ALCEO

Enciclopedia Italiana (1929)

ALCEO ('Αλκαῖος, Alcaeus)

Camillo Cessi

Sul cadere del sec. VII e il principiare del sec. VI a. C., si manifesta in tutta la Grecia - e particolarmente nelle città e regioni (Asia Minore, isole dell'Egeo, Sicione, Corinto, ecc.), che più conservavano dello spirito dell'antica cultura e vita achea di contro al prevalere della stirpe dorica - quel profondo movimento di ribellione da parte della democrazia contro le vecchie aristocrazie, che apportò gravi sconvolgimenti politici, perturbando tutta la vita ellenica e agevolando spesso il trionfo della tirannide. Ma questo movimento politico, queste lotte intestine risvegliano anche un senso nuovo d'individualismo, per cui troviamo per la prima volta nella storia ellenica figure che si staccano dalla grigia uniforme vita comune, e che, uscendo dalla nebbia del mito, con caratteri particolari, si presentano nella loro realtà. In questo tempo, in tali condizioni, si sviluppa nell'isola di Lesbo, fiorente sede di cultura specialmente musicale, quella lirica appassionata, fremente di vita personale, che è espressione non più delle aspirazioni di tutta una città, ma dei tormenti, dei desiderî, dei dolori, delle gioie di un cuore solo che vive anche in sé e per sé. Alceo e Saffo sono i rappresentanti più caratteristici di questa corrente, tumultuosa di vita e d'arte. A., coinvolto nelle questioni di partito e nelle lotte civili, rappresenta, per così dire, lo stato d'animo del cittadino di quel tempo, le condizioni della vita politica; Saffo, rinchiusa negli affetti femminili, rappresenta lo spirito umano che si effonde tutto nell'intimità delle proprie passioni, A. e Saffo vivono nel medesimo tempo: le testimonianze storiche e la tradizione letteraria e artistica ne congiungono sempre le figure, quasi a dimostrare l'unità intima della loro arte pur nelle sue estrinsecazioni diverse. Ma se queste figure sono le prime che si presentino nella storia della letteratura greca con una personalità storicamente individuata, non sono ancora - com'è naturale trattandosi di tempi remoti e per nulla preoccupati dalla riflessione critica - così determinate nelle circostanze della loro vita, da poter dare argomento ad una piena biografia, con dati precisi. Gli stessi avvenimenti che li riguardano, sono in gran parte indicati da accenni e allusioni che i poeti stessi hanno lasciati nelle loro opere e su cui i critici e storici posteriori hanno ricamato notizie e leggende. A., in particolare, tutto inteso alla vita pubblica, ne parla di continuo, ma, se sono chiari gli accenni storici, è difficile, se non impossibile, determinarne la successione cronologica. Con certezza questo solo si può affermare, che A. fiorì, come Saffo e Pittaco, insieme coi quali è sempre ricordato, tra la fine del 600 e il principiare del 500. Suida ne vorrebbe porre il fiore nell'Olimpiade 42 (612-608 a. C.), Eusebio nell'anno 594: date, queste, determinate forse da qualche avvenimento importante nella vita del poeta di cui a noi sfugge il ricordo. Ma non si può ragionevolmente scendere più giù, fino a considerare A. contemporaneo di Pisistrato sull'autorità di un passo di Erodoto (V, 94-95), in cui il racconto è confuso e lascia dubitare, se non della conoscenza storica dell'autore, della genuinità della tradizione del testo.

Nato da famiglia aristocratica, A., seguendo l'istinto cavalleresco proprio della famiglia e dell'età, con i fratelli Cici e Antimenida prese parte alle lotte che Lesbo sostenne coi rivieraschi dell'Asia Minore per il possesso del Sigeo contro gli Ateniesi, e in tale circostanza perdette, come Archiloco, lo scudo. Egli ricorda ancora i Lidî (f. 42), i Lelegi (f. 124), le rive dello Xanto (f. 57), l'elmo cario (f. 58), gli Eritrei (Sch. Nic., Ther., 613). Ma ancor più gravi furono le lotte intestine fra aristocratici e democratici: l'aristocrazia ebbe la peggio, ma i democratici furono soprafatti dai più audaci, e caddero sotto la tirannide di Melancro da prima, poi di Mirsilo, dei Cleanactidi, finché, per liberarsi, elessero arbitro (αἰσυμνήτης) Pittaco. A. e i partigiani combatterono per liberare la città, ma i loro sforzi furono inutili: con A. e i fratelli dapprima era unito anche Pittaco, ma quando, soppressa la tirannide, il popolo voleva la libertà e non l'oppressione aristocratica, Pittaco accettò il potere per il bene pubblico, staccandosi dai fuorusciti, i quali furono costretti a disperdersi, e a uscire dall'isola, dove fino allora erano rimasti. A. andò ramingando in Egitto, nella Tracia; il fratello Antimenida si arrolò nelle truppe di monarchi orientali e si comportò da valoroso; la famiglia di Saffo si rifugiò in Sicilia. A. inveì contro Pittaco, come aveva fatto contro gli altri tiranni, ma Pittaco, confermato il potere in città e stabilita la costituzione, perdonò ai fuorusciti e li richiamò in patria. Anche A., come Saffo, probabilmente ritornò a Mitilene, dove passò gli ultimi suoi anni nella quiete forzata di privato cittadino. Il capo era diventato canuto (f. 86), l'animo infiacchito. La musa non ha più l'incitamento e la passione dell'odio antico e perde quella forza, quella vivacità, talvolta anche cruda, per cui gli antichi e i moderni sentono in A. lo spirito del vero poeta. La vita privata è senza colore, il poeta vive nell'ombra. Saffo invece nella tranquillità cittadina può godere più intimamente la tranquillità familiare, e la sua poesia risuona in questo tempo degli accenti più delicati e più appassionati nei dolori e nelle gioie intime. L'arte dei due poeti di Lesbo s'integra, continuando, perfezionando lo sviluppo che la poesia e la musica avevano già cominciato con Archiloco. Archiloco ed A. hanno strette rassomiglianze per la vita e per l'arte, con le differenze in loro determinate dalle condizioni diverse della vita sociale, per cui lo stesso movente e indirizzo artistico assume espressioni diverse. Archiloco, pur discendendo da famiglia nobile, per l'illegittimità della nascita si trova privato delle ricchezze familiari e dell'onore dei cittadini: sente su di sé il peso della povertà e del disprezzo, mentre si sente animato dall'istinto cavalleresco, che lo spinge alle armi, e da un nobile sentire, che lo fa ministro delle muse. Sfoga la sua passione, il suo odio contro la patria, che non lo accoglie e non gli dà ricchezze od onori, contro i privati, che sdegnano la sua parentela, contro i detrattori che lo mordono, sebbene egli si senta per la sua arte superiore moralmente a tutti gli avversarî: il canto, la lancia, il bicchiere sono il conforto dell'anima tormentata. Nel suo canto contro il popolo e i popolani usa il linguaggio del popolo e quel metro che più s'avvicina al linguaggio dei popolani, coi quali è costretto a vivere e ad avere rapporti diretti. A., nato e vissuto in ambiente aristocratico, con educazione più fine, è privato della patria e degli onori per ragioni politiche; sfoga quindi la sua passione, personale sì, ma di carattere politico, per cui si accomuna con quella di tutto un partito, contro gli avversarî suoi e della patria, che gli tolgono il potere e le ricchezze e lo costringono ad errare provando la triste miseria (f. 101, 104): usa pertanto un linguaggio e una musica più fine. La passione talvolta lo trascina a un linguaggio banale, violento, che può star a pari con l'archilocheo. Specialmente contro Pittaco, che da amico gli era divenuto, secondo gli faceva apparire la sua passione politica, nemico, A. non ha riguardo: lo chiama ignobile per la nascita, maligna sulla sua origine forestiera, lo punge per i suoi difetti personali, mettendolo in ridicolo, come sudicione, dai piedi larghi a scopa, dai piedi fessi, pancione, fanfarone, mangione, ecc. (Diog. Laert., I, 4, 87); ma ben tosto il suo pensiero si eleva alla patria, e più nobile è la ragione che lo spinge a tali eccessi. Però, se il linguaggio è triviale qualche volta, la musica non scende mai a tale livello. A. non usa mai il trimetro giambico isolato, come Archiloco, ma riveste la sua passione con ritmi più fini e meno popolari, rispondenti alla sua educazione, come avviene anche per Saffo. Il pensiero che domina nella vita spirituale del poeta, è la lotta partigiana: questa si presenta ad ogni momento, in ogni circostanza: anche fra i piaceri, nell'orgia del convito l'immagine della patria sorge improvvisa a turbargli l'animo e ad accendere di nuovo ardore il suo canto, sì che il canto stesso assume tale carattere di originalità e di personalità, che la figura di A. ne acquista un'importanza tutta particolare. In lui si fondono le varie tendenze artistiche che cominciano a manifestarsi nella vita ellenica, ed egli le adatta artisticamente al suo intento morale e al suo concetto e sentimento artistico. Il canto largo solenne omerico si rompe, si piega in più brevi ritmi per esprimere sentimenti più ardenti ma fugaci, più varî e affatto personali: i versi si fanno più sonori e più mossi: Archiloco tenta già di chiudere il pensiero in strofe, ma ancora l'arte sua è più vicina alla recitazione che al canto; Alcmane, educato alla poesia e alla musica d'Oriente, più libera e personale, la modifica e la costringe al ritmo solenne del coro peloponnesio, con andamento più largo e solenne; A. sente un'armonia più delicata e fervida: ferma il canto nella strofa tetrastica, allargando il periodo archilocheo all'esplosione del sentimento, restringendo quello alcmanio all'espressione più rapida del sentimento individuale. Dal popolo suo forse trae motivi e spunti di materia e di musica, ma perfeziona la forma sì da imprimerle una caratteristica tutta particolare, la quale rimarrà fissata in seguito e lo farà considerare l'inventore delle strofe più musicali. Ma egli non si restringe ad alcune forme fisse; la sua musica è varia, si svolge nei ritmi più diversi e più armonici, tenendosi sempre lontana dalle forme troppo volgari, tanto che Alceo fu considerato il più musicale fra tutti i poeti (Athen., 14, 626 f). Eppure egli non si astrae dalla vita del suo popolo: ne parla il linguaggio, raramente lasciandosi vincere da influssi letterarî, tanto da riuscire di difficile lettura e intelligenza ai più tardi lettori; e quando deve indulgere alle consuetudini del tempo, cantando le lodi degli dei e degli eroi (Efesto, Ermete, Atena, Ninfe, Aiace), si allontana dalla serenità dell'inno omerico per far rivivere l'antico mito sulla musica più agile e più varia delle strofe eoliche. La materia stessa del mito si trasforma, e il linguaggio, pur traendo colorito dall'antico aedo, cerca di dare espressioni nuove. Ma in questo sforzo si sente meno l'originalità del poeta, che tutta si manifesta quando l'animo deve esprimere i proprî sentimenti. Lo spirito impulsivo, violento, libero del poeta trova la sua piena estrinsecazione nella passione politica: la sua poesia risuona sempre del rumore dell'armi e delle voci di passione di un animo inquieto e disilluso. Ma in questo il poeta è sincero e spontaneo: questa caratteristica è propria di A., per cui si è notato che le forme musicali e l'espressioni del cuore si fondono in una creazione originale tanto da non poter soffrire alcuna imitazione.

Questa spontaneità, talora grossolana, rude, propria dello spirito guerresco del poeta lo ha fatto forse porre talvolta sotto luce meno benigna, attribuendoglisi caratteri che non gli sono proprî. Il soldato che vive della vita pratica e segue la morale non delle scuole ma del campo, afferma che è gloria per il guerriero morire in battaglia (f. 61), e perciò si richiama di continuo ad Ares (f. 43, 59, 60 e 62) e si compiace di vedere risplendere tutta la casa di armi (f. 54); ma anche riconosce che è pazzia il sacrifizio inutile della vita, e che la perdita dello scudo (f. 49) non è un disonore, quando lo spirito del guerriero è pronto a ricacciarlo nella pugna con miglior vantaggio. La ritirata necessaria d'oggi fa ripromettere la vendetta più aspra e la vittoria del domani: e alla vittoria finale mira il soldato. Così anche Archiloco.

Il soldato ha bisogno di riposo, di godimenti che lo sollevino: ma fra l'armi non si può pensare ai delicati sentimenti domestici, quando non si sono mai gustati nell'intimità familiare; non all'amore irradiato da una gentile figura femminile. Il soldato sente il godimento materiale e sensuale; vuole l'ebbrezza subita e violenta: il vino e l'amore per i bei fanciulli: amore brutale, ma determinato dalle condizioni della vita. I moralisti, più tardi, rimprovereranno il poeta di queste passioni contro natura (Cic., De nat. deorum, I, 28, 79, e Tusc., IV, 33, 71), senza comprendere, per giustificarlo, le circostanze di tempo e il suo stato d'animo.

Ed il vino con l'amore e prima dell'amore: il vino soprattutto che fa dimenticare i dolori, e dà coraggio all'animo indebolito e forza al corpo infiacchito. Come Archiloco, Alceo invita sempre a bere; ma non è il bere per il bere, per il gusto insano di ubbriacarsi senza ragione, come credettero più tardi i raccoglitori di aneddoti che ci hanno presentato il poeta ebbro anche nella cremazione delle sue poesie (Ath., 10, 430 a-c): non che ogni occasione fosse per il poeta buon pretesto per bere, ma in ogni circostanza il poeta sente l'amarezza di una vita piena di delusioni, per cui domanda al vino l'oblio, lo stordimento. Infatti anche nella crapula il poeta si sente vinto sempre dal pensiero della patria, che non l'abbandona mai, e dal disgusto delle sue sfortunate imprese.

Qualunque fenomeno della vita naturale gli si presenti, Alceo ne sente subito il riflesso nella sua passione intima: soprattutto quei fenomeni che hanno una rispondenza più diretta con la sua vita, cioè il mare, che rumoreggia tutto intorno alla sua isola; il mare cui deve affidarsi esule, il mare che con l'ondeggiare continuo richiama alla sua mente i suoi dolori e l'immagine della patria travagliata dalle vicende politiche. Naturale quindi nell'isolano e nel profugo il presentarsi frequente dell'immagine del mare e della natura, per cui il fatto materiale e l'immaginazione artistica sono a contatto nella realtà della vita (f. 30, 46, 119). Non quindi una pura immagine o finzione letteraria, come diventò presso gl'imitatori più tardi: ma non, d'altra parte, una descrizione di accidenti toccati al poeta stesso nella sua vita raminga, senza rapporto con l'immagine della patria, come si è sostenuto di recente, anche contro le precise affermazioni degli antichi che avevano sott'occhio tutta l'opera del poeta.

Non è da credere pertanto che il poeta avesse chiuso occhi e cuore alla vita della natura. Egli ha passioni da esprimere, non ha ragione di soffermarsi a descrivere il mondo esterno; ma talora sentiamo in qualche espressione, intravediamo in qualche sfumatura la vivezza dello spirito suo e la sua colorita percezione dei fenomeni naturali. Forse negli inni - e parrebbe attestarcelo la parafrasi che dell'inno ad Apollo ha lasciato Imerio - il poeta, più calmo, si soffermò a descrivere le impressioni naturali, a raccoglierne e rappresentarne suoni e colori; ma anche nelle altre liriche, in qualche frammento, in qualche accenno, riusciamo a cogliere l'animo del poeta. Accanto al rombare della tempesta, al mugghiare dei venti (f. 30, 46), allo scrosciare della pioggia (f. 90) sentiamo il sussurrare dei venti leggieri (f. 22): accanto al rigore dei fiumi gelati (f. 20) e alla tristezza della campagna nevosa (f. 55) riluce il sorriso della primavera (f. 98), per cui fioriscono le rive liete dei fiumi tranquilli (f. 77); e l'aria si popola di uccelli strani, dai colori vivaci, varî (f. 137): all'arsura estiva (f. 94, 95) fa contrasto la mite serenità dell'autunno con lo sfondo sereno della campagna, dove si profilano filari di viti cariche d'uva (117) e tremola di lontano una linea d'acqua azzurra fra le canne pallide (f. 106). Alza gli occhi, e nel cielo risplendente vede stormi d'uccelli spaventati fuggire l'aquila improvvisa e rapace (f. 52) e nel piano segue con l'occhio la corsa pazza del cervo impaurito (f. 123). Ma la sua anima si rinchiude in sé stessa, e sente le miserie della realtà, e il poeta allora si rattrista, chiede conforto al vino, disperando della sanzione morale della vita. Meglio bere e godere prima che la morte ne sorprenda: a nulla giova il sapere e l'astuzia contro la morte: Sisifo, che cercò di sfuggire, ebbe solo il dolore di provare due volte il passaggio d'Acheronte (f. 73). Si beva dunque per cacciare i tristi pensieri, quando l'animo non può più lottare e bere, come un tempo, in segno di trionfo per la morte dei tiranni (f. 39), e per godere l'amore (f. 68) dopo avere sfogato l'ira contro gli avversari e giurato loro odio eterno, inestinguibile (f. 35). Il poeta, invecchiato, non ha che il senso nostalgico del passato; cede alle nuove condizioni: il perdono di Pittaco non è un'umiliazione: il cittadino può riconoscere in qualche momento il bene apportato alla città (f. 43). Non gli rimaneva che il vino, quale vecchio amico, e forse non poteva consentire con la più rigorosa morale del dittatore filosofo (f. 45). L'anima del poeta era vuota di affetti intimi: gli affetti domestici erano ignoti alla sua vita travagliata; la donna non entra nella sua vita intima, e l'accenno rispettoso e deferente a Saffo (f. 63) è un lampo triste nella vita affettiva del poeta, e in nulla giustifica la leggenda creata più tardi (cfr. Hermesian., 4, 47) degli amori del poeta con Saffo. Forse il poeta aveva bisogno di affetti, e par ce lo confermi il f. 50 per il fratello, come in tutta la sua vita lascia sentire Archiloco. Il poeta vien meno quando manca al suo animo il motivo di ardore e di passione; e mancò anche ai suoi imitatori, perché essi ammirarono nel poeta l'arte formale più che non ne rivivessero la vita intima. Perciò A. fu letto, amato per il suo spirito guerriero; non fu imitato di frequente. In Atene si cantavano i suoi versi (Arist., Vesp., 1234-35); gli Alessandrini riunirono in almeno dieci libri le sue poesie, ma da quanto è giunto a noi non è chiaro con quale criterio fossero distribuite, dacché la poesia d'A. è così originale, che non è possibile una netta classificazione per materia o per forma metrica. Aristofane di Bisanzio e Aristarco curarono l'edizione dei carmi d'A.; Didimo e il peripatetico Dicearco si occuparono di lui; il lesbio Callia ne fece un commento, e a noi è giunto il titolo e qualche frammento di una monografia sulla conchiglia ricordata dal poeta; più tardi Dracone scrisse intorno ai carmi di lui, ed Orapollo nell'età di Teodosio compose un commentario. Ancora ne leggeva le poesie Gregorio di Corinto (sec. XII-XIII), ma al tempo di Eustazio erano già disperse: e la sorte invida ne ha fatto sopravvivere pochi frammenti, ricordati, in generale, non per ragioni d'arte dai grammatici; né molto ci hanno dato i ritrovamenti papiracei. La fortuna del poeta, che fu altamente onorato dai suoi concittadini, tanto che ne coniarono l'effigie nelle monete, è dovuta in gran parte alla fama che il suo spirito alto, magniloquente, quale ci hanno ricordato i critici antichi (Dion. Halic., Vet. script. cens.,1, 28, 79; Quintilian., X, 1, 63), ha ridestato presso contemporanei e posteri, ed ha infiammato l'estro di Orazio, che più volte (Carm., I, 9, 10, 14, 18, 37; II, 7; III, 2, 12, 18, ecc.), tentò di riprodurne la vita e l'arte, adattando alla natura ed indole romana anche il ritmo e il metro. Ma ad Orazio mancava quell'ardore partigiano che infiammava A., e non poteva sentirsi nell'età di Augusto, per quanto Orazio meglio di ogni altro abbia riconosciuto il carattere vario (Carm., II, 13) dell'arte di Alceo. Il suo spirito forse più profondamente fu sentito (come asserì il Fraccaroli) dal Carducci. La penna "che sa le tempeste" è data dal Carducci alla strofe alcaica, paragonata a un uccello.

Importanti sono le innovazioni o le creazioni musicali di A: egli fissò nella sua forma tetrastica la strofa, cosiddetta alcaica, ed è reputato inventore di quella detta saffica. La strofa alcaica, composta di due alcaici endecasillabi, di un enneasillabo e di un decasillabo, è la più adatta all'impeto guerresco o all'ebbrezza del convito col tono ascendente della prima parte del verso alcaico e col tono discendente della seconda parte a rappresentare gli urti dell'animo irruento e vario nell'irrompere e nel frenarsi della passione: movimenti che dalla spinta iniziale arrivano alla loro maggiore esplicazione nel terzo e quarto verso, i quali continuano e sviluppano l'uno l'effondersi dell'impeto e l'altro il ritorno ad un senso più misurato di calma. La strofa saffica invece, tutta in tono discendente, si presta meglio all'espressione degli affetti meno impetuosi, e il poeta l'adopera anche nell'inno religioso. Più vario e più mosso l'uso dell'asclepiadeo, con ritmo più complesso: l'asclepiadeo (f. 43, 35, 56) è usato in strofe o senza norme continuamente come metro narrativo, oppure alternato con versi gliconei, o congiunto con ferecrazî e gliconei (f. 24). Ma altri e maggiori ritmi usò A.; l'asclepiadeo si allarga con inserzione di coriambi nell'asclepiadeo maggiore (f. 87, 94, 96, 97, 134, 135, 136, 86), l'alcaico endecasillabo si stende nel dodecasillabo (f. 63) e nell'alcaico maggiore (f. 54, 101, 102), e il saffico endecasillabo si trasforma nel saffico maggiore di 14 sillabe (f. 31, 32). Inoltre si notano: la tetrapodia logaedica catalettica con base eolica (f. 66); tetrapodie dattiliche pure (100), l'esametro eolico (f. 98, 99). Da Alcmane, A. deriva e trasforma l'esametro dattilico puro catalettico in dissillabo (f. 142) e l'uso del metro ionico (f. 67, 68, 69), che dal canto religioso si adatta al canto erotico forse con motivi popolari.

Bibl.: I frammenti si trovano in Bergk, Poetae lyrici graeci, III, e in Diehl, Anthologia lyrica, Lipsia 1923. - Trad. e commenti: Michelangeli, Frammenti della melica greca da Terpandro a Bacchilide, II, Bologna 1890; G. Fraccaroli, I lirici greci, II, Torino 1913, pp. 151-184. - Per la vita e l'arte del poeta, oltre le trattazioni nelle maggiori storie letterarie (Bergk, II, pp. 272-285, Bernhardy, II, 3ª ed., pp. 1 e 662-669; Croiset, II, pp. 216-226; Mahaffy, I, pp. 178-183; Müller, I, pp. 270-279, trad. it. di G. Müller ed E. Ferrai; Sittl, I, pp. 318-323; Flach, Gesch. d. gr. Lyr., pp. 463-384); Ch. D. Jahn, De Alcaeo poeta lyrico eiusq. fragm. comment., Halle 1780-82; F. G. Welcker, Alkäos, in Kl. Schriften, I, Bonn 1844, pp. 126-147; J. Beloch, Wann lebten Alkäos und Sappho?, in Rhein. Museum, 1890, pp. 465-473; id., Alkäos und der Krieg um Sigeion, in Rheinisches Museum, 1895, pp. 250-267 (cfr. Griech. Gesch, I, ii, 2ª ed., pp. 363 segg.); O. Crusius, Litterargeschichtliche Parerga, IV; id., Alkaios u. Anakreon, in Philologus, 1896, p. i, segg.; H. W. Stoll, Die Meister der griech. Litteratur, Lipsia 1878; E. Schulze, Über Leben und Dichten des Archilochos, Alkaios und Solon, in Skizzen hellen. Dichtkunst, Gotha 1881, pp. 31-58; Dieterich, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der Altertumswissenschaft, I, coll. 1498-1505; G. S. Ferrari, Di Alceo e delle sue opere, in Riv. Europea, 1878; G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1920, pp. 123 segg.; J. D. Vasconi, Pittaco il Sapiente, Lodi 1897; A. Vogliano, Alcaica, in Rend. Acc. Napoli, 1909; M. Galdi, Alceo, in Cron. letter., 1910. Per la recente bibl.: C. Cessi, Bollett. bibl., in Aevum, II (1928), p. 324. Per i monumenti artistici cfr. Visconti, Iconografia greca, I, 3, 3; Baumeister, Denkm., ecc. s. v. Alkaios; Welcker, Alt. Denkm., II, p. 225, tav. XIII, p. 20 seg.

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