Agricoltura

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Agricoltura

R. Thomas Fulton

sommario: 1. Introduzione. 2. Uso del suolo. 3. Acqua, clima e tecnologia. a) L'acqua. b)Il clima. c) la meccanizzazione. d) Fertilizzanti e pesticidi. e) La rivoluzione verde. 4. Il commercio. a) I paesi industrializzati. b) I paesi in via di sviluppo. c) Le economie pianificate. 5. Problemi commerciali di oggi e di domani. a) Commercio e valute. b) Il commercio e la ‛cartellizzazione' internazionale. c) Crescente ruolo dei governi. 6. Problemi del commercio dei prodotti agricoli. a) Tendenze protezionistiche. b) Sviluppo dei mercati d'esportazione. c) Sviluppo degli scambi con i paesi comunisti. d) Esportazione di prodotti agricoli su concessione. 7. Prospettive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Negli anni ottanta esiste la possibilità, sul piano tecnologico, di nutrire la maggior parte della popolazione mondiale che soffre la fame. Pertanto la vera sfida che si pone oggi all'agricoltura è di ordine politico ed economico: è infatti in quest'ambito che si decide l'allocazione delle risorse disponibili tra vari possibili usi alternativi.

Ogni agricoltore si trova a dover affrontare il problema di aumentare la produzione minimizzando i costi. Per raggiungere questo scopo gli agricoltori di tutto il mondo hanno scelto di sfruttare al massimo le loro terre, riducendone però a lungo termine la qualità e le capacità produttive. I fertilizzanti hanno così preso il posto dei naturali processi di recupero del suolo e, là dove il terreno è di per sé inadatto alla produzione, l'irrigazione ha trasformato aridi deserti in verdi giardini. Ciò ha determinato un abbassamento della falda freatica, creando i presupposti per disastrose conseguenze future. Analogamente, i vantaggi della meccanizzazione hanno creato una pesante dipendenza da combustibili costosi, sia per la produzione che per il trasporto dei prodotti agricoli, e la penuria di petrolio che si è manifestata all'inizio degli anni settanta ha messo in luce la gravità di questo problema. Infine, il massiccio uso dei pesticidi ha aumentato le rese produttive, creando però il problema degli effetti futuri di queste sostanze sui terreni e sulle risorse idriche.

Gli agricoltori si trovano inoltre a dover decidere se continuare a lavorare la terra. Oggi, infatti, il costo elevato dei terreni e le occasioni di guadagno relativamente maggiore in altri settori hanno indotto molti ad abbandonare l'agricoltura, in quanto i risultati che si ottengono in questa attività spesso non sono sufficienti a compensare le oscillazioni dei prezzi dei prodotti e le variazioni della domanda.

Allo scopo di aumentare la redditività dell'agricoltura molti operatori si sono orientati verso il mercato internazionale, capace di determinare un aumento della domanda e dei prezzi. In molti paesi il reddito derivante dall'esportazione di prodotti agricoli ha colmato il deficit della bilancia dei pagamenti. Si incentiva il commercio dei prodotti a prezzi elevati invece di favorire l'offerta gratuita di prodotti agricoli ai paesi poveri, e anche quando questo avviene, i paesi beneficiati spesso non sanno o non vogliono distribuire tali prodotti nelle aree rurali più povere, dove il bisogno è maggiore. Inoltre il mercato internazionale è soggetto a pressioni politiche e l'agricoltura viene usata come arma dalla diplomazia internazionale: è il caso, per esempio, dell'embargo sul grano messo in atto dagli Stati Uniti a danno dell'Unione Sovietica alla fine degli anni settanta.

Negli anni ottanta l'agricoltura si presenta ormai chiaramente più come un affare economico che come un mezzo per provvedere ai bisogni individuali. Nel corso della storia l'uomo ha dimostrato continuamente di saper superare le difficoltà che gli si presentavano per far progredire tecnologicamente l'agricoltura, fino a portarla ai livelli attuali. La sfida degli anni ottanta consiste nell'affrontare i problemi dell'agricoltura utilizzando le conoscenze e l'esperienza accumulate nel corso degli anni, e nel risolvere il conflitto tra un tipo di produzione che soddisfi il fabbisogno corrente e un'utilizzazione incontrollata delle risorse necessarie per l'agricoltura attuale e futura.

2. Uso del suolo

La superficie totale della Terra (esclusi laghi, fiumi e territori perennemente ghiacciati) viene valutata all'incirca in 13 miliardi di ettari, di cui tra i 2,5 e i 3,4 miliardi di ettari (cioè tra il 19 e il 26%) sono stimati potenzialmente coltivabili. Nel 1980, tuttavia, meno di 1,5 miliardi di ettari, pari a circa la metà della terra considerata coltivabile, risultano effettivamente coltivati. La parte restante (da 1 a 1,9 miliardi di ettari) è costituita da pascoli e foreste permanenti.

Anche se una parte considerevole dei terreni coltivabili di tutto il mondo non viene ancora utilizzata, quelli più produttivi lo sono già. La parte restante dei terreni potenzialmente coltivabili - di scarso interesse sotto il profilo della qualità del suolo, del clima, della topografia e della distanza dai centri abitati - potrebbe essere coltivata per soddisfare i bisogni di una popolazione in costante aumento e per migliorare il suo livello di vita, ma i costi di una tale operazione sarebbero elevati sia dal punto di vista finanziario sia da quello ambientale.

In alcune aree geografiche vi sono terreni agricoli inutilizzati sufficienti per un allargamento delle coltivazioni; in altre, invece, la maggior parte del terreno disponibile è già coltivato e diminuisce man mano che si espandono le aree urbane, l'industria e il sistema dei trasporti; in altre ancora il terreno agricolo diminuisce o aumenta lentamente a causa del degrado dei terreni determinato da fenomeni come la desertificazione, l'erosione del suolo e la salinizzazione delle terre irrigate. Si può prevedere pertanto che la maggior parte degli incrementi della futura produzione agricola dipenderà più dal miglioramento delle tecniche produttive che non dalla messa a coltura di nuovi terreni.

I cambiamenti tecnologici saranno quindi di fondamentale importanza per ottenere quegli incrementi produttivi necessari a soddisfare i bisogni alimentari di una popolazione mondiale che cresce molto più rapidamente dei terreni coltivati. Infatti, mentre il tasso annuo di crescita della popolazione mondiale è sceso dal 2% del 1950 all'attuale 1,7%, il tasso d'incremento dei terreni coltivati è sceso dall'1% a meno dello 0,3%, determinando una notevole diminuzione complessiva della disponibilità di terreno agricolo pro capite.

I dati sull'uso del suolo sottolineano i significativi cambiamenti intervenuti negli ultimi 30 anni: il terreno arativo è aumentato costantemente, ma il tasso d'incremento si sta ora riducendo; i terreni a pascolo permanente sono aumentati lentamente sino alla metà degli anni settanta e poi hanno cominciato a diminuire; foreste e boschi sono diminuiti costantemente nel corso di questi tre decenni. Infine le aree ‛sterili', cioè i deserti e i terreni adibiti a usi urbani, commerciali e industriali, sono andate complessivamente diminuendo, fino a circa il 1975, in quanto sono stati recuperati terreni desertici per usi agricoli; da allora, però, queste aree hanno cominciato ad aumentare, in quanto terreni agricoli, pascoli e foreste sono stati sacrificati all'uso urbanistico, commerciale e ricreativo, a una velocità maggiore di quella del processo di recupero dei deserti.

Molti paesi hanno a disposizione aree limitate (e a volte neppure quelle) per espandere i loro terreni coltivati, data la già elevata densità di popolazione. Altri, che avrebbero invece a disposizione aree molto maggiori, non possono farlo per le sfavorevoli condizioni climatiche o per la cattiva qualità del terreno. L'America Latina, e in particolare l'Argentina, il Brasile, l'Uruguay e, in misura minore, il Cile, posseggono il maggior potenziale di espansione dei terreni coltivati per le favorevoli condizioni del suolo e del clima e per la bassa densità di popolazione.

La disparità esistente tra i tassi di crescita della popolazione e delle terre coltivate è destinata a perdurare. Si prevede che entro la fine del secolo la popolazione aumenterà a un tasso annuo dell'1,6%, mentre le terre coltivate aumenteranno probabilmente a un tasso dello 0,2% all'anno o anche meno; ciò significa che, entro il 2000, la popolazione sarà aumentata del 40%, mentre i terreni coltivati saranno aumentati del 4 o 5%. Diventa pertanto un bisogno imperativo conservare la qualità del terreno agricolo esistente o migliorarla in modo da ottenere un aumento della produzione. Negli ultimi anni si è sviluppato un vivo interesse per il problema dell'erosione superficiale. Dopo la seconda guerra mondiale le moderne tecnologie hanno consentito agli agricoltori di far uso di fertilizzanti chimici poco costosi, che hanno sostituito il letame, il trifoglio e gli altri elementi naturali che permettono di arricchire e nutrire il terreno. Anche la rotazione delle colture ha subito una notevole riduzione da quando si sono ottenuti dalla semina annuale di grano e soia raccolti abbondanti. Inoltre, nel tentativo di mantenere dei prezzi competitivi sul mercato internazionale, molti agricoltori utilizzano la coltivazione a filari (più facile, veloce ed economica rispetto al metodo di seguire i profili del suolo, particolarmente sulle colline) con la conseguenza però di aumentare il tasso di erosione del terreno.

Per prevenire l'erosione del terreno sono stati presi in considerazione numerosi rimedi, molti dei quali si basano sul sistema del maggese. Oggi i fautori di una protezione della natura incoraggiano il non dissodamento dei terreni o uno scarso dissodamento: il terreno non dovrebbe essere arato, ma lasciato con i residui delle coltivazioni dell'anno precedente in superficie; gli erbicidi eliminerebbero le erbe infestanti e le colture successive verrebbero seminate direttamente sui residui rimasti. Gli esperti hanno valutato che, facendo uso di questo sistema, è possibile ridurre dell'80% l'erosione dei terreni collinosi. Questo metodo offre anche il vantaggio di trattenere l'umidità e di utilizzare minori quantitativi di energia; potrebbe però porre dei problemi in futuro per la sua dipendenza dagli erbicidi.

La terra non rappresenta tuttavia il solo fattore di produzione: anche altri fattori - come l'acqua, il clima e la tecnologia - contribuiranno a determinare la produzione alimentare futura.

3. Acqua, clima e tecnologia

a) L'acqua

La possibilità di aumentare la quantità di terreno da adibire a usi agricoli è strettamente legata alla disponibilità di acqua. L'Africa settentrionale sarebbe un'area privilegiata per questo tipo di sviluppo se ci fosse acqua a sufficienza, ma attualmente solo il 4,4% della sua superficie totale (l'80% della quale è desertica) può essere utilizzato per usi agricoli.

Molti paesi in via di sviluppo hanno varato progetti di recupero per estendere le proprie aree coltivabili. Tra il 1964 e il 1966 l'Egitto ha bonificato 230.000 ettari di deserto. L'Arabia Saudita ha lanciato un programma di sviluppo agricolo per limitare la sua dipendenza dalle importazioni e raggiungere una certa autosufficienza alimentare. Il governo sta concedendo agli agricoltori dei sussidi a titolo di incentivo. Il grano viene pagato, per esempio, 1.000 dollari a tonnellata, cioè da cinque a sei volte il prezzo corrente sul mercato mondiale. Con un incentivo di questa entità gli agricoltori trovano conveniente investire in pozzi e in attrezzature per l'irrigazione. Il governo dell'Arabia Saudita ha anche investito 12 miliardi di dollari per potenziare le risorse idriche, ma in molte zone questo ha determinato un rapido abbassamento della falda freatica.

Negli Stati Uniti un quarto delle colture e un settimo delle aree agricole più importanti sono irrigate e ogni anno vengono spesi in progetti idrici circa 5 miliardi di dollari. In California, dove crescono principalmente ortaggi, frutta e vite, l'acqua sotterranea ha costituito, dal 1953 in poi, circa il 40% del totale dell'acqua utilizzata per usi agncoli. Come nel deserto saudita, tuttavia, la falda freatica sta gradualmente abbassandosi in molte zone degli Stati Uniti.

b) Il clima

Le variazioni climatiche, e in particolare la siccità, hanno sempre avuto un effetto determinante sulla produzione agricola. Nel 1984 la siccità ha costituito per l'Africa settentrionale un problema di particolare gravità. In Kenya, alla fine di maggio, le precipitazioni complessive erano soltanto il 41% del normale. In seguito a ciò la coltivazione del caffè, che costituisce l'esportazione principale del paese, ha subito seri danni e, per la scarsità di pascolo, il bestiame è stato ucciso o perduto a ritmi elevatissimi. Nella vicina Etiopia si è manifestata, soprattutto nelle aree rurali, una drammatica penuria alimentare, che ha reso necessaria l'importazione d'emergenza di enormi quantitativi di prodotti alimentari da tutto il mondo. Dall'altra parte del globo, il Nordest del Brasile comincia a risollevarsi dopo cinque anni di siccità, il che dovrebbe migliorare le riserve alimentari della regione.

I climatologi hanno rilevato, sugli altipiani degli Stati Uniti, un ciclo della siccità di 20-22 anni, ma non sono riusciti a identificare alcuna periodicità della siccità delle regioni situate alle medie latitudini al di fuori degli Stati Uniti, né delle frequenti siccità in Africa o della diminuzione delle precipitazioni monsoniche in Asia. Per i prossimi 25 anni essi prevedono un leggero riscaldamento globale del pianeta e, di conseguenza, un incremento delle precipitazioni e una loro minore variabilità.

c) La meccanizzazione

I progressi tecnologici, riguardanti soprattutto gli strumenti per risparmiare lavoro, hanno condizionato lo sviluppo dell'agricoltura nel corso dei secoli e continuano ancora oggi a influenzare la produttività e i metodi di coltivazione. Negli ultimi dieci anni l'interesse dei ricercatori si è concentrato sui raccoglitori meccanici per frutta e ortaggi (uva, insalata e pomodori). Una delle controindicazioni per l'uso di questi strumenti è rappresentata tuttavia dalla necessità di raccogliere i prodotti prima della loro piena maturazione e, di conseguenza, di usare metodi chimici per far proseguire il processo di maturazione.

La tendenza verso una tecnologia che consenta crescenti risparmi di lavoro comporta imponenti investimenti in attrezzature, accresce la dipendenza dai vari tipi di combustibile e incoraggia la creazione di aziende agricole di notevoli dimensioni che rendano vantaggioso l'uso dei macchinari. Il prezzo medio di un raccoglitore di cereali si aggira intorno ai 150.000 dollari, una somma che, per essere ammortizzata, richiede una produzione su vasta scala. Il combustibile è spesso necessario per azionare le pompe d'irrigazione, per asciugare il granturco e altri prodotti, per riscaldare i recinti e le gabbie per l'allevamento degli animali e per trasportare le merci al mercato; inoltre il petrolio entra nella composizione dei prodotti petrolchimici usati come fertilizzanti e insetticidi. Per eliminare questa dipendenza dai combustibili costosi, molti agricoltori utilizzano una parte dei raccolti di granturco per produrre etanolo, che può servire a far funzionare le loro macchine. (Attualmente il processo per ricavare l'etanolo dal granturco non è molto redditizio: da uno staio di granturco si possono ricavare 2,5 galloni di etanolo; ma agricoltori e scienziati stanno sperimentando nuove tecniche per migliorare questo risultato e ridurre cosi la dipendenza dai combustibili ad alto costo).

L'adozione di tecnologie che consentono risparmi di lavoro ha significato per i paesi sviluppati notevoli miglioramenti nella produttività, accrescendo così la competitività degli agricoltori di questi paesi sul mercato mondiale. Una conseguenza di questo sviluppo è stata, comunque, la tendenza verso unità produttive sempre più grandi. Negli Stati Uniti, per esempio, 112.000 grandi aziende producevano nel 1981 il 49% della produzione agricola totale, 582.000 aziende medie ne producevano il 38% e 1.742.000 piccole unità solo il 13%. I contadini, pesantemente indebitati per l'acquisto di costosi macchinari, sono in genere i più vulnerabili in caso di depressione economica e subiscono i problemi di flusso monetario connessi all'inflazione e agli alti tassi d'interesse.

d) Fertilizzanti e pesticidi

Assieme all'adozione di tecnologie per risparmiare lavoro è molto cresciuto l'uso di fertilizzanti e pesticidi come fattori del processo produttivo. Dopo due anni di calo dei prezzi e di ristagno dei consumi, nel 1984 si è sensibilmente rafforzata la domanda mondiale di fertilizzanti, anche se i mutamenti tecnologici del settore sono stati limitati rispetto a quelli intervenuti nel campo della lotta agli insetti.

Durante gli anni sessanta la tendenza dominante tra gli agricoltori era verso un uso sempre più intensivo del diclorodifeniltricloroetano (DDT) per combattere ogni tipo d'infestazione, finché, accertata la pericolosità del DDT, si arrivò in molti paesi alla sua proibizione e gli stessi agricoltori furono costretti a distinguere l'esatta natura di ciascun parassita per combatterlo in modo appropriato. Il nuovo sistema ha preso il nome di ‛trattamento antiparassitario integrato' e combina l'uso di pesticidi chimici con la lotta ai parassiti dannosi condotta tramite certi insetti, che si nutrono dei primi ma sono innocui per le piante. Sfortunatamente, molti insetti usati a questo scopo sono diventati a loro volta dannosi o inefficaci e, di conseguenza, si è pensato alla possibilità d'introdurre insetti sterili per annullare la capacità dei parassiti di riprodursi. Un progresso ulteriore è consistito nell'irrorazione delle colture con feromoni sintetici, cioè con sostanze che hanno l'odore dei messaggeri chimici del richiamo sessuale. Prodotte in grandi quantità e confezionate in milioni di tubetti di plastica per un'azione capillare, queste sostanze vengono poi sparse dagli aerei. Quando i tubetti emanano l'odore, simile a quello del feromone naturale dell'insetto femmina, i maschi non sono più in grado di trovare le vere femmine e gli accoppiamenti vengono così ostacolati.

e) La rivoluzione verde

Uno dei progressi tecnologici più significativi introdotti nel XX secolo nei paesi in via di sviluppo è stata la selezione di varietà di grano e di riso ad alto rendimento. Queste varietà di piante sono in genere più basse di quelle normali (spesso si tratta di varietà quasi nane) e non tendono a piegarsi quando vengono trattate con grandi quantità di fertilizzanti. Introdotte negli anni sessanta, queste piante non rispondevano a tutte le condizioni ambientali e ai gusti dei consumatori, e hanno richiesto quindi ulteriori selezioni prima di essere generalmente accettate. I risultati sono stati però positivi: nel 1976 più di un terzo della superficie a grano e riso nei paesi in via di sviluppo era coltivato con queste varietà ad alto rendimento. In alcuni di questi paesi il miglioramento dei raccolti è stato in media del 60% per il grano e del 75% per il riso. L'introduzione di queste varietà, che hanno un ciclo di sviluppo più breve di quelle normali, ha permesso raccolti multipli e quindi un aumento della produzione, che ha consentito agli agricoltori di riservare una parte dei loro terreni ad altre coltivazioni.

4. Il commercio

La ricchezza di risorse naturali, unita all'adozione delle tecniche più perfezionate, ha creato in alcuni paesi condizioni favorevoli al commercio internazionale dei prodotti agricoli. Tuttavia lo sviluppo di un sistema mondiale agricolo interdipendente non si è avuto prima degli anni sessanta e settanta, in quanto, pur essendo già esistiti per qualche tempo dei mercati internazionali, gli scambi erano limitati a pochi prodotti. Solo negli ultimi anni si è consolidato un mercato finanziario internazionale che ha facilitato gli scambi e ha determinato una rapida espansione del commercio dei prodotti agricoli.

Oli Stati Uniti sono diventati il principale paese esportatore di prodotti agricoli e dominano completamente il mercato dei prodotti tipici delle zone temperate. Nel periodo 1978-1980 gli Stati Uniti hanno esportato prodotti agricoli per un ammontare, in media, di 37,5 miliardi di dollari, superando le esportazioni congiunte di Argentina, Australia, Canada e Francia. La quota statunitense delle esportazioni agricole mondiali è passata da una media del 12,7%, nel periodo 1951-1955, a una media del 17% nel periodo 1976-1980.

Durante il periodo 1971-1975 gli Stati Uniti hanno realizzato il 90% dell'incremento delle esportazioni mondiali di foraggi per animali, cosicché nel periodo 1976-1980 la loro quota di mercato in questo settore ha raggiunto il 61% del totale rispetto al 49% del periodo 1971-1975. La maggior parte di questo incremento percentuale è dovuta alla capacità degli Stati Uniti di soddisfare la rapida crescita delle richieste dei paesi più prosperi e sviluppati e di quelli a medio reddito con i più elevati tassi di sviluppo, i quali importano foraggi per incrementare la loro zootecnia e far fronte così alla crescente domanda dei consumatori.

I paesi sviluppati ad alto reddito ricevono circa il 50% di tutte le esportazioni statunitensi di prodotti agricoli, mentre un terzo circa si indirizza ai paesi in via di sviluppo e il resto va ai paesi a economia pianificata.

I paesi sviluppati erano il principale mercato per i foraggi e la soia nel periodo 1976-1980. La situazione è invece rovesciata per il grano, dato che i paesi sviluppati hanno assorbito nello stesso periodo solo il 25% delle esportazioni americane di granaglie alimentari (grano e riso). Eventuali aumenti delle esportazioni agricole degli Stati Uniti verso i paesi ad alto reddito saranno probabilmente piuttosto modesti: deriveranno principalmente dalla crescita della popolazione e dal passaggio dei consumatori a prodotti alimentari di maggior pregio, come la carne e i prodotti derivati. Questo aumento della domanda è prevedibile e darà luogo a un incremento delle importazioni di foraggi e mangimi, influenzando così la composizione e il tasso di crescita delle importazioni.

Alcuni recenti studi sui consumi alimentari in India hanno dimostrato che, quando il reddito familiare cresce di un dollaro, circa il 60% dell'incremento viene speso per prodotti alimentari e tessili. I paesi in via di sviluppo dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, dove i redditi pro capite sono in genere inferiori agli 800 dollari annui, hanno importato prodotti agricoli dagli Stati Uniti per un ammontare, in media, di 6,91 dollari per persona all'anno nel periodo 1979-1981, circa il doppio rispetto al periodo 1971-1973. Nei paesi sviluppati come il Giappone, invece, dove il reddito pro capite è di circa 7.414 dollari annui (1979), si sono avute importazioni di prodotti agricoli dagli Stati Uniti per un ammontare, in media, di 60,40 dollari per persona. Durante il periodo 1979-1981 i paesi sviluppati ad alto reddito hanno importato in media prodotti agricoli dagli Stati Uniti per un ammontare di 35,77 dollari a testa.

La domanda estera di prodotti agricoli è cresciuta rapidamente durante gli anni settanta e ha incrementato notevolmente il ruolo delle esportazioni agricole nell'economia statunitense e nel commercio mondiale. I mercati esteri assorbono quote crescenti della produzione agricola statunitense e contribuiscono in misura sempre maggiore al reddito complessivo degli agricoltori.

La percentuale della produzione agricola degli Stati Uniti diretta all'esportazione, così come la percentuale delle aree impegnate in questa produzione, sono più che raddoppiate negli ultimi vent'anni, in quanto la domanda interna è cresciuta molto più lentamente della domanda estera. Nel periodo 1951-1955 la percentuale della produzione per l'esportazione era dell'8%, in termini monetari; essa e passata al 21% nel periodo 1976-1980. La rapida crescita delle importazioni alimentari da parte dei paesi sottosviluppati e di quelli a economia pianificata dell'Europa orientale, oltre che dell'Unione Sovietica, ha molto ampliato i mercati per le granaglie americane. Così, mentre il mondo si rivolge agli agricoltori dei paesi sviluppati per le sue crescenti importazioni alimentari, gli agricoltori degli Stati Uniti sono diventati sempre più dipendenti, in termini di percentuale di reddito, dai mercati esteri. Pertanto, il mantenimento dei prezzi agricoli a un livello che garantisca agli agricoltori redditi accettabili è molto difficile da raggiungere senza una continua espansione e crescita dei mercati d'esportazione.

Negli anni 1976-1980 sono stati esportati il 56% della produzione statunitense di grano e il 61% della produzione di riso, principalmente verso i paesi in via di sviluppo e verso quelli a economia pianificata, per soddisfarne i crescenti bisogni alimentari. Nello stesso periodo sono stati anche esportati il 39% della produzione di cotone e tabacco e il 48% di quella di mais e sorgo, principalmente verso i paesi sviluppati. Se non ci fosse stata la rapida espansione delle esportazioni durante gli anni settanta, la superficie coltivata degli Stati Uniti avrebbe potuto rimanere praticamente invariata, in quanto il miglioramento delle rese unitarie dei raccolti avrebbe coperto gran parte della crescita della domanda interna, rendendo superflua la messa a coltura di nuove terre. Anche il contributo dell'agricoltura alla bilancia commerciale degli Stati Uniti è aumentato in maniera sostanziale. In termini monetari le esportazioni nette (esportazioni meno importazioni) di prodotti agricoli sono passate da una media di 1,6 miliardi di dollari negli anni 1961-1970 a quasi 26,6 miliardi nel 1981.

Le esportazioni nette di prodotti agricoli sono considerate sufficienti a compensare una parte notevole del deficit che grava sul commercio dei prodotti non agricoli, legato alle crescenti importazioni di petrolio. Nel periodo 1976-1980, per esempio, queste esportazioni hanno ridotto tale deficit a meno di 22 miliardi di dollari all'anno.

La situazione attuale è quindi rovesciata rispetto a quella dei primi anni cinquanta, quando la bilancia agricola degli Stati Uniti era in passivo e il saldo globale positivo derivava dalle esportazioni di prodotti non agricoli. Questi ultimi registravano un saldo attivo di 5 miliardi di dollari all'anno, mentre la bilancia agricola era in deficit per 1 miliardo di dollari.

Le esportazioni di prodotti agricoli, legate all'aumento della domanda complessiva nel settore, hanno notevolmente migliorato il reddito degli agricoltori, ma hanno anche contribuito ad accrescere la variabilità dei prezzi e, conseguentemente, dei redditi, in particolare all'inizio degli anni settanta. A causa dell'importanza crescente dei mercati esteri e delle variazioni della domanda estera (specialmente per le granaglie), l'effetto delle fluttuazioni annuali di questo tipo di domanda sui prezzi e sui redditi agricoli si è fatto sentire sensibilmente. Dal 1970 in poi, l'oscillazione di 1 miliardo di dollari, in più o in meno, nelle esportazioni americane ha provocato fluttuazioni dei prezzi agricoli superiori al 2,5%. Fluttuazioni annuali di 1 miliardo di dollari delle esportazioni statunitensi hanno anche provocato, a partire dal 1970, un aumento nell'indice dei prezzi pari al 2,5%, mentre, prima del 1970, negli Stati Uniti non era stato registrato alcun aumento dei prezzi agricoli. La variabilità dei prezzi di tutti i prodotti agricoli è più che raddoppiata dal 1970 a oggi. L'indice dei prezzi delle colture è quattro volte maggiore di quello dei prezzi del bestiame e di tutti gli altri prodotti. Quasi raddoppiata è anche la variabilità dei redditi agricoli, anche se in misura minore rispetto alla variabilità dei prezzi, principalmente per i crescenti contributi dello Stato agli agricoltori, versati proprio allo scopo di ridurre le oscillazioni dei loro redditi.

La crescita senza precedenti delle esportazioni agricole statunitensi va attribuita alla crescita economica relativamente vivace che si è registrata in tutto il mondo durante gli anni settanta, insieme a una costante diminuzione del cambio del dollaro. L'aumento delle esportazioni (in media del 17% all'anno in valore) ha portato, tra il 1971 e il 1981, a un aumento annuo dei redditi agricoli del 12% circa. Tuttavia, nel 1982, la recessione internazionale ha indebolito considerevolmente la domanda di prodotti agricoli statunitensi: le esportazioni sono cadute in termini di valore del 15%, in volume del 5% e come prezzi del 10%, facendo scendere il valore totale delle esportazioni agricole al più basso livello degli ultimi tre anni. Il reddito reale degli agricoltori, al netto cioè dell'inflazione, è stato più basso negli anni ottanta che negli anni settanta.

Nella seconda metà degli anni ottanta continueremo ad assistere ad ampie oscillazioni della domanda estera. Alcuni paesi stanno espandendo la produzione su aree marginali, quelle cioè che risultano spesso colpite dalla siccità, dal gelo o da alluvioni (per esempio le ‛terre vergini' della Siberia). Questi paesi cercano anche di mantenere stabili i consumi compensando con le importazioni eventuali diminuzioni dell'offerta interna legate alle vicende atmosferiche. Inoltre, sempre più numerosi paesi applicano programmi e politiche commerciali rivolti a isolare il mercato interno da quello internazionale, con la probabile conseguenza di un aumento, sia nella grandezza che nella frequenza, delle fluttuazioni sul mercato mondiale.

La composizione per tipi di prodotti delle esportazioni agricole di un paese sviluppato, gli Stati Uniti, è cambiata notevolmente negli ultimi trent'anni. Da una prevalenza di materie prime per uso industriale, come il cotone e il tabacco, destinate ad altri paesi sviluppati, si è passati a una prevalenza di prodotti per l'alimentazione umana e animale, destinati all'Europa occidentale e all'Asia. Le esportazioni di prodotti alimentari sono diminuite dopo la seconda guerra mondiale e questa diminuzione non è stata compensata da un aumento proporzionale nelle esportazioni di materie prime agricole per uso industriale. Al contrario, la quota delle materie prime sul totale delle esportazioni agricole è diminuita costantemente a partire dal 1950, raggiungendo un minimo assoluto del 13% nel 1975. Da allora essa è cresciuta, sebbene di poco, per l'aumento delle esportazioni di cotone e tabacco nel periodo 1978-1980.

La diminuzione percentuale dei prodotti alimentari e delle materie prime rispetto alle esportazioni agricole statunitensi si spiega con l'eccezionale sviluppo delle esportazioni di mangimi e foraggi, passate da meno del 10%, prima del 1950, al 38% nel 1976-1980; metà di questo aumento si è prodotto a partire dal 1960. Questi rapidi cambiamenti nella composizione per prodotti delle esportazioni agricole vengono fatti risalire all'accresciuta domanda di foraggi da parte del Giappone e dell'Europa occidentale, verificatasi durante gli anni sessanta per sviluppare la produzione zootecnica. Più recentemente, lo sviluppo economico dell'Europa orientale, dell'Unione Sovietica, della Corea del Sud e di Taiwan ha fatto rapidamente aumentare, da parte dei consumatori, la domanda di carne e dei prodotti derivati. Questa tendenza ha molto mutato la composizione delle importazioni agricole di questi paesi, con l'aumento percentuale dei foraggi rispetto ai prodotti alimentari e alle materie prime.

Il settore agricolo è importante per l'economia di tutti i paesi sia perché costituisce una grossa fonte di occupazione, sia perché svolge un ruolo di fondamentale importanza nel soddisfacimento dei bisogni alimentari. Esistono, tuttavia, alcune importanti differenze tra paese e paese nel rapporto tra settore agricolo e altri settori dell'economia. Queste differenze spiegano largamente i diversi atteggiamenti dei vari paesi nei confronti dell'agricoltura e del protezionismo agricolo.

Un alto livello di sviluppo è generalmente associato a un ruolo più modesto dell'agricoltura, con l'eventuale eccezione dei paesi a economia pianificata, dove l'agricoltura rappresenta una quota del prodotto nazionale lordo (PNL) uguale a quella dei paesi meno sviluppati a medio reddito, benché il PNL dei primi sia più del triplo di quello dei secondi. Un confronto tra prodotto interno lordo (PIL) e forza lavoro impiegata in agricoltura fornisce un'indicazione approssimativa della sovrabbondanza di mano d'opera nel settore agricolo, evidenziando in quale misura la percentuale dei lavoratori impiegati nell'agricoltura superi il contributo dell'agricoltura stessa al PIL. Per esempio, nei paesi meno sviluppati a basso reddito il 71% della forza lavoro, impiegata nell'agricoltura, contribuisce solo al 36% del reddito nazionale. Inizialmente lo sviluppo sembra incrementare questa sovrabbondanza di forza lavoro, ma poi questa tendenza si riduce nella misura in cui i lavoratori agricoli rispondono alle migliori occasioni di lavoro e ai salari più elevati dei settori industriale, commerciale e dei servizi. Nei paesi industrializzati la percentuale della forza lavoro impiegata in agricoltura (6%) supera di poco il contributo dell'agricoltura al PNL, il che indica che gli stimoli all'uscita della forza lavoro dal settore agricolo non sono rilevanti.

La percentuale delle spese alimentari sul totale dei diversi consumi è estremamente indicativa. Le statistiche rilevano che anche nei paesi a economia pianificata, con livelli relativamente elevati di produzione industriale, l'alimentazione assorbe almeno la metà del bilancio del consumatore medio. I prezzi che i consumatori devono pagare per l'alimentazione sono importanti specialmente per i paesi meno sviluppati e costituiscono la chiave per capire i criteri applicati da molti di questi paesi ai problemi agricoli e alimentari. L'atteggiamento che un paese adotta nei confronti del protezionismo agricolo non dipende soltanto da fattori specifici di quel paese (come il clima, le abitudini alimentari e le risorse), ma anche dal livello di sviluppo.

L'elasticità della domanda alimentare rispetto al reddito è la misura di quanto un aumento di reddito si traduca in un aumento dei consumi alimentari. Un aumento del 100% del reddito pro capite nei paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) farà aumentare tale domanda (misurata in calorie) solo del 7%, mentre il raddoppio del reddito del consumatore medio nei paesi meno sviluppati determinerebbe un aumento del 35%. Non soltanto le forze trainanti della domanda alimentare (reddito e crescita della popolazione) sono molto più potenti nei paesi meno sviluppati che in quelli dell'OCSE, ma anche l'elasticità rispetto al reddito è molto maggiore. Reddito elevato e aumento della popolazione, accompagnati da elevata elasticità della domanda alimentare rispetto al reddito, si traducono in un rapido aumento della domanda stessa nei paesi meno sviluppati, con un tasso di crescita che i settori agricoli della maggior parte dei paesi in via di sviluppo avrebbero difficoltà a soddisfare.

Nei paesi sviluppati la produzione alimentare tende ad aumentare più velocemente di quanto non aumenti la domanda, mentre nei paesi meno sviluppati la produzione non riesce a tenere il passo con l'aumento della domanda. Da un punto di vista di politica nazionale, ci si aspetterebbe che le autorità dei paesi industrializzati non dessero priorità alla produzione supplementare di alimenti, adottando quindi una politica agricola intesa a scoraggiare ulteriori aumenti della produzione alimentare. Analogamente, ci si aspetterebbe che i paesi meno sviluppati, che si trovano a dover fronteggiare una domanda di prodotti alimentari sempre crescente, perseguissero politiche agricole rivolte almeno a non scoraggiare aumenti della produzione alimentare. Invece, in entrambi i casi, la scelta delle politiche alimentari e agricole nazionali è stata quella di stimolare ulteriormente la produzione alimentare nei paesi industrializzati e di scoraggiarla in quelli meno sviluppati. Le ragioni dell'adozione di criteri così paradossali nei confronti dei problemi dell'agricoltura e dell'alimentazione possono essere individuate nell'influenza esercitata dai maggiori gruppi di pressione politica di questi paesi.

a) I paesi industrializzati

L'effetto ultimo delle politiche agricole adottate dai paesi industrializzati è stato quello di far salire i prezzi interni, alla produzione e al consumo, trasferendo in tal modo ricchezza dai contribuenti e dai consumatori ai possessori di risorse nel settore agricolo. Questo trasferimento è possibile perché i detentori delle risorse agricole nei paesi industriali sono in numero relativamente esiguo rispetto ai consumatori e ai contribuenti. Un piccolo aumento dei prezzi o delle imposte per i consumatori o per i contribuenti finanzierà un consistente aumento del reddito dei singoli possessori delle risorse agricole. È quindi efficace lo sforzo dei proprietari di tali risorse per organizzarsi e premere per l'adozione di politiche di sostegno dei loro redditi, mentre non lo è altrettanto quello dei contribuenti e dei consumatori per opporsi a esse.

I programmi di sostegno dell'agricoltura determinano livelli di produzione più elevati di quelli che si sarebbero avuti in assenza di queste misure. Per i paesi importatori ciò significa una minore domanda, mentre per quelli esportatori significa un aumento delle loro disponibilità per l'esportazione. Programmi di sostegno della produzione interna possono addirittura trasformare un paese tradizionalmente importatore in un paese esportatore (si vedano, per esempio, le politiche dello zucchero e dei cereali della Comunità Economica Europea). In ogni caso l'aumento della produzione agricola in questi paesi comporta una maggiore offerta sul mercato mondiale, determinando una generale diminuzione dei prezzi internazionali. Programmi di questo tipo implicano di solito politiche commerciali che isolano il mercato interno - caratterizzato da prezzi alla produzione relativamente elevati - dal mercato internazionale, i cui prezzi sono più bassi. Misure del genere impediscono o attutiscono la ripercussione sul mercato interno delle scosse e delle oscillazioni che si determinano sul mercato mondiale. Di conseguenza si assiste a un aumento della variabilità dei prezzi sul mercato internazionale, in quanto le politiche che rompono il legame con i mercati interni riducono il numero dei produttori e dei consumatori che reagiranno ai cambiamenti dei prezzi internazionali.

b) I paesi in via di sviluppo

I principali obiettivi delle autorità politiche dei paesi in via di sviluppo sono in genere di difficile identificazione. Molti paesi indicano obiettivi vaghi e i governi cercano di raggiungere contemporaneamente obiettivi disparati. Una qualche idea degli obiettivi dei governi si può ricavare dai documenti ufficiali della pianificazione o dai programmi politici; altri obiettivi sono sottintesi e devono essere dedotti dalle politiche e dai programmi effettivamente realizzati.

I molteplici obiettivi di politica economica perseguiti da un governo possono essere conflittuali o complementari. Le alternative che si presentano possono essere espresse come una scelta tra obiettivi che proteggono gli interessi dei consumatori o quelli dei produttori. In molti paesi in via di sviluppo i bassi prezzi reali alla produzione riflettono il fatto che l'obiettivo principale del governo è la protezione degli interessi dei consumatori: in questa scelta agli interessi dei produttori non viene data evidentemente la priorità. Esistono comunque politiche a più lungo termine che, aumentando l'efficienza del settore agricolo, possono effettivamente migliorare la situazione sia dei produttori che dei consumatori. In tal caso i due obiettivi (aumentare il reddito agricolo e il benessere dei consumatori) potrebbero non essere in conflitto tra loro. Un governo potrebbe favorire l'adozione di migliori tecnologie agricole, determinando contemporaneamente maggiori redditi agricoli e una maggiore offerta (a prezzi più bassi) a vantaggio dei consumatori. Il conflitto tra questi obiettivi dipende quindi dal tempo a disposizione per il loro raggiungimento e dalle politiche che si adottano. Obiettivi, invece, come l'autosufficienza alimentare e il miglioramento dei redditi agricoli sono complementari per loro natura, anzi il raggiungimento dell'uno permette una più facile realizzazione dell'altro.

Gli obiettivi e l'importanza attribuita a ciascuno di essi sono soggetti a modifiche, talvolta frequenti, risentendo dei cambiamenti del clima politico nel paese, della situazione agricola interna e dell'instabilità dei prezzi delle granaglie sul mercato internazionale. Gli obiettivi di politica alimentare possono cambiare anche in relazione allo stadio di sviluppo economico in cui si trova il paese.

I paesi in via di sviluppo perseguono, con le loro politiche alimentari, questi otto obiettivi principali.

1. Consumi alimentari stabili e adeguati. L'obiettivo di gran lunga più importante, primario, di una politica alimentare consiste nel fornire a tutta la popolazione un'adeguata quantità di calorie. Una nutrizione adeguata, che rappresenta comunque, in termini di politica alimentare, un fine da perseguire in quanto tale, è anche un obiettivo intermedio dello sviluppo economico, che favorisce, a parità di condizioni, una più elevata produttività. Spesso i governi, per raggiungere questo obiettivo, adottano programmi indirizzati particolarmente ai gruppi sottoalimentati, ma, da un punto di vista più generale, la soluzione consiste nell'aumento dell'offerta alimentare da parte di tutte le fonti possibili.

2. Benessere dei consumatori (cibo a basso prezzo). Il beneficiario finale di una politica alimentare è il consumatore, che si trova al termine della catena che comincia con il produttore agricolo. Nelle zone rurali dei paesi in via di sviluppo spesso le due figure coincidono, mentre nelle aree urbane il consumatore dipende interamente dal mercato per ottenere il cibo di cui necessita e deve pagare prezzi che possono essere bassi, ma possono anche raggiungere livelli elevati. I governi hanno tutto l'interesse a fare in modo che i consumatori non debbano pagare prezzi che li costringano a privazioni o li inducano a protestare contro la politica governativa.

3. Benessere dei produttori (reddito degli agricoltori). Alcuni governi tentano d'incrementare i redditi degli agricoltori al di sopra del livello che questi redditi raggiungerebbero senza l'intervento governativo. Molti paesi in via di sviluppo hanno dato la priorità agli interventi destinati ad aumentare la produzione agricola e a migliorare il reddito e le condizioni di vita degli agricoltori, specialmente dopo la grande instabilità dei prezzi che si è registrata durante i primi anni settanta. Alcuni paesi hanno applicato programmi destinati a trasferire risorse dalle zone urbane e dal settore pubblico all'agricoltura.

4. Formazione di entrate statali. Talvolta i governi cercano di reperire fondi nel settore agricolo attraverso controlli dei cambi, tassazioni dirette o semplicemente attraverso atti coercitivi. Questo obiettivo è stato spesso perseguito attraverso i prodotti esportati, in quanto le imposte sulle esportazioni costituiscono un mezzo di facile applicazione amministrativa per aumentare le entrate. Pochi governi tuttavia cercano di ricavare entrate dalle coltivazioni di prodotti alimentari, in quanto la maggioranza dei paesi in via di sviluppo è importatrice in questo settore. Un'eccezione è costituita dalla Thailandia, che tassa l'esportazione sia del riso che del mais.

5. Formazione e risparmio di riserve valutarie. I paesi in via di sviluppo cercano spesso di risparmiare le loro riserve di valuta estera riducendo le spese per l'importazione di granaglie alimentari. Questo obiettivo può essere accompagnato da interventi per aumentare la produzione dei beni di cui si riduce l'importazione. I paesi a basso reddito adottano spesso la formula dell'importazione in concessione per le granaglie allo scopo di ridurre la spesa in valuta estera: solo alcuni paesi in via di sviluppo, come la Thailandia, il Brasile (1978-1979) e l'Egitto, esportano granaglie per ricavarne direttamente valuta pregiata.

6. Autosufficienza alimentare. Molti paesi in via di sviluppo hanno adottato l'obiettivo dell'autosufficienza alimentare soprattutto verso la metà degli anni settanta, come risposta all'instabilità dei prezzi internazionali. Un paese è considerato autosufficiente, talvolta forse a torto, quando non importa cereali per un anno o due, in seguito a raccolti eccezionalmente favorevoli, quando importa fertilizzanti e altri prodotti per la coltivazione, oppure quando riesce a soddisfare il fabbisogno calorico e proteico della popolazione senza importare cereali. Ridurre la dipendenza dal mercato estero significa quasi sempre adottare all'interno una struttura dei prezzi alimentari diversa da quella del mercato internazionale; pertanto, alcuni di questi paesi, mentre perseguono l'obiettivo dell'autosufficienza, possono incorrere in notevoli diminuzioni del livello di benessere.

7. Stabilità dei prezzi alimentari interni. La stabilità dei prezzi può giovare sia ai consumatori che ai produttori. I consumatori poveri sono i più duramente colpiti dalle oscillazioni dei prezzi alimentari, mentre gli incentivi alla produzione e il reddito degli agricoltori soffrono quando i prezzi scendono al di sotto del livello medio. Anche se i prezzi nella maggior parte dei paesi variano in sintonia con i prezzi internazionali, uno degli scopi delle manovre di stabilizzazione è quello di ridurre gli effetti delle fluttuazioni dei prezzi, consentendo ai consumatori di programmare le spese alimentari e agli agricoltori di prendere decisioni razionali in merito alla produzione.

8. Aumento della produzione alimentare. Si tratta spesso di un obiettivo intermedio verso l'autosufficienza alimentare e l'aumento del reddito degli agricoltori, o di uno strumento per raccogliere e risparmiare valuta estera, ma può anche essere perseguito come autonomo obiettivo di politica alimentare, come risulta dalle frequenti campagne per l'incremento della produzione alimentare nei paesi in via di sviluppo.

Strumenti di politica interna. -  La scelta degli strumenti di una politica alimentare è influenzata dalle risorse materiali, finanziarie e amministrative disponibili e dalla natura degli obiettivi. Un particolare strumento può favorire più di un obiettivo, come un obiettivo può essere perseguito facendo uso di più di uno strumento.

Gli interventi pubblici sul mercato comprendono sostegni dei prezzi al produttore, sussidi al consumatore, distribuzione pubblica degli alimenti e gestione degli ammassi. I governi che utilizzano uno di questi strumenti politici finiscono generalmente per servirsi anche degli altri. L'esempio più comune di questa tendenza è forse costituito dal programma di sostegno dei prezzi. Per poter avere un'incidenza significativa, positiva e garantita sul prezzo del grano (e quindi anche sulla produzione), un governo deve essere preparato ad acquistare una considerevole quantità di prodotto nel caso che il prezzo sul mercato libero scenda al di sotto del prezzo di sostegno annunciato dal governo stesso. I cereali così acquistati vanno quasi sempre a far parte degli ammassi dello Stato. Una volta che il reperimento e lo stoccaggio siano diventati parte del programma governativo, ci si può orientare verso una gestione degli ammassi idonea a stabilizzare i prezzi oppure verso un sistema di distribuzione che promuova il consumo di quel prodotto in un determinato gruppo sociale.

Viceversa, un governo che cerchi di fornire ai consumatori quantità adeguate di prodotti può conservare e distribuire i cereali attraverso un'operazione di reperimento sul mercato interno, concedendo eventualmente un sussidio ai consumatori, se il prezzo di vendita governativo è inferiore al costo di mercato. I costi di queste politiche di sostegno, sussidio e stoccaggio sono spesso piuttosto elevati e diretti. In loro favore, tuttavia, si può dire che il costo sociale delle perdite produttive dovute alla diminuzione dei prezzi determinata dagli aiuti alimentari può essere basso e indiretto, specialmente quando si crea una domanda.

I programmi di sostegno dei prezzi al produttore sono generalmente adottati per aumentare la produzione alimentare, avendo come obiettivi maggiori redditi agricoli, riserve di valuta estera o autosufficienza alimentare. Mentre i programmi di sostegno dei prezzi si propongono di realizzare tutti questi obiettivi, gli ultimi due si sono generalmente rivelati più importanti del primo per i pianificatori dei paesi in via di sviluppo. La politica coreana del riso dal 1970 in poi è una continua variazione su questo tema, in quanto ha avuto come obiettivi principali sia l'autosufficienza alimentare che l'equa distribuzione del reddito tra città e campagna.

I sussidi al consumatore sono probabilmente la forma d'intervento statale sul mercato più diffusamente adottata nei paesi in via di sviluppo. I sussidi sono dati per lo più agli abitanti delle città, sia per scelta sia per l'impossibilità di giungere a una copertura totale delle aree rurali. Un'eccezione è costituita dallo Sri Lanka, che fino a poco tempo fa disponeva di un piano di razionamento e di sussidi che interessava il 95% della popolazione.

La distribuzione diretta e regolare di cibo al consumatore da parte del governo è un sistema per assicurare a un maggior numero di consumatori rifornimenti di cibo regolari e sufficienti.

Le politiche alimentari e agricole dei paesi meno sviluppati rispecchiano criteri molto diversi da quelli dei paesi industrializzati. Mantenendo bassi i prezzi delle principali derrate alimentari fornite al settore urbano, tali politiche tendono a favorire i consumatori di queste aree a scapito dei produttori delle zone rurali. Il governo vi riesce fissando prezzi assai bassi per i produttori, evitando così i costi elevati dei sussidi ai consumatori e costringendo i produttori ad addossarsi una parte dei costi. In questo modo si scoraggia però la produzione alimentare e si contribuisce ad aumentare le disparità di reddito tra le zone urbane e quelle rurali accelerando, nella maggior parte dei casi, la già rapida migrazione dalle campagne verso i centri urbani.

Una politica di contenimento dei prezzi dei generi alimentari dà, all'inizio, ottimi risultati in termini di popolarità e comporta costi, per il governo, relativamente modesti. Si ha un trasferimento di risorse dalla popolazione rurale, vasta, diversificata e politicamente passiva, maggioritaria nei paesi meno sviluppati, ai gruppi urbani, numericamente esigui ma politicamente influenti. Come nei paesi sviluppati, una diminuzione relativamente piccola dei redditi individuali di una larga massa di popolazione rurale può ‛finanziare' sensibili diminuzioni dei prezzi alimentari nelle città. È quindi conveniente per i consumatori delle aree urbane organizzarsi e premere per una politica di alimenti a basso prezzo, mentre non lo è per i produttori opporvisi.

Nel lungo periodo, tuttavia, le migrazioni dalle zone rurali a quelle urbane, che sono, in parte, un risultato di questa politica, impongono un fardello sempre più pesante sulle finanze dello Stato: man mano che la popolazione urbana aumenta, diminuisce la produzione alimentare interna e si rendono necessarie massicce importazioni (o minori esportazioni) di prodotti agricoli. Una volta iniziata una politica di bassi prezzi, è però difficile tornare indietro, soprattutto per l'opposizione dei gruppi urbani, capaci di usare la loro influenza politica per opporsi ad aumenti dei prezzi alimentari. Tuttavia cambiamenti nel rapporto tra popolazione rurale e urbana sono destinati a provocare cambiamenti nelle basi politiche ed economiche che avevano determinato le scelte precedenti e a portare quindi anche a un mutamento delle politiche agricole, come si è verificato nella Corea del Sud, dove ci si è orientati verso la concessione di sussidi al produttore.

Una ferma politica di contenimento dei prezzi determina un aumento della domanda d'importazioni alimentari, rafforzando così i prezzi internazionali. Per quanto gli obiettivi della politica commerciale dei paesi meno sviluppati siano opposti a quelli dei paesi industrializzati, anche per loro sono necessarie delle barriere doganali che assicurino la separazione tra mercato interno e internazionale. Come nei paesi industrializzati, queste politiche impediscono che i segnali dei prezzi mondiali vengano comunicati ai mercati interni e aumentano, di conseguenza, la variabilità dei prezzi mondiali.

c) Le economie pianificate

Non è facile classificare le economie pianificate in uno schema che utilizzi come indice delle priorità politiche generali il rapporto tra i prezzi interni e internazionali dei prodotti alimentari. Valute non convertibili, mercati chiusi e prezzi rigidamente amministrati all'interno rendono difficile determinare il valore dei prodotti agricoli di questi paesi rispetto al loro valore sul mercato mondiale.

L'agricoltura, forse più di ogni altro settore dell'economia, è influenzata negativamente dai prezzi amministrati. Le condizioni climatiche e atmosferiche, la topografia e la fertilità del suolo variano sensibilmente, e questa varietà di condizioni non si presta a un'amministrazione centralizzata. I prezzi trasmettono agli agricoltori indicazioni sulle scarsità relative sui mercati sia dei prodotti che dei mezzi di produzione e questa funzione è estremamente importante per l'efficienza del settore agricolo. Ci sono, è vero, distorsioni dei prezzi in tutte le economie, sia per le imperfezioni del mercato sia per gli interventi del governo volti a riallineare i prezzi relativi a scopi sociali e politici. La tendenza delle economie pianificate è, tuttavia, quella di mantenere i prezzi vicini al livello dell'anno precedente. I prezzi al consumo dei prodotti alimentari, in particolare, tendono a rimanere stabili nel tempo per i costi politici che eventuali aumenti comporterebbero. Anche se i prezzi relativi all'interno delle economie pianificate riflettevano un tempo la scarsità relativa di beni e di servizi, la tecnologia e il cambiamento dei modelli di consumo, insieme all'aumento dei redditi, hanno radicalmente modificato la ‛vera' struttura alla base dei prezzi. Alcuni paesi dell'Europa dell'Est hanno promosso delle riforme con lo scopo di sviluppare una maggiore decentralizzazione nel settore agricolo, permettendo ai prezzi di riflettere le scarsità relative, con notevoli miglioramenti della produttività delle rispettive economie agricole. Ma il paese più importante, l'Unione Sovietica, ha finora resistito a ogni riforma su vasta scala.

5. Problemi commerciali di oggi e di domani

I cambiamenti delle condizioni del mercato internazionale si possono dividere in tre categorie: quelli dovuti alle fluttuazioni dei cambi, quelli dovuti alle ‛nazionalizzazioni' nel commercio delle materie prime e quelli dovuti alla crescente presenza dei governi nazionali. Ciascuna di esse può influenzare il commercio dei prodotti agricoli.

a) Commercio e valute

Le fluttuazioni dei cambi riguardano direttamente i possessori di valuta straniera e indirettamente i venditori di prodotti agricoli. Infatti solo i compratori di valuta sono direttamente interessati ai cambiamenti del suo valore, poiché la diminuzione di valore di una valuta, come per esempio la lira, equivale a una diminuzione di valore di tutti i prodotti italiani. La lira costa meno (misurata in marchi o in dollari, per esempio) e quindi il costo dei prodotti italiani è del pari inferiore.

L'impatto sulle esportazioni di prodotti agricoli è invece indiretto: fintantoché la lira sarà debole relativamente alle divise di altri paesi, sarà più facile vendere prodotti agricoli italiani; un rafforzamento della lira rispetto alle altre valute renderebbe, al contrario, più difficile vendere i prodotti agricoli italiani agli altri paesi.

Negli Stati Uniti il deficit commerciale ha conseguenze potenziali che si estendono ben al di là del problema finanziario statunitense, conseguenze che nascono dal ruolo del dollaro negli scambi internazionali. Una recente relazione del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti ha rilevato che ‟l'emergere di un vasto e persistente deficit commerciale della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti potrebbe rendere gli stranieri molto meno disposti di quanto siano stati finora a detenere più di trecento miliardi di dollari e di attività finanziarie in dollari [...] e lo spostamento di capitali da una valuta all'altra potrebbe annullare la capacità delle autorità monetarie di combattere il disordine finanziario". Nella relazione si suggeriva che ‟se gli Stati Uniti si trovano ad avere un deficit commerciale imponente e prolungato, devono anche avere una politica credibile da tutti, in grado di finanziare e ridurre gradualmente tale deficit".

Le reazioni ai cambiamenti di valore di valute come il dollaro si possono osservare nelle agenzie internazionali e nelle scelte dei singoli paesi. Gli Stati Uniti, per esempio, in determinati periodi hanno speso notevoli somme di denaro per combattere un ulteriore indebolimento del dollaro. Un'innovazione istituzionale recente sono gli Special Drawing Rights o diritti speciali di prelievo (DSP), una sorta di valuta internazionale composita formata da 16 valute. I DSP sono strettamente collegati al Fondo Monetario Internazionale, all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, alla Banca Mondiale e ad altre istituzioni internazionali, il cui scopo è quello di proteggere la posizione finanziaria dei paesi che si trovano in una situazione critica. A volte anche paesi occidentali come la Gran Bretagna hanno incontrato serie difficoltà, ma di solito i problemi più gravi sono stati quelli dei paesi poveri del Terzo Mondo.

b) Il commercio e la ‛cartellizzazione' internazionale

Un altro problema del commercio internazionale è il cambiamento di rapporti tra i paesi produttori e i paesi industriali consumatori di materie prime. Il più macroscopico è il cambiamento di politica imposto dall'OPEC, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Questi paesi sono riusciti a creare, almeno per il momento, un ‛cartello' che controlla le forniture e i prezzi del petrolio. Sull'onda di questo successo, altri produttori di prodotti minerali hanno cercato di imporre prezzi più elevati per i loro prodotti. Tali sforzi, per quanto finora non particolarmente significativi, assumeranno crescente importanza man mano che si verificherà il graduale esaurimento di alcune risorse minerali. A tutt'oggi, però, solo l'OPEC e il prezzo del petrolio hanno avuto un ruolo notevole.

Le conseguenze di questa politica sono duplici: i prezzi più elevati del petrolio importato hanno danneggiato le economie dei paesi industrializzati, mentre i più di cento miliardi di dollari all'anno che entrano nei paesi dell'OPEC hanno determinato una ridistribuzione dei saldi commerciali attivi e delle riserve finanziarie in tutto il mondo, soprattutto perché i paesi dell'OPEC spendono correntemente soltanto una frazione delle loro entrate, mentre il resto viene di solito investito o lasciato in deposito presso gli istituti bancari dell'Europa e degli Stati Uniti.

Quelli che appaiono più vulnerabili di fronte alle mutate relazioni finanziarie internazionali sono i paesi poveri del Terzo Mondo, che non godono delle cospicue entrate legate all'esportazione del petrolio o di altri minerali. Nel 1977 il debito verso l'estero dei paesi in via di sviluppo veniva stimato intorno ai 140-170 miliardi di dollari, di cui almeno 75 nei confronti di banche private. L'enorme debito accumulato per l'importazione di petrolio pone questi paesi in gravi difficoltà per quel che riguarda il finanziamento di altre importazioni, compresi i prodotti alimentari. Molti di essi, perciò, nei prossimi anni si troveranno a dover affrontare gravi penurie alimentari se sono esatte le proiezioni sulle future condizioni mondiali del settore.

c) Crescente ruolo dei governi

Le fluttuazioni economiche internazionali degli anni settanta sembrano aver favorito la tendenza verso una maggiore assunzione di responsabilità dei singoli paesi nei confronti delle proprie economie e questo ruolo economico crescente influenza i rapporti commerciali internazionali. Nel corso di questo processo la politica commerciale viene subordinata in genere agli obiettivi della politica interna. Nelle fasi di benessere questa subordinazione ha scarse ripercussioni mentre, nel caso di una depressione economica, i governi sono tentati di influenzare il commercio con l'estero in modo da ridurre la gravità dei problemi interni, quali, per esempio, la disoccupazione e l'inflazione. Ne deriva l'esportazione dell'instabilità attraverso il protezionismo e altre misure di politica commerciale.

La causa principale del protezionismo non è tanto un cambiamento di atteggiamento nei confronti del commercio internazionale, quanto piuttosto una crescente preoccupazione per la situazione economica interna. In quasi tutti i paesi, quando la crescita economica è lenta, la disoccupazione aumenta, i prodotti importati rappresentano una minaccia per il mercato interno e si assiste a un aumento delle pressioni protezionistiche. Le risposte dei diversi paesi sono di tre tipi: 1) associarsi agli sforzi internazionali per mantenere aperti i canali commerciali; 2) negoziare trattati commerciali bilaterali o multilaterali; 3) adottare il protezionismo interno.

Il migliore esempio del primo tipo di risposta, nel periodo 1977-1978, sono state le trattative multilaterali condotte sotto gli auspici del GATT a Ginevra. Un esempio del secondo tipo sono stati i tentativi delle nazioni del Terzo Mondo, incontratesi sotto l'egida dello UNCTAD, di formare un fronte politico comune riguardo al commercio. Queste nazioni chiedono ai paesi industrializzati un trattamento di favore per i loro prodotti, e cercano di associarsi agli accordi di scambio. La terza soluzione, quella a favore di un maggior protezionismo, è praticata ovunque. Anche gli Stati Uniti, malgrado la loro posizione favorevole al liberismo economico, hanno applicato silenziosamente norme protettive nei confronti di alcune industrie, come quelle calzaturiere, tessili e radiotelevisive; continuano inoltre ad applicare il protezionismo su prodotti agricoli come la carne, lo zucchero e i prodotti lattiero-caseari.

6. Problemi del commercio dei prodotti agricoli

Tra i problemi generali del commercio che abbiamo appena descritto ve ne sono quattro che riguardano più specificamente il commercio dei prodotti agricoli: 1) la tendenza al protezionismo; 2) lo sviluppo dei mercati d'esportazione; 3) la volontà pubblica di commerciare con i paesi comunisti su basi simili a quelle del commercio con gli altri paesi; 4) il sostegno pubblico alla promozione delle vendite dei prodotti agricoli.

a) Tendenze protezionistiche

Il caso del Giappone. -  Al contrario di altri settori dell'economia, l'agricoltura giapponese è protetta su tutta la linea. Il governo stanzia ingenti aiuti per evitare che siano sottratti alla produzione agricola terre, manodopera e capitali; inoltre i prezzi interni vengono sostenuti artificialmente isolando in vari modi l'agricoltura nazionale dalla concorrenza internazionale.

Le importazioni di grano e riso sono, per esempio, sotto lo stretto controllo di un ente governativo. Sono state fissate quote limitate per l'importazione di ben 19 prodotti agricoli diversi, alcuni dei quali d'importanza secondaria. Le tariffe ad valorem, che sono molto basse o quasi inesistenti per prodotti di massa come i foraggi e la soia, arrivano al 40% per prodotti di elevato valore come la frutta, fresca o in conserva, e gli ortaggi. Anche le norme per la quarantena di piante e animali, insieme a un sistema commerciale relativamente inefficiente, contribuiscono a mantenere elevati i prezzi al dettaglio e a scoraggiare la domanda di prodotti importati.

Per il Giappone, costretto a proteggere l'agricoltura a causa dell'inefficienza delle sue piccole unità produttive, la conservazione di una base agricola rappresenta, come per altri paesi, un interesse nazionale. La popolazione più anziana ricorda ancora perfettamente la carestia e la fame sofferta durante la seconda guerra mondiale e immediatamente dopo. Le preoccupazioni dei Giapponesi per la scarsezza delle loro risorse agricole e per la dipendenza dall'estero per una necessità così fondamentale come il cibo risalgono a molti anni fa e determinano il loro forte interesse ad accrescere l'autosufficienza alimentare.

La controversia sulla carne e sugli agrumi, che dal punto di vista americano permane irrisolta, esemplifica la persistente tensione fra Stati Uniti e Giappone sui problemi agricoli. Nel 1977-1978 intense trattative condussero a un accordo quinquennale che ha consentito solo una parziale liberalizzazione del mercato giapponese della carne e degli agrumi.

Alcune stime piuttosto prudenti consentono di valutare in 300-350 milioni di dollari il possibile aumento, in termini monetari, delle esportazioni nette di prodotti agricoli statunitensi verso il Giappone, aumento che deriverebbe dalla soppressione delle aliquote d'importazione fissate per la carne, le arance e i succhi di agrumi. Queste stime prendono in considerazione anche l'effetto che un notevole abbassamento dei prezzi al consumo della carne bovina avrebbe sugli allevamenti giapponesi di suini e di polli e il conseguente effetto sulle importazioni di granaglie e di semi oleosi. Circa il 90% dell'aumento previsto riguarderebbe il settore delle carni bovine, con un'espansione della domanda di foraggi negli Stati Uniti di 250-300 milioni di dollari.

Le stime prevedono una maggiore espansione del commercio delle carni che di quello degli agrumi, per la semplice ragione che l'allevamento giapponese della carne bovina è scarsamente efficiente, mentre la coltura degli agrumi lo è invece abbastanza. La produzione giapponese di carne bovina comporta operazioni molto costose, avviene su piccola scala (una mandria è costituita in media da sei animali) e rappresenta, in generale, un'attività collaterale, che copre una quota relativamente piccola del reddito degli agricoltori. Nonostante ciò i produttori di carne bovina sono riusciti a ottenere un'effettiva protezione da parte del governo, molto maggiore di quella ottenuta dai produttori di carne suina e di pollame. Ne conseguono alti prezzi della carne bovina, sia all'ingrosso sia al dettaglio, e un consumo che è circa un terzo del consumo pro capite negli Stati Uniti.

La protezione in un paese importatore. - In un paese importatore le autorità hanno a disposizione svariate opzioni politiche: pagamenti diretti ai produttori (per esempio, pagamenti compensativi), impegni di acquisto da parte dello Stato, oppure sussidi al consumo. Per mantenere i costi di questa politica entro limiti ragionevoli e anche per impedire che i produttori dei paesi esportatori traggano beneficio dai programmi di sostegno del paese importatore, quest'ultimo deve sottoporre il commercio a delle restrizioni. La scelta degli strumenti per raggiungere questo obiettivo ha effetti rilevanti sul funzionamento del mercato mondiale e sulla distribuzione del reddito complessivo. Questi strumenti sono di tre tipi: tariffe, imposte variabili, quote e restrizioni volontarie delle esportazioni.

Le misure protezionistiche agiscono, per definizione, in modo sfavorevole alle esportazioni dei prodotti agricoli. Alcuni dei paesi con i quali gli Stati Uniti, per esempio, hanno concluso accordi informali di restrizione delle importazioni sono appunto tra i grandi importatori di prodotti agricoli americani. Taiwan ha acquistato 612 milioni di dollari di prodotti agricoli statunitensi nel 1977; Corea e Giappone sono clienti ancora più importanti con acquisti, rispettivamente, di 919 e 3.857 milioni di dollari. I tre paesi insieme, nel 1977, hanno assorbito il 23% delle esportazioni agricole degli Stati Uniti.

Il commercio degli Stati Uniti con i paesi asiatici illustra con grande chiarezza i legami tra importazioni di prodotti non agricoli ed esportazioni di prodotti agricoli. Negli ultimi anni questi legami sono diventati più sensibili alle scelte di politica economica, in parte anche perché è cambiata la composizione delle esportazioni agricole. Negli anni precedenti le esportazioni alimentari degli Stati Uniti verso l'Asia e verso altri paesi erano costituite prevalentemente da prodotti atti a soddisfare necessità fondamentali (riso, fagioli secchi, grano). La domanda di questi prodotti era piuttosto stabile, in quanto i paesi importatori non potevano ridurre facilmente i propri acquisti. Le risposte degli Stati Uniti alle restrizioni delle importazioni erano quindi circoscritte, data la composizione delle esportazioni, in quanto i partners commerciali dovevano scegliere tra importare o rischiare sommovimenti interni.

Anche altre misure protezionistiche adottate da paesi che comprano prodotti agricoli americani costituiscono fonte di incertezza: per esempio la creazione e la diffusione di meccanismi diversi dalle tariffe tradizionali. I più noti tra questi meccanismi sono le imposte variabili sulle importazioni usate dalla Comunità Economica Europea per proteggere i suoi milioni di piccoli contadini. La CEE però non è la sola ad adottare un simile sistema. Anche il Giappone mantiene un prezzo interno di sostegno elevato per il grano e si serve di tasse sulle importazioni per mantenere questo prezzo. La stessa limitazione delle informazioni utili al commercio internazionale ha la natura di una barriera non tariffaria, anche se viene usata, di solito, non intenzionalmente: consiste nel persistente rifiuto di rendere note le informazioni sulla produzione necessarie ai compratori e ai venditori per operare correttamente.

La misura protezionistica più semplice consiste nell'imposizione di una tariffa. Uno dei problemi connessi con l'uso delle tariffe è che spesso non si conoscono le elasticità della domanda e dell'offerta e di conseguenza non si conosce neppure il livello a cui andrebbe fissata la tariffa per ottenere la misura desiderata di protezione. Per un paese commercialmente piccolo, le autorità possono in genere ipotizzare una perfetta elasticità dell'eccesso di offerta e limitarsi quindi a stimare l'elasticità dell'eccesso di domanda interna. Per un paese di larga attività commerciale, le autorità possono valutare correttamente l'elasticità di offerta e domanda interne, ma non possono prevedere i cambiamenti dei prezzi internazionali. Possono quindi prevedere di dover aumentare i prezzi interni; qualora il mercato cominci a stabilizzarsi, sarà necessario fissare tariffe più elevate per raggiungere il livello di protezione desiderato.

Anche se i parametri della domanda e dell'offerta sono noti, le variazioni annuali di offerta dovute alle condizioni atmosferiche e alle politiche economiche faranno sì che le tariffe potranno essere una volta troppo basse e una volta troppo alte rispetto al livello compatibile con il grado di protezione desiderato. All'obiettivo di sostenere i produttori si aggiunge spesso l'obiettivo di stabilizzare i prezzi al consumo. Pertanto le tariffe raramente possono essere considerate da sole strumento adeguato a soddisfare gli obiettivi dei governi, in quanto consentono la trasmissione delle variazioni dei prezzi e fanno crescere la variabilità dei prezzi interni riducendo l'elasticità dell'eccesso di domanda.

L'imposta variabile è uno strumento di politica commerciale che permette contemporaneamente di sostenere i produttori e di stabilizzare i prezzi. Una volta determinato il livello di sostegno desiderato, l'imposta è semplicemente la differenza tra il prezzo di sostegno e il prezzo prevalente sul mercato mondiale. I trasferimenti di ricchezza sono gli stessi che nel caso delle tariffe, eccetto per il fatto che le variazioni dei prezzi sul mercato mondiale vengono assorbite da aggiustamenti dell'imposta prima di essere trasmesse al paese importatore. I cambiamenti nell'offerta e nella domanda del paese importatore, tuttavia, vengono generalmente trasmessi al mercato mondiale attraverso i cambiamenti nella domanda d'importazione. L'incentivo ad assorbire all'interno questi spostamenti di domanda e di offerta attraverso la gestione degli stock o degli aggiustamenti nei consumi è scarso, in quanto i prezzi sono predeterminati.

Un terzo sistema di protezione è rappresentato dall'uso di quote di mercato o dalle restrizioni volontarie delle esportazioni. Negli Stati Uniti, per esempio, si è fatto uso di quote per molti prodotti agricoli: alcune di esse (come quelle per lo zucchero, la carne bovina e i prodotti lattierocaseari) rivestono attualmente una particolare importanza. Spesso gli Stati Uniti hanno negoziato restrizioni volontarie delle loro esportazioni per prodotti industriali (tessili, acciaio e automobili). Piuttosto che proteggere il mercato interno attraverso manipolazioni dei prezzi tramite tariffe e imposte, queste misure operano delle restrizioni sulle quantità dei prodotti commercializzati. Come le tariffe, esse non assicurano la stabilità dei prezzi interni, sebbene alcune quote - come quelle attualmente vigenti negli Stati Uniti per lo zucchero e per la carne - scattino quando i prezzi scendono al di sotto di un determinato livello. Un'importante differenza rispetto alle tariffe e alle imposte è che i guadagni prodotti dalle quote e dalle restrizioni volontarie delle esportazioni si concentrano nel paese esportatore. Quando ci sono un certo numero di paesi esportatori in competizione fra loro per la stessa quota limitata di mercato, viene richiesta spesso una specie di licenza per distribuire le quote di mercato tra i vari paesi interessati. Le licenze vengono vendute al miglior offerente, nel qual caso i produttori stranieri più competitivi guadagneranno l'accesso al mercato interno e il paese importatore riceverà l'utile della quota. Licenze, quote, restrizioni volontarie delle esportazioni spesso non vengono vendute ma allocate sulla base di considerazioni di ordine politico e di politica estera, per cui si rivelano spesso discriminatorie nei confronti dei produttori stranieri più efficienti.

Il sostegno ai produttori in un paese esportatore ha invece conseguenze molto diverse, soprattutto per ciò che riguarda le spese governative. Se il paese esportatore decide di varare un programma di sostegno, si verifica un aumento del prezzo interno che fa incrementare le esportazioni; il prezzo mondiale deve cadere perché il mercato possa assorbire l'offerta addizionale. La differenza principale rispetto alle attività di sostegno che vengono adottate nei paesi importatori è che il paese esportatore non può obbligare altri paesi a sopportare una parte dei costi della politica di sostegno.

I sussidi ai consumatori hanno effetti sugli scambi commerciali del tutto analoghi alle sovvenzioni ai produttori, salvo che in questo caso i trasferimenti internazionali di reddito favoriscono i paesi esportatori. Allo stesso modo in cui un paese importatore che voglia sovvenzionare i suoi produttori può scegliere tra l'imposizione di tariffe, di imposte variabili o di quote per proteggere il mercato interno, il paese esportatore che adotti un programma di sussidi ai consumatori può utilizzare le tasse sulle esportazioni, i prezzi differenziati imposti tramite enti statali per il commercio o ancora embarghi e quote sull'esportazione per mantenere bassi i prezzi interni al consumo. Un paese importatore, d'altro canto, può sostenere i propri consumatori solo acquistando sul mercato internazionale una parte delle proprie necessità alimentari ai prezzi correnti, per poi rivenderla all'interno a prezzi più bassi. Come nel caso del paese esportatore che sostiene le sue esportazioni, anche in questo caso vi sono scarse possibilità di trasferire su altri paesi una parte del costo dei sussidi e il costo che può essere imposto ai produttori interni è limitato dal loro potenziale produttivo.

Tutti i paesi applicano simultaneamente diverse misure per un singolo prodotto o merce e per i suoi sostituti. È molto difficile calcolare l'effetto di una singola misura, e ancor più l'influenza specifica di ciascuna all'interno di una molteplicità di programmi e di interventi, molti dei quali servono a più di un obiettivo. Esistono alcune pratiche commerciali il cui obiettivo principale può non essere la restrizione degli scambi, ma che, cionondimeno, riducono l'accesso al mercato di molti esportatori stranieri. Le più importanti di queste pratiche rientrano in tre grandi categorie: commercio di Stato, accordi commerciali e regolamenti interni.

Il commercio di Stato, nell'accezione più ampia, comprende tutte le organizzazioni o le istituzioni autorizzate da un singolo governo ad agire come uniche rappresentanti di quel paese sui mercati internazionali per acquistare o vendere uno o più prodotti. È un sistema assai diffuso: tutti i paesi a economia pianificata, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo e molti paesi industrializzati praticano il commercio statale dei cereali.

L'obiettivo primario degli enti commerciali di Stato non è necessariamente una restrizione degli scambi. L'obiettivo principale degli enti granari canadese e australiano, per esempio, è quello di stabilizzare i redditi del produttore, ma tra i risultati indiretti vi è anche quello di rallentare le risposte dei produttori alle fluttuazioni dei prezzi internazionali. In ogni modo, gli enti commerciali statali sono un valido strumento per dare attuazione alle politiche governative. Le politiche di controllo dei prezzi sono in genere molto più facili da attuare se la responsabilità della commercializzazione e della distribuzione dei cereali è affidata a un solo ente, al quale i produttori e i grossisti devono vendere e dal quale devono comprare ai prezzi fissati dalle autorità.

Queste organizzazioni diventano invece estremamente dannose, nell'ambito del commercio internazionale, quando le loro regole di condotta nelle vendite e negli acquisti non sono definite con chiarezza. L'istituzione stessa diventa allora un ostacolo al commercio o, come minimo, una fonte d'incertezza sul mercato. L'attività dell'ente può essere funzionale a una strategia politica, alle priorità stabilite dal governo per quel che riguarda i vincoli sul tasso di cambio o a qualsiasi altro criterio al quale la dirigenza dell'ente senta di doversi conformare. Gli enti commerciali di Stato occupano uno spazio intermedio tra il mercato interno e il mercato internazionale e, a seconda dei compiti loro affidati, possono consentire in varia misura, o impedire del tutto, la trasmissione tra i due mercati dei segnali affidati ai prezzi.

Gli orientamenti, gli obiettivi e i vincoli degli enti commerciali dei paesi a economia pianificata sono spesso i più difficili da prevedere, per la mancanza di informazioni circa la formazione dei processi decisionali in quelle società chiuse. Inoltre la mancanza di valute convertibili e la determinazione dei prezzi da parte dello Stato, per ogni prodotto e fattore del mercato, rendono estremamente difficile capire se questi enti stanno proteggendo i produttori o i consumatori. Il fatto che queste organizzazioni rappresentino mercati molto vasti dà spesso loro l'opportunità di manipolare il mercato internazionale a proprio favore. Si è detto varie volte che nel 1973 l'Unione Sovietica ha usato il proprio potere di monopsonio per acquistare grano dagli Stati Uniti a prezzi più bassi di quelli che sarebbero stati raggiunti se fossero state conosciute in tempo le reali dimensioni quantitative dell'acquisto. Non si può affermare con certezza che fosse proprio questa l'intenzione dei Sovietici ma, anche in caso affermativo, il loro successo fu dovuto, in gran parte, alla mancanza di informazioni sulla situazione del mercato, derivante dall'assenza, negli Stati Uniti, di un'adeguata procedura di registrazione centralizzata delle esportazioni e di una politica di sovvenzione delle esportazioni di grano.

Gli accordi commerciali, sia bilaterali che multilaterali, sono tentativi di regolamentare, in tutto o in parte, un determinato mercato. Anch'essi non rappresentano di per se stessi una misura protezionistica, dato che vengono formulati per il reciproco vantaggio di due o più paesi che si trovano in condizioni opposte sul mercato e vengono per lo più interpretati dai paesi stessi come uno strumento di regolamentazione reciproca o, all'opposto, come uno strumento per combattere le politiche protezionistiche. La Comunità Economica Europea, per esempio, è favorevole a un accordo per dividere i principali mercati agricoli internazionali tra i paesi esportatori e regolare i prezzi. Un accordo del genere equivarrebbe all'accettazione passiva delle politiche protezionistiche della Comunità e comporterebbe, sostanzialmente, l'estensione della regolamentazione del mercato agricolo della CEE all'intero mercato internazionale. Si è giunti, d'altro lato, a stipulare accordi commerciali bilaterali per creare uno strumento efficace per combattere il potere monopolistico dei principali enti commerciali di Stato. L'accordo sui cereali del 1975 tra Stati Uniti e Unione Sovietica era inteso a stabilizzare gli acquisti sovietici e a fornire agli Stati Uniti maggiori informazioni sui programmi di acquisto della controparte.

L'obiettivo principale degli accordi commerciali è quello di garantire una maggiore stabilità del mercato internazionale. D'altra parte, gli interessi contrastanti tra paesi che si trovano in condizioni opposte sul mercato non permettono obiettivi più ambiziosi. Gli accordi bilaterali stabiliscono i livelli commerciali minimi per determinati periodi e sono del tutto irrilevanti per il commercio e i prezzi internazionali. Acquistano un ruolo importante solo quando gli scambi tra i due paesi contraenti cadono al di sotto del livello pattuito. In qualche caso possono anche impedire che mutamenti politici o esigenze di politica estera, come l'embargo proclamato nel 1980 dagli Stati Uniti sulle esportazioni di grano verso l'Unione Sovietica, rechino danni ai flussi commerciali. Gli accordi multilaterali spesso tentano di fissare livelli minimi e massimi per i prezzi, ma questi limiti non sembrano esercitare un sensibile effetto sulle fluttuazioni dei prezzi internazionali. Gli impegni presi dai paesi contraenti di correggere i livelli delle scorte, in modo da mantenere i prezzi entro i limiti concordati, non hanno impedito che i prezzi stessi subissero frequenti variazioni oltre i limiti stabiliti, a causa dell'irriducibile conflitto di interessi tra esportatori e importatori.

Nella categoria dei regolamenti interni rientrano due tra le principali restrizioni del commercio per quel che riguarda i prodotti agricoli: i requisiti sanitari e le autorizzazioni; ma nessuna di queste misure ha necessariamente effetti restrittivi sul commercio. L'effetto economico delle misure sanitarie dipende da tre fattori: 1) il fatto che i regolamenti e gli standard si applichino in egual misura ai prodotti interni e a quelli importati; 2) il rigore dei vincoli che vengono imposti; 3) la loro applicazione. Molte misure sono vantaggiose o almeno indifferenti per quel che riguarda i loro effetti sul commercio. Altre oscillano tra l'ostacolare e l'impedire completamente il commercio. Lo stesso si può dire delle autorizzazioni amministrative.

Quando i regolamenti discriminano tra produttori nazionali e produttori stranieri dello stesso bene, in realtà non sono più dei regolamenti, ma piuttosto delle barriere al commercio. I prodotti interni sono di rado perfettamente uguali a quelli importati: il problema è quello di fissare dei limiti oltre i quali le differenze tra prodotto nazionale e prodotto importato giustifichino un intervento governativo sul mercato per mantenere degli standard minimi di qualità. Una soluzione parziale a questo problema è data dall'elaborazione di standard minimi di qualità accettati a livello internazionale, come viene fatto dalla Food and Agriculture Organisation (FAO) e da altre organizzazioni internazionali. Tuttavia questi standard forniscono una garanzia solo per alcuni requisiti minimi di base, oltre i quali i singoli paesi possono imporre restrizioni aggiuntive che riflettono abitudini religiose o culturali.

Non esistono regole chiare e semplici per valutare il ruolo restrittivo, nei confronti del commercio, svolto dalle autorizzazioni amministrative o dagli standard sanitari, tuttavia il rispetto della libertà di commercio da un lato e delle esigenze culturali e sanitarie dall'altro è la migliore garanzia che queste misure vengano usate per promuovere il commercio e non per scoraggiarlo.

b) Sviluppo dei mercati d'esportazione.

Le tattiche e le tecniche per l'ampliamento dei mercati d'esportazione esercitano spesso un notevole fascino sulle organizzazioni esportatrici. I fattori che influenzano più sensibilmente il volume delle esportazioni agricole sono sempre la capacità finanziaria dei paesi importatori, le loro condizioni interne rispetto al rapporto tra domanda e offerta e l'esistenza di forme di commercio estero libere o regolamentate.

Lo sviluppo dei mercati comincia sempre con l'offerta di prodotti di alta qualità. Un altro passo importante per l'ampliamento delle vendite all'estero è costituito da una certa stabilizzazione dell'offerta. I programmi per l'ammasso, sul tipo di quelli previsti negli Stati Uniti con la legge del 1981, aumentano la fiducia dei paesi acquirenti circa la disponibilità futura di scorte di grano e di altri prodotti. I produttori di cereali hanno in genere un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei programmi per l'ammasso, perché pensano che, in assenza di riserve, le periodiche scarsità di prodotti farebbero crescere i prezzi. I produttori di bestiame e di pollame, le aziende esportatrici e gli acquirenti esteri, al contrario, accettano di solito l'idea di riserve stabilizzatrici.

La terza fase dello sviluppo dei mercati riguarda i finanziamenti. Per esempio, le esportazioni agricole americane sono, nel loro complesso, finanziate da privati. Due dei più importanti programmi di finanziamento statale sono la Export-Import Bank e la Commodity Credit Corporation (CCC). Il programma CCC concede crediti a breve termine per finanziare esportazioni agricole dagli Stati Uniti, per periodi che vanno da sei mesi a un massimo di tre anni, con tassi di interesse variabili. Nel 1978, per esempio, i tassi a 6 e 12 mesi erano del 7% presso una banca statunitense e dell'8,75% presso una banca estera. Per scadenze più lunghe i tassi erano dell'8 e del 9%.

Durante l'inverno 1977-1978, mentre i prezzi dei cereali diminuivano e si cercava di espandere le vendite all'estero, vi furono forti pressioni perché venisse allargato il credito della CCC, finché la Corporation, che fino a quel momento aveva aperto crediti all'esportazione fino a 750 milioni di dollari, annunciò la concessione di nuovi crediti fino a 1,7 miliardi di dollari.

Infine, lo sviluppo dei mercati agricoli d'esportazione costituisce un ottimo esempio di cooperazione tra privati e Stato. Il governo degli Stati Uniti, per esempio, collabora con gruppi privati a iniziative per lo sviluppo dei mercati esteri di molti prodotti: soia, arachidi, riso, grano, bestiame, foraggi. Questa collaborazione è dovuta in parte alle implicazioni di politica estera del commercio dei prodotti agricoli, ma concorrono a spiegarla anche altri elementi, come la necessità di avere informazioni tecniche e finanziamenti.

c) Sviluppo degli scambi con i paesi comunisti

Nel 1977 gli Stati Uniti hanno esportato verso i paesi comunisti prodotti agricoli per un valore di 1,9 miliardi di dollari, che rappresentano un massiccio aumento rispetto ai 142 milioni del 1970. Le prospettive per il futuro dipendono da molti fattori, il più importante dei quali è la produzione interna che questi paesi riusciranno a realizzare.

Nel piano quinquennale 1976-1981 il governo sovietico ha ridotto gli obiettivi d'incremento della produzione di bestiame entro limiti più coerenti con la propria produzione interna di cereali. Tuttavia le possibilità di raggiungere gli obiettivi di produzione prefissati per i cereali e i semi di girasole non sembrano molte a causa delle caratteristiche meteorologiche del paese. Gli Stati Uniti stimano che saranno comunque necessarie all'Unione Sovietica importazioni di cereali per 10-15 milioni di tonnellate all'anno, superiori cioè ai 10 milioni di tonnellate previsti nell'accordo commerciale a lungo termine tra i due paesi.

Le prospettive future del commercio con gli altri paesi comunisti dipendono da vari fattori. Se continueranno a migliorare le relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese, ci saranno notevoli possibilità di aumentare le esportazioni verso quel paese, in cui vive quasi un terzo dei consumatori del mondo. Un aumento anche piccolo della razione alimentare pro capite dei Cinesi richiederebbe immense quantità di cibo, ma per questo sono necessarie tutta una serie di azioni preliminari, come una maggiore conoscenza delle abitudini e delle preferenze alimentari di quel paese e delle condizioni del mercato. Inoltre si potrà avere un'espansione delle esportazioni solo se si realizzerà un miglioramento generale degli scambi commerciali, cioè se i Cinesi riusciranno a vendere all'estero le loro merci.

d) Esportazione di prodotti agricoli su concessione.

La maggior parte degli scambi agricoli avviene su base commerciale. Dal punto di vista del raggiungimento di certi obiettivi, come per esempio il miglioramento della bilancia dei pagamenti, conta solo questo tipo di scambi. Le esportazioni agricole su concessione possono però portare altri tipi di vantaggi, tra cui, per esempio, quello di contribuire a risolvere una situazione di sovrapproduzione. Tuttavia la giustificazione delle esportazioni su concessione solo in questi termini ha suscitato in passato vivaci critiche, in quanto esse non soddisferebbero un'unica esigenza, ma piuttosto molteplici. I programmi di esportazione controllata, se scelti saggiamente e correttamente amministrati, possono aiutare il paese che li adotta a realizzare alcuni obiettivi di politica estera e favorire lo sviluppo economico dei paesi cui sono rivolti; in alcuni casi, invece, possono anche rivelarsi dannosi per le esportazioni commerciali.

Le esportazioni su concessione sono state, negli ultimi anni, più limitate, sia in termini relativi che in termini assoluti. I sussidi e le elargizioni concessi negli anni settanta dagli Stati Uniti riguardavano solo l'1-2% delle esportazioni agricole totali, e il movimento complessivo sottoposto a questo regime (compreso il credito in dollari a lungo termine) non ha superato il 5% delle esportazioni.

7. Prospettive

La miriade di politiche e di programmi adottati dai vari paesi illustra chiaramente la complessità dei problemi connessi all'agricoltura degli anni ottanta e del prossimo futuro. L'agricoltura si è evidentemente trasformata: da semplice strumento per nutrire se stessi e la propria famiglia è diventata una grande industria, tecnologicamente avanzata, largamente dipendente e ampiamente controllata dal mercato internazionale.

La sfida che si porrà all'agricoltura del futuro sarà in primo luogo determinata dagli attuali stadi di sviluppo dei vari paesi. Per i paesi sviluppati l'obiettivo sarà quello di cercare un mercato stabile per un livello produttivo crescente, mentre nell'ambito del mercato interno si contenderanno risorse sempre più scarse. I paesi meno sviluppati, d'altro canto, si trovano di fronte alla prospettiva di costruire una base agricola che sia in grado di far fronte ai bisogni interni, sviluppando, nel contempo, alcune colture esportabili con cui entrare nel mercato internazionale. Queste sfide, tuttavia, riflettono interessi immediati, ma non esauriscono i problemi che gli agricoltori dovranno affrontare a lungo termine.

Con il passaggio da un'agricoltura con forte intensità di lavoro a metodi di produzione tecnologicamente avanzati, in molti paesi si è verificata una preoccupante diminuzione delle capacità produttive del terreno. L'uso di fertilizzanti, di pesticidi e di un'imponente irrigazione ha determinato un'enorme crescita della produzione e dei profitti a breve termine, ma ognuna di queste innovazioni tecnologiche ha avuto effetti negativi sull'ambiente. Gli elevati costi delle attrezzature, ormai indispensabili per la semina e il raccolto, hanno portato al consolidamento diffuso di un'agricoltura capace di utilizzare nel modo più efficace queste attrezzature e di essere competitiva sul piano internazionale. Nello stesso tempo, però, il numero di persone occupate in agricoltura è diminuito sensibilmente, mentre è notevolmente aumentato il costo dei mezzi di produzione necessari per un'agricoltura redditizia.

A differenza di quanto avviene per la maggior parte delle industrie, tuttavia, i governi sono fortemente interessati alla concentrazione e alla specializzazione della produzione agricola in determinati paesi del mondo. Per far fronte alle necessità di base connesse col sostentamento delle popolazioni, i governi hanno introdotto politiche e programmi intesi a proteggere il più possibile l'agricoltura interna, tentando nel contempo di rendere competitivi i loro prodotti sul mercato internazionale. A questo scopo molti paesi hanno adottato iniziative di vario tipo, che vanno dalla concessione di sussidi agli agricoltori allo sviluppo di reti di mercato per le esportazioni.

L'intervento governativo può esercitare sull'agricoltura effetti positivi ma anche negativi. Alcuni accordi commerciali hanno avuto effetti benefici in termini di stabilità, sia sui paesi esportatori che su quelli importatori, fino a quando sono stati rispettati. Quando però, in seguito a decisioni politiche, sono stati disattesi, i risultati sono sempre stati instabilità dei prezzi e surplus di produzione.

La sfida del futuro sarà affidata anche alle organizzazioni internazionali, che dovranno trovare il modo di creare meccanismi finanziari e diplomatici tali da garantire ai prodotti agricoli un commercio e una circolazione efficienti in tutto il mondo, e dovranno altresì ideare programmi concreti per nutrire a costi ragionevoli l'umanità affamata e assicurare ai produttori di questo settore, quanto mai importante, guadagni adeguati.

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