AIDS

Il Libro dell'Anno 2007

Mauro Moroni

Aids

Se lo conosci lo eviti

25 anni di AIDS

di

1° dicembre 2006

Secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute in occasione della Giornata mondiale dell’AIDS, ogni anno in Italia si registrano 3500 nuovi casi di infezione da HIV. A livello mondiale, uno studio epidemiologico commissionato dall’Organizzazione mondiale della sanità prevede che l’AIDS sarà la patologia più diffusa nel 2030, passando da 2,8 milioni a 6,5 milioni di casi mortali.

Un’epidemia comportamentale

Quando nel 1981 da parte dei Centers of Disease Control di Atlanta, il prestigioso centro americano per il controllo delle malattie, furono diffuse nel mondo le prime segnalazioni su una ‘nuova’ malattia trasmissibile, la risposta prevalente fu un generale senso di incredulità. Questo atteggiamento si fondava su oggettive buone ragioni. Gli anni compresi tra il 1945 e il 1980 sembravano infatti aver sancito il definitivo controllo delle infezioni. La corretta gestione delle acque e degli alimenti e il miglioramento delle condizioni abitative riducevano sensibilmente le occasioni di contagio. Il tifo, che era stato una patologia endemica nei paesi occidentali, Italia compresa, sino al periodo postbellico, si era trasformato in un’infezione ‘esotica d’importazione’. Il ridotto affollamento abitativo limitava drasticamente i casi di tubercolosi; le salmonellosi subivano una rapida contrazione in virtù dei controlli veterinari.

Inoltre le vaccinazioni avevano di fatto estinto infezioni gravi e diffuse come il tetano, la difterite, la poliomielite. Oggi è possibile affermare che le pratiche vaccinali di massa, insieme alla potabilizzazione delle acque, sono le misure che più hanno contribuito al recente e importante incremento della vita media. La campagna mondiale di vaccinazione antivaiolosa, condotta con un imponente sforzo congiunto tra il 1958 e il 1977, ha eradicato il virus dal pianeta Terra.

A metà degli anni Quaranta sono comparsi gli antibiotici. L’anello β-lattamico della penicillina, definito ‘l’anello magico’, costituente attivo di tutte le penicilline e delle cefalosporine, ha salvato più vite di qualsiasi altro farmaco, rendendo improvvisamente curabili e guaribili infezioni quali le polmoniti, gli ascessi, le sepsi e persino la peste e il colera. Nel contempo, le possibilità alimentari e il tenore di vita di chi nasceva nel mondo occidentale miglioravano di anno in anno. Scomparivano, con l’eccezione di limitate sacche di povertà, la malnutrizione e il rachitismo. L’uomo occidentale diventava più robusto e aumentava di statura.

In questo contesto, il rischio di una nuova, inarrestabile epidemia sembrava, non irragionevolmente, del tutto improponibile. Tra i possibili rischi per l’umanità alla fine degli anni Settanta (inquinamento, esaurimento delle fonti energetiche, conflitti atomici, effetto serra), il rischio infettivo non figurava in alcuna previsione. L’AIDS (Acquired Immune-Deficiency Syndrome, Sindrome da Immunodeficienza Acquisita) è piombato in questo stato di cose e non stupisce che la sorpresa sia stata grande e generalizzata.

Nell’ultimo secolo la lotta alle epidemie si fondava sugli interventi strutturali e farmacologici. I risultati ottenuti, straordinari e rapidissimi, hanno indotto a sottovalutare i rischi connessi ai comportamenti igienicamente scorretti. Il tramonto delle epidemie cosiddette strutturali, imputabili a carenze o inefficienze in strutture fondamentali per la salute sociale come la gestione delle acque, dei rifiuti, dei cibi, degli animali e degli insetti, ha in larga misura coinciso con la comparsa delle epidemie cosiddette comportamentali. Tra queste, l’epidemia da HIV è la più estesa e severa.

I microbi, come tutti gli esseri viventi, seguono la legge generale della biologia che salvaguarda la conservazione della specie: per sopravvivere hanno bisogno degli animali superiori, tra cui l’uomo. I virus, in particolare, possono moltiplicarsi solo nelle nostre cellule e per ciò utilizzano ogni possibilità di contagio che viene loro offerta. Quando è sbarrata la strada delle carenze strutturali, gli errori comportamentali possono rappresentare una validissima alternativa. HIV ha individuato queste opportunità nell’uso promiscuo di siringhe usate dai tossicodipendenti per iniettarsi l’eroina e nella promiscuità sessuale non protetta. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati i più interessati da entrambi i fenomeni, divenuti quasi di massa. HIV ne ha approfittato, impiantandosi e diffondendosi.

Oggi non esiste paese al mondo ove l’AIDS non sia presente e, nonostante si sappia tutto su come evitare il contagio, l’infezione continua a diffondersi. Le epidemie comportamentali, in particolare quando i comportamenti riguardano la sfera dell’irrazionalità o delle emozioni, si vanno quindi rivelando di assai più difficile controllo rispetto alle epidemie strutturali.

Il virus dell’immunodeficienza umana

HIV (Human Immunedeficiency Virus, virus dell’immunodeficienza umana) è un virus il cui codice genetico consiste in un acido ribonucleico, o RNA.

Virus che inducono uno stato di progressiva immunodeficienza sono diffusi in natura in molte specie animali. Tra quelli più noti, il virus dell’immunodeficienza dei felini, tra cui il gatto (FIV, Feline Immunedeficiency Virus), non trasmissibile all’uomo, e il virus dell’immunodeficienza delle scimmie, o SIV (Simian Immunedeficiency Virus). È oggi accertato che HIV è l’esito di mutazioni di vari ceppi di SIV. Tali mutazioni lo hanno reso progressivamente adatto a infettare l’uomo. Il salto di specie si sarebbe verificato attorno agli anni 1930 in alcune regioni dell’Africa occidentale sub-sahariana. HIV-1, il ceppo responsabile dell’attuale pandemia, deriverebbe dal SIVcpz, virus dell’immunodeficienza dello scimpanzé Pan troglodytes troglodytes, mentre dal virus SIVsmm, che colpisce le scimmie Sooty Mangabey, deriverebbe HIV-2. Quest’ultimo virus è dotato di patogenicità e contagiosità molto limitate ed è rimasto confinato nei luoghi di origine. Solo recentemente è stato isolato nei paesi occidentali in soggetti di colore provenienti dalle aree endemiche.

HIV appartiene alla famiglia dei retrovirus, i quali si caratterizzano per la presenza di un enzima, la DNA-polimerasi RNA-dipendente, in grado di trascrivere il codice genetico originariamente RNA in DNA (acido desossiribonucleico). È questa un’opportunità eccezionale dei retrovirus che in virtù della DNA-polimerasi, detta anche trascrittasi inversa, sono in grado di trascrivere il loro codice genetico nello stesso linguaggio usato dal codice genetico delle cellule dell’uomo, il DNA. Questa operazione permette al virus di integrare il proprio genoma in quello delle cellule infettate; di conseguenza il virus integrato non è ulteriormente aggredibile né dai farmaci né dalla risposta immunitaria: l’infezione diviene non più eradicabile.

La famiglia dei retrovirus comprende vari generi. HIV fa parte del genere Lentivirus, al quale appartengono le specie virali che sostengono infezioni croniche, lentamente ma progressivamente evolutive, e quindi, se non trattate, a esito fatale, scarsamente sensibili alla risposta immunitaria, capaci di infettare il sistema nervoso centrale.

HIV si caratterizza per la spiccata tendenza a mutare. È questa una caratteristica dei virus a RNA e in particolare dei retrovirus. Le mutazioni sono errori che le singole particelle virali compiono nei cicli replicativi. Ogni errore comporta la comparsa di virus più o meno differenti rispetto a quello originale. Le mutazioni sono per lo più svantaggiose per la specie virale e i virus mutati tendono a scomparire. Alcune mutazioni sono invece vantaggiose e permettono ai virus mutati di acquisire resistenza ai farmaci e alla risposta immunitaria. La facilità a mutare è uno dei meccanismi più efficaci utilizzati da HIV per eludere la nostra risposta immunitaria e le terapie. Alcune mutazioni hanno dato origine a sottotipi ormai stabilizzati di HIV e all’interno di questi a sotto-sottotipi denominati clade.

Il clade più diffuso nel mondo occidentale è denominato B.

I flussi migratori e la facilità dei trasferimenti stanno favorendo la diffusione dei vari clade nel mondo intero. Si stanno anche isolando i cosiddetti virus ricombinati o CRF (Circulating Recombinant Form), vere e proprie ‘chimere virali’, esito di scambi di materiale genetico tra virus appartenenti a più clade, contemporaneamente presenti nel medesimo individuo. HIV è pertanto un mosaico di virus in continua trasformazione. HIV è anche uno dei virus più studiati e, di conseguenza, più noti. La sua scoperta è stata un evento straordinario in quanto ottenuta appena tre anni dopo la segnalazione dei primi casi di AIDS. L’isolamento del virus, la sua clonazione e il sequenziamento del genoma hanno dimostrato per la prima volta le eccezionali potenzialità della moderna virologia. HIV è stato ‘visto’ per la prima volta alle ore 17,45 del 4 novembre 1983 da Françoise Barré-Sinoussi presso il laboratorio di retrovirologia dell’Istituto Pasteur di Parigi, diretto dal Luc Montagner. Il virus era stato ottenuto da un linfonodo prelevato da una persona infetta. Successivamente, lo stesso materiale biologico è stato trasferito presso i laboratori di Robert Gallo, negli Stati Uniti, ove ne sono state messe a punto le modalità di replicazione. Si può quindi attribuire a entrambi i ricercatori la scoperta del virus, cui hanno fatto seguito la messa a punto dei kit diagnostici per individuare le persone infette e, successivamente, quella dei farmaci anti-HIV.

HIV ha una struttura sferica del diametro di 100-120 nm ed è composto da due membrane esterne (pericapside), formate dal materiale della cellula che lo ha prodotto, e che ogni virus porta con sé nel momento in cui esce dalla cellula stessa, e dall’acido nucleico, l’RNA. Di particolare importanza sono alcune glicoproteine che sporgono sulla superficie del virus e alcuni enzimi che il virus utilizza per riprodursi. Tra le prime, le glicoproteine (gp) 120 e 41. La gp120 è una sorta di chiave che HIV utilizza per individuare la corrispondente serratura sulle cellule in grado di replicarlo. Ha quindi funzione recettoriale, in quanto aggancia HIV al recettore presente sulle cellule bersaglio. La gp41 interviene invece in un secondo tempo sui virus già agganciati ai recettori cellulari, fondendo le membrane virali con la parete cellulare; è denominata proteina di fusione e la sua attività è indispensabile per la penetrazione di HIV all’interno delle cellule.

Gli enzimi di maggior rilevanza per la replicazione di HIV sono la trascrittasi inversa, le integrasi e le proteasi. La prima trascrive il codice genetico virale originariamente RNA in DNA; le integrasi ne permettono l’inserimento nel DNA cellulare; le proteasi modellano le macroproteine prodotte dalle cellule infettate in forma idonea per dar vita a nuovi virus. La gp41, gli enzimi citati e i recettori cellulari sono bersagli dei farmaci antiretrovirali oggi utilizzati.

Il ciclo replicativo inizia con il riconoscimento da parte della gp120 del recettore omologo, che consiste in una particolare proteina denominata CD4. Le cellule umane che presentano sulla loro superficie la proteina CD4 sono riconosciute da HIV e, tramite la gp120, vengono immediatamente agganciate. Le cellule umane CD4-positive sono quindi il bersaglio di HIV. Le cellule umane più ricche di recettori CD4 sono alcuni tipi di linfociti denominati helper o inducer: tali nomi indicano la funzione cruciale di questi linfociti nel garantire la piena funzionalità del sistema immunitario.

I linfociti CD4 positivi sono i ‘direttori d’orchestra’ del sistema immunitario, veri e propri registi che, attraverso messaggi biochimici, attivano i settori del sistema immunitario di volta in volta più idonei a contrastare la presenza nel nostro organismo di ospiti indesiderati quali virus, batteri, protozoi, funghi, vermi e cellule tumorali. I linfociti CD4+ sono quindi uno stipite cellulare indispensabile per il nostro benessere. Un buon numero di linfociti CD4+ garantisce un giusto funzionamento del sistema immunitario e di conseguenza una buona attitudine a contrastare le infezioni e i tumori. Un numero inadeguato di linfociti CD4+ rende inefficace il sistema immunitario nella sua globalità ed espone l’intero organismo al rischio di ripetute infezioni e tumori: in altre parole induce uno stato di grave immunodeficienza. Il recettore CD4 è presente anche su altre cellule, seppure in quantità minore. Si tratta delle cellule dendritiche dei linfonodi, la microglia del sistema nervoso centrale, le cellule cromaffini delle pareti intestinali, l’endotelio dei vasi sanguigni, i precursori delle cellule del sangue e i linfociti B e T-CD8+. HIV provoca quindi un’infezione sistemica e generalizzata, anche se le conseguenze più rilevanti sul piano clinico derivano dall’infezione dei linfociti CD4+.

L’infezione del linfocita CD4+ e l’integrazione di HIV nel suo cromosoma sono compatibili con la sua sopravvivenza e la sua funzionalità sino a quando la cellula non produce altri virus. Le cellule infettate che non producono virus sono definite latentemente infette e costituiscono un serbatoio virale ineliminabile che garantisce a HIV la sopravvivenza nel soggetto infetto per l’intera durata della sua vita.

Occasionalmente, l’infezione latente si attiva. Quando ciò accade, l’informazione genetica virale integrata obbliga la cellula a produrre al suo interno le proteine e l’acido nucleico virale utili per la produzione di nuove particelle virali. In termini tecnici, il virus integrato e latente si esprime con la produzione di nuovi virus. I pezzi di HIV prodotti dalla cellula iniziano ad assemblarsi già all’interno della cellula stessa come i componenti di un puzzle, sino a dar vita a virioni completi, destinati a essere espulsi per gemmazione.

I virus espulsi nel torrente circolatorio sono in larga misura neutralizzati dalla risposta immunitaria umorale; altri infettano nuove cellule CD4+, perpetuando l’infezione. La fuoriuscita dei nuovi virioni per gemmazione provoca sulla superficie cellulare ‘buchi’ incompatibili con la sopravvivenza della cellula stessa, che pertanto muore.

Nei rapporti con il suo ospite, HIV dispone quindi di due distinte opzioni: l’infezione latente, previa trascrizione e integrazione, e la replicazione. La prima garantisce a HIV un serbatoio inamovibile di genomi virali; la seconda la possibilità di infettare un numero sempre maggiore di cellule CD4+. La replicazione virale comporta il sacrificio della cellula infetta. Il danno provocato da HIV è pertanto conseguenza della sola replicazione virale, mentre la presenza di HIV allo stato di latenza non induce immunodeficienza.

I fattori che inducono l’attivazione dell’infezione latente e la replicazione virale non sono del tutto noti. È dimostrato il ruolo di tutte le occasioni di stimolazione del sistema immunitario e, in primo luogo, degli antigeni virali liberati nel corso di varie infezioni croniche e produttive.

Gli stadi dell’infezione

L’infezione da HIV è un tutt’uno che, in assenza di terapie, evolve senza soluzioni di continuità sino allo stato di malattia e alla morte. È quindi ai soli fini pratici che l’infezione viene suddivisa in tre stadi: l’infezione acuta, lo stadio di latenza clinica e lo stadio sintomatico, espressione di immunodeficienza. Questa classificazione è di facile applicazione ma estremamente grossolana.

Oggi è possibile misurare la quantità di virus presente nel sangue di una persona portatrice del virus e la quantità del danno provocato dal virus in replicazione. La periodica misurazione di questi parametri si è dimostrata di estrema utilità e permette il controllo dell’andamento dell’infezione indipendentemente dalle manifestazioni cliniche. La prescrizione della terapia anti-HIV è dettata dall’andamento di questi dati di laboratorio, con indubbi vantaggi rispetto ai parametri clinici. Non è eccezionale, infatti, constatare gravi quadri di immunocompromissione, espressione di un’infezione di lunga durata, in assenza di sintomi clinici rilevanti. La quantità di virus presente nel sangue è definita carica virale ed è espressa come numero di copie di RNA virale per millilitro (ml) di sangue. L’entità della carica virale è correlata strettamente con i tassi di replicazione virale e questi ultimi con la velocità di progressione dell’infezione. Cariche virali elevate indicano un’intensa attività replicativa di HIV e, di conseguenza, un’elevata distruzione di linfociti CD4+. Il grado di compromissione del sistema immunitario è espresso dal numero di linfociti CD4+ presenti nel sangue. Mentre la carica virale esprime la velocità con cui l’infezione corre verso l’AIDS, la conta dei linfociti CD4+ esprime la distanza dall’evento. Numerosi studi hanno confermato questi dati e hanno permesso di valutare la probabilità di ammalarsi di AIDS in un definito arco di tempo in funzione di entrambi i parametri.

L’infezione acuta si caratterizza per la rapida e imponente replicazione virale. HIV non trova alcun ostacolo e la carica virale può raggiungere valori pari a milioni di copie di RNA/ml. Quando l’infezione è contratta per inoculazione di sangue infetto nel torrente circolatorio di un soggetto suscettibile, il virus raggiunge direttamente i tessuti linfatici, infettando le cellule CD4+ e moltiplicandosi. È questo il caso della trasmissione tramite emotrasfusioni, del trapianto di organi, dell’uso promiscuo di siringhe, delle punture accidentali, per lo più professionali, con materiale infetto come aghi o bisturi, e della trasmissione materno-fetale.

Ove l’infezione è trasmessa per via sessuale, è probabile che siano inizialmente infettate le cellule linfatiche presenti nelle mucose interessate, vaginale o rettale. Qui HIV compie i primi cicli replicativi, indispensabili per raggiungere la carica virale sufficiente per abbandonare le mucose e raggiungere i linfonodi corrispondenti. Non tutte le cellule infettate nella fase acuta replicheranno HIV. In numerose cellule CD4+ presenti in vari organi e apparati il virus rimane integrato e inattivo, costruendo il patrimonio di cellule latentemente infette. I fenomeni che caratterizzano l’infezione acuta sono pertanto l’elevata replicazione virale, la corrispondente distruzione delle cellule CD4+ responsabili della replicazione e la costituzione del serbatoio di cellule latentemente infette.

L’infezione acuta decorre clinicamente asintomatica in circa la metà dei casi; quando evidente, è frequente un quadro poco specifico, facilmente confondibile con una sindrome influenzale protratta. In un buon numero di persone HIV+, pertanto, l’infezione acuta decorre inosservata e non diagnosticata. Nel 20-30% dei casi, i quadri clinici sono più complessi e dovrebbero indurre il medico curante a porre il sospetto e a prescrivere lo specifico test. Tra i quadri più frequenti: la febbre protratta e non altrimenti interpretabile, manifestazioni esantematiche simil-morbillose, la comparsa di linfonodi ingrossati, quadri meningei espressione di localizzazione di HIV nel sistema nervoso centrale.

La fase acuta cessa con la comparsa della risposta immunitaria. È questo un processo relativamente lento, che richiede 2-8 settimane e interessa l’immunità sia umorale sia cellulo-mediata, con la produzione di anticorpi anti-HIV e linfociti citotossici. I primi sono dotati di attività neutralizzante e inattivano un’elevata quantità di virus libero e circolante. La cessazione della fase acuta si caratterizza pertanto per la importante riduzione della carica virale, il recupero del numero dei linfociti CD4+ e la scomparsa dei segni clinici, quando presenti.

In virtù della risposta immunitaria, ha inizio la fase cosiddetta di cronicità o di latenza. La presenza di anticorpi anti-HIV nel sangue è rilevabile con esami sierologici specifici quali il test ELISA (Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay). I soggetti positivi al test sono definiti sieropositivi per HIV. La sieropositività perdura per tutta la vita dei soggetti che hanno contratto l’infezione ed esprime sia l’avvenuta infezione sia la persistenza dell’infezione stessa, indipendentemente dallo stadio e dal grado di immunodeficienza.

La fase di cronicità ha una durata variabile da pochi anni sino a oltre 15. La latenza è solo clinica e non virologica. La replicazione di HIV infatti persiste, in particolare nei tessuti linfatici, seppure con tassi di replicazione contenuti e controllati dalla risposta immunitaria. Il tessuto linfatico che ospita la replicazione virale va incontro a un progressivo deterioramento che, nel tempo, compromette la capacità di ripristinare le perdite dei linfociti distrutti per la persistente replicazione virale.

Nel contempo, le frequenti mutazioni di HIV portano alla comparsa di popolazioni virali antigenicamente distinte dal virus originale e alle quali il sistema immunitario è continuamente costretto ad adeguarsi. Ne consegue una crescente difficoltà a controllare l’infezione, ben evidenziabile dalla ripresa della replicazione virale e dalla perdita progressiva e costante del numero dei linfociti CD4+. Quando questo numero si riduce al di sotto di una soglia critica, risulta compromessa la capacità di difesa nei confronti di microrganismi scarsamente patogeni e definiti opportunisti. Appartengono a questo gruppo virus, batteri, funghi e protozoi, per lo più nostri ospiti abituali del tutto innocui, più raramente acquisiti occasionalmente, in grado di provocare malattia solo quando è loro fornita l’opportunità. Nel caso dell’infezione da HIV, l’opportunità consiste nel basso numero di linfociti CD4+.

Alcuni microrganismi opportunisti si trasformano in patogeni per gradi molto limitati di immunodeficienza. Queste infezioni sono cronologicamente le prime a manifestarsi, in quanto compaiono anche quando il numero dei linfociti CD4+ è ancora consistente. Altre infezioni richiedono un grado di immunocompromissione severo e si manifestano solo quando il numero dei linfociti CD4+ è ridottissimo. Alcune infezioni opportunistiche e taluni limitati tumori, come il sarcoma di Kaposi, sono ritenuti indicativi per la diagnosi di AIDS. L’AIDS è quindi una pura astrazione convenzionale, utile solo ai fini burocratici, statistici e classificativi. Per convenzione, si è stabilito di definire affette da AIDS le persone sieropositive per HIV che hanno manifestato una delle infezioni opportunistiche o uno dei tumori previsti per la diagnosi di AIDS.

L’AIDS è stata una tappa obbligata nella storia naturale di una persona HIV+ sino alla disponibilità degli attuali farmaci. Senza terapie, il numero dei linfociti CD4+ si erode inesorabilmente e l’appuntamento con la prima di una lunga serie di infezioni opportunistiche è solo questione di tempo.

Alcune infezioni e taluni tumori sono curabili e le terapie garantiscono pause di benessere tra un’infezione e la successiva. Prima, in assenza di ogni farmaco anti-HIV, la sopravvivenza a partire dalla diagnosi di AIDS variava tra sei mesi e tre anni. Erano mesi e anni di infezioni sempre più severe e ravvicinate e di progressivo, inarrestabile decadimento generale e la morte sopraggiungeva nel 100% dei casi.

Oggi, la storia dell’infezione da HIV e la sua prognosi sono profondamente mutate. I farmaci disponibili, pur non eliminando definitivamente il virus, ne impediscono la replicazione, rendendo la persistenza di HIV compatibile con un’aspettativa e una qualità di vita impensabili sino a pochi anni or sono. Numerosissime persone HIV+, che avevano sperimentato un’infezione opportunistica e quindi gravi stadi di immunodeficienza, hanno recuperato un buon numero di linfociti CD4+ e godono di buona salute pur figurando nell’ambito dei casi di AIDS. La definizione di AIDS, pertanto, viene mantenuta per motivi storici ma non appare corrispondente all’attuale contesto clinico e terapeutico dell’infezione. Per questi motivi, l’infezione da HIV è oggi suddivisa in stadi sulla sola scorta di dati oggettivi, come il numero dei linfociti CD4+ e l’entità della carica virale.

L’epidemiologia

HIV non si trasmette per via aerea come l’influenza, il morbillo e il raffreddore; non si trasmette per via alimentare come il tifo, il colera e le gastroenteriti infettive; non si trasmette tramite gli abituali contatti della vita di relazione quali la stretta di mano, la condivisione dei servizi igienici, il vivere in famiglia sotto lo stesso tetto. Si trasmette esclusivamente per via parenterale. Il contagio avviene quindi solo tramite penetrazione diretta di sangue o altre secrezioni infette nel circolo ematico di un soggetto. HIV si è dimostrato a bassa contagiosità. L’infezione si trasmette solo se nel liquido biologico infettante è presente un’elevata quantità di particelle virali vitali. Questa condizione si realizza pressoché esclusivamente nel sangue e nelle secrezioni genitali: sperma e, in misura minore, secrezioni vaginali. Tracce di HIV sono dimostrabili anche in altre secrezioni quali la saliva o il sudore. L’esperienza e numerosi studi sperimentali escludono la trasmissibilità mediata da queste secrezioni, salvo situazioni del tutto particolari come la presenza di sangue abbondante frammisto alla saliva.

Di fatto, HIV si è diffuso in tutto il mondo, provocando la più estesa pandemia dell’era moderna, attraverso limitatissime modalità di contagio: lo scambio di sangue e i rapporti sessuali. Il sangue infetto e i suoi derivati usati in pratiche trasfusionali hanno provocato numerose infezioni prima della disponibilità del test ELISA per HIV, che ha permesso di escludere dalla donazione i soggetti infetti. Lo scambio di sangue è pure responsabile dell’esplosione dell’epidemia tra i gruppi di tossicodipendenti da eroina, della trasmissione materno-infantile e dei pur rari casi di puntura o taglio accidentali con materiale infetto. Zanzare e altri insetti ematofagi non trasmettono l’infezione a causa della irrilevante quantità di sangue che possono trasferire. Questa osservazione è valida anche se le punture subite sono numerose e il sangue veicolato pesantemente infetto.

I rapporti sessuali penetrativi etero- od omosessuali sono idonei a trasferire l’infezione. La carica virale presente nello sperma e nelle secrezioni vaginali può infatti raggiungere livelli elevati. Nell’atto sessuale penetrativo, le mucose genitali sono congeste e la stessa dinamica provoca agevolmente microfessurazioni che facilitano la penetrazione del virus. L’uomo è mediamente più infettante rispetto alla donna. Lo sperma, oltre al plasma seminale, in cui è presente virus libero, contiene linfociti infetti e viene immesso in quantità di alcuni millilitri sull’ampia superficie della mucosa vaginale, ove può rimanere anche a lungo. La donna è particolarmente infettante se in vagina è presente sangue mestruale o in presenza di infezioni o infiammazioni vaginali. I rapporti anali sono a rischio maggiore rispetto ai rapporti vaginali. La penetrazione anale causa più facilmente microtraumi e la mucosa rettale è strutturalmente meno idonea a contrastare l’impianto di infezione a trasmissione sessuale. Pratiche sessuali non penetrative non possono essere definite in assoluto prive di rischi. Le segnalazioni di trasmissione di HIV sicuramente attribuibile a pratiche sessuali non penetrative sono tuttavia del tutto anedottiche ed eccezionalmente rare. Il preservativo impedisce il contatto tra mucose genitali e secrezioni potenzialmente infette ed è ritenuto un presidio sanitario di provata efficacia: ovviamente, se usato correttamente.

Tra i primi casi di AIDS segnalati nel 1983 negli USA, 642 erano omosessuali maschi, 154 tossicodipendenti, 81 tossicodipendenti omosessuali, 50 soggetti haitiani immigrati e 61 a epidemiologia ignota.

L’elevata prevalenza di omosessuali maschi ha focalizzato l’attenzione sulla sola popolazione gay come unica categoria a rischio. Queste prime informazioni sono state fuorvianti e per alcuni anni hanno distolto l’attenzione dal concreto e reale rischio di diffusione dell’infezione nel mondo: la trasmissione eterosessuale.

A differenza di quanto accaduto negli USA e nell’Europa settentrionale, lungo la fascia mediterranea HIV si è inizialmente diffuso tra i gruppi di tossicodipendenti da eroina. Lo scambio di siringhe, di largo uso tra i giovani dediti alla droga, si è rivelato ad alta efficacia di trasmissione. In Italia, nei primi anni Ottanta, il consumo di eroina era una occasione di incontro per molti giovani e di condivisione sia della sostanza sia della siringa. HIV, virus a trasmissione parenterale e a limitata contagiosità, ha quindi individuato in questa piaga sociale un’opportunità di rara efficacia per impiantarsi e diffondersi.

Tossicodipendenti e omosessuali maschi a elevatissima promiscuità rappresentano un’assoluta minoranza della popolazione. Qualora l’infezione fosse rimasta limitata entro questi ambiti, si sarebbe spontaneamente estinta. Per diffondersi nel mondo intero, a HIV servivano percorsi più universali, quali i rapporti eterosessuali. L’efficacia di trasmissione dei rapporti eterosessuali è limitata ma la popolazione interessata è illimitata, potenzialmente l’intera umanità sessualmente attiva.

L’attuale situazione epidemiologica mondiale è complessa e articolata. L’eroina ha da tempo cessato di rappresentare la droga preferita nella maggior parte del mondo occidentale, ove persistono limitate sacche di consumatori cronici. È invece di crescente impiego laddove il benessere e le disponibilità economiche sono eventi recenti, come in alcuni paesi dell’Est europeo, dell’Eurasia e del lontano Oriente. È del tutto assente ove persiste la povertà e i redditi sono incompatibili con l’acquisto non solo della droga ma anche semplicemente della siringa. La diffusione dell’infezione tra gli omosessuali maschi è andata progressivamente riducendosi in seguito alla presa d’atto dei rischi e all’uso del profilattico. La trasmissione eterosessuale è oggi la sola via di contagio in molti paesi e la prevalente in tutto il mondo. L’AIDS è quindi di fatto un’infezione eminentemente a trasmissione sessuale. Secondo l’organizzazione internazionale UNAIDS, le persone HIV+ oggi viventi al mondo sono stimate in 39,5 milioni; le nuove infezioni contratte nel 2006 circa 4,3 milioni; i morti per AIDS 2,9 milioni. Nella sola Africa sub-sahariana sono stimati 24,7 milioni di persone HIV+ viventi; 460.000 nell’Africa settentrionale; 7,8 milioni nel Sud-Est asiatico; 1,7 milioni nell’Europa dell’Est e in Asia centrale. In America Latina, America Settentrionale e Caraibi, rispettivamente 1,7 milioni, 1,4 milioni e 250.000. In Europa sono stimate 740.000 persone HIV+ viventi e 81.000 in Australia. Il numero di nuove infezioni stimate per il 2006 varia dai 2,8 milioni per l’Africa sub-sahariana agli 860.000 del Sud-Est e del Sud asiatici; 270.000 per l’Europa dell’Est e l’Asia centrale; 140.000 per l’America Latina. Nell’America Settentrionale e in Europa occidentale sono stimate nel 2006 rispettivamente 43.000 e 22.000 nuove infezioni.

In Italia l’infezione da HIV ha cessato di assumere un andamento epidemico per trasformarsi in endemia. Il picco epidemico è stato raggiunto nei primi anni Ottanta con circa 18.000 nuove infezioni all’anno. Attualmente le nuove infezioni/anno sono stabilizzate attorno a 3500-4000. È un numero sicuramente limitato, frutto delle intense campagne di informazione che hanno caratterizzato gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ma che non sembra ridursi ulteriormente.

Dall’inizio dell’epidemia sono deceduti per AIDS in Italia circa 40.000 cittadini e le persone HIV+ oggi viventi sono stimate in 130-140.000. Alcune tendenze epidemiologiche appaiono ben consolidate. I più esposti al contagio sono i giovani e i giovani adulti, ma la diagnosi di sieropositività per HIV è oggi frequente in tutte le fasce dell’età sessualmente attiva. Nel nostro paese non è prevista la notifica dei casi di sieropositività, mentre vengono segnalati i casi di AIDS. Il reale e attuale andamento dell’epidemia è quindi solo frutto di stime, fondate su indicatori epidemiologici e sui dati che giungono da alcune province ove è in atto la notifica della sieropositività. La regione di gran lunga più colpita è la Lombardia, ove si stimano 1/3 di tutti i casi nazionali e un tasso di incidenza di 5,8 casi di AIDS per 100.000 residenti. Seguono l’Emilia-Romagna, la Liguria, l’Umbria, il Lazio e la Sardegna, con tassi di incidenza dei casi di AIDS del 3,5-3-3,3-2,8 e 2,5. Le regioni più colpite si caratterizzano per tenore di vita più elevato, intensità di traffici, opportunità di viaggi, presenza di grandi città, ridotto controllo sociale. I dati ricavati dalle province nelle quali vengono segnalati non solo i casi di AIDS ma anche lo stato di sieropositività permettono di ricavare ulteriori informazioni. Il sesso maschile rimane il più esposto ai nuovi contagi, ma il rapporto maschi/femmine tende a ridursi: pari a 3,4 nel 1985, è sceso a 2,2 nel 2004. Tra i fattori di rischio, la tossicodipendenza è crollata dal 63,1% del 1985 all’11,4% del 2004, mentre la via sessuale (etero- e omosessuale) è salita dal 7 al 57,8%. L’attuale tendenza epidemiologica nel nostro paese sembra quindi individuare nel maschio giovane e adulto l’attore principale nell’alimentare l’endemia da HIV attraverso rapporti sessuali per lo più occasionali. All’infezione nel maschio può seguire il trasferimento di HIV alla partner occasionale o in larga misura anche stabile. La trasmissione ‘verticale’ da madre a figlio ha assunto carattere di eccezionalità e questo è un rilevantissimo merito delle attuali possibilità di intervento terapeutico. Sono in aumento l’età media del riscontro della sieropositività e la percentuale di soggetti extracomunitari tra i nuovi infetti. Da anni non sono segnalati casi di infezione dovuti a trasfusione di sangue o emoderivati infetti. Infine, va segnalata la pericolosa progressiva attenuazione della percezione del rischio AIDS nella collettività. Infatti l’AIDS ha cessato di rappresentare un’emergenza. L’attenzione rivolta dai media, dalle istituzioni e anche dalla comunità scientifica è progressivamente crollata. Di AIDS si muore solo eccezionalmente, il rischio di contagio è rimosso. I rapporti sessuali occasionali non sono percepiti a rischio e i soggetti interessati non richiedono il test specifico. Le campagne di informazione sono pressoché inesistenti e i giovani giungono all’appuntamento con le prime esperienze sessuali privi delle adeguate conoscenze. Le conseguenze sono rilevanti sul piano epidemiologico e clinico. Nel 2005, circa la metà delle persone HIV positive ha scoperto il proprio stato in occasione della prima infezione opportunistica e quindi a distanza di anni dal contagio. Si tratta di soggetti inconsapevoli, fonte di contagio e di più difficile trattamento terapeutico. Si stimano in oltre 30-40.000 le persone HIV positive oggi viventi in Italia inconsapevoli del proprio stato.

La terapia

I farmaci per la cura dell’AIDS hanno trasformato un’infezione inguaribile e incurabile, gravata da una mortalità del 100%, in un problema di salute cronico. Questo è un successo che, per la sua rapidità e le sue dimensioni, non ha esempi nella storia della medicina e come tale sarà ricordato. Il primo farmaco, la zidovudina o AZT, è stato disponibile nel 1987, a pochi anni dalla scoperta del virus. Questi pochi anni sono stati sufficienti per comprendere che il danno provocato da HIV sul sistema immunitario non è correlato con la sua presenza ma con la replicazione nelle cellule infette; che la replicazione si realizza attraverso tappe distinte che richiedono l’intervento di specifici enzimi e che questi enzimi sono un ottimo bersaglio sul quale costruire i farmaci antiretrovirali. La strategia si è rivelata vincente: i farmaci preparati per bloccare gli enzimi si sono dimostrati efficaci nel bloccare o ridurre la replicazione virale e, di conseguenza, la progressione clinica. Sono oggi disponibili varie famiglie di farmaci indirizzati contro specifici enzimi: la trascrittasi inversa, le integrasi e le proteasi. Una quarta famiglia di farmaci mira a bloccare l’ingresso del virus nelle cellule, interferendo sul recettore CD4 o sulla gp41, la glicoproteina di fusione. Il percorso che ha portato ai risultati di oggi è stato faticoso e non privo di delusioni. L’AZT ha rappresentato per alcuni anni l’unico farmaco anti-HIV disponibile. La monoterapia è quindi stata per lungo tempo una scelta obbligata, ma la sua efficacia si è ben presto rivelata transitoria. HIV, virus efficientissimo nel produrre mutazioni, imparava rapidamente a selezionare i mutamenti resistenti, capaci di riprodursi anche in presenza del farmaco. La disponibilità di più farmaci ha permesso di passare progressivamente dalla monoterapia alla biterapia e infine all’attuale triterapia, la cosiddetta HAART (Highly Active AntiRetroviral Therapy). L’anno di svolta è stato il 1996, quando, ai farmaci inibitori della trascrittasi inversa, si sono affiancati i farmaci inibitori delle proteasi. L’andamento della mortalità per AIDS testimonia l’efficacia della svolta. Pari al 100% nel 1984, è scesa al 77,5% nel 1994, al 43% nel 1996, al 13,2% nel 2000 e al 9,5% nel 2005. Si può quindi affermare che HIV è oggi causa di un’infezione cronicizzabile anche se non eliminabile. Pertanto, le persone HIV+ che scoprono tempestivamente il proprio stato e si affidano a équipe esperte possono confidare in un’aspettativa e una qualità di vita non dissimili da chi è affetto da altre patologie croniche, come l’ipertensione o il diabete. Alcuni problemi restano tuttavia aperti. L’assunzione dei farmaci antiretrovirali è quotidiana e ininterrotta e richiede attenzione e precisione nell’osservanza degli orari, anche in rapporto con i pasti, e nell’uso di altri farmaci. La stretta adesione alle prescrizioni è irrinunciabile per il mantenimento dell’efficacia nel tempo. La mancata assunzione anche di poche dosi comporta la riduzione della quantità di farmaco nel plasma a livelli inferiori rispetto alla dose inibente il virus. Ciò permette la ripresa della replicazione virale che, in presenza delle dosi sub-inibenti del farmaco, porta inesorabilmente all’emergenza dei virus resistenti. I mutamenti resistenti sono destinati a persistere, rendendo inefficace il farmaco anche quando l’assunzione riprende secondo i ritmi e le dosi corretti. L’insufficiente adesione alle prescrizioni e la conseguente comparsa dei mutanti resistenti sono le principali cause di insuccesso terapeutico.

I soggetti in trattamento sono prevalentemente giovani o giovani adulti. Le possibilità di eradicare definitivamente l’infezione sono oggi inesistenti. Per le persone HIV+ si prospettano pertanto decenni di trattamento. Questa prospettiva pone il problema della tossicità cronica e degli effetti indesiderati a lenta comparsa. L’esperienza dei primi dieci anni di HAART è confortante, anche se sono emerse alcune importanti tossicità, come quella sui mitocondri, particelle sub-cellulari deputate alla produzione di energia nelle cellule, che si è rivelata solo recentemente. La ricerca clinica dovrà prestare particolare attenzione al problema e la ricerca farmaceutica dovrà produrre in futuro molecole non solo sempre più attive ma anche sempre più tollerabili.

Conclusioni

L’AIDS non è mai stato solo un problema sanitario ma ha sollevato sin dal suo insorgere problemi sociali, etici, economici e organizzativi. Generato da virus dell’immunodeficienza delle scimmie in remote regioni della savana sub-sahariana, è oggi diffuso su tutto il pianeta, ma l’andamento epidemico, l’opportunità di cure e l’impatto demografico presentano enormi differenze da paese a paese. Nelle aree più ricche e con una migliore organizzazione sanitaria è cessato l’andamento epidemico e l’infezione da HIV è divenuta un’endemia a trasmissione prevalentemente sessuale. La disponibilità dei farmaci è gratuita. Alle persone HIV+ sono richiesti periodici controlli ematologici e la rigorosa assunzione dei farmaci. I progressi, sotto il profilo clinico, sono di tutta evidenza. Non altrettanto rilevanti sono invece i passi compiuti dalla società civile sul piano dell’accettabilità della persona HIV+. L’AIDS continua a rappresentare una malattia ‘giudicata’. La persona HIV+, prima di essere accettata come cittadino con un problema di salute, è etichettata come trasgressiva. Questo atteggiamento sociale è percepito appieno dalle persone HIV+, costrette a vivere nella più rigorosa clandestinità. Di fatto, per la società civile, le oltre130.000 persone HIV+ che vivono in Italia non esistono. La forzata clandestinità e la difficoltà a condividere con altri il proprio stato e i problemi che ne derivano sono tra le cause di maggior sofferenza per chi è portatore del virus.

Nella maggior parte del pianeta non esistono invece le condizioni economiche e organizzative per la cura dell’AIDS. Il problema economico, sia pur rilevante, non è il solo. Mancano la cultura della moderna medicina e il concetto di contagio, di malattia, di terapia. È carente una condizione organizzativa minimale che permetta lo screening della popolazione, la distribuzione dei farmaci, il controllo dell’adesione alle prescrizioni, dell’efficacia, della tollerabilità. Tuttavia, come talvolta accade nelle vicende dell’umanità, anche la pandemia dell’AIDS non è del tutto priva di ricadute positive. L’entità del fenomeno ha stimolato i migliori centri di ricerca nel mondo. Le conoscenze sui virus hanno subito un’improvvisa accelerazione e da queste sono scaturiti nuovi farmaci antivirali. Tutti i soggetti immunocompromessi ne hanno tratto enormi vantaggi. Per favorire l’assistenza, sono stati incrementati e regolamentati i cosiddetti day-hospital e l’assistenza domiciliare, istituzioni utilizzate oggi anche per varie altre patologie croniche. Il volontariato organizzato è sorto ovunque, con funzione insostituibile di stimolo per le istituzioni, di controllo e verifica. Nei paesi poveri l’AIDS ha prepotentemente svelato alla pubblica opinione lo stato di abbandono di interi sub-continenti. Oggi in questi paesi sono presenti molte associazioni non profit impegnate nella lotta all’AIDS. I risultati sono incoraggianti e dimostrano che anche nelle aree più povere è possibile educare, informare, prevenire e curare. Si tratta di paesi ove ancora oggi si muore di malaria, tubercolosi, polmoniti e diarree: patologie curabili con costi enormemente inferiori a quelli delle cure per l’AIDS. La diffusione della cultura alla salute, che non può essere disgiunta da ogni intervento di lotta all’AIDS, può rappresentare l’occasione per ricadute positive anche sulle numerose altre patologie infettive che nei paesi poveri uccidono come o più dell’AIDS. Se ciò accadesse, le migliaia o i milioni di morti per AIDS potrebbero non essere morti invano.

repertorio

La lotta contro l’AIDS

Il programma UNAIDS

Leader mondiale nella lotta contro l’AIDS è UNAIDS (United Nations Programme on HIV/AIDS), il programma delle Nazioni Unite avviato nel 1996 per promuovere e coordinare le attività di sensibilizzazione, prevenzione e trattamento del virus HIV. La sua creazione si deve all’ECOSOC (Economic and Social Council), organo delle Nazioni Unite destinato a sostenere la cooperazione sociale e lo sviluppo economico.

L’UNAIDS ha sede a Ginevra e mobilita risorse a livello internazionale al fine di procurare il necessario supporto tecnico per le attività di monitoraggio sulla diffusione della malattia e per la pianificazione dei relativi interventi a sostegno degli individui e delle comunità colpite. Opera nella convinzione che la promozione e il rispetto dei diritti umani costituiscano una componente essenziale per prevenire la trasmissione dell’HIV e ridurne il drammatico impatto sulle popolazioni, in particolare quelle più povere. UNAIDS lotta dunque contro la discriminazione sociale nei confronti di chi ha contratto il virus e a tutela delle fasce di popolazione più povere e meno consapevoli dei propri diritti, che sono quelle maggiormente esposte ai rischi del contagio, a causa della mancanza di informazione e delle condizioni in cui sono costrette a vivere. L’azione dell’UNAIDS si articola in cinque punti: a) guidare la lotta mondiale contro l’AIDS e distribuire gli aiuti; b) dare informazioni e assistenza tecnica alle organizzazioni umanitarie che combattono l’AIDS; c) studiare e prevenire la diffusione dell’epidemia; d) promuovere lo sviluppo della cooperazione nazionale al fine di dare una risposta collettiva e non disorganizzata all’epidemia; e) trovare fondi per combattere la malattia e supportare l’azione delle altre agenzie dell’ONU. UNAIDS riunisce gli sforzi e le risorse di dieci organismi internazionali (cosponsors): Banca Mondiale, che fornisce i finanziamenti necessari per l’organizzazione; OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) per prevenire la diffusione della malattia sul posto di lavoro; OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) per il coordinamento dei medici nelle aree più colpite dal virus HIV; PAM (Programma Alimentare Mondiale) per procurare aiuti alimentari ai soggetti già debilitati dalla malattia; UNDP (United Nations Development Programme) per promuovere lo sviluppo economico dei paesi più colpiti dall’AIDS; UNFPA (United Nations Population Fund) per la protezione delle popolazioni gravemente colpite dalla malattia; UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) per il supporto alle popolazioni di rifugiati colpite dal virus HIV; UNICEF (United Nations Children’s Fund) per aiutare i bambini sieropositivi e i loro genitori; UNODC (United Nations Office on Drug and Crime) per prevenire la trasmissione della malattia tra i tossicodipendenti e per curarli; UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) per sviluppare e distribuire materiale informativo sulla malattia. UNAIDS cura la pubblicazione di un rapporto annuale sull’epidemia. Suo direttore esecutivo è, dalla fondazione, l’olandese Peter Piot, vicesegretario delle Nazioni Unite. Al board direttivo partecipano i rappresentanti di 22 governi di tutte le aree geografiche, quelli dei cosponsors, e quelli di cinque organizzazioni non governative, fra cui una di persone affette da virus HIV.

La Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS

In Italia, nel 1987 l’allora ministro della Sanità, Carlo Donat-Cattin, istituì la Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS, composta da infettivologi, immunologi, virologi o esperti di sanità pubblica, con finalità di formazione/informazione, ricerca, assistenza. Nel novembre 2006 si è insediata presso il Ministero della Salute la nuova Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS, alla quale è attribuito l’incarico di fornire indicazioni sui messaggi prioritari oggetto delle campagne di informazione istituzionali e delineare progetti di formazione medica continua, con particolare attenzione ai test e alla gestione della cronicità dell’infezione. Alla Commissione spetta, inoltre, la sorveglianza sui trend epidemiologici nei paesi industrializzati e nel territorio nazionale.

Per quanto riguarda il settore della ricerca, la Commissione fornisce indicazioni sulle modalità di selezione dei progetti e sulla destinazione dei fondi, promuovendo il coordinamento a livello internazionale, i progetti di ricerca multicentrici internazionali finanziabili dall’Unione Europea e gli approcci terapeutici di tipo innovativo.

La Commissione deve inoltre garantire la sorveglianza sui livelli quanti-qualitativi dell’assistenza erogata dal Servizio sanitario nazionale alle persone sieropositive, soprattutto in riferimento all’assistenza ospedaliera e ambulatoriale e alla disponibilità di farmaci e kit diagnostici e di posti-letto in case alloggio. Fa parte dei compiti della Commissione anche l’aggiornamento delle linee-guida per la terapia antiretrovirale. Un altro settore in cui la Commissione deve fornire linee-guida riguarda le priorità più idonee e le modalità di intervento nell’utilizzo di fondi istituzionali a sostegno della lotta contro l’AIDS nei paesi terzi. La Commissione deve infine rappresentare un punto di riferimento, valutazione e sostegno delle istanze e dei bisogni delle persone sieropositive, singole od organizzate in associazioni, con particolare riguardo alla salvaguardia dei diritti civili, in specie nell’ambito dell’educazione, dell’assistenza, del lavoro e della riservatezza. La Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS si avvale della collaborazione della Consulta del volontariato, composta dai rappresentati di 25 associazioni non profit (Associazione essere bambino; Associazione europea per la comunicazione sociale nei paesi balcanici e del Mar Nero; Associazione gruppo Abele; Associazione italiana per la ricerca sull’AIDS e per la lotta alle malattie e alla disinformazione sanitaria; Associazione Mario Mieli; Associazione Mondo X; Associazione nazionale italiana lotta all’AIDS; Associazione nazionale per la lotta contro l’AIDS; Associazione Politrasfusi Italiani Associazione; Positifs; Associazione Saman; ArciGay; Archè; Caritas italiana; Centro italiano di solidarietà; Centro nazionale per il volontariato; Comunità Incontro; Comunità di S. Egidio; Comunità San Benedetto; Comunità S. Patrignano libera; Coordinamento italiano case alloggio/AIDS; Coordinamento nazionale comunità di accoglienza; Dianova; Federazione delle associazioni emofiliche; Forum AIDS Italia; Gaynet; Lega italiana per la lotta contro l’AIDS; Network delle persone sieropositive; Nadir). La Consulta esprime pareri e formula proposte nelle materie concernenti la lotta contro l’AIDS, con particolare riguardo alle questioni informativo-educative, psico-sociali, etiche, dell’assistenza e della prevenzione.

Aspetti giuridici

La diffusione della sindrome da immunodeficienza acquisita e il conseguente allarme nella collettività hanno imposto l’adozione di provvedimenti legislativi in materia, a livello nazionale e mondiale. In Italia le azioni legislative sono iniziate negli anni 1980. Nel 1983 il Ministero della Sanità ha emesso la prima circolare sulla sindrome da immunodeficienza acquisita.

Negli anni successivi sono state emanate varie circolari su rilevamento, sorveglianza e profilassi dell’AIDS, sulla tutela dello stato di salute e sull’assistenza ai tossicodipendenti, sulle misure di prevenzione della diffusione della sindrome da immunodeficienza acquisita tra i tossicodipendenti, sull’esecuzione di vaccinazioni obbligatorie in bambini nati da madre sieropositiva per HIV, sulle misure di prevenzione della trasmissione del virus HIV e di altri agenti patogeni attraverso il seme umano impiegato per fecondazione artificiale; sono state inoltre emesse linee-guida di comportamento per gli operatori sanitari per il controllo delle infezioni da HIV. Un programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS fu stabilito con la l. 5 giugno 1990, nr. 135. In primo luogo questa legge istituiva un Comitato interministeriale per la lotta contro l’AIDS, al quale venivano demandati il coordinamento degli interventi per l’attuazione del piano globale di lotta all’AIDS e l’indicazione delle misure necessarie per adattare gli interventi e le risorse finanziarie alle evoluzioni dell’epidemia da HIV. La legge prevedeva la predisposizione di piani pluriennali e l’attuazione di interventi per l’osservazione epidemiologica; il rafforzamento e la realizzazione di reparti ospedalieri destinati alle persone colpite dalla sindrome; il potenziamento dell’assistenza domiciliare; la preparazione di personale specificamente qualificato, del cui organico veniva pianificato un cospicuo aumento. La l. nr. 135 programmava inoltre attività di prevenzione generale e di protezione dal contagio professionale nonché di campagne di informazione. Infine, la legge prescriveva la tutela dell’anonimato delle persone per le quali fosse accertata l’infezione, con il divieto per i datori di lavoro di verificare, nei dipendenti o nelle persone prese in considerazione per un eventuale rapporto di lavoro, l’esistenza di uno stato di sieropositività. Dopo la sentenza nr. 218 del 1994 della Corte Costituzionale, però, devono ritenersi possibili accertamenti sanitari sull’assenza di sieropositività come condizione per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute di terzi. Sempre nel 1990 furono emanati anche vari decreti riguardanti misure dirette a escludere il rischio di infezioni epatiche da trasfusione di sangue e norme di protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie e assistenziali pubbliche e private. Al 1992 risalgono la l. 25 febbraio nr. 210, riguardante l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati infetti, e il d.m. 30 dicembre, sulle misure dirette a escludere il rischio di infezione da HIV da trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati. Poiché uno degli ambienti più a rischio di diffusione dell’infezione è il carcere, l’art. 286 bis cod. proc. pen. e l’art. 146, comma 1°, nr. 3, cod. pen. (introdotti con il d.l. 14 maggio 1993, nr. 139, convertito in l. 14 luglio 1993, nr. 222) avevano previsto il divieto di mantenimento della custodia cautelare in carcere e il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le persone affette da AIDS, per le quali ricorresse una situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione. Tali norme furono dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Corte Costituzionale (sentenze nr. 438 e 439 del 18 ottobre 1995) nella parte in cui, in assenza di pregiudizio per il soggetto e per gli altri detenuti, precludevano la custodia in carcere (resa necessaria da esigenze cautelari di eccezionale rilevanza) e imponevano il differimento della pena. In seguito, la l. 12 luglio 1999, nr. 231, modificando gli art. 275, 276, 286 bis e 299 cod. proc. pen., ha stabilito che non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (sindromi accertate secondo i criteri dettati da un apposito decreto ministeriale) ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. In tali ipotesi, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia in carcere presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell’imputato o per quella degli altri detenuti, il giudice deve disporre la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura, di assistenza o di accoglienza. Solo quando il soggetto abbia trasgredito le prescrizioni inerenti alla misura applicata o risulti imputato di un delitto per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza per fatti commessi dopo l’applicazione della misura, il giudice può disporre che egli sia condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. Tuttavia la custodia in carcere non può essere disposta o mantenuta quando la malattia si trovi in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative. In base all’analoga disposizione, che ha nuovamente modificato l’art. 146 cod. pen., anche l’esecuzione della pena detentiva deve essere differita in presenza di tali condizioni. A livello internazionale, nel 1998 UNAIDS e OHCHR (Office of the High Commissioner for Human Rights) pubblicarono in collaborazione le International Guidelines on HIV/AIDS and Human Rights come strumento per gli Stati membri per definire, coordinare e implementare le politiche e le strategie nazionali in materia. Sempre nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite devono essere poi ricordate le risoluzioni adottate nel 2001 dall’ECOSOC, una sulla protezione dei diritti umani nel contesto dell’HIV e dell’AIDS, l’altra (completata nell’anno successivo) sull’accesso ai farmaci nei casi di pandemie come HIV e AIDS. Nello stesso 2001 l’ONU riservò una sessione speciale dell’Assemblea generale al tema HIV-AIDS, intitolata Crisi globale, azione globale, con il duplice scopo di promuovere un partenariato ai più alti livelli per intensificare e accelerare l’azione internazionale e di mobilitare le risorse necessarie. Nel 2003, anno in cui la 58a sessione dell’Assemblea generale fu dedicata ai progressi verso la realizzazione della dichiarazione di impegno verso HIV e AIDS, la Commissione per i diritti umani emanò una risoluzione per richiamare gli Stati membri al rispetto delle linee-guida indicate nel 1998 e sollecitare l’abolizione nelle legislazioni nazionali di ogni norma discriminatoria verso le persone affette da HIV.

Nello stesso 2003, per parte sua, l’Unione Europea ha emanato più decisioni per la partecipazione della Comunità a un programma di ricerca e sviluppo per la lotta contro le malattie legate alla povertà (oltre a HIV/AIDS, tubercolosi e malaria) nei paesi in via di sviluppo, grazie a un partenariato a lungo termine, realizzato da più Stati membri; un regolamento specifico è inteso a definire un sistema globale di graduazione dei prezzi per i medicinali essenziali di prevenzione, diagnosi e trattamento dell’HIV/AIDS, della tubercolosi e della malaria nonché delle malattie a esse connesse per i paesi in via di sviluppo più poveri, e a prevenire la diversione di questi prodotti verso altri mercati con l’introduzione di efficaci misure di salvaguardia.

bibliografia

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K.A. Sepkowitz, One disease, two epidemics-AIDS at 25, «New England Journal of Medicine», 354, 23, 2006.

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