ALBERICO da Barbiano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960)

ALBERICO da Barbiano

Pietro Pirri

Nacque a Barbiano attorno al 1348 dalla famiglia dei conti di Cunio (castello distrutto nel sec. XVI), signori d'una discreta zona nel territorio romagnolo a nord di Faenza, colle terre di Lugo, Massalombarda e Barbiano. Apparteneva a una schiatta di gente guerriera e ambiziosa e a un paese ch'era un vivaio di genti d'arme (a breve distanza da Barbiano è Cotignola, la terra degli Attendoli). Nel 1376 si trovava al seguito dell'inglese Giovanni Hawkwood (Acuto) che operava in Romagna al servizio della Chiesa e con lui e con le bande bretoni era al sacco di Faenza, e l'anno dopo, già al comando di duecento lance, alla repressione della sollevazione di Cesena. Ne venne nell'animo suo, d'un uomo di guerra del sec. XIV, un senso di pietà per le sue terre così devastate dallo straniero, unito a un risveglio di sentimento patrio di fronte all'oltracotanza oltramontana; e volle creare una compagnia tutta italiana: il nucleo era dato dalla gente dei suoi feudi e della sua straziata Romagna, ma ad essa si aggiunsero Italiani d'ogni regione, prima mescolati in piccoli gruppi nelle grandi compagnie straniere. Sorse così la compagnia di San Giorgio, dal nome dell'ufficiale dell'esercito romano, martire sotto Diocleziano, divenuto colle crociate il patrono dei cavalieri. Si ha così il nucleo delle nuove compagnie di ventura italiane, destinate a soppiantare, in poco più d'un ventennio, le compagnie straniere prevalenti nella nostra penisola da una quarantina d'anni: i cavalieri si sentono legati al loro capo, un profondo spirito di corpo pervade le nuove unità, tattiche e organiche al tempo stesso, i rischi affrontati insieme e le comuni vittorie aumentano la coesione; i combattenti della compagnia sentono di formare un' aristocrazia delle armi e del valore.

Nell'estate del 1378 Alberico era assoldato da Bernabò Visconti per combattere gli Scaligeri, e nel marzo '79 portava sul Po la sua compagnia, quando lo chiamava a Roma il nuovo papa Urbano VI a difesa contro Roberto di Ginevra, già legato per le Romagne e le Marche al tempo delle stragi di Cesena e divenuto poi antipapa Clemente VII, il quale aveva assoldato la compagnia dei feroci Bretoni guidata dal suo stesso nipote Luigi di Montjoie. Presso Marino il 29 aprile A. riportava contro i Bretoni una famosa vittoria: più che tattica nuova, un ritorno, forse occasionale, alla forma della vecchia battaglia del periodo comunale, con azione coordinata di cavalieri e fanti. La sua avanguardia di cavalleria fu respinta e pure scompigliata si trovò la retrostante massa dei balestrieri e pavesati romani; ma A. attaccava allora da destra e da sinistra pigliando di fianco e alle spalle i cavalieri nemici, uccidendone molti, facendone prigionieri molti altri. La sera egli faceva in Roma un'entrata trionfale: Urbano VI lo creava cavaliere di Cristo e gli regalava uno stendardo colla scritta Italia dai barbari liberata.

In realtà, però, A. non aveva un così vasto programma.

A. conquistava in seguito vari castelli del territorio romano; e l'anno dopo, 1380, moveva verso la Toscana, spinto da desiderio d'avventura e di guadagno e sollecitato anche dai fuorusciti di Firenze; questa gli opponeva le compagnie dell'Acuto e del conte di Lando; e quest'ultima aveva un successo il 1 apr. 1380 contro una parte della compagnia di San Giorgio a Malmantile, presso la stretta della Gonfolina; e A. si volgeva allora verso Lucca, e le carpiva diecimila formi per lasciarla in pace, poi retrocedeva nella Maremma. Intanto scendeva alla volta di Napoli, contro la regina Giovanna I fautrice dell'antipapa, Carlo III di Durazzo, e A. s'univa a lui, che, dopo essersi fatto signore d'Arezzo, proseguiva per il Senese e l'11 settembre entrava in Roma, dove faceva una sosta di sette mesi. Pare che A. divenisse uomo di fiducia del pretendente angioino-ungherese e particolarmente ascoltato; e accanto a Carlo di Durazzo si trovava l'anno dopo durante le operazioni nel Regno che portarono all'entrata trionfale in Napoli il 26 ag. 1381. Nel novembre dello stesso anno era a Todi; chiamato contro Arezzo in rivolta, dal governatore angioino rifugiatosi nel castello, accorreva insieme alla compagnia dell'Uncino, guidata dal marchigiano Villanuzzo di Roccafranca, e a grosse squadre di Bretoni e di Ungari, penetrava nella disgraziata città e l'abbandonava a un orribile saccheggio.

Ora A. tornava a minacciare Firenze, e questa tornava ad assoldare mercenari inglesi e tedeschi. Soprattutto l'Acuto fronteggiava abilmente la compagnia dell'Uncino e quella di San Giorgio, finché nell'estate 1382 A. sempre al servizio di Carlo di Durazzo passava in Romagna per trattenere Luigi I d'Angiò, che con poderoso esercito e ingrossato dalle schiere sabaude del Conte Verde moveva alla difesa della regina Giovanna I, vinta e prigioniera. Dopo aver invano cercato di fermarlo davanti a Forlì e a Cesena, A. retrocedeva nel Regno, e tornava ad essere il consigliere di Carlo III. Questi si teneva sulla difensiva, e Luigi d'Angiò, giunto il 30 ottobre a Maddaloni, non osava attaccare Napoli e dopo due settimane retrocedeva prima nel Molise, poi in Puglia.

Nell'aprile 1383 Carlo di Durazzo muoveva con un poderoso esercito contro l'avversario, e a capo di tutti aveva posto A. da B., sebbene fra i condottieri assoldati ci fosse ora anche l'Acuto. Ma in Puglia Luigi si tenne costantemente sulla difensiva e alla fine si chiuse in Taranto; d'altra parte Carlo di Durazzo non era prodive ad arrischiare tutto in una battaglia. Così la guerra languiva anche l'anno successivo, finché il 21 sett. 1384 la morte liberava il Durazzesco dal grande rivale.

Sembra tuttavia che Carlo fosse rimasto assai soddisfatto dell'opera e dei consigli d'A., se già al principio dell'estate l'aveva nominato gran connestabile del Regno.

Sempre accanto al nuovo sovrano troviamo nel 1385 A., allorché, in seguito alla violenta rottura di Carlo con Urbano VI, quest'ultimo lasciava Napoli ed era assediato in Nocera. Poi otteneva di recarsi in Romagna ad aiutare il fratello Giovanni nella riconquista del castello di Barbiano, preso dai Bolognesi. Nell'estate del 1385 il re Carlo sollecitava il suo ritorno, in vista dell'impresa d'Ungheria; e A. nel settembre era a Manfredonia e s'imbarcava con lui e con alcuni altri condottieri. Ma l'avventuroso sovrano periva tragicamente il 3 giugno 1386 e la vedova Margherita cercava quale reggente di conservare il trono al figlioletto Ladislao; ma doveva il 13 luglio 1387 riparare a Gaeta. A. si trovava a difendere la regina reggente in condizioni particolarmente difficili. Anche ora, nell'alta carica di gran connestabile, appare soprattutto come consigliere mentre diviene endemica la guerriglia fra Durazzeschi e Angioini, seguaci del giovinetto Luigi Il, sotto la reggenza anch'egli della madre Maria. Nell'inverno 1389 la corte di Gaeta si trova ad avere presso di sé Ottone di Brunswick e Giovanni Acuto; e nell'aprile è tentata la riconquista di Napoli, ma invano. A. continua ad avere una posizione preminente e gli è conferita in Puglia la signoria di Trani e di Giovinazzo; quindi nel 1390 èfatto vicereggente delle Calabrie, regione ove il partito angioino è forte; e l'opera sua coraggiosa e accorta ottiene notevoli successi. Nel 1392 la corte di Gaeta, forse contro il parere di A. e di altri condottieri, vuole iniziare una energica campagna contro il partito angioino, indebolito, sembra, da gravi discordie: contro gli Abruzzi, Ladislao in persona, contro le Puglie, A. con Ottone di Brunswick. Ma se l'azione contro l'Abruzzo non dà risultati durevoli, quella di Puglia si risolve, per opera dei Sanseverino, in un vero disastro: il campo durazzesco è assalito di sorpresa il 24 aprile: A. e Ottone sono fatti prigionieri, e si riscattano impegnandosi fra l'altro anche a non combattere più per dieci anni contro di loro. A. è allora chiamato in Lombardia da Gian Galeazzo Visconti, che versa per lui 30.000 scudi, e il condottiero romagnolo s'impegna a servirlo fino a tutto il gennaio 1403.

Il Visconti, mentre la rivale Firenze ancora si serve largamente di condottieri d'oltralpe, tende a riunire presso di sé i migliori condottieri italiani; e fra questi emerge soprattutto lacopo Dal Verme. Nel 1397, mentre in Lombardia il grosso delle forze viscontee attacca sotto la sua guida, il marchese di Mantova, A. èmandato in Toscana, per vincolare le forze della Repubblica di Firenze. È morto da tre anni l'Acuto, e lo sostituisce come può il guascone Bernardo di Serres, capo della compagnia della Rosa, il quale si pone presso Pescia. A., che finge d'agire per conto proprio e ha con sé vari buoni condottieri, come Ottobuono Terzi di Parma, Ceccolino e Biordo Michelotti di Perugia, Paolo Orsini e Paolo Savelli di Roma, nonché il proprio fratello Giovanni, volge a destra per il Valdarno inferiore, sperando che San Miniato abbia a ribellarsi ai Fiorentini. Ma un tentativo di fuorusciti fallisce, ed egli allora si volge verso Siena, poi finge di muovere contro il Valdarno Superiore. Bernardo di Serres si dirige allora da quella parte, e A. si spinge tosto fin sotto le mura di Firenze, facendo grandi prede. Ma la Repubblica riesce ora ad attrarre a sé Paolo Orsini e i due fratelli Michelotti, mentre Giovanni da Barbiano passa con mille cavalli al servizio dei Bolognesi, nemici del Visconti. Per di più, il.28 agosto, durante una momentanea assenza di lacopo Dal Verme, i Viscontei subiscono la grave rotta di Governolo. A. deve allora accorrere in Lombardia; e contribuisce non poco a risollevare le sorti dei Viscontei, spingendosi fino alle porte di Mantova. Quindi le truppe si pongono ai quartieri d'inverno e il 26 maggio 1398 è stipulata una tregua decennale.

Nel settembre 1399 Giovanni da Barbiano, mescolatosi alle aspre• contese civili di Bologna, era fatto prigioniero e giustiziato per consiglio di Giovanni Manfredi, signore di Imola. A. intese vendicarlo e ottenne dal Visconti che numerosi condottieri lo seguissero, fra cui il Dal Verme e Pandolfo e Carlo Malatesta. In soccorso di Bologna accorrevano da Padova i Carraresi lacopo e Francesco, e da Firenze Bernardo di Serres. Si aveva una lunga guerriglia senza risultati decisivi, quando le forze viscontee erano richiamate in Lombardia per fronteggiare l'esercito del re dei Romani, Roberto di Baviera, che da Trento, per la Val Trompia, calava su Brescia. Il 24 Ott. 1401 l'esercito tedesco subiva per merito dei condottieri italiani una grave rotta, e tosto retrocedeva. A. col Dal Verme, Facino Cane e altri condottieri viscontei tornava l'anno seguente contro Bologna, signoreggiata da Giovanni I Bentivoglio, e di nuovo aiutata dai Carraresi e dai Fiorentini, guidati da Bernardo di Serres. Il 26 giugno 1402 le forze collegate molto inferiori di numero subivano la memoranda sconfitta di Casalecchio: Bernardo e i Carraresi erano fatti prigionieri, il Bentivoglio riparava a Bologna, che tosto acclamava il Visconti, ed egli era preso e ucciso. Firenze era ormai isolata, quando Gian Galeazzo moriva di peste il 3 settembre dello stesso anno.

A. che aveva ricevuto in premio della conquista di Bologna le terre di Castelbolognese e Tossignano, allo scoppiare della grave crisi provocata dall'improvvisa morte del duca di Milano, accettava di condurre la guerriglia contro l'indomata Firenze. Ma nel febbraio 1403, scaduto l'obbligo decennale coi Visconti, abbandonava la Reggenza e passava dalla parte della Lega antiviscontea; e da Cremona, divenuta il quartier generale dei nemici del ducato, dirigeva una minuta guerra di devastazione. Poi, al servizio del papa, si adoperava perché tornassero alla Chiesa le molte terre conquistate da Gian Galeazzo, mentre per sé chiedeva solo di poter conservare le sue terre, vecchie e nuove, di Romagna; e ciò riusciva ad ottenere, pur attraverso non poche lotte col cardinale legato di Bologna, Baldassarre Cossa. Nell'inverno del 1405 A. moveva contro Padova, ma l'oro veneziano valeva a distorglierlo dall'impresa.

Ormai il ducato di Milano sembrava destinato a divenire preda delle potenze confinanti e dei condottieri, senza che ad A. venisse fatto di partecipare al bottino; ed egli prestava l'orecchio all'invito che Ladislao, re di Napoli gli faceva; e tornava nella terra dove aveva avuto le maggiori fortune; nel febbraio 1406 era accanto a Ladislao, come suo consigliere, nella spedizione contro Taranto, tenuto dalla vedova di Raimondo del Balzo, Maria d'Enghien. E rimaneva presso Ladislao, con la carica di gran connestabile, e in un documento del 1408 era detto "intimus Regiae Maiestatis". Ma è dubbio che avesse presso l'energico sovrano l'autorità d'un tempo. Occupata Perugia, alla fine di quell'anno, egli era mandato da Ladislao a rafforzare la conquista della città e dell'Umbria, e a Città della Pieve veniva a morte il 26 apr. 1409.

Non è facile un giudizio su A. da B., nè si ha su di lui alcun lavoro speciale. Certo giovò molto alla sua fama la costituzione della compagnia di San Giorgio, tutta italiana, e la vittoria di Marino. Ma due anni dopo si trovava cogli stessi Bretoni da lui vinti e cogli Ungari all'orrendo sacco di Arezzo. Due sono le battaglie veramente vinte da lui, quella di Marino e l'altra di Casalecchio. Della prima abbiamo già detto; la seconda, in cui pure mise in fuga la compagnia della Rosa, francese, è dovuta soprattutto alla notevole superiorità numerica. Fra i condottieri della seconda metà del sec. XIV superiori a lui, ci sembra, sono l'Acuto e specialmente lacopo Dal Verme. E quanto alla sua azione di maestro d'un'intera generazione di nuovi condottieri, ben poco in realtà sappiamo; così come delle sue innovazioni tattiche. Fu soprattutto stratega prudente e avveduto, buon giudice delle situazioni, valente consigliere; e senza dubbio a lui spetta un posto notevole nella storia dei nostri condottieri.

Bibl.: E. Barelli, De Alberico cognominato Magno, Mediolani 1782; E. Solieri, Alberico da Barbiano, Jesi 1908; E. Ricottì, Storia delle Compagnie di Ventura, II, Torino 1844, pp. 169 ss.; E. R. Labande, Rinaldo Orsini comte de Taglia-cozzo, Monaco-Paris 1939, passim; G. Temple Leader e G. Marcotti, Giovanni Acuto, Firenze 1889, passim; A. Valente, Margherita di Durazzo vicaria di Carlo III e tutrice di Re Ladislao, Napoli 1919, passim; A. Cutolo, Re Ladislao d'Angiò-Durazzo, Milano 1936, I e II, cfr. Indice; N. Valeri, L'eredità di Giangaleazzo Visconti, Torino 1938, pp. 99-113; F. Giorgi, Albeneo e Giovanni da Barbiano nel Bolognese, in Atti e Mem. d. R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 3, XII (1894).

Per la battaglia di Marino vedi L. Fumi, Notizie ufficiali sulla battaglia di Marino, in Studi e documenti di storia e diritto, VII, 1886, pp. 3-4; A. Natale, La felice Società dei balestrieri e dei pavesati a Roma e il governo dei banderesi dal 1358 al 1408, Roma 1940, pp. 83-4

Per la battaglia di Brescia vedi T. Lindner, Zur deutschen Geschichte im fünfzehnten Jahrhundert, I: Die Schlacht bei Brescia in October 1401, in Mitteilungen des Instituts fur oesterreichische Geschichtsforschung, XIII (1892) pp. 377 ss.; N. Valeri, La vita di Facino Cane, Torino 1940, pp. 108-113.

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