfa, il 19 maggio 1501, il C. ottenne l'appalto delle miniere di allume localizzate nei Monti Leogocei, nei pressi del lago di Agnano e lungo la fascia costiera da Baia a Miseno.

Le cave, dopo un periodo di abbandono, in seguito alla scoperta dei giacimenti presso Tolfa furono riattivate dai proprietari, i Sannazzaro, e occupate per pubblica autorità dal re Ferdinando I. Dal 1470 l'allume pontificio era protetto dalla concorrenza napoletana in base ad un accordo tra il re e la Curia romana. Ma nel 1495 il problema si riaprì, venendo a scadere la convenzione. La morte di Ferdinando I e le guerre scatenatesi successivamente permisero a Iacopo Sannazzaro di rientrare in possesso delle miniere. Alessandro VI corse ai ripari e pagò un compenso annuo al fittuario, il C., perché le tenesse inattive. La sospensione dell'estrazione dell'allume durò per tredici anni e il Sannazzaro, si impegnò a vendere direttamente al C. per dieci anni tutto l'allume di Agnano che doveva essere trasportato alla marina di Bagnoli entro quindici giorni dalle operazioni di pesatura e consegnato franco da dogane e gabelle. In base a questo accordo, l'abile finanziere senese non solo si liberò della pericolosa concorrenza dell'allume napoletano ma ne ricavava un compenso annuo dal papa.

Morto Alessandro VI, il C. si fece rinnovare l'appalto per le miniere di Tolfa, cosa che avvenne due mesi dopo l'elezione di Giulio II, all'inizio del 1504. Il 10 giugno 1506 il C. si assicurò il controllo della lavorazione dell'allume.

In tal senso strinse un accordo con Giacomo Migliorini da Siena, con Vannino e Giovanni d'Antonio per rilevare l'appalto delle fabbriche di Tolfa, destinate alla lavorazione dell'allume, al valore di 23 ducati il cantaro, detratte le spese di trasporto del minerale che rimanevano a suo carico. La compagnia sarebbe durata fino al 1º sett. 1507 e l'utile di un'eventuale diminuzione del valore del cantaro sarebbe stato suddiviso per metà: 50% al C. e 50% agli altri soci. Il relativo strumento fu rogato dal notaio Pierozzo Mosti, in Viterbo.

Il C. compì un passo importante nella politica di accentramento di tutto il processo produttivo, nel medesimo anno, con l'acquisto di Porto Ercole attraverso il quale si assicurò uno sbocco autonomo al mare. Aveva bisogno infatti di un porto sicuro per le sue navi in terra senese, ma non troppo vicino alla sua città - per evitare interferenze non gradite - da dove sarebbe partito l'allume destinato ai suoi agenti commerciali nell'Europa settentrionale e in Oriente.

A questo proposito non si lasciò sfuggire l'occasione favorevole, nel momento in cui il Comune di Siena aveva urgente bisogno di denaro liquido. Il 15 maggio, per 20.000 ducati, acquistò gli uffici della potestaria, di Rocca, Castellania Porto Ercole, ivi compresi i proventi, le gabelle e le entrate, sia marittime che terrestri. Nel contratto il C. riuscì ad ottenere la franchigia su tutti i dazi. In un primo momento non esitò ad investire migliaia di scudi nella ristrutturazione del porto e delle terre vicine ma, di fronte alle difficoltà incontrate per le enormi spese e per la difesa militare di tutta la zona, il 22 marzo 1508 ottenne la revisione del contratto. La concessione doveva essere valida per cinquanta anni e la Repubblica si sarebbe dovuta impegnare a rimborsare, per una somma fino a 50.000 fiorini, le opere di ristrutturazione del porto. In breve tempo Porto Ercole divenne un importante centro commerciale non solo per l'allume ma anche per il grano ed altre merci, pur restando un non facile possesso per le frequenti incursioni corsare. Nel 1511 infatti due corsari francesi, Bernardin e Pierre Juan, assalirono e conquistarono una nave del Chigi. Difficoltà vennero al C. anche dalla scarsa onestà di alcuni suoi agenti finanziari. Tal Vannino d'Antonio di Sergiovanni venne incarcerato perché sorpreso a vendere per proprio conto l'allume nel territorio circostante il porto. Anche a Venezia il suo agente, Vannoccio di Paolo, ammise di aver falsificato i libri contabili e sottratto allume per un valore di 1.200 ducati. Nel 1508 il C. si assicurò il monopolio dell'esportazione dell'allume nelle Fiandre per la somma di 85.000 ducati e, per lui, ad Anversa, i suoi agenti Diego de Haro e Juan de Mil provvedevano a rivendere il prodotto nelle città della lega anseatica.

L'appalto delle miniere venne rinnovato nel luglio 1513 a favore di Andrea Bellanti e soci, fra i quali compariva il C., al quinto degli utili e dei danni, per la durata di dodici anni. Rogò l'atto il notaio della Camera apostolica Silvio da Spoleto. Non è certo perché il C. non apparisse come azionista principale in un atto che certamente riguardava la sua maggiore attività. Probabilmente il banchiere ritenne opportuno ricoprire una posizione di secondo piano in un momento estremamente delicato per i suoi affari. Era implicato, infatti, in un processo nella lite con i suoi antichi soci, gli Spannocchi, e correva il rischio di subire il sequestro dei beni: da qui l'idea di defilarsi da azionista di maggioranza. Il medesimo atteggiamento di prudenza lo spinse a rinunciare all'appalto della dogana delle pecore e del tesorierato di Roma.

L'aspra disputa che divise i Chigi dagli antichi amici e soci aveva avuto inizio nel 1505 e si concluse nel 1519. All'origine dei dissapori che guastarono i rapporti tra le due famiglie fu probabilmente la morte di Antonio Spannocchi, l'amico più stretto del C., col quale per anni aveva collaborato. Il C., venuto meno il fidato finanziere, si trovò ad operare sempre più da solo, anche se - in teoria, - gli Spannocchi rimasero soci e fruitori degli utili della società per l'estrazione dell'allume. L'assenza completa nella gestione degli affari è provata dal fatto che il difensore degli Spannocchi - il Parisio - al processo non parlò mai di una loro compartecipazione attiva. La lite culminò nel 1515 quando gli Spannocchi invocarono il braccio secolare contro i Chigi: dovette esserci evidentemente una decisione di un tribunale ecclesiastico in loro favore e i vincitori invocarono contro i Chigi l'intervento di Siena per confiscare loro i beni. Il Parisio chiese che i suoi clienti potessero partecipare a tutti gli utili della società: ma la richiesta del difensore mostra la confusione che allora si faceva tra i caratteri di una associazione e quelli di una società. I caratteri di quest'ultima erano così poco definiti che i giuristi chiamavano "società" rapporti giuridici come la comunione e l'associazione in partecipazione, di cui non avevano la struttura. Anche i rapporti tra i Chigi e gli Spannocchi sfuggono quindi ad una definizione esaustiva: se da un lato la completa assenza di questi ultimi dagli affari è di impedimento alla concezione di un tale rapporto come di una società, dall'altra non si potrebbe giustificare dal punto di vista della associazione in partecipazione il fatto che la Camera apostolica riconobbe in pieno la posizione degli Spannocchi, nell'impresa degli allumi, come soci dell'appaltatore Chigi. Negli ultimi anni della sua vita il C., intuendo che non sarebbe uscito bene dalla vicenda, cercò una composizione amichevole, rinnovando la richiesta dell'appalto degli allumi insieme con gli Spannocchi, preoccupato probabilmente per il futuro dei suoi figli, il maggiore dei quali, Lorenzo, aveva sette anni. L'affare non ebbe uno sbocco favorevole e la Camera apostolica, il 4 luglio 1519, riconobbe agli Spannocchi il diritto di partecipare agli utili delle miniere di Tolfa, riconoscendo loro un danno di 100.000 ducati. Fu il segno dell'inizio del disfacimento dell'impero finanziario del Chigi. Il crollo finale può essere datato ad otto anni dopo la sua scomparsa, nel 1528, quando il suo banco venne chiuso definitivamente.

Nel 1513 il C. finanziò una nuova attività, destinando larghi fondi all'apertura di una tipografia, che stampò i primi testi greci a Roma.

Non fu estranea a questa decisione l'amicizia con il suo cancelliere, Cornelio Benigno da Viterbo che, esperto di greco, insieme con altri letterati aveva iniziato la revisione dell'edizione di Tolomeo, apparsa a Roma nel 1507. Zaccaria Calliergi di Creta; già noto in Venezia, fu chiamato a dirigere la stamperia. Nell'agosto del 1515 uscì una pregevole edizione in quarto delle opere di Pindaro, importante soprattutto per i commenti degli scoliasti che venivano pubblicati per la prima volta. Sembra che il C. finanziasse anche Ottavio Petrucci da Fossombrone, il quale imprimeva le opere musicali con caratteri mobili da lui stesso inventati. Nel gennaio del '16 uscì l'edizione di Teocrito, curata dal Calliergi e stampata dal Benigno, con i denari del C. che ottenne il rimborso dal tribunale dopo una vertenza di due anni.

Il C. volle legare la sua immagine al campo della cultura e dell'arte, favorendo numerosi artisti e, in particolare, divenendo amico di Raffaello.

Al giugno 1507 risalgono i "Patti tra messer Agostino del fu Mariano Chigi e Gio. Batta del fu M. Pietro e Bernardino di Giovanni di Viterbo, scultori e muratori per fare la cupola o tribuna della chiesa di S. Maria della Sughera" (presso Tolfa), conservati insieme con il disegno della pianta nell'Archivio dei contratti di Siena, tra i registri del notaio Francesco Sacchi. Il C. affidò le cure della chiesa agli agostiniani. Due lapidi, poste dai suoi figli nel 1523, ne ricordano l'opera.

L'occasione che però rese famoso il C. come mecenate fu la costruzione della sua villa nei pressi di porta Settimiana che avrebbe dovuto superare in magnificenza le altre ville della Roma del Cinquecento.

Aveva preso in affitto per il canone annuo di 16 barili di mosto due vigne nei pressi della porta Settimiana che, costruita da Settimio Severo, era stata rifatta dalle fondamenta al tempo di Alessandro VI. Il C., dopo la costruzione della villa, si rifiutò di continuare a pagare il canone di affitto del terreno, di proprietà della cappella Giulia della basilica di S. Pietro, avvalendosi delle disposizioni di Sisto IV, Alessandro VI e Giulio II che avevano, tutti, dichiarato liberi dall'imposta di affitto i terreni urbani edificati. In base alle medesime disposizioni il C. vinse nel 1520 la causa mossagli dall'amministrazione della cappella.

La Farnesina (dai Farnese che la acquistarono nel 1580) fu costruita dal Peruzzi, nello stile del Rinascimento toscano, negli anni tra il 1508 e il 1511. Il Peruzzi era senese, e senese di adozione si poté considerare Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che il C. aveva conosciuto nella propria città natale al momento dell'acquisto di Porto Ercole. Alla fine del 1507 il Sodoma venne a Roma con il C. dopo aver finito di dipingere la cappella del carcere di San Gimignano. Non si possono in verità far risalire a quegli anni i dipinti della Farnesina perché il Sodoma era impegnato, insieme a Raffaello, a dipingere la camera della Segnatura nei Palazzi apostolici. Alla villa lavorarono poi, insieme a Raffaello che vi dipinse la Galatea e le Tre Grazie, Sebastiano del Piombo, nel 1511, e il Sodoma, nel 1514, nonché l'orefice Antonio di Fabbri da San Marino. Agli affreschi famosi della sala di Galatea, del salone delle Prospettive, della stanza delle nozze di Alessandro con Rossana faceva cornice un viridario prezioso per piante rare, antiche fontane e statue. La fama della bellezza di quel giardino fu celebrata dall'Aretino nella commedia Le Cortigiane e, nel 1521, Iacopo Mazzocchio, negli Epigrammata antiquae urbis Romae, trascrisse le iscrizioni classiche dei frammenti marmorei sparsi nella villa della cui raccolta si era occupato Raffaello stesso. La ricca dimora venne celebrata in due poemetti, di Egidio Gallo, De Viridario Augustini Chisii e di Blosio Palladio, Suburbanum Augustini Chisii, entrambi pubblicati a Roma nel 1512. Le scuderie, attigue alla villa, costituirono una delle costruzioni più moderne dell'epoca e accoglievano più di cento cavalli di razza. I resti di queste, rappresentate in un disegno degli Uffizi, eseguito da fra' Giocondo, furono abbattuti nel 1808; ne rimane un rudere sulla via della Lungara. La villa si affacciava sulle rive del Tevere con un porticato le cui logge vennero, abbattute per costruire il lungotevere tra il 1884 e il 1886, dopo che erano rimasti solo dei ruderi in seguito alle continue inondazioni del Tevere.

Sempre per il C., il Sodoma aveva dipinto un tondo raffigurante L'allegoria dell'amore, conservato al Louvre, e su un frontone di cassone Il ratto delle Sabine, ogginella sesta sala della Galleria naz. d'arte antica a palazzo Barberini.

Nel 1513, in occasione della cerimonia della presa di possesso di Leone X, il C. fece costruire l'arco più artistico, in via del Banco di S. Spirito, presso la propria abitazione. Vi erano rappresentate solo figure pagane, tra cui Apollo, Mercurio, Minerva.

Singolari furono i rapporti tra il C. e Raffaello. Il grande pittore in verità non prestava molta attenzione ai dipinti che Leone X gli aveva commissionato, distratto dalla passione per la Fornarina. Leone X si rivolse al C. perché stimolasse il pittore a terminare le logge superiori in Vaticano, conoscendo l'ascendente che il banchiere poteva, esercitare su di lui. Il C. acconsenti volentieri a fungere da mediatore, pensando però ai lavori che Raffaello doveva finire per la sua villa. Fece quindi rapire la ragazza, facendo capire all'amico che l'avrebbe aiutato a ritrovarla se avesse lavorato con maggiore intensità. Il grande pittore obbedì ma, prolungandosi il tempo della scomparsa della Fornarina, cadde di nuovo in uno stato depressivo, per cui il C. pose fine al rapimento e ospitò i due nella sua villa.

Per la loggia di Psiche Raffaello aveva ideato una serie di arazzi, mai eseguiti ma di cui aveva lasciato i disegni, che servirono da traccia per le incisioni ritrovate nel Gabinetto delle stampe di Roma da G. Hoogewerff. Nel 1514, sempre per il C., affrescò nella chiesa di S. Maria della Pace Le Sibille, nell'arco d'ingresso della prima cappella a destra. Per il suo mantenimento il banchiere costituì una dotazione di 50 scudi l'anno, aumentata in breve tempo a 60, devolvendo alla chiesa la rendita di una sua casa in Borgo.

Se nei dipinti della villa di porta Settimiana il pittore aveva saputo offrire una rappresentazione gioiosa della vita, ugualmente nel progettare la cappella funeraria, in S. Maria del Popolo, seppe creare l'ambiente ad essa consono, in cui una pacata serenità si effondeva in un'atmosfera da cui aveva però bandito ogni idea funerea. Un solo gradino di marmo orientale valeva 300 scudi d'oro e tutta la costruzione era costata al C. più di 22.000 ducati d'oro. Qui, nel 1510, probabilmente il C. aveva incontrato Lutero, in occasione della sua venuta a Roma, ospite del convento tenuto dagli eremitani di S. Agostino. Alla tomba del C. venne destinata la seconda cappella della navata sinistra: Raffaello diresse personalmente i lavori, adattando i suoi disegni ad una pianta ottagonale. Entro le nicchie fungono da pilastri le statue dei profeti Giona,Elia,Daniele e Abacuc.Le prime due furono eseguite al tempo del C. da Lorenzo Lotti, detto il Lorenzetto, su disegno di Raffaello. Le altre due furono aggiunte dal Bernini in seguito, riprendendo il progetto originale del Sanzio, che aveva anche disegnato i cartoni per il mosaico della cupola che fu composto dal veneziano Luigi della Pace, nel 1516. Vi appaiono Dio, creatore del firmamento, ed intorno i simboli del Sole e dei sette firmamenti, ciascuno guidato, secondo il concetto dantesco, da un angelo del suo ordine motore. Sull'altare è posto un quadro di Sebastiano del Piombo, rappresentante la Nascita della Vergine, dipinto dopo la morte del C., su pietra levigata. Sotto la cornice vi sono i tondi delle stagioni, iniziati da Raffaello e terminati da Cecchino Salviati. Il bassorilievo di Gesù e la Samaritana, opera del Lorenzetto, oggi adorna il paliotto dell'altare. In origine era stato destinato alla base della tomba del C., da dove in seguito venne rimosso dal Bernini. Alla destra e alla sinistra della cappella, sulle pareti, sorgono i monumenti funebri del C. e del fratello, a forma piramidale. Il Bernini li modificò, cambiando la base e aggiungendo il medaglione con l'epitaffio. Il C. legò alla cappella la rendita annua di 200 ducati d'oro allo scopo di costituire la dote per tre ragazze povere ogni anno.

Lasciò un'eredità di 400.000 ducati d'oro. Nell'inventario dei beni, compilato dopo la sua morte, figurano numerosissime sculture, pitture, oggetti artistici, tappeti, arazzi, vasellame d'oro e d'argento. Gli eredi rientrarono in possesso dei beni elencati nell'inventario affidato alla Repubblica di Siena nel 1528. Una parte della collezione di statue venne rilevata dal barone Le Plat nel 1728 per la somma di 34.000 scudi. Oltre alle case di Roma, Napoli e Porto Ercole, lasciò la villa della "Serpentaria" fuori porta Salaria; nei pressi di porta Pertusa lasciò il casale e la tenuta del Lango, detta Casal Giuliano, che aveva comperato dagli Orsini: costoro la riscattarono nel 1576. Ed inoltre: il castello di Siranogiai, un casale presso S. Paolo di Leprignano, tenute a S. Pancrazio, a ponte Milvio, a Fiorano e, a Sacrano, anche un castello ridotto a villa nel 1521. Per 20.000 scudi aveva rilevato dai Colonna, che li riscattarono qualche tempo dopo la sua morte, Castel Vaccone, Atessa e una parte del Fucino.

Il C. morì a Roma il 10 apr. 1520.

I funerali, celebrati a S. Maria del Popolo, furono degni di un sovrano. Il corteo funebre era formato da otto ordini di frati, trentasei vescovi, molti preti secolari, un gran numero di cardinali e ottantasei carrozze con la famiglia del papa. Intorno al feretro vi erano duecentocinquanta torce, quando i cardinali ne avevano diritto a cento.

Erano presenti più di cinquemila persone. Venne sepolto nella cappella che si era fatta costruire nella chiesa.

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