ALCHIMIA

Enciclopedia Italiana (1929)

ALCHIMIA

A. Benv.

. La storia dell'alchimia, secondo il Kopp, è la storia di un errore umano. Più che d'un errore s'avrebbe a dir d'una colpa se pensiamo a Dante che confina "nell'ultima bolgia delle diece" il condiscepolo suo Capocchio, senese, che falsò "li metalli con alchimia" e con lui Griffolino d'Arezzo "per alchimia che nel mondo usò".

Né da meno di Dante era il Petrarca che nel suo scritto De remediis utriusque fortunae affermava altro non essere l'alchimia che "fumo, ceneri, sudori, sospiri, parole, inganni e vituperî".

Se noi poi a questi anatemi, aggiungiamo quello decretato dal Consiglio dei Dieci di Venezia, che nel 1488 proibiva rigorosamente ogni pratica alchimistica, e più ancora ricordiamo quanto in quei tempi Leonardo da Vinci scriveva contro gli alchimisti che definiva bugiardi e ingannatori, dovremmo concludere che l'alchimia non solo non era da considerare vera scienza, ma piuttosto un insieme di pratiche inutili ed illecite.

Fabbricare l'oro nel laboratorio, tramutando gli ignobili metalli in quello tanto desiderato, fonte di benessere e di ricchezza; ricercare affannosamente la pietra filosofale o la polvere di proiezione, la sostanza miracolosa atta a produrre questa trasformazione; creare colla pietra filosofale stessa o con altri composti l'elisir di lunga vita, il rimedio a tutti i mali, il farmaco che dà all'uomo la giovinezza eterna, queste erano le lusinghiere visioni e i piacevoli sogni degli alchimisti. Ma poiché il mistero attira e seduce, così è accaduto che non solo studiosi autentici, indagatori appassionati dei segreti della natura e pieni di fede nei risultati delle ricerche sperimentali, ma anche anime mistiche, illusi d'ogni genere, ciarlatani desiderosi di far fortuna, si dedicarono fin dalla più remota antichità all'alchimia.

Ma dal fumo dei loro fornelli, dai miscugli dei loro zolfi e dei loro sali, dai crogioli ove fondevano i loro metalli, dagli alambicchi ove distillavano le più strane sostanze è sorta una scienza nobile e grande a cui l'umanità deve infiniti benefici: dalla culla informe e povera dell'alchimia è nata la chimica.

Il nome d'alchimia viene dall'arabo al-kīmiyā' (ove al- è l'articolo), uno dei nomi del reagente universale, affannosamente cercato dagli alchimisti, che dovrebbe operare la suddetta trasformazione e che in occidente era denominato anche "pietra filosofale" (lapis philosophorum, già λίϑος τῶν ϕιλοσόϕων o λίϑος τῆς ϕιλοσοϕίας in testi bizantini del sec. III d. C.). L'alchimia aveva dunque in arabo, fra gli altri nomi, quello di ṣanat al-kīmiyā' "arte di (fabbricare) la pietra filosofale"; talora si diceva brevemente al-kīmiyā', e questo duplice significato del vocabolo alchimia (reagente per la trasmutazione dei metalli e arte di fabbricare ed applicare questo reagente) è ancora manifesto negli scritti medievali latini.

A sua volta il vocabolo arabo deriva, attraverso il siriaco kīmiyā (solo il siriaco spiega come l'arabo abbia reso con k il χ greco), da una tarda voce greca, attestata già verso la fine del sec. III d. C. (in Zosimo), che nell'età bizantina si pronunziava chimía (ch come in tedesco) ma si scriveva in diversissime maniere (χημεία, χιμεία, χυμεία, χημία, ecc.), delle quali è impossibile dire con sicurezza quale sia la più corretta, ignorandosi la vera etimologia di questa parola, propria del linguaggio alchimistico soltanto; si diceva ἡ χημεία ἀργύρου καί χρυσοῦ "la fabbricazione dell'argento e dell'oro". Si ignora se il greco chimia fosse già usato anche nel senso di reagente atto a produrre la trasmutazione dei metalli.

Ad ogni modo il vocabolo chimia era poco adoperato rispetto ad altre denominazioni; si preferiva dire ἡ χρυσοποιία (la fabbricazione dell'oro), ἡ ἀργυροποιία (la fabbricazione dell'argento), ἡ ϑεία τέχνη (l'arte divina), ἡ ἱερὰ τέχνη (l'arte sacra), τὸ μέγα ἔργον (la grande opera) e simili. Gli Arabi designavano l'alchimia anche con i nomi di "arte dell'elisir" (al-iksīr, cioè pietra filosofale, sinonimo di al-kīmiyā'), "l'arte", "la sapienza", "la scienza della pietra", "la scienza della chiave", "la scienza della bilancia".

L'alchimia è nata nell'ambiente ellenistico dell'Egitto nel sec. I d. C., benché gli scrittori alchimistici invochino l'autorità di fantastici personaggi che sarebbero vissuti nella più remota antichità egiziana, come Ermete Trismegisto (ora identificato con il biblico Enoch, ora con alcuno degli dei egizî: Ptah, Khnum, Thot ed altri); o anche facciano risalire le loro dottrine ad Adamo, ad Abramo, a Salomone, ecc. Alla loro volta alcuni moderni studiosi citano un papiro greco conservato a Leida ed altro analogo a Stoccolma, entrambi del sec. III, se non del sec. IV d. C., quali i più antichi testi alchimistici genuini; senonché in essi non si tratta affatto di alchimia, ossia di trasmutazione dei metalli, ma soltanto di numerose ricette, per nulla misteriose, con le quali si possono imitare ovvero falsificare metalli nobili, pietre preziose, materie coloranti di gran pregio, ecc. Le prime opere alchimistiche sono in greco, e pseudepigrafe, ossia falsamente attribuite a personaggi veri oppure fantastici; le più antiche sono alcuni scritti che passano sotto il nome del famoso filosofo Democrito di Abdera (470-370 a. C.), mentre sono composizioni non anteriori al sec. I d. C. e non posteriori al II. Subito dopo, quasi contemporaneamente, vengono altri scritti pseudepigrafi, tra i quali alcuni attribuiti ad Ermete, Agatodemone, Iside, Chimete (Χήμης o Χίμης o Χύμης, da cui alcuni antichi facevano derivare il nome greco dell'alchimia), Cleopatra, Mosè, ecc., e ad una Maria, dapprima chiamata semplicemente Maria l'Ebrea e poi, già alla fine del sec. III, identificata con l'omonima sorella di Mosè.

Tutti, chimici e non chimici, conoscono quel bagno ad acqua che dicesi bagno-maria e che sarebbe stato da lei inventato, ma gli storici ci fanno sapere che questo procedimento era conosciuto molto tempo prima di lei. Maria ci parla di una pietra filosofale che trasforma i metalli in oro e in una Littera de corona et natura de creatione, che il Holmyard ha illustrato recentemente, ci narra d'una femmina che genera sette figli, che sono i sette metalli. Due divengono re: l'oro e l'argento; gli altri rimangono servi. E poiché uno di questi si reca dalla madre per lamentarsi della sua sorte, ella gl'insegna che sciogliendosi nelle ultime particelle che lo compongono e ritornando nel seno della madre potrà giungere alla perfezione. Questo concetto della vita dei metalli si ritrova anche nei frammenti a noi giunti degli scritti di Cleopatra, la quale c'insegna che macerate, per ben sette volte, le sostanze che producono la pietra dei filosofi, bisogna porle poi nella tomba per farle rinascere a nuova vita. Lo stesso leggiamo nelle opere di Olimpiodoro, di Zosimo nato a Panopoli (l'attuale Akhmīm; sec. III-IV d. C.) e d'altri famosi alchimisti. Zosimo attribuisce ai metalli non solo la vita ma anche il sesso. Il rame e la magnesia, ci dice, sono, di per sé, morti; ma mescolati con altre sostanze, dopo lunga gestazione, formano un nuovo embrione che si sviluppa per dare origine a un corpo nuovo. Data la vita ai metalli, si comprende perché gli alchimisti chiameranno uovo dei filosofi la stufa dove i metalli si fonderanno per trasformarsi.

La conquista musulmana dell'Egitto nel sec. VII cacciò l'alchimia greca dalla sua patria e l'obbligò a rifugiarsi a Costantinopoli, ove rapidamente decadde, riducendosi a compilazioni di manuali fatti con estratti dall'antecedente letteratura, senza che i rispettivi autori esercitassero veramente l'arte nei laboratorî. Lo scritto più notevole di questo periodo è la Chrysopoea (Fabbricazione dell'oro) di Michele Costantino Psello (vissuto a Costantinopoli nel 1018-1078, sacerdote, teologo e filosofo, scrittore di disparate materie), che la compose per il patriarca Xifilino; il trattatello, sotto forma di lettera, ebbe poi qualche importanza per la diffusione delle idee alchimistiche nell'Europa latina al principio del Rinascimento (una traduzione italiana del sec. XVI fu pubblicata nel 1928 da J. Bidez e C. O. Zuretti), ma è evidentemente l'opera d'uno che conosceva l'alchimia soltanto dai libri.

Grande oscurità regna ancora intorno al modo con cui l'alchimia greca (o, più esattamente, ellenistica) passò agli Arabi, cioè ai popoli musulmani; occorreranno molte ricerche per stabilire quali opere greche furono tradotte direttamente in arabo, e quali, invece, attraverso eventuali traduzioni siriache, di cui fino ad ora abbiamo solo pochissimo (la parte maggiore dei testi fatti raccogliere e pubblicare dal Berthelot come siriaci sono tali in quanto alla scrittura, ma arabi per lingua ed appartenenti ad età musulmana avanzata); così è impossibile per ora determinare quanta parte nella trasmissione abbia avuto quel focolare di cultura greca pagana di Harrān (l'antica Carrhae, nella Mesopotamia centrale occidentale), che si mantenne vivo sino a tutto il sec. X e che diede anche larghi contributi alle scienze occulte presso i musulmani. Leggende più tardi assai diffuse anche nel Medioevo latino ci rappresentano come primo cultore arabo d'alchimia un principe appartenente alla stirpe degli Omayyadi (od Ommiadi), figlio di Yazīd, il secondo califfo di quella dinastia: Khālid ibn Yazīd, il "Calid filius Gezid filii Madoya" (cioè Mu‛āwiyah) di nostri testi medievali, che visse a Damasco circa negli anni 665-704. Gli si attribuisce non soltanto l'aver fatto tradurre libri di varie scienze dal greco (cosa non inverosimile), ma anche la composizione di opuscoli e poemetti alchimistici; anzi un dizionario bibliografico arabo della prima metà del sec. XVII registra un suo presunto poema in 2315 distici, intitolato Il paradiso della sapienza (la "sapienza" è l'astrologia), di cui le fonti antiche invece nulla sanno e che senza dubbio è apocrifo. Leggende esistenti nel sec. XII in Oriente narrano di romanzeschi suoi rapporti col monaco cristiano Mariano [?], nelle versioni latine Morienus; ma si tratta di fantasie, passate poi anche al Medioevo latino, il quale fra l'altro fabbricò, in Italia o in Spagna, nel sec. XIII o al principio del XIV, basandosi su materiale arabo, il famoso Liber de compositione alchemiae quem edidit Morienus romanus, che falsamente viene presentato come una traduzione fatta da Roberto Castrense (cioè di Chester, fiorito prima della metà del sec. XII), come dimostrò J. Ruska nel 1924.

Su terreno storico siamo con Giābir ibn Hayyān, vero fondatore dell'alchimia araba, il Geber della tradizione medievale europea. Della sua vita non si sa nulla; dei sette libri che gli si attribuiscono tre almeno, secondo il Ruska, sono falsi, e mentre quest'autore, col Berthelot, sostiene come indiscutibile che l'alchimista arabo nulla abbia a che fare con l'autore della Summa perfectionis e di quegli scritti greci e latini che, conosciuti nel sec. XIII, gli diedero tanta fama; non mancano, d'altra parte, studiosi che cercano ancora ai giorni nostri, con minute indagini, di identificare le due persone, né storici moderni della chimica, come l'Armitage, che attribuiscono al Geber, vissuto "nella seconda metà del sec. VIII", tutte le scoperte descritte nei famosi libri sopra ricordati. Comunque, questo problema storico è interessante, perché, se i libri latini del Geber fossero autentici, si dovrebbe pensare che già nell'ottavo secolo gli alchimisti avessero cognizioni chimiche assai estese. Infatti in questi libri il Geber ci descrive apparecchi assai perfezionati per ebollizione, evaporazione, filtrazione e distillazione; riesce a sublimare e cristallizzare varie sostanze quasi allo stato di purezza; ottiene puri il sale ammoniaco e il salnitro, ricava l'acido solforico dalla distillazione dell'allume e l'acido nitrico dall'azione dell'acido solforico sul salnitro; prepara l'acqua regia e vi scioglie l'oro; prepara pure l'acetato di piombo e altri acetati; dall'argento ricava il suo nitrato, ottiene dal mercurio il sublimato e ha estesa conoscenza degli ossidi e dei solfuri.

Ma, se gli scritti del sec. XIII attribuiti al Geber non gli appartenessero, donde avrebbe l'autore assunte tante conoscenze? Se non dagli Arabi, da chi mai? Un'analisi filologica dei suoi scritti fa pensare all'Italia. Egli chiama infatti la polvere nera polvere romana; battezza il nitrato potassico col nome di salnitro, proprio della nostra lingua; parlando dell'acqua regia la denomina acqua forte; definisce l'elmo dell'apparecchio distillatorio col nome italiano di cappuccio; aggiunge l'appellativo di romano al vetriolo e usa molte altre espressioni italiane per descrivere prodotti chimici da lui preparati.

Certamente l'alchimia era in Italia già fin dal sec. XI largamente coltivata; la preminenza che il nostro paese aveva sugli altri, per la sua estesa cultura, doveva favorire questi studî e queste ricerche. Ma ben presto la maggior parte dei nostri connazionali comprende come sia inutile cosa tentare la fabbricazione dell'oro o dell'elisir di lunga vita e sceglie la parte più pratica e per così dire industriale degli insegnamenti alchimistici: la separazione dei varî metalli e la preparazione delle leghe; l'indoratura con foglioline d'oro di diversi oggetti, come libri e miniature; la fabbricazione di varie sostanze coloranti; la tintura delle stoffe e dei vetri.

Nel sec. XIII la storia dell'alchimia ricorda un nome che alcuni vogliono sia di un italiano, quello d'Arnaldo di Villanova, medico, astrologo ed alchimista, il quale, dopo aver preparato l'alcool puro, l'avrebbe con successo usato in molte malattie. Ma le opere di questo alchimista, come quelle di un altro celebre adepto di questa scienza, Raimondo Lullo di Maiorca, pare siano da attribuirsi, secondo il Kopp e il Hauréau, a discepoli catalani e spagnoli del sec. XIV, i quali attribuirono ai celebri maestri scoperte che erano state fatte in tempi posteriori. Comunque, al Lullo (1225-1315) si attribuisce la distillazione dell'alcool, la sua disidratazione col carbonato di potassa, la preparazione di molti ossidi e di molti olî essenziali, la separazione del carbonato d'ammonio dall'urina e infine la preparazione di una panacea universale.

A questi si nomi dovrebbe aggiungere quello illustre di Ruggero Bacone (1214-1285), ma, stando agli storici, nessuno degli scritti alchimistici attribuitigli sarebbe autentica opera sua, e comunque quel poco che gli appartiene costituirebbe un caos tale, al dire del Little (che pubblicò nel 1914 un volume per celebrare il 700° anniversario del Doctor mirabilis), da rendere ogni cosa incomprensibile.

Intanto, poco alla volta, l'alchimia andava trasformandosi nella iatrochimica: cercando di isolare i principî attivi contenuti nelle erbe medicinali, tentando di preparare nei laboratorî alchimistici i primi rimedî sintetici di origine minerale, poneva le basi di quelle scienze che furono poi la chimica biologica e la chimica farmaceutica. Il merito di questa trasformazione si deve soprattutto a Paracelso. Ma gli alchimisti celebrano anche il nome di Basilio Valentino. Alcuni storici ne negano l'esistenza; altri, come il Sudhoff, hanno considerato questo nome quale uno pseudonimo di Giovanni Thölde, camerario di Frankenhausen, vissuto al principio del sec. XVII, cui si dovrebbe attribuire il Currus triumphalis antimonii e la maggior parte dei trattati creduti opera di Basilio; ma non mancano coloro i quali credono che un monaco di questo nome vivesse veramente nel sec. XV nel convento di Erfurt e che dopo aver viaggiato a lungo peregrinasse a S. Giacomo di Compostella e, tornato in patria, si dedicasse completamente ad esperimenti alchimistici. Comunque, a Basilio Valentino si ascrive non solo il merito d'aver per primo menzionato il bismuto, lo stagno e il manganese, e d'avere scoperto l'acido cloridrico preparandolo per azione del vitriolo sul sale comune, ma anche d'aver descritto molti preparati mercuriali, arsenicali e ferruginosi. Più specialmente, però, gli si attribuisce il merito d'aver introdotto in medicina l'uso del tartaro emetico e d'altre sostanze minerali fino allora usate solo per via esterna. Ma in questo campo certamente la gloria maggiore spetta a Paracelso. Quest'uomo di genio, nato nel 1493 in Einsiedeln e morto a Salisburgo nel 1541, portò nella medicina e nella chimica di quei tempi una vera rivoluzione. Convinto dell'importanza della chimica, voleva che nei medicamenti si separasse il buono dal cattivo e si tentasse, con ogni mezzo, di isolarne i principî attivi: cosa che appunto riteneva compito principale dell'alchimia. E poiché tutto nel mondo è veleno, non v'è ragione, egli dice, per cui non si possano ricercare ovunque i rimedî: l'importante sta nel saperli convenientemente somministrare e purificare. E, saldo in queste idee, proponeva lo stagno come antelmintico, raccomandava lo zolfo nelle malattie febbrili e usava l'antimonio come purgante. Nel suo Tractatus de Alchimia, nonostante che egli vi si paragoni al Cristo, Paracelso ci dice in verità poco di nuovo, pur descrivendo con gran lusso di particolari la sua pietra filosofale. Tuttavia la sua vita interamente spesa nel laboratorio chimico alla ricerca di nuovi composti, di nuovi arcani e quintessenze, e il linguaggio suo, caustico e feroce contro tutta la scienza ufficiale del passato, molto hanno contribuito al progresso della chimica di quei tempi.

Così si spiega come egli abbia avuto molti nemici, ma anche molti seguaci. Uno di questi fu il Libavio, che nella sua Alchimia, pubblicata nal 1597 e scritta, a differenza della maggior parte delle opere alchimistiche d'allora, in linguaggio intelligibile e chiaro, ci dà notizia della scoperta del cloruro stannico, chiamato ancor oggi liquore fumante di Libavio, e ci descrive un metodo di preparazione del vetriolo, analogo a quello ora usato nell'industria. Altro illustre chimico di quei tempi è il veronese Angelo Sala, che morì a trentotto anni e, pur vagando qua e là per il mondo, aveva potuto fabbricare e dosare gli alcali, preparare l'emetico ferruginoso e l'ossalato di potassio, isolare l'acido fosforico dalle ossa, combinare direttamente l'acido cloridrico con l'ammoniaca per fare il cloruro d'ammonio e fabbricare l'acido solforico dalla combustione dello zolfo.

Dotato di molte delle caratteristiche intellettuali di Paracelso, se non suo seguace, fu il van Helmont, celebre medico, nato a Bruxelles nel 1577. Egli ridusse all'acqua sola i quattro elementi aristotelici e fece ingegnose osservazioni sull'accrescimento delle piante. Per primo adoperò la parola gas e conobbe molte sostanze aeriformi. Diede un'accurata descrizione dell'anidride carbonica, che chiamò gas silvestre, e ne dimostrò la provenienza dal calcare, dalla potassa e dalla fermentazione del vino e della birra. Interessanti sono le sue osservazioni fisiologiche, come quelle di Silvio De la Boë, di Willis, di Crollio, di van Mynsicht e di altri alchimisti che dobbiamo accontentarci di menzionare.

I secoli XV e XVI possono dirsi i secoli del delirio alchimistico. Non solo le scoperte sopra ricordate davano impulso a questa scienza e creavano nuova esca alle speranze degli alchimisti, ma le pubblicazioni su questi argomenti divenivano così numerose che il Borelli stimava potessero noverarsi a non meno di quattromila. E tutti, scienziati, principi, curiosi di cose naturali, ciarlatani ed illusi, si davano alle ricerche d'alchimia.

Alla corte dell'imperatore d'Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d'Inghilterra si distillavano erbe, si preparavano olî e si trattavano metalli secondo ricette alchimistiche, sia per fabbricare meravigliose medicine, sia per fare l'oro. E lo stesso accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove lo stesso Emanuele Filiberto, come appare da un recente scritto del Mascarelli, attendeva con le proprie mani, tra fornelli e lambicchi, alle operazioni alchimistiche.

La chimica intanto progrediva a gran passi. Il Glauber (nato nel 1604) perfezionava l'arte farmaceutica e scopriva il solfato di sodio, Palissy arricchiva di nuove osservazioni l'arte ceramica; Giorgio Agricola e Vannoccio Biringucci davano estesissime notizie sull'estrazione, preparazione e saggio dei minerali metallici; Camillo Leonardi col suo Speculum lapidum (1516), Ventura Rossetti col suo Plichto de l'Arte de' Tintori (1540), il Piccolpasso con l'Arte del Vasaio (1612) e il Neri con l'Arte vetraria (1612) portavano importantissimi contributi alla chimica applicata all'industria. In quel tempo, cioè nei primi anni del 1600, gli acidi minerali più comuni - solforico, cloridrico e nitrico - erano divenuti articoli di commercio e si usavano nella fabbricazione di molti prodotti; molti ossidi metallici erano usati nelle arti a varî scopi, molte sostanze organiche venivano scoperte, fra cui molti acetati e tartrati, come il sale d'acetosella, i sali di Rochelle e di Seignette. In medicina s'introduceva l'uso degli acidi succinico e benzoico; Tachenio scopriva l'acido stearico e Valerio Cordo l'etere solforico (1540).

Si comprende come questi veri progressi della chimica accompagnati dall'incremento delle scienze naturali e dalle celebri esperienze del Boyle, del Kulkel, del Mayow, del Boerhaave, del Hales e di tanti altri dovessero finire con lo screditare la scienza alchimistica, che andava eternamente alla ricerca dell'alkaest o solvente universale, dell'elisir di lunga vita e della pietra filosofale. Gli albori della chimica segnano il tramonto dell'alchimia.

Derisa, già nell'800, da al-Kindī, medico arabo, che scriveva sugl'inganni degli alchimisti, e dal grande filosofo e medico Avicenna (980-1037), che affermava essere follia pretendere di tramutare in oro i metalli, i quali nascono nella terra con tutte le proprietà che Iddio ha date loro, l'alchimia divenne ben presto oggetto continuo di satira, di beffa e di dileggio. Ricorderemo solo l'Augurelli di Rimini (1441-1524), il quale recatosi da papa Leone X gli disse che aveva scoperto la pietra filosofale e che avrebbe tramutato in oro il mare intero, se il mare fosse stato di mercurio. E poiché s'attendeva dalla munificenza del pontefice un premio per la sua scoperta, il lepido papa Medici gli regalò una borsa, perché vi riponesse l'oro che l'alchimia sapeva così facilmente procurare.

All'Augurelli aggiungeremo anche il Garzoni, che nella sua opera enciclopedica Piazza universale (1585) ammoniva i lettori di star bene alla larga dagli alchimisti e li consigliava, se avessero voglia di maneggiar oro e argento, di trovar impiego in una zecca dove, senza spese, avrebbero potuto fare la migliore delle alchimie.

Pur tuttavia l'alchimia non è morta. Passata, con la scomparsa di Paracelso, nelle mani dei Rosa-Croce, associazione che si occupava anche di cabala e di medicina, e alla quale appartenne anche il Cardano, l'alchimia continuò ad essere più specialmente coltivata da occultisti ed illuminati, mentre veniva sfruttata da ciarlatani e da ingannatori. Nel 1746 l'imperatore Francesco I faceva perquisire un adepto per vedere se egli possedesse veramente la pietra filosofale che già tanti dichiaravano d'aver avuta nelle mani; nel 1751 Federico il Grande donava 10.000 talleri alla signora von Pfuel per ottenere le ricette alchimistiche che essa possedeva; nel 1799 il Parlamento inglese comperava da una certa Jane Stephens un suo segreto; e ancora nel 1912 la Société alchimique de France pubblicava lo scritto di Jollivet Castelot: Comment on devient alchimiste; la Synthèse de l'Or dello stesso autore, l'Idéographisme alchimique di Oswald Wirth e il Cours d'alchimie rationnelle di Delobet.

Senza cercar di spiegare questa continuata adorazione per le teorie alchimistiche, possiamo piuttosto domandarci se la scienza moderna coi suoi studî sulla radioattività e sulla costituzione dell'atomo non dia in parte ragione agli alchimisti sulla trasmutabilità degli elementi. Certamente dà loro tanta ragione, che noi possiamo affermare che il sogno degli alchimisti, almeno in teoria, è divenuto realtà. Ma se pur passasse dalla teoria alla pratica e noi potessimo fabbricare l'oro, non dovremmo ancora una volta ripetere le parole di Platone: quand'anche si trasformassero le rocce in oro, quale vantaggio ne avrebbe l'umana felicità?

Bibl.: La storia dell'alchimia trovasi più o meno succintamente descritta in tutte le storie della chimica e della medicina. Oltre alle memorie speciali possono consultarsi: Wiegler, Historisch-kritische Untersuchungen der Alchemie, Weimar 1777; Schmieder, Geschichte der Alchemie, Halle 1832; Figuier, L'alchimie et les alchimistes, Parigi 1854; Schindler, Der Aberglaube des Mittelalters, Basilea 1884; Kopp, Die Alchemie in älterer und neuer Zeit, Heidelberg 1886; Berthelot, Les origines de l'alchimie, Parigi 1886; Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Parigi 1888; Waite, Lives of Alchemystical Philosophers, Londra 1888; Poisson, Théorie et symboles des alchimistes, Parigi 1891; Lippmann, Entstehung und Ausbreitung der Alchemie, Berlino 1919.

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