DE AMBRIS, Alceste

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE AMBRIS, Alceste

Ferdinando Cordova

Nacque a Licciana (oggi Licciana Nardi), in provincia di Massa Carrara, il 15 sett. 1874, da Francesco e da Valeria Ricci.

Di famiglia agiata, compì un regolare iter scolastico e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, che frequentò fino a quando la passione politica non lo distolse dagli studi. Alla fine dell'Ottocento, infatti aderì al Partito sociafista, da poco costituito, e ne divenne un attivo sostenitore nella provincia. Frequentava - informò la locale autorità di Pubblica Sicurezza - "ogni classe di persone, ma più assiduamente i sovversivi" e, pur "mostrandosi amante dello studio", ne traeva scarso profitto, perché distratto dalle sue idee. Là stretta di fine secolo impresse una svolta decisiva alla sua vita.

Lo stato d'assedio, proclamato nel 1898 in alcune delle maggiori città della penisola, costituì - com'è noto - la risposta delle classi dirigenti ai fermenti innovativi che provenivano dalla società italiana. L'onda repressiva colse apretesto alcune manifestazioni spontanee, contro il rincaro della farina e del pane, che attraversarono il paese dal meridione verso il settentrione, ma aveva la sua radice profonda in paure di sovversione. dell'ordine costituito, alimentate dalla capacità del proletariato di darsi una struttura organizzativa.

Richiamato alle armi per il mantenimento dell'Ordine pubblico, il D. preferì emigrare, il 10 maggio del 1898, dapprima a Cannes e, in seguito, a Marsiglia. Da qui - e mentre il tribunale militare di Firenze lo condannava ad un anno di carcere per diserzione - si trasferì in Brasile, prendendo stabile dimora a San Paolo.

La parentesi nell'America del Sud era destinata a protrarsi per alcuni anni, durante i quali il D. maturò le sue doti di organizzatore, operando a difesa degli italiani che lavoravano nelle grandi aziende agricole del Brasile. A San Paolo fondò, assieme ad altri emigrati, il settimanale Avanti!, che divenne, in breve volgere di tempo, un organo di battaglia socialista molto noto. Segno dell'importanza assunta dal giornale, e del fastidio provocato dalle polemiche ingaggiate dal suo direttore, furono le azioni penali promosse, a più riprese, dai latifondisti brasiliani, i quali raggiunsero il loro fine il 7 apr. 1901, allorché il tribunale di San Paolo condannò il D. a quattro mesi e venti giorni di prigione semplice. Per sfuggire all'arresto, il D. ritornò in Italia, dove, nel frattempo, un'amnistia aveva condonato le pene emesse, nel 1898, dai tribunali militari. L'eco della sua attività in Brasile lo aveva, peraltro, preceduto, creandogli una buona fama di organizzatore. Si comprende, quindi, perché, giunto nella penisola, venisse nominato, nell'agosto del 1903 - e mentre in Sudamerica una nuova sentenza lo condannava, contumace, a due anni di reclusione - segretario della Camera del lavoro di Savona. Nella città ligure, tuttavia, non rimase a lungo. L'anno successivo si trasferì a Livorno, per dirigere la Federazione nazionale dei bottigliai. Anche qui la sua opera si rivelò efficace, tanto che i sociafisti della città lo vollero candidato nelle elezioni politiche che si svolsero in quell'anno. La sua notorietà aveva, ormai, superato comunque i confini regionali: prova ne sia che il D. fu chiamato, nel novembre del 1905, a Roma. dove gli venne affidato l'organo della Federazione giovanile La Gioventù socialista, che era molto vicino alla sinistra del partito. Anche il suo soggiorno nella capitale fu, però, breve. Appena sette mesi dopo, infatti, si trasferì a Milano, per occupare un posto di rilievo tra i dirigenti del gruppo sindacalista, costituito, all'interno del Partito socialista, dopo il congresso di Imola del 1902.

Il gruppo era sorto ad opera di alcuni socialisti meridionali, soprattutto napoletani, i quali, riuniti attorno al giornale La Propaganda, avevano condotto, nel capoluogo campano, un'aspra battaglia contro il malgoverno dell'amministrazione comunale. Dalle loro accuse aveva avuto origine lo scandalo Casale, che aveva travolto il sindaco, Celestino Summonte, e provocato l'inchiesta parlamentare, affidata al senatore G. Saredo. I sindacalisti rappresentavano - secondo una nota definizione di Antonio Granisci - "l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana della reazione operala contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini" (La questione meridionale, Roma 1951, p. 22). Nella elaborazione teorica ricorrevano motivi provenienti da pensatori diversi (Marx, Sorel, Le Bon) e fatti confluire nella concezione della violenza, come matrice della lotta di classe, e dello sciopero, quale ginnastica rivoluzionaria, che preparava allo scontro risolutivo con la borghesia capitalista. Sostenendo l'azione diretta delle classi subalterne, raggruppate nei sindacati. essi si contrapponevano al riformismo turatiano, che, dall'esperienza del 1898, aveva rafforzato il proprio convincimento di una evoluzione graduale del proletariato, in un rapporto privilegiato con i ceti illuminati della borghesia, rappresentati al governo - in quel momento - da Giolitti. Agli inizi del 1903, anzi, Arturo Labriola, che dei gruppo era uno dei fondatori, si era trasferito a- Milano - dove aveva dato vita all'Avanguardia socialista - per portare lo scontro politico in una città operaia, la quale era, anche, la culla del riformismo. Dal capoluogo lombardo, approfittando delle contraddizioni che si cominciavano ad articolare all'interno del sistema giolittiano, l'influenza dei sindacalisti si estese, in un breve giro di anni, a varie zone dell'Italia settentrionale.

Nelle campagne padane, in particolare, un caposaldo importante fu la Camera del lavoro di Parma, a dirigere la quale venne chiamato, nel febbraio del 1907, il D., che prese, a fine anno, anche la guida de L'Internazionale, l'organo, appena fondato, dei sindacalisti emiliani. Il nuovo segretario impresse subito alla lotta un carattere intransigente. Più organizzatore che ideologo, egli - come testimoniò il fratello Amilcare - avvertì la "necessità di avvalorare i principi teorici col collaudo dell'azione pratica" (De Felice, 1966, p. 17).

Lo stato delle campagne parmensi era, peraltro, favorevole ad uno scontro esasperato con gli agrari. "Una disgregazione rapida e massiccia - è stato scritto di recente - aveva sconvolto il tessuto sociale di queste zone; l'intenso processo di proletarizzazione e i primi vittoriosi scioperi dell'inizio dei secolo avevano dato esca a una energica iniziativa padronale tutta protesa al risparmio della mano d'opera; l'introduzione del macchinario, la riduzione delle colture cerealicole, il parziale ripristino della mezzadria e della compartecipazione avevano avuto effetti immediati. Tutto ciò, sommato alla segmentazione delle masse bracciantili ottenuta col sistema della sperequazione tariffqria aveva consentito un rapido recupero del terreno perduto, una lunga fase di tregua sociale interrotta da episodi conflittuali in cui il padronato aveva avuto la meglio".

"La leadership riformista era stata incapace di -dare unsi risposta alla profonda inquietudine di un bracciantato la cui identità sociale era stata vieppiù scompaginata dall'apporto della proletarizzazione recente. La crisi della sua capacità rappresentativa era emersa dalla passività con cui aveva subito questa situazione.... Inflazione e disoccupazione fecero esplodere il malcontento che si era andato accumulando col passare degli anni. I riformisti rifluirono nelle loro tradizionali cittadelle (Cento, Portomaggiore e Codigoro nel Ferrarese, Borgo San Donnino nel Parmense), lasciando via libera ai loro antagonisti, che fecero delle campagne parmensi e ferraresi il terreno di sperimentazione della. loro concezione della lotta di classe" (De Clementi, pp. 93 s.).

Il D. contribuì a cambiare, in maniera determinante, il metodo dello scontro sociale, caratterizzandolo con una nuova aggressività. Gli agrari della provincia, dal canto loro, accettarono la sfida ed organizzarono un apparato repressivo, con squadre di lavoratori "volontari", del tutto autonomo da quello statale, che non offriva - a loro giudizio - garanzie di efficienza. In questo contesto, l'inosservanza dei patti agrari fu solo l'occasione che accese la miccia di un lungo sciopero nelle campagne. Proclamato il 10 maggio del 1909, ad oltranza, esso conobbe momenti di estrema durezza, coinvolgendo anche le province limitrofe, in alcune delle quali il lavoro venne sospeso, in segnodi solidarietà con i contadini di Parma in lotta. L'esodo dei bambini dalla città suscitò, in ogni parte d'Italia, ondate di pietà e di simpatia per le loro famiglie. L'ampio rilievo dáio all'avvenimento dalla stampa quotidiana, che ricorse sovente, a toni allarmati, contribuì ad estenderne la notorietà. La protesta si sviluppò tra fasi alteme, fino agli ultimi di giugno. Sul piano della forza, tuttavia, gli agrari - i quali potevano contare su maggiori mezzi e sulla solidarietà del potere centrale, preoccupato dell'esperimento eversivo - erano destinati a vincere. Il 19 la situazione, infatti, volse, d'improvviso, all'epilogo. I lavoratori m sciopero tentarono di impedire l'arrivo alla stazione di un rilevante numero di crumiri. Avvennero conflitti e cariche di cavalleria. Il giorno dopo, la Camera dei lavoro proclamò lo sciopero generale, a tempo indeterminato, di tutte le categorie di arti e mestieri. L'Internazionale uscì, addirittura, con un articolo, intitolato Rivolta, che venne indicato, in seguito, dall'autorità giudiziaria, come il segnale dell'insurrezione.

Si ebbero scontri a fuoco fra scioperanti e bande di lavoratori volontari. Carabinieri e truppa presero d'assalto la Camera del lavoro, penetrandovi ed arrestando circa 150 persone.

"La violenza statale - ricordò, più tardi, il D. - che aspettava soltanto un pretesto qualsiasi per esplodere, infuriò selvaggiamente, aizzata e fiancheggiata dalla criminalità padronale. I 'Volontari lavoratori' - bari, truffatori, lenoni e cinedi - costituenti le bande armate della borghesia finirono effettivamente in quei giorni le sole autorità riconosciute -ed imperanti. Dietro loro indicazione e per loro volere venne invasa la Camera del lavoro; furono arrestati a centinaia gli scioperanti, percossi e malmenati dai tutori dell'ordine, stipati dentro le carceri, seviziati in ogni maniera; fu istituito, anche se non venne proclamato, lo stato d'assedio; soppressa arbitrariamente la sola voce che il proletariato avesse per esprimere il suo sentimento; elevata imputazione di associazione a delinquere contro tutto il Comitato di agitazione allo scopo fraudolento di toglierlo di mezzo imprigionandolo o costringendo alla fuga i dirigenti dello sciopero; chiusa ogni bocca che non fosse quella del fucile o della rivoltella. Si aggredivano per le strade, brigantescamente, i cittadini che non avessero il lasciapassare agrario e si tentavano dei veri e propri linciaggi con la complicità e l'assistenza della polizia" (Democrazia vile).

Il D. riuscì a sfuggire alla cattura e riparò nei quartieri 'Oltretorrente, che rimasero in rivolta, alzando barricate, fino al 24 giugno. La mediazione di alcuni deputati socialisti permise, infine, il graduale ritorno alla normalità. Un mese di lotta si risolse, così, in una pesante sconfitta per i lavoratori. Era inevitabile che ne derivassero aspre polemiche tra i riformisti, i quali misero in dubbio l'indirizzo e gli obbiettivi imbressi allo sciopero, ed i sindacalisti, che accusarono l'ala moderata del Partito socialista di avere boicottato in modo subdolo i loro sforzi e di avere fiancheggiato, assieme alle altre forze della democrazia, l'opera repressiva dell'Agraria. L'episodio mise a nudo, comunque, quell'incompatibilità fra le due correnti, che avrebbe provocato, nel settembre del 1908, al congresso di Firenze, l'espulsione dei sindacalisti rivoluzionari dal partito. Un ordine del giorno avrebbe, infatti, sancito che "i principi ed i metodi del sindacalismo, per la sfiducia gettata sull'azione parlamentare ed in genere sulla conquista dei poteri pubblici - per la teoria dell'antistatalismo e la conseguente avversione ad ogni intervento dello Stato - stanno in aperta opposizione ai principi ed ai metodi fissati dal congresso di Genova del 1892 e successivamente sviluppati ed integrati secondo il portato dell'esperienza storica fin qui compiuta dal proletariato e sono incompatibili con i principi ed i metodi del partito socialista" (L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforma e rivoluzione, 1892-1921, Bari 1969, p. 326).

L'insuccesso - va aggiunto - non fece diminuire la popolarità del D. tra i contadini parmensi; segno che la lotta aveva affondato le sue radici nel sentimento e nelle esigenze collettivi.

Per il momento egli sfuggì alla cattura, riparando a Lugano, da dove continuò a dirigere - per alcuni mesi. L'Internazionale. È certo che egli intervenne, il 6 ottobre, a Marsiglia, al congresso della Confèdération générale du travail (C.G.T.), di cui redasse anche, su Pagine libere, un accurato resoconto. Nel frattempo grandinavano su di lui, a Parma ed a Lucca, le condanne per diffamazione a mezzo stampa, eccitamento all'odio di classe ed insurrezione armata. Le richieste di arresto, che pervenivano dall'Italia, cominciarono a mettere in imbarazzo le autorità elvetiche, preoccupate - nel contempo - delle possibili conseguenze che la presenza e l'attività del D. avrebbero potuto avere tra i lavoratori emigrati. Poiché a San Paolo erano state dichiarate prescritte le condanne che lo avevano colpito nel 1901 il D., grazie ad una colletta, che aveva "fruttato qualche migliaio di lire", si imbarcò, in novembre, per il Brasile, dove un vecchio compagno di fede, Vitaliano Rotellini, anch'egli emigrato e divenuto - secondo quanto informava. il console - "uomo di ordine in grazia di una felice situazione finanziaria saputasi conquistare" (Casellario politico centrale), gli offrì di dirigere il giornale La Tribuna italiana. Il suo soggiorno in Sud America non era destinato, tuttavia, a durare a lungo. Gli avvenimenti, che interessavano, in quel momento, l'Italia, lo indussero a ripartire, il 28 febbr. 1911, alla volta dell'Europa ed a stabilirsi nuovamente a Lugano.

La guerra di Libia, innanzitutto, aveva fatto emergere le divergenze che esistevano fra gli esponenti più autorevoli del movimento sindacalista. In alcuni di loro era divenuta sempre più pressante l'aspirazione ad uno Stato che fosse "legalizzatore degli sviluppi etici ed economici delle masse operaie" e che conciliasse, con la sua forza e la sua autorità, l'idea di patria con le esigenze del proletariato. Punti di contatto si erano venuti, così, a stabilire con i nazionalisti, che cominciavano, a loro volta, a guardare con simpatia alle idee soreliane. Nel 1909, Mario Viana aveva attuato i primi esperimenti di un sindacalismo il quale trovava, comunque, il suo limite nel superiore interesse della nazione. Vi fu, pertanto, chi, come Arturo Labriola, ripudiando il pacifismo socialista, vide, nel conflitto italo-turco, "un'esigenza storica ed etnica, connessa alla vita quasi esclusivamente mediterranea del paese" (A. Labriola, La guerra di Tripoli e l'opinione socialista, Napoli 1912, p. 20).

Il D. si collocò, invece, fra quanti erano ostili all'avventura in terra d'Africa. là interessante notare, tuttavia, che la sua avversione non era determinata da motivi ideologici. "La verità - scrisse su Pagine libere - è che non tutte le guerre hanno una potenzialità di pedagogia eroica e rivoluzionaria: meno di tutte, poi, la guerra coloniale". Egli avvertì, anzi, che non sarebbe stato contrario all'impresa di Libia, qualora avesse fatto posto ad un "capitalismo sano" e non com'era suo parere alle "ventose della burocrazia militare (15 ott. 1911).

Nel medesimo periodo, il disaccordo con i riformisti, circa i mezzi da adoperare a difesa dei lavoratori, si accentuò. Al congresso sindacalista, che si tenne a Bologna nel dicembre del 1910, venne deciso di costituire un "comitato dell'azione diretta", che, pur restando all'interno della Confederazione generale del lgyoro (C.G.d.L.), coordinasse l'attività della minoranza sindacalista. In un periodo di forti tensioni, provocate dalla guerra e da un capitalismo industriale in fase espansiva, era inevitabile che l'attitudine dei riformisti, a portare la lotta sul piano legislativo e degli accordi, sembrasse volontà di collaborare, ad ogni costo, con Giolitti e provocasse un notevole malcontento nella base. L'organismo confederale subì un calo degli iscritti, mentre, al suo interno, vi fu una ripresa della sinistra, che crebbe in numero ed operosità. Il contrasto divenne acuto al punto che, al congresso dell'Azione diretta, svoltosi a Modena nel novembre del 1912, fu decisa la nascita dell'Unione sindacale italiana (U.S.I.), un nuovo aggregato aconfessionale, apolitico ed autonomo dal partito socialista, al quale aderirono non solo molti contadini della Valle Padana e della Puglia, ma anche alcune avanguardie operaie, costituite dai metallurgici di Milano e di Torino.

Il merito di aver preparato e promosso, dal suo esilio di Lugano, l'avvenimento' fu riconosciuto al De Ambris. A lui venne affidato, anche il compito di dirigere l'U.S.I. Era impensabile, comunque, che ciò potesse avvenire, mentre risiedeva all'estero e, d'altra parte, non gli era possibile rientrare in Italia, dove sarebbe stato colpito da numerosi ordini di cattura. Le elezioni politiche generali, che si dovevano svolgere nel 1913, offrirono una via d'uscita da quest'impasse. I lavoratori di Parma, infatti, lo indicarono quale loro candidato. Il D. accettò, a patto, tuttavia, di non esercitare - com'era nei principi sindacalisti - il mandato parlamentare e di rientrare in Italia solo per dedicarsi a compiti organizzativi. Sulla base di queste premesse, il 26 giugno del 1913 venne eletto con 7.079 voti, contro 5381 dati al suo antagonista, il costituzionale Pietro Cardani. Stabilitosi a Milano, egli riprese con vigore la sua attività, nel tentativo, che sembrò non infondato, di scalzare il primato della C.G.d.L. fra le masse.

I due anni precedenti la grande guerra, furono, infatti, pervasi, in tutto il mondo, da generosi sussulti rivoluzionari, che ebbero l'espressione più evidente nello sciopero di Lawrence nel Massachusetts. In Italia, il 1913 si aprì, in gennaio, con gli eccidi proletari di Baganzola, in provincia di Parma, e di Rocca Gorga, nella Ciociaria, e fu caratterizzato da una elevata conflittualità, che portò aderenti all'U.S.I., accrescendone la forza. Si ebbe l'impressione, per alcuni mesi, che, anche nel nostro paese, il capitalismo fosse alla resa dei conti. In particolare, gli scioperi, che, dal giugno all'agosto, interessarono i metallurgici di Milano, costituirono il maggiore banco di prova, da parte sindacalista, della capacità eversiva dei lavoratori e della loro volontà di superare la logica corporativa, cara ai riformisti, in un comune fronte di attacco. Tale strategia urtò contro due ostacoli: da un lato, la resistenza che trovò negli industriali, i quali si erano preparati a sostenere uno scontro frontale, per ristabilire la loro supremazia nelle fabbriche; dall'altro, il mutato atteggiamento del governo Giolitti nei confronti dei movimento socialista. L'uomo di Stato piemontese volgeva, ormai da tempo, ad una alleanza stabile con i cattolici, contraltare moderato, specie nelle campagne, alle paure sovversive. Il progetto, che egli aveva a lungo accarezzato, di una graduale espansione dell'industria, a cui doveva corrispondere - mediatore lo Stato - una lenta, ma progressiva evoluzione del proletariato italiano, mostrava, infatti, proprio nel 1911 i segni di uno sfaldamento inarrestabile. La crisi economica aveva provocato la stasi degli investimenti ed il blocco dei profitti industriali, ponendo in evidenza la generale incapacità del sistema a riprodurre un autonomo accumulo di capitali; da ciò, la necessità di ristrutturare le imprese, che passava, fra l'altro, per lo sfruttamento intensivo della forza lavoro e per una notevole compressione dei salari. La strategia dei sindacalisti andò incontro ad un fallimento, che avrebbe avuto - da Il a poco - la sua ulteriore ratifica nella "settimana rossa".

Cominciarono, così, a prendere corpo, fra gli stessi dirigenti, i dubbi circa le reali possibilità eversive del proletariato italiano. "Io dico -scrisse il D. - che ognuno ha l'obbligo di riconoscere il dettame inesorabile della logica. Se qualcuno fra noi - aggiunse - vi è che abbia predicato la violenza solo per dilettantismo verbale, senza sentirne l'assoluta ineluttabilità, intenda costui che è tempo di finire il demagogico giuoco. Ma quelli invece che pensano, come noi pensiamo, che veramente la conquista del nuovo diritto possa compiersi soltanto attraverso una grande prova cruenta, devono'ormai riflettere che non basta l'eroismo per affrontare questa prova. Con le nude mani non si dirocca una muraglia di granito: ci vuole un piccone, ci vuole una mina. In lingua povera: contro le armi, occorrono le armi" (Il Proletariato, 27 luglio 1914). Allorché, da lì a qualche giorno, la guerra europea divenne un fatto certo, non furono pochi i sindacalisti che videro, in essa, la "prova cruenta", di cui aveva scritto il De Ambris.

Il passaggio dalla neutralità all'intervento non avvenne, comunque, in modo indolore. L'U.S.I. fu dapprima contraria al conflitto, allineandosi sulle posizioni dei proletariato italiano, che, d'istinto, l'avversava. Col passare dei mesi, mentre si veniva delineando il fallimento dell'Internazionale e, in Italia, i repubblicani e parte dell'area socialista si convertivano alla causa della guerra, anche i sindacalisti si pronunciarono per l'intervento. A determinare questa svolta contribuì, in gran parte, il De Ambris. Già in occasione della spedizione contro la Libia, egli aveva dichiarato - come si ricorderà - di non esserle ostile per motivi di principio. Non aveva escluso, infatti, che, in talune circostanze, la guerra potesse avere un significato rivoluzionario. Nella crisi, provocata dall'attentato di Sarajevo, la lotta all'imperialismo tedesco ed austriaco sembrò giustificata, al D., dai superiori interessi della democrazia internazionale e parve premessa, all'interno, di un futuro e più equo ordine fra le classi. In tale prospettiva, la sua scelta fu vicina a quella di altri democratici, come Bissolati e Salvemini, e si discostò dalle mire aggressive dei nazionalisti. Non era facile, tuttavia, convincere della propria buona fede i lavoratori italiani ed indurli a schierarsi a fianco dell'Intesa. I dirigenti sindacalisti erano consapevoli, d'altro canto, che la loro scelta si poneva in aperto contrasto con tutto il loro passato. L'U.S.I. aveva organizzato, per il 18 agosto, a Milano, un comizio, in cui si sarebbe pronunciata a favore dell'intervento. Oratore designato era Alceste De Ambris.

"La vigilia della conferenza - ha ricordato egli, in seguito - confidai ai miei compagni della pensione: Domani dirò delle cose che forse mi metteranno contro tutta la massa operaia... Quella sera si mangiò in un silenzio assai triste. I compagni intuivano che io avrei detto quel che essi stessi pensavano senza osare di confessarlo. Tutti si aveva la sensazione di trovarsi ad uno di quei passi decisivi che non si fanno a cuor leggero. Era tutto il nostro passato, l'idolo cui avevamo sacrificato interamente la nostra giovinezza, che ci preparavamo ad abbattere colle nostre mani iconoclaste" (in F. Corridoni, p. 24).

La stessa U.S.I. uscì spaccata dalla prova. La maggioranza dei suoi iscritti si dichiarò avversaria irriducibile della guerra ed elesse a segretario Armando Borghi, costringendo gli interventisti a rifugiarsi nel Comitato sindacalista milanese.

Da questo momento, e fino al 24 maggio del 1915, il D. fu uno dei più decisi sostenitori della partecipazione italiana al conflitto, per la quale si adoperò con articoli e comizi e, soprattutto, come organizzatore instancabile dei Fasci interventisti, del cui consiglio venne chiamato a far parte. In questo periodo fu due volte a Parigi, dove si incontrò con alcuni socialisti francesi, "per accordarsi - come informò la polizia - nella azione politica, che spiegano nei riguardi dell'attuale conflagrazione europea". Quando, infine, l'Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria, si arruolò volontario. Venne inquadrato, col grado di caporale, nel 20 reggimento di artiglieria da fortezza e spedito al fronte sul Vodice e sul Kuch.

Negli anni dei conflitto poté usufuire - essendo deputato - di numerose licenze, così da partecipare alla vita politica italiana. Suo merito fu quello di essersi mantenuto - anche dopo Caporetto, quando la psicosi del fronte interno alimentò la propaganda nazionalista e sembrò sommergere ogni ragionevolezza - coerente con i principi che lo avevano spinto a pronunciarsi in favore della guerra rivoluzionaria e contro "la guerra di conquista, l'abominevole guerra di prepotenza, che ci metterebbe di nuovo in condizione di dover soffrire quel che abbiamo sofferto e soffriamo, per appagare la cupidigia di talune caste che invano cercano di identificarsi con la nazione" (Casell. pol. centrale). Ribadì più volte queste sue idee e, nel luglio del 1918, le trasferì in un ordine del giorno, che fece approvare, sia pure di misura, al congresso nazionale interventista, tenutosi il 1° ed il 2 a Roma.

Con i medesimi intenti, egli aveva partecipato, nel mese di giugno, a Milano, al congresso costitutivo dell'Unione italiana del lavoro (U.I.L.), il nuovo sodalizio che si ispirava ai principi dell'interventismo democratico e perseguiva una pace equa fra i belligeranti e, all'interno, un sindacalismo in grado di conciliare gli interessi di classe con quelli della produzione. L'U.I.L. si proponeva, così, di sottrarre i lavoratori all'egemonia della C.G.d.L. e del partito socialista e di rilanciare l'immagine dei sindacalisti rivoluzionari - appannata dalla svolta conservatrice che l'interventismo aveva subito dopo Caporetto - nella politica del paese. Nel clima nebuloso dell'immediato dopoguerra, finalità analoghe ebbero i rapporti che il D. intrattenne con i fasci di combattimento, fondati da Mussolini. Egli non aderì mai, in modo formale, al nuovo movimento - perché sarebbe stato incompatibile con la sua militanza nell'U.I.L.- ma partecipò intensamente ai suoi primi mesi di vita e ne redasse il programma economico. Ambedue le esperienze si dimostrarono, in breve volgere di tempo fallimentari. Gli operai ed i contadini, delusi dalla mancanza di una maggiore giustizia sociale - promessa dai governi durante la guerra - ed affascinati dall'esempio della Russia bolscevica, confluirono, in numero sempre crescente, nel movimento socialista, condannando l'U.I.L. ad una vita grama. Nel contempo, dopo le prime, incerte, formule progressiste, dovute al clima del momento, il fascismo cominciò a mettere in luce la sua vera natura reazionaria. Giunse così, a termine il fallimento delle speranze sindacaliste, che trovarono la loro definitiva sconfitta nelle vicende fiumane.

Com'é noto, il D. venne chiamato a far parte, nel dicembre del 1919, del Comando della città adriatica, all'interno del quale rivestì la carica di capo di gabinetto. Nei propositi di D'Annunzio c'era, forse, l'intento di cattivarsi, ricorrendo al suo nome, la simpatia e l'appoggio delle sinistre, così da impensierire il governo italiano e da costringerlo a superare ambiguità ed incertezze. Il D., d'altronde, nutriva la fiducia che la "città olocausta" - come sarebbe stata, in seguito, immaginosamente definita - potesse rappresentare l'opportunità di dar vita allo Stato dei produttori, postulato a lungo dai sindacalisti, e di promuovere una rivoluzione, che si estendesse all'intera penisola. Era questo il senso del motto, a lui attribuito, secondo cui l'Italia doveva essere annessa a Fiume e non viceversa. Suo di certo - come hanno dimostrato studi recenti - era il contenuto, ricco di spunti sociali, della Carta del Carnaro, il disegno di un nuovo ordinamento istituzionale, pubblicato il 30 ag. 1920 e che D'Annunzio si limitò a rivestire di forma letteraria. Le sue attese, tuttavia, naufragarono sugli scogli della realtà interna ed internazionale.

Era del tutto improbabile, in primo luogo, che le grandi potenze. permettessero, nell'immediato dopoguerra, la modifica dello status della città, con cui avevano perseguito complicati equilibri, in favore dell'Italia, né il governo del nostro paese aveva la forza di imporre la sua volontà a nazioni, da cui dipendeva, peraltro, economicamente. È dubbio che lo stesso poeta volesse realmente, per la sua impresa, un esito rivoluzionario, che poteva anche confusamente vagheggiare nei suoi scritti, ma che era, in concreto, lontano dalla sua mentalità. I socialisti, inoltre, guardavano con diffidenza ad un tentativo promosso dal De Ambris. La guerra aveva scavato un solco netto tra quanti le erano stati favorevoli e coloro i quali le si erano mantenuti contrari, né il proletariato italiano era disposto a perdonare ed a dimenticare. Senza il suo appoggio, una rivoluzione restava confinata nel campo dei progetti non realizzabili. La lunga attesa di un epilogo, infine, aveva logorato il rapporto tra una città, ormai stanca, e chi avrebbe dovuto guidarla verso il suo destino. Giolitti, asceso ancora, nel 1920 - e per l'ultima volta - alla presidenza del Consiglio, colse, da fine politico, l'attimo favorevole e, col trattato di Rapallo, mise fine, nel novembre, alla vicenda, ricorrendo all'esercito, il giorno di Natale, per scacciare i difensori recalcitranti. Al momento dello scontro, poi, Mussolini, che avrebbe dovuto mobilitare l'opinione pubblica, nel paese, in difesa della città, si guardò bene dal farlo, consapevole di mettere fuori gioco, in tal modo, un concorrente ingombrante ed imprevedibile. Candidati fascisti, qualche mese più tardi, furono inclusi, come contropartita, nelle liste del giolittiano blocco nazionale e trentacinque di loro furono eletti, per la prima volta, con l'appoggio del governo, deputati al Parlamento. A D'Annunzio, deluso dalla politica e desideroso di tornare al suo lavoro letterario, rimase solo il conforto di ordinare, a quanti lo avevano seguito, di "far parte per se stessi" e di non compromettersi con forze che solo in apparenza erano affini. Per rimarcare il distacco dai fascisti, il D. fondò, anzi, nel gennaio del 1921, la Federazione dei legionari fiumani, a cui trasmise la consegna di sdegnare ogni rapporto con i "traditori" della città adriatica. Nel maggio, infine, si presentò da solo - secondando il desiderio del poeta - e senza alcuna possibilità di riuscita, alle politiche, in Parma, a sottolineare un'aperta ostilità verso soluzioni bloccarde.

Tra la primavera del 1921 e la marcia su Roma, il D. concentrò la sua attività per far sì che i legionari flumani conservassero una propria indipendenza sospettosa nei confronti del fascismo. Nel contempo, si adoperò perché tutte le forze, che si ispiravano a D'Annunzio (la Federazione italiana dei lavoratori del mare, l'Associazione arditi e la Federazione nazionale dei legionari flumani) si collegassero tra di loro ed offrissero una prospettiva sindacalista alla crisi dello Stato liberale. Ci fu un, momento, anzi, nella primavera del 1922, in cui sembrò che queste forze stessero per giocare un ruolo non secondario nella vita del paese. li D., con lo pseudonimo di Luciano O'Ariella, scrisse su La Riscossa dei legionari flumani: "Bisogna decidersi: 0 noi crediamo di dover essere soltanto le vestali di un fuoco sacro affidato alla nostra custodia, all'infuori di ogni corrente vitale; o noi - uomini di azione - vogliamo inserire la nostra azione nel tumulto delle forze sociali in lotta per affermare validamente e per far trionfare i principi cui siamo votati" (29 apr. 1922). "Nel primo caso possiamo chiuderci nella nostra torre d'avorio dei postulati assoluti; ma nel secondo casotisogna accettare le necessità relative alla situazione, che è quella che è, e che non possiamo pretendere di mutare d'improvviso con le nostre negazioni dialettiche". L'acuirsi della lotta di classe ed il montare della violenza fascista travolsero, però, le schiere dannunziane, tanto più che fl poeta non suggeriva alcuna linea politica concreta, al di là dell'astensione e dell'attesa, convinto che, si al di sopra delle parti, sarebbe stato chiamato a salvare la patria, nell'ora della crisi risolutiva. La marcia su Roma colse, quindi, del tutto di sorpresa ed impotenti gli uomini che a lui guardavano con fiducia. Il D. fu tra i primi a capire, - tuttavia, che, con l'avvento di Mussolini alla presidenza del Consiglio, la partita, per gli oppositori, era persa. Dopo un ultimo tentativo di dar vita ad una Costituente sindacale (per sostenere il quale fece uscire, assieme a Rigola ed a Galbiati, nel gennaio del 1923-, il settimanale Sindacalismo) emigrò, nel febbraio, in Francia. Nella nazione vicina, si stabilì, dapprima, a Parigi, dove diresse il Consorzio cooperativo italiano del lavoro e fondò La Voce del profugo; sempre nella capitale francese, diede vita al Comitato di azione e propaganda antifascista. Si trasferì, in seguito, a Tolosa, "iniziando anche in quel centro finora immune da propaganda antinazionale - secondo quanto informò una nota del console italiano in quella città (Casellario politico centrale) - un'opera sottile e peffida di avvelenamento delle masse".

Nel Meridione della Francia, egli dette vita a un nuovo settimanale, Il Mezzogiorno, e alla casa editrice Exoria, che avrebbe svolto opera meritevole nella lotta al fascismo. Collaborò, inoltre, al Corriere degli Italiani di Giuseppe Donati ed entrò a far parte della Lega italiana per i diritti dell'uomo, di cui avrebbe assunto, da lì a poco, la carica di segretario generale. La sua attività, in breve, diede tanto fastidio al regime, che, il 14 maggio del 1926, Farinacci inviò questo lapidario biglietto a Mussolini: "Caro presidente, quando radiamo il nome di De Ambris dallo stato civile italiano? Forse è il più porco della lega!!" (Ibid.). Il consiglio del bollente ras di Cremona fu accolto con tempestività. Il 30 settembre un decreto del governo privò il D. della cittadinanza. Egli 'fu, infine, tra i promotori del convegno di Nérac, da cui nacque la concentrazione antifascista. Va aggiunto che la dittatura tentò, nei suoi primi anni di potere, di recuperarlo e, in seguito., di screditarlo, spargendo sovente la voce che egli sarebbe stato disposto a tornare in Italia, dietro adeguato corrispettivo. Il D. respinse sempre, con dignità, sia gli approcci sia le calunnie.

Il 2 nov. 1930, da Parigi, scrisse, ad esempio, a Livio Ciardi: "Non ho avuto neppure bisogno di respingere qualsiasi tentativo di approccio, perché il fascismo ha capito ch'io di certo pane non ne mangio, dopo il rifiuto da mè opposto alle offerte fattemi più volte, nel '23 e nei primi mesi del '24. Da allora sono stato finalmente in pace ed è questa l'unica gratitudine che devo al fascismo".

"Fui e, sono nemico del fascismo per necessità organica e per dovere morale. Tale resterò fino al mio ultimo respiro anche se nella mia irriducibile ostilità dovessi restar solo e senza speranza. Questo dissi quando il fascismo era nella sua parabola ascendente: non ho proprio ragione di mutare ora, mentre il fascismo precipita a rovina".

"Spero d'essere stato chiaro e - come direbbe il vostro duce - inequivocabile. V'avverto poi che manderò copia di questa lettera agli amici ed ai nemici di cui ho l'indirizzo, in Italia" (Ibid.).

Egli non ricusò mai, infine, la sua esperienza politica ed il suo passato, emblematici della generosa antinomia, di cui era stata vittima una parte della Sinistra italiana, combattuta tra una sincera ansia rivoluzionaria e la lusinga che essa fosse conciliabile con le regole ferree del capitalismo di fabbrica e con la sua volontà imperialista. Morì a Brive, d'improvviso, il 9 dic. 1934, nel corso di un incontro con alcuni antifascisti.

Tra gi i scritti del D. originati, quasi sempre, dall'attività politica, vanno ricordati: L'azione diretta. Pagine di propaganda elementare sindacalista, Parma 1907; Un episodio della lotta di classe. Lo sciopero Parmense, in Pagine libere., 30 giugno 1908; Democrazia vile, ibid., 31 luglio 1908; L'impresa dei Beoti, ibid., 15 ag. 1908; Ilcongresso di Marsiglia e il sindacalismo rivoluzionario in Francia, ibid., 10 nov. 1908; Due anni dopo. La verità sullo sciopero di Parma detta dal Presidente dell'Agraria, ibid., 10 apr. 1910; Socialismo conservatore, ibid., 15genn. 1911; Il sindacalismo italiano rinasce, ibid., 15maggio 1911; L'organizzazione operaia italiana nel 1911, ibid., 15 ott. 1911; Il fallimento federalista nell'organizzazione operaia ital., ibid., 30 ott. 1911; Gli italiani all'estero. L'emigrazione in Argentina, s. I. né d. [ma 1911]; Contro il brigantaggio coloniale e per l'interesse del proletariato, in Pagine libere, 15 ott. 1911, ristampato in Pro e contro la guerra di Tripoli, Napoli 1912, che comprende, anche l'appendice Quattro mesi dopo; Alla gloria della guerra, Parma 1912; Comitato dell'azione diretta e Confederazione generale del lavoro, Relazione al Congresso naz. dell'azione diretta in Modena, Parma 1912; Sindacalismo ed elezionismo: discussione in vista del nuovo allargamento del suffragio universale, ibid. 1912; L'unità operaia ed i tradimenti confederali, ibid. 1913; Sempre e più che mai sindacalisti. Intermezzo polemico, in Il Rinnovamento, 15luglio 1919; Responsabilità, ibid., 15 ag. 1919; I postulati dei Fasci di combattimento. L'espropriazione parziale, Bergamo 1919; La Costituzione di Fiume. Commento illustrativo, Fiume 1920; Dalla frode al fratricidio. La responsabilità del governo italiano nella strage di Fiume, Roma 1921; Filippo Corridoni, Piacenza 1922; Matteotti: fatti e documenti, Tolosa 1926; Dopo un ventennio di rivoluzione. Il corporativismo, Bordeaux 1935, oltre, naturalmente, ai numerosi articoli apparsi nei quotidiani e che sono importanti per comprendere il suo itinerario politico.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Casellario politico centrale, b. 1632, fasc. 73466: "De Ambris Alceste fu F.sco". Per la vita e l'opera, il lavoro meglio informato è da ritenersi R. De Felice, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio D-D'Annunzio, Brescia 1966; utili sono, anche, Un sindacalista mazziniano, A. D., Milano s. d. (che contiene, oltre a note biogr. ed a testimonianze, il testo della conferenza tenuta, il 10 marzo del 1922, agli operai di Parma, dal titolo: Mazzini: "L'ombra sua torna...") ed i due numeri unici A. D., pubbl. a Parma, rispettivamente, il 9 dic. 1947 e nel settembre del 1964. Sono, pure, da consultare, R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Torino 1965; Id., La Carta del Carnaro nei testi di A. D. e Gabriele D'Annunzio, Bologna 1973; Id., D'Annunzio politico, 1918-1938, Bari-Roma 1978. Per un quadro complessivo del sindacalismo rivoluzionario cfr. A. Riosa, Il sindacalismo rivoluz. in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell'età giolittiana, Bari 1976, che, però, si ferma al 1908, e l'agile volumetto.di G. B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario ital., Milano 1977. Originale per i suoi contributi è, anche, il numero di genngiugno 1975 di Ricerche storiche. Le origini ideologiche del fenomeno sono state studiate da E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964. Un raffronto tra il sindacalismo ital. e quello di altri paesi europei è nell'antologia, curata da A. M. Andreasi, L'anarcosindacalismo in Francia, Italia e Spagna, Milano 1981, ma soprattutto, nell'attento studio di A. De Clementi, Politicae società nel sindacalismo rivoluzionario, 1900-1915, Roma 1983, che estende la sua analisi all'Inghilterra ed all'America. L'influenza di Sorel sul socialismo ital. è stata esaminata da G. B. Furiozzi, Sorel e l'Italia, Messina-Firenze 1975. Lo sciopero del 1908 è diffusamente narrato da B. Riguzzi, Sindacalismo e riformismo nel parmense, Bari 1931, pp. 118 ss. Per una diversa interpretazione, di ottica sindacalista, si può vedere il recente U. Sereni, Lo sciopero di Parma del 1908: un episodio della lotta di classe, in Lo sciopero agrario del 1908: un problema storico, Parma 1984, pp. 13-154. Per il socialismo italiano di fronte alla prima guerra mondiale, A. Malatesta, I socialisti ital. durante la guerra, Milano 1926; L. Ambrosoli, Né aderire, né sabotare, Milano 1961; L. Valiani, Il partito social. ital. nel periodo dellaneutralità 1914-1915, Milano 1962; Il PSI e la guerra, num. spec. della Riv. stor. del social., X (1967), 31. Su Fiume, durante l'impresa dannunziana, esiste una estesa bibliografia. Può essere utile, per la ricchezza dei documenti, anche se l'esposizione è spesso acritica e tende, anzi, all'agiografico, F. Gerra, L'impresa di Fiume, Milano 1966, ma, soprattutto, P. Alatri, Nitti, D'Annunzioe la questione adriatica, Milano 1959. Sulla nascita dell'U.I.L. e sul ruolo svoltovi dal D., F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Bari-Roma 1974. Dello stesso autore, per i rapporti tra D'Annunzio, i movimenti che a lui si richiamavano ed il fascismo, dopo il "Natale di sangue", Arditi e legionari dannunziani, Milano 1969. Le vicende delle opposizioni all'estero, infine, hanno una puntuale ricostruzione in S. Fedeli, Storia della concentrazione antifascista, 1927-1934, Milano 1976.

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