GALLO, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GALLO, Agostino

Gino Benzoni

Nasce nel 1499, con tutta probabilità prima del 14 maggio, a Cadignano, odierna frazione di Verolanuova, nella piana bresciana, a poco più d'una ventina di chilometri da Brescia.

Mentre della madre - di cui s'ignora il nome - si sa soltanto che muore entro il 1517, quando il G. di lei risulta orfano, meno evanescente è la figura del padre Giancristoforo che si spegne cinquantenne anch'egli, al pari della moglie, entro il 1517. Gestore questi a Cadignano d'una bottega, situata nei pressi della chiesa allora esistente, di "pateria" e "ferrarezze", ossia di stoviglieria e ferramenta, è supponibile il G. fanciullo l'abbia un po' aiutato in questa sua attività già avviata da suo padre "Bontempus de Gallis" - questo, dunque, il nome del nonno paterno del G. - venendo nel frattempo un minimo istruito coi primi rudimenti di grammatica e d'abaco o presso qualche scuola della zona o in casa da un qualche maestro privato, da un qualche precettore a tempo limitato. E le sue successive inclinazioni devote, i suoi successivi rapporti con Angela Merici - la desenzanese fondatrice, nel 1535, delle orsoline - autorizzano l'ipotesi abbia esercitato su di lui giovinetto una particolare impressione la traslazione, del 12 febbr. 1515, proprio nella chiesa della natia Cadignano, d'alcune supposte reliquie di s. Orsola.

Certo è che, morto il padre, è il fratello di questo nonché zio del G., Francesco, a subentrare nella conduzione della bottega e ad accogliere in casa propria il G. con la sorella dodicenne Ippolita. Tutore lo zio paterno del G. e pure a lui associato nel commercio di vasellame e ferramenta, come risulta da una polizza d'estimo del 1517, dalla quale si ricava pure che Francesco Gallo è proprietario d'una casa a Brescia nonché titolare d'un altro paio di botteghe sempre di "pateria" e "ferrarezze". Erediterà entrambe il primogenito nonché cugino del G. Bernardo, mentre un altro suo figlio Cristoforo risulta laureato in legge.

Al pari dello zio Francesco il G. si trasferisce a Brescia - che esalterà quale "magnifica et illustre città" cultrice della "nobil'arte dell'agricoltura" che, eliminando "sterpi", "ruschi", "stecchi", "vepri" trasforma il paesaggio in sequenza di "boschi", "vignali", "prati", "campi abondanti di grani e lini" - quivi accasandosi attorno al 1520, con una Cecilia Tarelli (che, se figura come "de Campanariis" nell'atto di battesimo dell'ultimogenito, ciò si chiarisce alla luce d'un documento ove si nomina un Ercole "de Campanariis seu de Tarellis"), d'una famiglia di piccola nobiltà rurale originaria di Manerbio dove conserva delle proprietà. Dal matrimonio nascono otto figli, tra maschi e femmine. Movimenta un'esistenza, congetturabile - in mancanza di notizie in contrario - come modesta e tranquilla, l'incontro del 1529 con Angela Merici, forse propiziato dalla sorella Ippolita, che, rimasta vedova nel 1528, a quella è legatissima. E, nell'apprensiva atmosfera creata dalla vicinanza delle truppe cesaree e nel timore d'una qualche mossa a danno della stessa Brescia, il G. - con la famiglia, la sorella, la stessa Merici - ripara per un po' a Cremona, rientrando a Brescia solo quando, dopo la pace di Bologna, i pericoli di guerra s'allontanano e la pace pare sicura.

Ospitata per alcuni mesi la Merici nella sua dimora bresciana nella contrada di S. Clemente, è con lei, con la sorella e con altre undici persone che il G., nel 1532, va in pellegrinaggio al Sacro Monte di Varallo. È stato - ricorderà - come recarsi in Terrasanta, beninteso "senza solcare il mare". Intimamente pio il G. e fortemente suggestionato dall'esempio d'una donna le cui "opere", dirà, "havevano più tosto del divino che dell'humano", la sua religiosità si traduce nell'impegno sollecito all'interno delle strutture caritative. Sicché nel 1535 risulta "calculator" nell'ospedale degli incurabili e nel 1543 del Monte di pietà allora attivo nella costruzione di case per l'ospedale dei poveri; e il G. è altresì al fianco di Girolamo Emiliani quando a Brescia si prodiga pei fanciulli orfani e bisognosi. Uomo dal forte sentire religioso, dunque, il G., com'e riscontrabile anche nel trattato agronomico che lo renderà famoso, laddove il riscatto e il risanamento delle campagne si prospettano pure come recupero dell'umanità del villano, suscettibile di diventare, nella campagna evangelizzata, un ingentilito - da ferino che è, stando alle satire a lui relative - e cristiano lavoratore della terra. Luogo di "beata cristianità" l'ambiente irradiato dalla civiltà della villa intesa anche come umanizzazione e cristianizzazione dei villici altrimenti selvatici. In questa valenza dell'agricoltura auspicata dal G. la familiarità con la fondatrice delle orsoline e la partecipe collaborazione al fervore di carità del fondatore dei somaschi sembrano in lui interiorizzate sino a lievitare in una concezione dell'agricoltura quale, oltre che intervento tecnicamente consapevole, possente strumento di civilizzazione anche spirituale.

Una prospettazione che suppone letture e meditazione. Ma ciò lungo lo svolgersi d'attività pratica che vede il G. fissare, prima del 1534, il proprio "quartier generale" a Borgo di Poncarale, dove possiede 20 ettari di terra "aradora, prativa, adacquadora" che produce frumento, lino, fieno, legname. Convinto fautore, nel 1546, del ripristino dell'esenzione daziaria pel lino bresciano importato a Venezia, la molta "laude" che gliene deriva si mescola al tornaconto personale, dal momento che il lino è pure coltivato nella proprietà della moglie a Manerbio. E nel frattempo, quanto meno nel 1542-43, il G. fa "andar la mercantia di panni nel fondego" della sua abitazione bresciana, senza però, impegnando fisicamente le mani, "mostrare" di persona la merce e senza, a maggior ragione, "tagliare i panni", a ciò delegando un "fattore" e un "agente", come si preoccuperà d'insistere quando questo suo precedente mercantile rischierà di compromettere l'acquisito status nobiliare, non mantenibile se, come vogliono i suoi "inimici", saranno appurati episodi di suo intervento manuale. Temporaneo, a ogni modo, questo occuparsi del G. - e solo mentalmente, a suo dire, senza mai srotolare e prender le forbici, solo per "piacere" e "spasso", con distaccata signorilità - di "mercantia" e seguito, nel 1548 (l'anno in cui, proprio perché ormai immune da interessi commerciali personali può fungere da arbitro super partes nel contrasto tra tintori e mercanti di stoffa), dalla vendita di tutte le scorte residue. Certo la mercatura non sta in cima ai suoi pensieri e certo non gli ha fruttato granché se, esercitandola, s'è tanto crucciato di tener sgombre le mani pagando un paio di commessi. Donde il gravare del costo del personale su di un margine di guadagno ridotto. Tant'è che il G. preferisce smobilitare, ritrarsi da un'attività che - anche per colpa della sua rigorosa astinenza dall'impegno delle mani; eppure da ragazzo nella bottega di Cadignano queste le ha ben adoperate - non s'è rivelata redditizia. Fuorviante, d'altronde, la vendita di stoffe pel progressivo concentrarsi della sua mente nella stesura - che inizia nel 1552 - del suo impegnativo trattato agronomico. Concepito a mo' di dialogo scandito in "giornate", dopo una circolazione manoscritta attestata, nel 1558, dalla lettura che ne fa Giacomo Chizzola, vede la luce l'edizione bresciana del 1564 di G.B. Bozzola, col titolo di Le dieci giornate della vera agricoltura, e piaceri della villa. Un errore, almeno alla luce del poi, la stampa a Brescia ché il privilegio successivo del Senato veneto dell'11 dic. 1564 vale a coprire l'autore solo nei confronti delle tipografie lagunari. Sicché il G. nulla può fare di contro alle tre edizioni pirata che, in soli 9 mesi, tra il 1565 e il 1566, escono a Venezia zeppe di "scorretioni" e con "infiniti errori". Garantita, invece, dall'esibizione del privilegio senatorio la successiva edizione, a Venezia, del 1566, di - in virtù dell'"aggiunta" d'altre "tre giornate" - Le tredici giornate… Segue, nel 1569, la stampa, del pari lagunare (presso G. Percaccino), d'ulteriori Sette giornate…, che, integrando le tredici, permettono l'uscita, sempre nel 1569 e sempre a Venezia, dell'edizione, questa volta definitiva (sempre del Percaccino), di Le vinti giornate dell'agricoltura et de' piaceri della villa. Scompare ora il "vera" qualificante l'agricoltura nei titoli del 1564 e del 1566. Ma l'aggettivo ricorre nel testo ripetutamente: "vera cognitione", "vero coltivare" come sinonimo di "ben coltivare" nell'autentica "verità de' riti", appunto, di coltivazione. Ciò nell'identificarsi - e c'è un risvolto spirituale in detta identificazione - della verità e della bontà. Sicché il "vero agricoltore" è il "buon agricoltore", quello che fa fendere con l'aratro i campi ben a fondo "con erpicarli da poi benissimo", essendo questi "i veri modi di coltivare bene". Tautologico il G. nel definire la "vera agricoltura" l'"intelligentia del vero coltivare la terra". Ma non solo laddove l'esalta quale "vera alchimia" moltiplicatrice inesausta dei frutti della terra.

Ascritto, ancora nel 1563, alla bresciana Accademia degli Occulti - nelle cui Rime (Brescia 1568) figurano, precedute dal profilo di lui tracciato da Bartolomeo Arnigio, versi che l'omaggiano quale "eccellentissimo ingegno" discoprente, con profusa "dottrina", "secreti pertinenti alla cultura delle terre et al governo dei poderi" - il G., stando a quanto egli stesso dichiara, nel 1569 continua ad abitare nella sua casa nella zona di S. Clemente assieme alla moglie, un servitore, una massara e col solo ultimogenito Mario. Tutti gli altri figli sono sposati. Ormai anziano la sua vita è ancor più modesta e appartata. Tutt'altro che ricco il più grande agronomo del '500. Se può vantare dei crediti, non è che sia senza debiti. E a ben poco s'è ridotto quel che effettivamente possiede. Dolorosissima dev'esser stata per lui la vendita della proprietà a Borgo di Poncarale, il luogo da lui mitizzato come Eden ritrovato, l'antitesi paradisiaca alla città, per lui infernale. Non è che il G. distingua tra professioni e/o lavori e malavita. E, anche se non esente da debiti, l'incarcerato per debiti è da lui ritenuto un delinquente. E quel che della città l'infastidisce è il malignare, il berciare, il litigare. Evidentemente vorrebbe stare in villa. Un desiderio che si fa irrealizzabile a mano a mano s'assottiglia la proprietà terriera. Venduti e affittati pure i beni della moglie a Manerbio, nonché parzialmente alienati al primogenito Giancristoforo. E la rendita dei campi rimasti è scarsa se, alla fine del 1569, il G. è costretto a disfarsi d'un altro suo pezzo di terra, in quel di Rebuffone. Stipulato da lui e dal figlio Vespasiano il relativo atto di vendita. Ma sottoscritto solo da quest'ultimo l'atto definitivo di liberatio del 26 apr. 1570. Vuol dire che il G. è immobilizzato in casa e che, forse, non è più in grado d'intendere. E certamente è già morto quando, il 6 settembre, il suo ultimogenito - "Marius fuit quondam magnifici domini Augustini de Gallis" - rilascia una procura per la vendita dell'edizione paterna del 1569.

Piccolo proprietario in via di progressiva smobilitazione, certo non rallentata dal "magnificus dominus" che gli compete pel suo ottenuto rango nobiliare, il G. è costretto a finire i suoi giorni non in uno spazioso scenario campestre, ma nell'angusto perimetro urbano d'una città provinciale come Brescia, da lui peraltro magnificata colla convinzione propria di chi non ne conosce altre ed esaltata in quanto trasformatrice del paesaggio da ispido e inameno in bellezza feconda. Bella, al limite, Brescia più per la campagna che la circonda che di per sé. Avvalorante l'imago urbis il territorio. E fuori dalle mura e immerso nel verde di questo il G. ha, forse, vagheggiato per tutta la vita di vivere in una villa principesca e a capo d'una grande azienda agricola. Dura con lui la sorte: né villa signorile né grande proprietà. Se questo è stato il sogno della sua esistenza, ebbene essa appare fallimentare. Ma gli restituisce significato la dimostrazione, colle Giornate, della praticabilità di quel sogno e, insieme, come esso sia l'unico che meriti d'essere sognato. Sicché il G. si realizza nel protagonista del suo trattato, quell'Avogadro che assurge a modello comportamentale, ad esempio paradigmatico di nobile proprietario che, vivendo stabilmente in campagna e non senza rifiuto della città, sovrintende, a mo' di moderno imprenditore, direttamente alla gestione della proprietà che, così, diventa azienda agricola. E testo base, allora, per l'intera Europa cinquecentesca le Giornate, auspicante la trasformazione dei grandi redditieri in conduttori diretti delle loro proprietà.

Una suasoria, per tal verso, il trattato del G. e insieme una circostanziata disamina dei modi e dei tempi della conduzione. Agronomia e retorica. Tecnica e persuasione. Tant'è che il testo - unico tra gli scritti d'agricoltura dei secoli XV-XVI - è in forma dialogica. E protagonista del dialogo Avogadro. È ai dialoganti che il G. presta l'empito della sua appassionata conoscenza. Abbarbicati alla specificità della bassa bresciana - intento del G. descrivere esclusivamente i "riti", i modi, gli accorgimenti degli "agricoltori bresciani" senza mettersi a "ragionare degli altri infiniti" in uso "in tanti paesi" - gli insegnamenti tecnici, ma esigenza diffusa quella del vivere in villa. Donde la fortuna europea del trattato dialogato. Radunate in questo figure di gentiluomini bresciani a parlare di cose rustiche del Bresciano. Epperò nelle urgenze motivanti il loro parlare può riconoscersi l'intera categoria dei gentiluomini proprietari e degli aspiranti tali. La vita in villa si configura come possibilità d'esistenza armoniosa, con significato. Quanto meno i "piaceri" sono garantiti. E sicuri pure i profitti e ben più elevati di quelli ottenibili colla mercatura. Tant'è che il G. si stupisce che i "mercanti" s'ostinino a faticare "travagliosamente" anziché volgersi all'agricoltura che "non solamente rende" il 20 o il 30%, ma "quasi sempre più". Ciò se si mira al "maggior utile" con la "minor spesa", e riducendo i costi colla razionalizzazione delle culture. Balugina il capitalismo nelle campagne se l'azienda diventa oculato investimento, se il padrone conduttore adotta una vera e propria strategia imprenditoriale. Una conduzione a "proprio conto", a proprio vantaggio, attenta alla profittabilità d'ulteriori investimenti, al costo della terra, alla domanda del mercato, alla convenienza della compravendita a peso o a misura, alla differenziazione delle culture, alle rotazioni, all'irrigabilità del terreno, all'intensificazione delle rese, al risparmio sulle semine, alla zoocultura, alla produzione di latticini, all'introduzione di piante industriali, alla concimazione. E unico criterio il ricavo delle "rendite più utili". Si piantino, quindi, viti nei colli soleggiati; si coltivi il riso nei terreni irrigabili. Comunque l'"ingegnoso" agricoltore non s'accontenti d'adagiarsi su quel che si sa, di ripetere quel che si fa in loco. Da un lato sperimenti "inventioni utili", sia innovativo; dall'altro viaggi, confronti, apprenda, fuori, pratiche "migliori delle nostre" bresciane per "introdurle", appunto, in "questo paese". Ma, nel contempo, non trascuri d'apprendere quel che c'è da apprendere in loco. È in atto, quando il G. sta costruendo il suo testo, un massiccio processo di trasferimento della proprietà fondiaria dalle mani dei contadini e delle comunità rurali in quelle dei cittadini, nobili e non nobili. Resta sulle spalle dei contadini il peso della fatica fisica del lavoro. Al proprietario compete l'organizzazione del lavoro. Sappia quindi controllare la manodopera, sventarne le astuzie, imbrigliarne le malizie. Sia a un tempo severo e ricettivo nei confronti dei suoi empirici saperi per quel tanto che sono incorporabili in quel che è il consapevole sapere padronale, il quale sta al di sopra di quello contadino, come è superiore il capitale monetario che permette l'investimento fondiario e poi - nella conduzione - il pagamento d'una manodopera salariata. Così l'"economia della villa", in merito alla quale il G. trova più ascolto nel rilancio settecentesco del suo trattato - stampate nel 1775 le Giornate a Brescia a spese della locale Accademia d'agricoltura, a cura del segretario di questa, l'abate Cristoforo Pilati e con dedica al "veneto magistrato de' provveditori sopra i beni inculti" - che nel proprio tempo. Più grata a questo - rispetto all'impegno della gestione diretta - la musica delle "delitie della villa". Esplicitata nelle Giornate la fruibilità edonistica della campagna e immediatamente compatibile anche col mero villeggiare del proprietario soltanto redditiero. La salubrità dell'aria, l'incanto delle aurore, il rosseggiare dei tramonti, il gorgoglio delle acque, lo stormir delle fronde, quindi. E pure le gioie della caccia. Non è certo casuale che l'edizione torinese del 1588 delle Giornate sia corredata dalla versione in italiano di La chasse du loup… di Jean de Clamorgan. Ma pure annoverabili tra i "piaceri" quello dell'assaporamento delle pacate conversazioni. Non è che il vivere in campagna significhi ispido isolamento. Anzi: con la conversazione si crea la civiltà della villa. Sdegnoso sì della vita urbana Avogadro, il protagonista delle Giornate. Ma non per vivere in solitudine. Amante, anzi, del conversare, solo la villa gli permette di selezionare i propri interlocutori. La città è mescolanza, costringe a comunicare con gente d'ogni risma. E, invece, la rete delle ville crea un'eletta "brigata" di proprietari tutti gentiluomini che "hora" si porta dall'uno, "hora" si sposta dall'altro. E si discorre del più e del meno e sovente anche si danza.

Localmente mirato laddove il discorrere si fa dialogo sul "coltivare" - e l'oggetto è il Bresciano - il trattato del G., epperò, sul versante dei "piaceri" - e tra questi c'è quello di conversare - generalizzabile. Ma sin contraddittorio, a questo punto, come Avogadro, la cui gestione diretta dovrebbe costringerlo a un'attività febbrile, abbia modo di dedicare - sia pure relativamente ai temi e ai problemi di detta gestione - prima dieci giornate, poi tredici, poi addirittura venti a parlarne continuatamente. Salvo un attimo - quello in cui percepisce dal "malghese" il canone del mese di maggio - il suo tempo sembra sgombro da occupazioni. Ma lo stile, l'agio, il conforto, la pacatezza che fasciano ovattanti l'esistenza signorile di Avogadro, dotto nonché sempre disponibile alla conversazione, fanno quasi dimenticare che l'assunzione d'una diretta responsabilità di gestione è anche una fatica, un compito gravoso, un impegno continuato. Quasi quasi questi - la fatica, il compito, l'impegno - vengono come riassorbiti dalla villa, paradigma d'un intensificato piacere di vivere in una rasserenante cornice che asseconda l'otium del dialogo lungi dalle brighe, dalle beghe, dagli affanni cittadini. Certo nelle Giornate del G. si parla di cereali, viti, legumi, piante, bestiame, foraggio, concimi. Senza tregua il dettagliato calendario dei lavori da imporre ai lavoranti e ai massari la cui furbizia e neghittosità vanno combattute. Una somma di curae, di per sé la "possessione" che è meglio sia "unita", ché così più si presta all'instaurazione d'un ordine produttivo ed economico che è anche sociale disciplinamento. Di per sé il padrone ogni sera dà gli ordini pel giorno dopo "a ciascuno" dei sottoposti, di per sé di buon'ora dovrebbe essere già in piedi ogni mattina per vigilare che ognuno s'accinga agli "offici designati". Questo Avogadro sin lo teorizza conversando. Epperò, per quel che il G. di lui fa vedere, quando il giorno è fatto egli legge o contempla il paesaggio e la sera cena conversando. Non stupisce allora come - nel '500 - più che dall'"agricoltura", i lettori siano stati suggestionati dai "piaceri".

Fonti e Bibl.: F. Grasso Caprioli, C. Tarello - A. G. - G. Chizzola…, in Riv. di storia dell'agricoltura, XXII (1982), 2, pp. 38-122 (sul quale interviene, ibid., XXIII [1983], 2, pp. 174 s., criticamente F. Lechi), fornisce una Bibliografia che, sino al 1981, segnala edizioni del G. e studi ove il G. è considerato. Dopo tale data, cfr. l'edizione anastatica del 1987 di Le tredici giornate…, Venetia 1566 (con un profilo biografico del G. di B. Martinelli) e di Le sette giornate…, Venetia 1569, il miscellaneo A. G. nella cultura del Cinquecento…, a cura di M. Pregari, Brescia 1988; per l'inquadramento agronomico, A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, I-IV, Bologna 1984-89 (cfr. Indice, IV, p. 547); G. Benzoni, La forma dialogo…, in Crisi e rinnovamenti nell'autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di V. Branca - C. Ossola, Firenze 1991, pp. 23-42 passim; Id., Le dialogate modulazioni, in Studi veneziani, XXI (1991), pp. 137-156, passim; D. Frigo, Il padre di famiglia…, Milano 1985, ad vocem; R. Rugolo, Agricoltura e alchimia…, in Studi veneziani, XXVII (1994), pp. 163 s.; Fonti per la storia dell'agricoltura ital. dalla fine del XV sec. alla metà del XVIII… Saggio bibl. di R. Giudici, Milano 1995, ad vocem. Secondo G. Piovanelli, Stemmi… di famiglie bresciane, Montichiari 1987, p. 119, il Cristoforo Gallo capostipite della famiglia nell'estimo del 1434 sarebbe figlio o nipote d'un Toninus Gallo nobile di Cadignano.

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