GLIRIČIĆ, Alberto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GLIRIČIĆ, Alberto (de' Gliricis, Ivan Albert Gliričić, Duimi, Duymi, Duymic o Doymi)

Fiamma Satta

Nacque intorno al 1510 a Cattaro, dominio veneto (oggi Kotor, nel Montenegro). L'appellativo Duymic (poi latinizzato in Duimius) derivò dal padre, Doimo, il cui nome era assai diffuso in quell'area. Il G. entrò molto giovane nel convento domenicano di Cattaro e dal giugno del 1539 iniziò i suoi studi universitari a Bologna, da cui per motivi imprecisati si allontanò e dove fu riammesso il 9 febbr. 1541. Completati gli studi e acquisito il titolo di magister, divenne professore di teologia e lettore delle Sacre Scritture alla Sapienza di Roma. Dal febbraio 1545 fu anche rettore dell'Università di Siena. Un litigio all'interno dell'Ordine, avvenuto nel luglio 1546 e risoltosi in suo favore, è la prima testimonianza del suo carattere poco accomodante che condizionerà il corso della sua vita. Assegnato definitivamente, nel dicembre 1546, alla provincia del suo convento originario gli fu però consentito di rimanere nella Curia romana come consigliere teologo del cardinale Uberto Gambara.

Diventato uno dei teologi preferiti di Paolo III, entrò a far parte della commissione romana, formata da cinque teologi, fra cui Bartolomeo Spina e il generale dei domenicani Francesco Romeo, che doveva elaborare e compilare cinque bozze di decreti sulla questione della giustificazione, che fra le definizioni dogmatiche del concilio fu, com'è noto, tra le più difficoltose. I cinque "giudizi", perduti, furono spediti a Trento il 17 luglio 1546 insieme con una lettera del cardinale Guido Ascanio Sforza ai legati pontifici, in cui il G. era definito "ben letterato ancorché molto giovane" (Concilio Tridentino, X, p. 566).

Nell'aprile del 1547 il G. curò la prima edizione, insieme con Bartolomeo Spina e con il favore di Paolo III, del Tractatus de veritate Conceptionis b. Virginis… (Romae 1547), una relazione di Juan de Torquemada composta nel 1437 e presentata dal teologo spagnolo al concilio di Basilea. A causa della morte di Bartolomeo Spina, che nell'operazione aveva avuto un ruolo preponderante, il G. compose gli indici dell'opera e ne scrisse la prefazione, nota come Epistola praeliminaris, la quale è l'unico suo scritto edito. Nell'Epistola egli affermò che fu lo stesso Spina a chiedere la sua collaborazione per la revisione e la correzione del Tractatus, e che sebbene "publica lectura impeditus", egli accettò volentieri l'incarico. Espose quindi la sua tesi secondo la quale la Madonna sarebbe nata, come ogni altro essere umano, con il peccato originale e confermò la necessità di attenersi alla semplicità delle Sacre Scritture. L'argomento era estremamente scottante e se ne era discusso molto anche a Trento, senza però addivenire a delle conclusioni dogmatiche, proprio a causa dei forti contrasti suscitati. Così, quando venne alla luce l'opera di Torquemada ancora persisteva l'eco di quegli scontri conciliari: ne nacquero subito polemiche in ambiente curiale e l'Epistola fu definita "arrogantissima" dal teologo Ambrogio Politi, detto il Catarino, il quale confutò le tesi del Gliričić.

Dal giugno del 1547 partecipò al periodo bolognese del concilio, intervenendo, nella decima sessione, al dibattito sulla penitenza, sul purgatorio e sulle indulgenze. Il pensiero del G. in questa circostanza fu in linea con la teologia ufficiale, la quale doveva confrontarsi con la dottrina luterana secondo cui la morte avrebbe estinto le pene previste per i peccati, venendo così a togliere consistenza al purgatorio e alla pratica delle indulgenze: per il G. il purgatorio come luogo di espiazione, la cui esistenza era provata dalle Sacre Scritture, nulla avrebbe tolto all'opera redentrice, e di Cristo. Egli si mostrò quindi favorevole alla teoria delle indulgenze poiché il sacerdote, come ha il potere di infliggere una pena, così ha quello di cancellarla. Ammise inoltre l'esistenza di un "tesoro della Chiesa" costituito dai meriti dei santi morti senza peccato, che la Chiesa distribuisce sotto forma di indulgenze per i defunti. Secondo il G. la morte non comporta il venire meno della pena per il peccato originale, altrimenti il tribunale divino perderebbe il suo valore. Solo su quest'ultimo punto il G. incontrò la forte opposizione del francescano Antonio Delfino, secondo il quale la morte avrebbe invece condotto alla pena per tutti i peccati veniali.

Probabilmente come riconoscimento per il suo contributo al concilio, nel luglio 1549 fu assegnata al G. la diocesi di Modruš, nella Croazia settentrionale, territorio che dal 1527 era passato sotto il dominio dell'imperatore Ferdinando I. A causa delle sanguinose guerre contro i Turchi, che in quel periodo rendevano travagliatissima la vita delle diocesi croate, Modruš fu invasa e distrutta; appena un anno dopo, il 19 marzo 1550, il G. fu quindi trasferito: era stato eletto vescovo di Veglia (oggi Krk), isola che si trovava sotto il dominio veneto. Una delle sue prime decisioni fu quella di uniformare i diversi toponimi della sua diocesi in "Veglen".

Tra il 1553 e il 1554 risiedette a Roma, dove era membro della Confraternita di S. Girolamo degli Illiri, di cui fu presidente dalla primavera del 1554, carica semestrale alla quale rinunciò probabilmente perché Giulio III gli aveva assegnato la giurisdizione di Modruš (il papa stesso comunicò a Ferdinando I questa disposizione, pregandolo di favorire il G.) cosicché alla fine del 1554 si trasferì nella sua diocesi, dove risiedette fino al 1561.

In questi anni la sua attività pastorale risulta molto intensa: tra le iniziative del G. il tentativo, fallito, di fondare un seminario in lingua paleoslava per i chierici che non parlavano il latino. Ciò va inquadrato nel suo impegno diretto a dare voce e legalità alla liturgia in scrittura glagolitica, da sempre utilizzata nella sua diocesi. Tale impegno sarà successivamente manifestato dal G. in sede conciliare, quando difenderà la liturgia paleoslava dal sopravvento del latino; fu probabilmente sotto la sua influenza che nel 1561 fu stampato a Venezia un messale in caratteri glagolitici.

In questi anni, a Veglia, il G. si inserisce nel perenne dissidio fra l'autorità ecclesiastica e il potere temporale veneziano. In particolare nel gennaio del 1558 forte è l'attrito tra il vescovo e il podestà di Veglia, Angelo Gradenigo: la lite verteva sui beni ecclesiastici e sul pagamento della decima che il G. difendeva dalle pretese di abolizione. Nel dicembre del 1558 fu oggetto di un attentato in cui rimase ferito a una mano: rifugiatosi a Venezia, presso il legato apostolico, denunciò i suoi quattro attentatori, che furono in seguito processati e scomunicati. Importante fu, tra le altre iniziative diocesane, la visita pastorale iniziata il 27 dic. 1561.

In seguito alla riapertura del concilio e alla grave diserzione dei prelati che vi avrebbero dovuto partecipare, giunse al G. una lettera di Pio IV, datata 19 febbr. 1561, in cui il papa lo invitava perentoriamente a Trento, pregandolo di passare per Roma. Nonostante il pressante invito, il G. giunse però a Trento solo il 3 luglio 1562. In questa fase del concilio la figura del G. acquisì rilievo: con una serie di interventi, soprattutto sui canoni di riforma, egli si dimostrò favorevole alla politica conciliare di Ferdinando I e al suo libello pervenuto a Trento nel giugno del 1562. Da allora i contributi del G. alle questioni conciliari furono fortemente caratterizzati dall'influsso che l'ambiente veneto esercitò sul suo pensiero. Il primo intervento del G. fu dell'8 luglio, quando, inserendosi nel dibattito sulla dottrina dell'eucarestia, si dichiarò favorevole alla concessione del calice ai laici in quei territori, come Cipro e Candia, dove la comunione sotto le due specie era un'abitudine. Numerosi erano gli ortodossi che, spinti a Nord dalle invasioni turche, comunicandosi anche con il vino davano una precisa connotazione alle popolazioni cristiane dei territori di Venezia e di Ferdinando I. Secondo il G. condannare un tal grande numero di cristiani sarebbe stato dannoso.

L'11 luglio seguente il G. intervenne sulle ordinazioni gratuite e si mostrò favorevole all'abolizione del pagamento delle dispense, senza volerne escludere la Curia. Paolo Sarpi, descrivendo l'intervento del G., sottolineò l'esplicita denuncia della corruzione della Curia romana contenuta nelle parole del Gliričić. A partire da questo momento la permanenza a Trento del G. risultò ai curialisti oltremodo scomoda. Il 5 agosto, per la festa di S. Domenico di Guzman, il G. tenne una predica nella chiesa di S. Lorenzo in cui anticipò la sua posizione favorevole allo ius divinum derivato ai vescovi. Non sembra che la predica, nota come Oratio, sia stata stampata. Nell'agosto-settembre dello stesso anno intervenne nel dibattito sui canoni della dottrina della messa; in particolare egli compilò una modifica al canone sugli abusi della messa, nota come Canon de emendatione quarundam rerum in missa per Vegliensem…, in cui il G. sottolineò come durante il rito sacrificale si dovessero evitare atteggiamenti poco convenienti, e precisò che tali disposizioni dovevano essere riportate nel Messale, che stava per essere pubblicato. Nel dibattito conciliare egli lamentò che su cento abusi segnalati nel passato, ne erano rimasti solo nove, e non erano i più gravi. Il G. fu quindi l'unico, insieme con il vescovo di Granada, a negare il "placet" al decreto sulla messa, e manifestò questo suo allineamento con i pareri dei teologi spagnoli soprattutto negando alla Cena di Cristo il valore sacrificale, poiché la vera oblazione si sarebbe compiuta solo sulla croce (tale concetto veniva fortemente avversato dal generale dei gesuiti Diego Lainez). Inoltre il G. propose la difesa della messa in volgare adducendo l'esempio di Gerusalemme, dove era celebrata in tutte le lingue.

Con i suoi interventi sul sacramento dell'Ordine e sulla questione della residenza, nell'ottobre-novembre del 1562, il G. segnerà il suo definitivo allontanamento da Trento: la sua aperta dichiarazione circa la natura divina del potere dei vescovi significava mettersi in contrasto con il papa, rappresentato in concilio dal legato Simonetta, e schierarsi con gli anticurialisti spagnoli che da sempre contendevano al pontefice la libertà di azione dei loro vescovi. Evidentemente l'intervento del G. non fu dei più pacati se si scrisse che fece "un gran rumore […] che ognuno ne sente anco lo strepito negli orecchi" (Concilio Tridentino, IX, p. 141). Secondo il G. lo ius divinum dei vescovi avrebbe reso più accettabili ai protestanti i decreti conciliari. Tutto questo veniva a collocarsi come presupposto del decreto di riforma sulla residenza, la questione più spinosa del concilio, che fu il tema dell'ultimo intervento del G. a Trento, il 18 dic. 1562: il suo voler paragonare la figura del vescovo a quella del buon pastore che perde la sua vita per il gregge o il suo insistere con "veemenzia dalmatina con assai delli modi di S. Gironimo e parole tolto da quello di peso" (Sarpi, p. 817) sulla tesi della residenza de iure divino non piacque ai legati, che tendevano a sorvolare sulla questione per evitare le forti tensioni nate in proposito.

Con il suo carattere iroso e polemico, il G. si dimostrò in questa circostanza poco duttile e non rinunciò ad affermare pubblicamente la corruzione dei prelati. Del 18 novembre è una lettera del cardinale Carlo Borromeo a un legato conciliare in cui si comunica il desiderio del papa di riavere a Roma il G. "sotto specie di qualche negotio" (Die Römische Kurie, III, p. 83). La risposta giunse da Trento il 26 novembre: "Quanto al vescovo di Veglia non ci sapremo immaginare che pretesto potressimo havere di mandarlo di qui, per la qualità dell'huomo che non comporta che sopra di lui si faccia disegno" (ibid., p. 85); il pretesto lo fornì il G. stesso chiedendo una licenza per potersi recare a Venezia, dove sicuramente aveva ancora da definire alcune questioni relative al processo dei suoi assalitori. Sotto le insistenze del Borromeo ("ma in qual si voglia modo S. S.tà desidera che sia levato di costà", ibid., pp. 104 s.) fu concessa e prolungata la licenza del G., che partì da Trento il 21 dic. 1562 e non vi tornò più. Da Venezia si recò direttamente a Roma, dove Pio IV gli affidò un incarico nel S. Uffizio, con l'alto stipendio di 40 scudi al mese. Evidentemente la vicenda dell'allontanamento del G. da Trento ebbe degli strascichi polemici se, ancora nell'aprile del 1563, il Borromeo sentiva la necessità di dare ai padri conciliari una motivazione della sua chiamata a Roma, che non si sarebbe dovuta intendere come un premio, ma piuttosto come l'unico mezzo per impedirgli di prendere ancora posizione, in sede di concilio, contro la Curia romana: "in questi tempi non si poteva pigliare altro espediente con un simile cervello" (ibid., p. 306).

Nella primavera del 1563 il G. si trovava dunque a Roma, dove il "castigo" papale non gli impedì, alla presenza di vari ambasciatori e di venti cardinali, di rivolgersi a Pio IV con la solita intemperanza, invitandolo apertamente a porre termine al concilio e alle sue dispute se non voleva correre il rischio di perdere l'intera Cristianità come Leone X e Clemente VII avevano perso la Germania e l'Inghilterra. A Roma il G. continuò a far parte della Confraternita di S. Girolamo di cui il 9 apr. 1564 fu eletto nuovamente presidente a grande maggioranza di voti, ma da cui fu destituito il 4 giugno dello stesso anno in seguito a una banale lite.

Al di là della sua profonda preparazione teologica e della sua personalità intransigente, il G. fu vincolato nonostante tutto alle abitudini e al costume di vita che caratterizzavano i prelati del suo tempo: "ogni domenica uno di loro fa un banchetto alli compagni, et vanno in giro. Et intendo che spendono ognun di loro più di venticinque scudi per banchetto. Non so se queste son cose da concilio. Fra questi dodici vi è Aquileia, Venetia, […] Veglia" (Concilio Tridentino, III, p. 381).

Il G. morì "extra Romanam Curiam" (Arch. segreto Vaticano, Arm. XLII, 21, c. 360) tra il 4 giugno, giorno della sua ultima partecipazione alle congregazioni della Confraternita, e il 21 ott. 1564, data in cui fu comunicata al veneziano Pietro Bembo la sua successione nella diocesi di Veglia. Il 22 dicembre seguente i suoi beni, per la somma di 200 scudi, furono destinati al suo successore. Non è noto il luogo della sua sepoltura.

Fonti e Bibl.: Arch. segreto Vaticano, Archivio concistoriale, Acta camerarii, 8, c. 137; Acta vicecancellarii, 7, cc. 26, 44; Acta miscellanea, 19, c. 25v; Arm. XLI, 57, c. 296; 72, cc. 53, 120; Arm. XLII, 21, cc. 360, 529; Concilio tridentino, 79, cc. 71v, 84, 125v; Epistolae ad principes, 2, t. 70; Carte farnesiane, 3, c. 72; Roma, Arch. del Collegio di S. Girolamo degli Illiri, Libro delli decreti della Con.ne dalli 5 maggio 1552 fino li 4 decembre 1566, 2, cc. 55, 153v, 156; P. Sarpi, Istoria del concilio Tridentino, Firenze 1966, pp. 674, 704, 817; P. de Alva, Sol veritatis cum ventilabro seraphico…, Matriti 1660, pp. 78, 214; J. Quétif - J. Échard, Scriptores Ordinis praedicatorum…, I, Lutetiae Parisiorum 1719, p. 841; II, ibid. 1721, pp. 128, 181; Bullarium Ordinis fratrum praedicatorum, a cura di A. Bremond, V, Romae 1733, p. 36; D. Farlati, Illyrici sacri…, IV, Venetiis 1769, p. 113; V, ibid. 1775, p. 310; P. Sforza Pallavicino, Istoria del concilio di Trento…, II, Faenza 1793, p. 202; IV, ibid. 1795, pp. 198 s., 246; VI, ibid. 1797, pp. 44, 85; T. Sickel, Zur Geschichte des Concils von Trient, Wien 1872, p. 497; Acta genuina ss. oecumenici concili Tridentini, a cura di A. Theiner, II, Zagabria 1874, p. 564; Concilium Tridentinum, Diariorum, a cura di S. Merkle, I, Friburgi Brisgoviae 1901; II, ibid. 1911; III, ibid. 1931; Actorum, a cura di A. Postina - S. Ehses, VI, ibid. 1950; VIII, ibid. 1919; IX, ibid. 1924; Epistularum, a cura di G. Buschbell, X, ibid. 1916, ad indices; Die Römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV, a cura di J. Šusta, II, Wien 1909; III, ibid. 1911, ad indices; C. Eubel - G. van Gulik, Hierarchia catholica…, III, Monasterii 1923, pp. 247, 328; A. Walz, I domenicani al concilio di Trento, Roma 1961, ad indices; J. Burić, Iz prošlosti hrvatske kolonije u Rimu (Sul passato della colonia croata a Roma), Rim 1966, pp. 31, 73; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, III, Brescia 1973; IV, 1, ibid. 1979; 2, ibid. 1981, ad indices; M. Bolonić - I. Zicrokov, Otok Krk vijekove (L'isola di Veglia nei secoli), Zagreb 1977, pp. 101, 110, 157, 365, 412, 421; S. Krasić, Regesti pisama generala dominikanskog reda (Regesto delle lettere dei generali dell'Ordine domenicano), in Arhivski vjesnik (Rivista d'archivio), XXI-XXII (1978-79), ad indices; M. Bolonić, Otok Krk kolijevka glagoljice (L'isola di Veglia culla del glagolitico), Zagreb 1980, pp. 126, 176; S. Krasić - F. Satta, Alber Dujmić-Gliričić…, in U Službi Covjeka (Al servizio dell'uomo), Split 1987, pp. 387-420.

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