DE GASPERI, Alcide

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DE GASPERI (Degasperi), Alcide

Piero Craveri

Nacque il 3 apr. 1881 a Pieve Tesino (Trento) da Amedeo e Maria Morandini. Di famiglia povera, profondamente cattolica, fu primo di quattro figli, ebbe due fratelli (il secondogenito, Mario si avvierà al sacerdozio e morirà giovanissimo nel 1906) e una sorella. Il padre, originario di Sardagna, figura semplice e bonaria, era capoposto (maresciallo maggiore) della locale gendarmeria; fu trasferito nel 1894 a quella di Civezzano, dove il D. venne avviato agli studi sotto la guida del sacerdote V. Merler. La famiglia trascorreva le vacanze a Predazzo, comune nativo della madre, donna di profonda fede religiosa e forte carattere.

Proseguì i suoi studi a Trento, come interno del collegio vescovile, e completò gli ultimi due anni liceali nel locale imperial regio ginnasio superiore, conseguendo la maturità classica nel luglio del 1900. A quella data la "sua vocazione politica" era già in nuce, giacché attecchì precocissima sul solido fondo della sua formazione cattolica.

L'ambiente del collegio vescovile, col suo corpo insegnante scelto, istituzione rappresentativa della cattolicità trentina, da sempre sensibile alle tradizioni di italianità della regione, si apriva allora alle idee e alle opere di socialità del clero e del laicato. E questi incominciavano a riflettere l'inquietudine nuova che attraversava la cultura e l'azione politica cattolica in Germania e Austria, come in Italia, lungo quell'ultimo squarcio di secolo, cosicché si davano occasioni, sempre meno casuali, di contatti e presenze a Trento di personalità cattoliche europee, ponendo al di là del solido, ma chiuso, cerchio di quella provincia i problemi del cattolicesimo sociale e politico, nel loro contrasto con la società liberale e con il movimento socialista. Dovevano farsi sentire anche gli echi della reazione italiana del 1898 - che aveva investito tra le altre alcune organizzazioni cattoliche - per aprire i primi convincimenti ad uno scenario più ampio. Il compatto tessuto sociale religioso trentino non poneva un problema di resistenza o di riconquista cattolica, ma certamente richiedeva un nuovo modo di pensare e perseguire la sua conservazione. Il tema si rifletteva su pressocché tutti gli aspetti della vita civile e religiosa; l'immagine era quella di un mondo in tempesta, che si rifrangeva in un universo relativamente tranquillo e tuttavia ad esso esposto dai suoi peculiari problemi di sviluppo economico e dalla questione della nazionalità in una terra di confine.

Occorre tenere presenti questi motivi quando giustamente, peraltro, si asserisce che il cattolicesimo del D. fu innanzitutto quello delle "borgate trentine", legato agli elementi naturali della vita dell'uomo, la nascita e la morte, il focolare domestico, "la voce delle campane, tutto il buon passato trentino, seminato di croci e di campanili" (A. De Gasperi, I cattolici trentini..., I, p. 29). E ciò per intendere come esso non fu solo opposizione al "radicalismo anticlericale" o alla "liberaleria" e al "socialismo marxista" (quale troviamo già riflessa nei primi impegni giovanili, come la sua partecipazione, ancora studente ginnasiale, alla fondazione dell'Associazione cattolica trentina, nel 1898 al convegno di Cles e nel 1899 al suo primo congresso di Pergine), ma un maturare assai più complesso di interessi e proponimenti.

Il tradizionalismo rimane impresso profondamente nella sfera sentimentale, ma non trapassa in quella pratica, dove immediata è la consapevolezza dei pericoli che la tradizione corre e di come il problema sia quello di difenderla adeguandola, tra l'altro maturando via via, con una lucida sequenza, le distinzioni tra fede, socialità e politica e di cui la politica è indubbiamente il termine nuovo da sperimentare.

Nell'autunno del 1900 si iscrisse al corso di filosofia dell'università viennese; si laureò nel 1905 con una tesi su Carlo Gozzi. Vienna l'avrebbe di nuovo stabilmente accolto nel 1911 in qualità di deputato trentino al Parlamento; ma, come ha notato il Wandruszka (Canavero-Moioli, 1985, pp. 225 ss.), furono gli anni universitari quelli veramente decisivi della sua formazione culturale e politica. Il D. vi trovò il movimento cristiano-sociale guidato nella capitale dal capo carismatico Karl Lueger, da tre anni borgomastro, all'apice delle sue fortune.

Aveva superato il veto ad esso frapposto dall'imperatore Francesco Giuseppe, l'opposizione degli elementi conservatori dell'episcopato austriaco, il tentativo di provocare una sconfessione papale contro quello che veniva definito il "movimento dei cappellani" e raccoglieva proprio nelle elezioni comunali del 1900 il suo maggior successo, con una politica sociale, additata ad esempio da tutti i movimenti cattolici d'Europa, forte di una base elettorale piccoloborghese ed anche operaia, che dalla capitale si diffondeva nelle provincie, strappando ai conservatori cattolici il loro tradizionale predominio.

Il D., giovane matricola, ebbe così subito sotto gli occhi un campo sperimentale senza precedenti della "politica cattolica". Tramite le associazioni studentesche egli entrò in contatto con il movimento studentesco cattolico dell'università di Vienna che costituiva una colonna portante del partito cristiano-sociale. Divenne membro dell'Unione cattolica italiana, che faceva parte del Cartell-Verband, insieme con altre associazioni di diversa nazionalità, delle quali la più importante era la Norica, tra i cui aderenti fece presto amicizia con Franz Hemala, che sarà poi eminente organizzatore e storico del sindacalismo cristiano, e Friedrich Funder, direttore della Reichspost, quotidiano influente del cattolicesimo sociale e politico austriaco. All'ambiente della Norica risalgono pure i suoi primi rapporti con Ernst Commer, venuto proprio nell'autunno del 1900 da Breslavia ad insegnare a Vienna, come ordinario di dogmatica alla facoltà di teologia cattolica.

Il D. si immerse in queste nuove esperienze con grande fervore. Il credo socialriformista a cui il barone Karl von Vogelsang aveva dato formulazione dottrinale e a cui il Lueger dava applicazione nella sua funzione di borgomastro, costituivano un'esperienza assai più vasta delle opere socioeconomiche dell'organizzazione cattolica trentina e aprivano quell'orizzonte politico attraverso cui la lotta al capitalismo liberale e al socialismo poteva dirsi fondata e concreta nel risultato. Il D. se ne faceva instancabile propagandista. A Vienna, oltre all'intensa partecipazione alle riunioni studentesche, fece attivo proselitismo predicando il verbo della Rerum novarum negli ambienti operai dell'emigrazione trentina, scontrandosi con i socialisti. A Trento, dove tornava per le vacanze estive, prendeva viva parte alle iniziative cattoliche locali, in particolare dell'Associazione cattolica trentina in cui travasava le nuove esperienze, come mostra la relazione sulla "riscossa cristiana nel campo della cultura" che tenne nel settembre del 1901, all'annuale congresso dell'associazione a Mezzocorona.

Di questo impegno è significativo, tra gli altri, un aneddoto tramandato dal sacerdote Costante Dallabrida che lo accompagnava per il Vorarlberg ad assistere gli emigrati trentini: una sera, sfiniti, si gettarono vestiti come erano sulle brandine per dormire quando il D. si alzò dicendo: "don Costante, dobbiamo ancora dire il rosario" (Andreotti, 1964, p. 15). Non era uno zelante e il tratto psicologico che se ne può evincere sembra più complesso. C'era una sfera nella quale il dubbio, lo stesso del quotidiano affanno, non entrava, cioè in quella della fede, "regola fissa", "anima e midollo delle cose" (I cattolici trentini..., I, p. 24), e ancor più in quella dell'obbedienza alla Chiesa di cui egli ebbe una nozione teologica tradizionale, rispetto alla quale l'autonomia del credente era storicamente da determinarsi nella sfera politica e sociale, non in quella ecclesiale o dottrinale, onde la renovatio implicava sempre distinzione tra individuale e sociale e quindi tra fede e politica, la quale ultima era sempre soltanto storicità concreta. È un motivo, questo, naturalmente destinato a riproporsi più volte nel corso della sua vita con diverse metamorfosi, ma i cui lineamenti intellettuali gli si palesarono chiaramente già negli anni universitari. È significativo che nell'ambiente culturale dei cristiano-sociali, che egli così intensamente frequentava, venne subito legandosi al Commer, che ne era rimasto ai margini, rappresentandovi l'opinione più integralistica ed antimodernista, a differenza di altri studiosi di opposta tendenza. Era una scelta prima istintiva, poi riflessa, che probabilmente già precede lo svolgimento dei suoi rapporti con Romolo Murri e l'esperienza italiana della Democrazia cristiana.

Il D. conobbe il Murri in occasione del viaggio a Roma compiuto in compagnia del Commer nel marzo 1902. Venne ricevuto in udienza privata da Leone XIII. Tra le varie sedi del movimento cattolico in Roma egli si recò soltanto in quella della Democrazia cristiana, dove, oltre al sacerdote marchigiano, incontrò A. Fogazzaro. Con Murri nacque una corrispondenza, e il D. scrisse su Il Domani d'Italia a proposito dei cristiano-sociali austriaci, e sulla Reichspost dei democristiani italiani. Più che un'adesione fu una simbiosi con quelle idee riformatrici. Come ha notato Bedeschi, il D. sembrava aver con esse in comune "una fervida ammirazione per la democrazia organica" (p. 23), che la formula murriana proponeva in modo certamente più moderno e diretto del riformismo del Vogelsang, e più assimilabile ai connotati politicosociali del movimento cattolico trentino. Ma il consenso del D. al programma murriano non sembra superare il crinale politicosociale per investire la sfera ecclesiale. Lo palesa del resto proprio una delle lettere al Murri, dove mostra di non condividere la difesa assunta dalla Reichspost circa le idee riformatrici dell'Ehrard, che gli pareva mettere "in discussione cose su cui non conviene discutere" (p. 112). Del resto, seppure a distanza, il D. si mostrò solidale con il travaglio della Democrazia cristiana nella crisi che la travolse a cavallo dello scioglimento dell'Opera dei congressi; e, se il raffreddamento dei suoi rapporti con il Murri si può collocare alla fine del 1904, la sconfessione e la cancellazione storica vennero più tardi, dopo la scomunica di questo. Ma il punto di dissenso fu quell' "infelicissimo pensiero" di voler "trasformare la democrazia cristiana in una riforma della filosofia, delle scienze sacre e degli ordinamenti ecclesiastici", che si accompagnava alla sua scrupolosa condanna del modernismo (I cattolici trentini..., I, pp. 255 ss.) e che più tardi gli faceva dire del Murri che era un "misero apostata" (Ibid., II, p. 241).

Il ricco e denso apprendistato nella Vienna cattolica non discostò mai il D. da quello che rimaneva il centro dei suoi pensieri giovanili, lo sviluppo del movimento cattolico trentino. Proprio in quel giro d'anni a cavallo di secolo esso attraversava una delicata fase di trapasso.

La Chiesa trentina pur dopo un secolo di alto patronato imperiale, per la stessa peculiare articolazione del tessuto socioreligioso che la sorreggeva, non si era sostanzialmente assimilata al modello del curialismo austriaco, mantenendosi in una posizione di delicato equilibrio tra la società locale e l'Impero asburgico. Ma proprio il lento modificarsi dei rapporti tra società e Stato, all'interno di questi, con lo sviluppo capitalistico, la necessaria introduzione di forme di democrazia liberale, l'irrigidimento nazionalistico delle sue varie etnie, specie quella tedesca, spingevano verso un cambiamento. Nel 1896 la riforma elettorale Badeni aveva introdotto il suffragio universale, seppure ancora entro la cornice delle quattro curie censitarie. La presenza cattolica nelle rinnovate istituzioni rappresentative diveniva un impegno necessario per difendere ed estendere un ricco patrimonio di opere sociali ed economiche cattoliche, cooperative di consumo e agricole, casse rurali, società di mutuo soccorso e operaie, nonché, attraverso di esse, conservare la posizione egemonica della Chiesa sulla società trentina. La democrazia politica diveniva così un circuito istituzionale dal quale non si poteva prescindere. Le caratteristiche contadine della società trentina, con una larga diffusione della piccola proprietà rustica e uno sviluppo, limitato dei centri urbani, riduceva le distinzioni proprie del mondo cattolico, quelle tra cattolicesimo intransigente e liberale, conservatore e democratico, giacché l'elemento organico era a favore di quest'ultimo. Si trattava piuttosto di controllare le forme dell'evoluzione socioeconomica, rispetto a cui proprio le istituzioni politiche avevano un'importanza fondamentale.

Quello dei cattolici era un programma minimo, anche se ebbe solo parziale sviluppo, basato sulla difesa della piccola proprietà coltivatrice attraverso un graduale inserimento della vecchia economia del villaggio nel più ampio mercato interregionale, a cui erano essenziali non solo le classiche istituzioni assistenziali e creditizie, ma uno sviluppo delle infrastrutture, specie la rete ferroviaria locale, e delle attività di trasformazione, con una connessa particolare attenzione alle iniziative idroelettriche.

Questo programma era sufficientemente calibrato per contrapporsi efficacemente alle suggestioni liberalborghesi di un più marcato sviluppo industriale e alla propaganda socialista. Richiedeva tuttavia estrema cura proprio sotto l'aspetto politico, che agli inizi fu assunta da un Comitato diocesano per l'azione cattolica, costituito nel 1898, di cui furono animatori i sacerdoti Celestino Endrici e Guido Gentili, centro di direzione della propaganda e dell'iniziativa politica e sociale. Il passo ulteriore fu la costituzione dell'Unione politica popolare del Trentino (UPPT), che ebbe una lunga gestazione e tenne il Suo congresso costitutivo nell'ottobre del 1904, essendo già succeduto a monsignor Valussi, l'Endrici, come vescovo di Trento; e il D., che era l'animatore responsabile delle associazioni universitarie, entrò subito a far parte della sua direzione. Aveva appena conseguito la laurea che l'Endrici lo nominava, al posto di Gentili, direttore de La Voce cattolica (settembre 1905). Negli anni universitari la sua attività giornalistica era stata intensa, specie sulla stampa trentina; ma non era una designazione professionale. Il D., non ancora venticinquenne, si era ormai qualificato come una delle figure intellettualmente di maggior spicco del cattolicesimo trentino, e nel decennio successivo sarà il punto di raccordo del suo movimento politico, l'uomo della propaganda, dell'organizzazione politica e della tattica elettorale, membro del Comitato diocesano, segretario dell'UPPT, direttore del Trentino (che sostituiva La Voce cattolica nel settembre 1906, quando si volle sottolineare il suo trapasso da organo della Curia a giornale politico), vicepresidente e membro del comitato esecutivo della Banca industriale, membro del consiglio di sorveglianza dell'Unione trentina delle imprese elettriche, dal 1909 consigliere comunale di Trento, e dal 1911 eletto al Parlamento di Vienna.

Nel saggio del 1928 su Il "centro germanico", rievocando gli sviluppi che seguirono la fine del "Kulturkampf", osservava: "ci vuole del tempo prima che nella pratica attività e nelle pubbliche manifestazioni si sviluppi la netta distinzione ed autonomia delle funzioni: il lavoro di cultura, l'organizzazione sindacale, l'azione cattolica, il movimento politico" (A. De Gasperi, I cattolici dall'opposizione al governo..., p. 224).

Sono in effetti questi i passaggi funzionali propri di un movimento politico cattolico, di cui si conoscevano in concreto i successivi momenti quali già l'esperienza trentina gli aveva suggerito. Essa aveva certo peculiarità proprie rispetto al maggiori modelli a cui il D. guardava: italiano, austriaco e tedesco. Non aveva alle spalle quella tradizione intransigente che caratterizzò l'azione cattolica in Italia, non si era sviluppata quale forza di opposizione allo Stato, come in Germania, non era passata attraverso quei contrasti tra episcopato conservatore e movimento politico che caratterizzarono l'Austria. Tuttavia alcuni problemi di distinzione, più che di autonomia, si posero concretamente. Già nell'assemblea del dicembre 1905 dell'UPPT il D. nella sua relazione notava che "convien ben distinguere fra azione e movimento sociale e movimento puramente politico. Il primo è opera delle società operaie cattoliche, dei circoli di lettura e di tutte le associazioni consimili; il secondo si manifesta nelle adunanze espressamente politiche e nelle associazioni elettorali" (I cattolici trentini..., I, pp. 101 s.).

Si adombrava qui la questione dell'aconfessionalità dell'azione politica, che nel contesto trentino in cui il D. operava non era un problema di relazione interno al movimento cattolico, ma puramente esterno, attinente alla mera forma dell'azione politica, e tuttavia non per questo poco rilevante. La perfetta sincronia di posizioni tra episcopato e movimento politico lasciava in ombra, come si è detto, il problema dell'autonomia, ma postulava comunque quello della distinzione, per chi come il D. si trovava ad operare in più ruoli, e che si risolveva però in una sorta di integralismo pragmatico, volutamente non ideologico, la cui ambiguità concettuale stava nel privilegiare di volta in volta il primato della formazione culturale e religiosa e quello dell'azione politica.

Questi due termini procedono abbastanza indistricabilmente congiunti in questa prima esperienza politica del D. e sono il naturale portato di un'esigenza di affermazione dell'egemonia politicoelettorale del movimento cattolico trentino. Congeniale a questa impostazione è la campagna che il D. condusse sulle colonne del Trentino per la piena attuazione del suffragio universale e per il voto obbligatorio, contro i liberali e i socialisti. E la richiesta del voto obbligatorio indicava non tanto un problema di "aconfessionalità", quanto una difficoltà della stessa prassi confessionale di adeguarsi alle nuove forme di azione politica, come del resto documentano le relazioni dei parroci al vescovo in occasione delle elezioni del 1907, le prime che videro interamente applicato il principio del suffragio universale, e nelle quali il D. fu uno degli artefici del successo delle liste popolari, che conseguirono sette seggi su nove.

Ma vi era poi un altro aspetto ancora più intrinseco, che era uno dei suoi chiodi fissi: "le nostre fonti sono essiccate, ecco tutto. I cattolici germanici hanno il Volksverein che è una fucina di idee... Pensaci bene, amico, e poi vedrai che, mutate le dimensioni, l'analogia con le cose nostre è perfetta, solo che ci manca... il Volksverein", scriveva nel settembre del 1907 in una corrispondenza dal congresso cattolico di Würzburg sul giornale Il Trentino (I cattolici trentini..., II, p. 26). Ilmovimento cattolico trentino non conosceva "l'asprezza dei contrasti interni" di quello italiano, non era toccato dalla questione romana (De Rosa, ibid., I, p. XV), godeva di un insediamento sociale indiscutibile. Il D., riflettendo su di ciò, metteva l'accento sugli elementi latenti di debolezza che erano impliciti in quell'assenza di grandi contrasti interni e che rischiavano continuamente di impoverire gli stimoli culturali e religiosi dell'azione militante, lasciare indistinto il ruolo dell'iniziativa sociale e politica. Di qui la sua espressa preoccupazione che la condanna del modernismo travalicasse dalla sfera religiosa in altri aspetti dell'azione cattolica (Ibid., I, p. 256; II, p. 73). L'esperienza del movimento cattolico che egli viveva si svolgeva nello "Stato", non si poneva in rapporto dialettico "con lo Stato", attraverso un intreccio irrisolto di dicotomie (società e Stato, democrazia e Stato, Chiesa e Stato), come vediamo, invece, faticosamente farsi strada nelle elaborazioni più intransigenti ed ideologiche di L. Sturzo, dal discorso di Caltagirone in poi. Ma non per questo i problemi fondamentali erano risolti, si riproponevano anzi in termini di rapporti interni che dovevano caratterizzare l'iniziativa cattolica.

Significativo è dunque l'evolversi dell'atteggiamento del D. nei riguardi dell'azione socioeconomica. Ancora nel 1905aveva scritto: "non disprezziamo il socialismo, ma preven amolo nella difesa sociale: preveniamolo nel campo economico" (Ibid., I, p. 54).

La rete organizzativa economica e cooperativa, dopo la costituzione dell'Unione popolare trentina, si era molto estesa dall'iniziale impulso che a questo movimento avevano dato i sacerdoti Guetti e Panizza; e si era formato un gruppo dirigente che nelle elezioni del 1907 aveva visto l'affermazione di quattro suoi esponenti nelle liste cattoliche, oltre allo stesso Panizza, G. De Carli, E. Lanzerotti e B. Paolazzi. Ma proprio in quegli anni si venne verificando una divaricazione di prospettive tra iniziative economiche e politiche. Il D. non credeva nell'utopia ruralecooperativa che tra le righe, com'era naturale, emergeva da quel movimento. La sua formazione economica sembra esser stata marginale, punteggiata da qualche lettura, piuttosto strumentale all'attività militante che aveva condotto negli anni universitari.

In una tarda evocazione di essa, scrivendo a Sergio Paronetto, nel settembre del 1943, a proposito del Codice di Malines, il D. osserverà che "i politici in genere hanno sempre rappresentato l'elemento più liberale... Quando mi sorprendo con questa costante preoccupazione, sorrido di me, uomo, e dell'esperienza che feci. E pensare ch'era il più ardito interventista della compagnia (senza la demagogia migliolina), ammiratore del Müller, scolaro attraverso gli epigoni, del Vogelsang" (De Gasperi scrive, I, p. 343).

Dall'interventismo cristianosociale al liberalismo einaudiano la sua fu certamente una parabola politica, ma già negli anni trentini si poneva come tale. Il suo determinismo storico in materia economica pare infatti evidente e il volontarismo dei cooperativisti non gli sembrava dovesse valicare la sua funzione sociopolitica, lamentava anzi che un eccessivo esclusivismo di essa venisse ad indebolire l'altra primaria premessa dell'azione politica cattolica, la propaganda culturale e religiosa.

Si è parlato a proposito di queste sue inclinazioni d'una originaria vocazione al "primato della politica", che è piuttosto un realistico riconoscimento della sua "centralità". Preoccupato dell'allentarsi dei legami che intercorrevano fra le varie istanze organizzative del movimento cattolico, sceglieva in sintonia con altri, dall'Endrici al Gentili, al Delugan, al Conci, di privilegiare il rapporto tra il Comitato diocesano e l'Unione popolare, linea che portava, in occasione delle elezioni del 1911, ad una revisione delle liste elettorali, in cui furono sostituiti il Panizza, il Lanzerotti e il Paolazzi, quest'ultimo nel collegio di Fiemme dallo stesso D., che venne eletto deputato.

Nel 1909, in un'elezione suppletiva, era divenuto anche consigliere comunale di Trento, la roccaforte liberale della regione, il "castellaccio" come il D. la definiva, nella quale i cattolici avevano interesse ad affermare la propria presenza anche minoritaria.

Impostò, in modo intransigente, una politica "popolare", basata sulla rivendicazione del suffragio universale, su una limitazione dell'imposizione indiretta e una diversa politica di bilancio. Questa posizione gli consentì di reggere l'urto della polemica socialista, particolarmente aspra, proprio nel 1909, quando dal febbraio al settembre vi soggiornò Mussolini, che prese la direzione dell'Avvenire del lavoratore, accentuando la campagna anticlericale e irredentistica (ebbe anche un contraddittorio pubblico col D.), prima di venire espulso dalle autorità austriache, anche su pressione dei liberali e degli stessi cattolici. Negli anni seguenti si ruppero comunque i tradizionali equilibri del notabilato liberale, mescolandosi via via i problemi del controllo politico dell'amministrazione, con quelli della causa nazionale da un lato e dell'autonomia civica dall'altro, un'occasione in cui il D. seppe muoversi con accortezza, solidale sotto il profilo istituzionale, intransigente rispetto a quello sociale e politico, che favorì un progressivo rafforzamento delle posizioni cattoliche all'interno del Consiglio municipale.

Strettamente connessa a questi atteggiamenti è la questione della "nazionalità".

La Chiesa aveva inteso conservare il ruolo di tutrice dei connotati "nazionali" della comunità trentina e nel corso dell'Ottocento questo era avvenuto in sintonia con una piena fedeltà all'Impero asburgico; nella seconda metà del secolo a ciò si era aggiunta un'accentuata riprovazione del movimento liberalnazionale italiano. Ne era derivata una frattura profonda nella comunità etnica tra l'elemento liberale che, più accentuatamente dal 1848 in poi, prese a contrapporre l'idea razionale al diritto storico dell'Impero, a cui si erano poi aggiunti i socialisti, e quello cattolico, ancorato alla visione di un "patriottismo cattolico" contro ad uno "liberale" (Canavero-Moioli, 1985, p. 652).

A rendere più acute le tensioni a cavallo del secolo era sopravvenuto lo sviluppo del nazionalismo tedesco e, col Tiroler Volksbund, l'idea del "Tirolo indivisibile da Kufstein fino alle chiuse di Verona". La profonda recezione del messaggio sociale leonino in queste terre si spiega anche con l'esigenza, ormai improrogabile, che la Chiesa trentina ebbe di rinsaldare la propria identità con la sua comunità etnica. La difesa dell'italianità trentina poteva ancora far salva la fedeltà all'Impero austroungarico, ma richiedeva di liberarsi rapidamente dagli originari postulati conservatori e dare una diversa impostazione all'azione cattolica.

Fu il vescovo Endrici a portare alle estreme conseguenze per la Chiesa questo nuovo indirizzo, sviluppando le premesse già poste dal suo predecessore; per il movimento politico e sociale cattolico fu il D., insieme con altri, a svolgervi un ruolo di punta.

Così per il D. la difesa dell'italianità non fu "irridentismo". "Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo là dove finisce il cattolicesimo" (I cattolici trentini..., I, p. 26), egli scriveva nella relazione tenuta al congresso universitario cattolico trentino del settembre 1902.

Nel 1904 egli passò qualche settimana nelle carceri di Innsbruck per aver avuto parte attiva nelle manifestazioni studentesche per l'istituzione di una cattedra italiana di giurisprudenza nella locale università, che si legava al più generale movimento per un'università di lingua italiana.

Il D. ne sostenne la causa in un discorso al Parlamento di Vienna dell'ottobre 1911 ed ebbe in proposito un colloquio con l'imperatore Francesco Giuseppe. Costante ed intransigente fu poi negli anni il suo impegno a difesa dell'italianità del Trentino. Ed esso si mosse sulla falsariga dell'originaria impostazione giovanile. Parlava di "coscienza nazionale positiva" (Ibid., I, p. 288), che doveva riguardare "la situazione etnico-sociale dei Trentino" e non avere "contatti diretti e necessari cogli atteggiamenti politici". Di qui quell'approccio pragmatico all'attività politica nelle istituzioni imperiali ("o la politica la si fa o la si subisce", Ibid., I, p. 159), in cui era implicata una sostanziale fedeltà, almeno fino a quando non fosse messa in discussione la collocazione della comunità etnica all'interno di esse. Se invece fosse stata posta in discussione questa appartenenza, i confini ideali della cattolicità avrebbero necessariamente finito infatti per essere insufficienti.

Fino alla guerra il D. fu coerentemente triplicista, ma già nella fase della neutralità si posero dei problemi. Nel braccio di ferro tra le diplomazie europee in cui, prima dell'entrata in guerra, l'Italia giocò sui due tavoli dell'Intesa e della Triplice, sembrava tra l'altro maturare un'ipotesi di cessione austriaca del Trentino.

Il D., incaricato di approfondire nel marzo 1915 la questione, interrogava a Vienna, secondo la versione di questo, l'amico Funder, il cristianosociale direttore della Reichspost: "noi sudtirolesi, saremo ceduti, o si difenderà il Tirolo del sud? ... i nostri contadini ... sono legati in tutto per i loro interessi economici all'Austria". Il 16 marzo era a Roma a colloquio con S. Sonnino che nel suo Diario, a proposito del D., annotava: "è cattolico, di sentimenti italiani. Dice che l'opinione nel Trentino è divisa: alcuni frementi per l'italianità, molti più calmi ma non male disposti; però temono per i loro interessi materiali".

Era la sua un'azione coerente con quanto aveva fino ad allora professato in materia di "nazionalità", come esponente del movimento politico cattolico trentino. Certo, momenti di scelte così difficili e controverse rendevano ancora più espliciti i termini di una polemica che su questo tema, da più di un decennio, intercorreva tra i cattolici da un lato, i liberali e i socialisti dall'altro, e a cui poi l'esecuzione di Cesare Battisti avrebbe conferito un elemento di emblematicità.

Ma le polemiche, particolarmente accese nel primo dopoguerra, e ancora riprese nel secondo, sul D. "antirredentista" e "austriacante", quando non portano il segno pretestuoso della denigrazione nazionalista o fascista, non hanno comunque alcun fondamento storico-biografico, giacché egli non fu né l'uno, né l'altro, coerente con una posizione cattolica di difesa della "nazionalità" trentina, nell'ambito delle istituzioni imperiali, come, in un certo senso, continuerà ad esserlo dopo l'annessione del Trentino nell'ambito dello Stato italiano.

Questo del resto fu il principale filo conduttore dell'azione da lui svolta nel Parlamento austriaco di Vienna, dove era entrato con le elezioni del 1911. Il suo impegno parlamentare si sviluppò su due versanti: da un lato un'azione costante presso le autorità intorno ai problemi concreti del Trentino con interventi puntuali, dall'altro insistette molto sulla difesa dei diritti linguistici degli Italiani contro le disposizioni del governo, l'inframmettenza delle autorità militari e poliziesche e contro la propaganda germanizzatrice del Volksbund, facendo perno sulla richiesta di una facoltà giuridica italiana a Vienna, "fino ad investire i problemi essenziali della politica interna ed estera dell'Impero" (Moscati, 1976, p. 24).

L'orizzonte al quale doveva via via acclimatarsi era naturalmente più ampio dei problemi posti dalla questione "nazionale" trentina. Le elezioni del 1911 avevano tra l'altro segnato, a poco più di un anno dalla morte del Lueger, il crollo delle fortune elettorali dei cristianosociali, soprattutto nella città di Vienna.

Il D. vi ritrovava una situazione profondamente diversa da quella che aveva conosciuto negli anni universitari. Il fallimento del programma municipale viennese lo convinse ulteriormente della necessità di curare "la parte morale delle istituzioni economiche" (I cattolici trentini..., 1964, II, p. 252) e di non fermarsi ad esse nell'azione politica svolta dai cattolici. Ma ancor più lo preoccupava proprio il progressivo processo di irrigidimento e contrapppsizione delle comunità etniche all'interno dell'Impero, che si sovrapponeva alla tradizionale geografia elettorale del Reichsrat, esperienza in un certo senso analoga a quella che andava facendo Cesare Battisti, che assisteva alla scissione dei socialisti polacchi e cechi dal programma di Brno della socialdemocrazia d'Austria. Ciò da un lato gli indicava la crescente necessità di difesa dell'immagine "nazionale" (significativa, da questo punto di vista, la polemica che sostenne in favore dell'impresa libica); dall'altro gli pareva minacciasse un valore al quale intimamente teneva, quello di un' "autorità civile somma e suprema che lasci la massima autonomia alle nazioni" (Ibid., II, p. 375).

Questa sintonia con i connotati storici dell'Impero austro-ungarico si stemperava in una considerazione più vasta di quella che era la sua funzione europea, di grande filtro tra le nazionalità germaniche, latine e slave. Affiora il tema del pericolo derivante dal risveglio delle nazionalità slave, in particolare per le comunità italiane della costa balcanica dell'Adriatico, e quello dell'interesse comune che di fronte a ciò avrebbero dovuto maturare Tedeschi ed Italiani. Deprecava "la corta preveggenza dell'avvenire" (Ibid., II, p. 354), vedeva nella crisi europea "la parabola discendente della nostra cultura" e dentro di essa, come ancora di salvezza, "il grande patrimonio secolare dell'idealismo cristiano" (Ibid., II, p. 367).

La guerra si collocava, così, per il D. in questo scenario più ampio, era una "svolta storica" (Ibid., II, p. 387), senza apparente giustificazione storica, era dunque "l'ora di Dio" (Ibid., II, p. 388). Insisteva nel dire che le cose uscivano dal controllo degli uomini, e certo così era per quanto riguardava la sfera dell'azione politica, almeno come egli l'aveva concepita e interpretata. Si adoperò per la neutralità italiana e fece, tra il marzo del 1914 e l'entrata in guerra dell'Italia, più di un viaggio a Milano e a Roma. Ma, come si è accennato, anche la causa della neutralità portava con sé nuove incertezze e sul fronte interno la necessità di qualche precisazione (Ibid., II, p. 393). Sentiva che "l'ora di Dio" non poteva essere conseguentemente quella della sua scelta. Rimase vicino alla sua gente, attraversata dalla linea di guerra, con migliaia di coscritti sul fronte russo e altre migliaia di internati nei campi profughi. La Camera era stata chiusa il 25 luglio 1914 ed erano state sospese le immunità parlamentari. La Dieta di Innsbruck, alla quale il D. era stato eletto, sempre nel 1911, aveva interrotto le sue attività. Il D. si pose "volontariamente sotto la vigilanza della polizia di Vienna che, in confronto degli organi delle zone di occupazione, sembrava allora meno vessatoria" (Catti Degasperi, 1965, p. 115) e diede, con assoluta dedizione, un'intensa collaborazione al Comitato profughi, posto sotto il patronato dell'arciduchessa Maria Josepha e sotto la presidenza dell'ex primo ministro barone von Beck.

Dal Bollettino, pubblicato a cura del segretariato trentino per l'assistenza ai profughi, si ha la misura del lavoro svolto dal D. riguardo alla "drammatica situazione non solo dei campi d'internamento, ma dei centri di smistamento e di raccolta degli sfollati". Numerose e puntuali le sue relazioni, che servirono "di premessa per la successiva azione unitaria svolta in parlamento e per la preparazione della legge di revisione dei decreti di internamento" (Moscati, 1976, p. 32).

Nell'estate del 1917 il nuovo imperatore Carlo I disponeva infatti la riapertura del Parlamento, dove il D. proseguì con accortezza la sua opera di difesa delle popolazioni trentine. Nel suo ultimo intervento dell'11 ott. 1918, di fronte alle ventilate intenzioni austriache di indire un plebiscito nel Trentino, osservava che quelle popolazioni attendevano "dal trattato di pace, il riconoscimento del principio nazionale" e, se il plebiscito fosse stato indetto, esprimeva la convinzione "che la stragrande maggioranza della popolazione italiana approverà senz'altro questo punto di vista, con piena convinzione" (I cattolici trentini..., II, p. 446).

La storia tornava sotto il controllo delle azioni umane; ed il D. operava la sua scelta con la consapevolezza che la guerra, già nel suo corso, aveva spezzato tutti gli argini che il vecchio assetto europeo aveva frapposto al pieno esplicarsi del principio della nazionalità. Del resto nei giorni in cui l'Alto Comando austriaco preparava l'offensiva di Caporetto, aveva preso la parola nel Parlamento di Vienna per affermare, con esplicita fermezza, "la vittoria del principio nazionale e democratico", come "un sicuro risultato che ha preceduta la decisione sui campi di battaglia" (in Appendice a De Gasperi al Parlamento austriaco 1911-1918, a cura di G. Valori, Firenze 1983, p. 40).

Le truppe italiane entrarono a Trento il 3 nov. 1918; il D. si trovava a Berna insieme con altri deputati del Trentino per consegnare al rappresentante diplomatico italiano un promemoria, in vista delle trattative d'armistizio italo-austriache. Un telegramma del governo li chiamò tutti a Roma e fecero un viaggio applaudito attraverso la madrepatria. Nella capitale ebbero colloqui con Orlando, Sonnino, Salandra e altri uomini politici. Il compito del D. e dei suoi colleghi, in quell'occasione, come del resto nelle successive, per tre anni, fu difficile. Furono anni in cui prevalentemente egli si occupò della sua terra: il problema dell'annessione presentò problemi complessi, d'ordine civile, istituzionale ed economico.

Per le autorità italiane queste vecchie province "austriache", presentavano qualche incognita. Vi trovarono il retaggio di una buona legislazione e amministrazione, di larghe autonomie locali, di una solida integrazione economica, e le ferite aperte dalla guerra, in ingenti danni materiali e in un notevole sconcerto delle persone, tra entusiasmi e aspettative irredentistiche, paure di altri, profughi che rientravano dall'internamento austriaco e reduci dell'esercito austriaco che venivano internati nei campi italiani. Un'atmosfera difficile, ben testimoniata da quanto ancora nel 1926 Salandra si trovava a dire alla vedova di Cesare Battisti: "voi avevate poca voglia di essere redenti, lassù" (Battisti, 1957, p. 59). Soprattutto le autorità militari prima, ma anche quelle civili dopo, non sempre poterono e seppero essere all'altezza. Il D. nell'ottobre del 1919 parlerà di "un sistema spesso coloniale e quasi sempre antidemocratico" (Partito popolare italiano, L'assemblea costitutiva della sezione trentina, 12 ott. 1919, p. 10).

Fu quello del D. un difficile impegno, in cui si qualificò come il maggiore portavoce dell'autonomia trentina. Nella difficile questione dell'annessione, che comportava la definizione delle due province di Bolzano e Trento, la concessione di una più ampia sfera di autonomie locali, l'applicazione "dello Statuto e delle leggi del Regno" ai nuovi territori, con le necessarie nerme transitorie di coordinamento con la vecchia legislazione austro-ungarica, il D. finì per essere designato, già nel maggio del 1919, "quale oratore generale a esporre la posizione comune a tutti i partiti" (Canavero-Moioli, 1984, p. 735).

Era questo di per sé un successo, l'affermazione implicita dell'ascendente che i cattolici trentini avevano saputo imporre nel travagliato processo di annessione, in partenza niente affatto scontato, e che aveva come precedente l'esaudita richiesta di una Consulta, di cui il D. aveva fatto parte, ma che si era dovuta scontrare con la naturale inclinazione delle autorità di governo ad appoggiare l'elemento liberale, specie nel passaggio di poteri dall'autorità militare al Commissariato straordinario per il Trentino, a cui era stato preposto dal governo Nitti il radicale Luigi Cedraro.

Era necessario trovare un delicato equilibrio tra l'indiscutibile principio dell'annessione e l'irrinunciabile preoccupazione dei cattolici di conservare attraverso di essa la tradizionale egemonia sulla società trentina, di cui appunto il tema dell'autonomia locale diveniva la chiave di volta, frutto di una sagace battaglia locale e parlamentare che doveva concludersi nel settembre 1920 con la legge che definiva i profili istituzionali dell'annessione, ed apriva la strada alle consultazioni politiche ed amministrative nell'ambito del nuovo ordinamento statale. Le prime furono quelle politiche del maggio del 1921, che videro nella Venezia Tridentina il successo del Partito popolare italiano (PPI) con il 50,1% dei voti e l'elezione del D. al Parlamento italiano.

Il tema delle "autonomie locali" fu oggetto dei suoi primi intensi rapporti con il partito popolare, il cui gruppo, parlamentare ebbe un ruolo decisivo nel 1920 per la formulazione della legge sull'annessione del Trentino. Non era naturalmente questo il solo punto di contatto; l'adesione alla nuova formazione politica era infatti per il D. e per i cattolici trentini un approdo naturale. Egli aveva guidato la delegazione trentina al primo congresso di Bologna nel giugno 1919, ed era stato chiamato a presiederlo.

Luigi Sturzo nella sua relazione aveva parlato dei popolari trentini "che a noi hanno dato un nome ed una storia" (Malgeri, 1969, p. 52); una storia alquanto diversa, specie riguardo al delicato rapporto con l'autorità ecclesiastica. E il problema dovette riproporsi quando nel 1919 si procedette alla costituzione del Partito popolare trentino.

La vecchia Unione politica popolare si era sempre collocata in una costellazione che aveva per centro il Comitato diocesano. Ancora dell'ottobre 1940, nella commemorazione che il D. tenne del vescovo Endrici, sottolineava come questi avesse vigilato "a mezzo dell'organizzazione cattolica propriamente detta" sui principî ispiratori dell'azione politica e sociale dei cattolici (Un grande vescovo sociale: Mons. Celestino Endrici, in Studium, XLIX [1953], 10, p. 636). Era stato questo, del resto, un punto fermo della sua politica cattolica prima della guerra. Al contrario, il partito di Sturzo nasceva su premesse diverse e con l'ambizione di costruire un circuito politico organizzativo autonomo, basato su tre presupposti, uno associativo, che si esprimeva nella sequenza, sezione, comitato provinciale, congresso nazionale; un secondo elettorale, che dava autonoma rilevanza al gruppo parlamentare; ed un terzo che stabiliva il nesso con le collaterali organizzazioni sociali. Uno schema che i cattolici trentini percepiranno solo nella forma, giacché nella sostanza queste dovevano essere un insieme di "istituzioni che non sono il Comitato diocesano, ma che ad esso aderiscono", secondo l'asserzione del De Gasperi.

Sopravvivono dunque nel dopoguerra alcuni tratti essenziali del D. "trentino", anche in questa forma di "integralismo", che però a ben vedere non è "politico", ma "istituzionale", prodotto di un equilibrio tra Chiesa e società, storicamente determinato e circoscritto, ma che non per questo doveva ritenersi superato. Tale doveva mantenersi il suo approccio in quegli anni in cui rimase sostanzialmente ai margini della vita nazionale, non essendo state indette le elezioni politiche del 1919 nel Trentino, occupato a conservare e rafforzare l'egemonia cattolica in quelle province, che saranno ancora oggetto del suo intervento al congresso di Napoli del partito popolare nell'aprile 1920 (Atti dei congressi..., 1969, p. 184) da cui uscirà eletto nel Consiglio nazionale.

Il D. "italiano" non ritrovò a Roma tutti i solidi presupposti ecclesiali, sociali e politici su cui aveva costruito la sua fortuna di leader "trentino". Il gruppo parlamentare del PPI lo nominava suo presidente e segretario Stefano Cavazzoni, un clericomoderato, parlamentare consumato, a cui era affidato l'effettivo mandato politico. Fu comunque, quella presidenza, subito un osservatorio politico privilegiato. Portava nel Parlamento italiano uno stile, che probabilmente aveva maturato durante l'esperienza austriaca, quello di un'oratoria concisa ed essenziale, pregio non secondario della sua raccolta di atti parlamentari. Nel febbraio del 1922 interveniva per dichiarazione di voto nel dibattito che riconfermava la fiducia al governo Bonomi con tutte le essenziali motivazioni del popolarismo, da quelle programmatiche (nuovamente sancite dal congresso di Venezia dell'ottobre 1921: agricoltura, scuola, riforma burocratica ed autonomia, libertà sindacali), alla "reintegrazione della funzione nazionale dello Stato" e al problema della "collaborazione con i socialisti", che rimaneva sospeso giacché "questo fatto viene dai socialisti stessi smentito" (Discorsi parlamentari, I, p. 25).

A questi temi, dopo la crisi del secondo ministero Facta, aggiungerà quello della "costituzionalizzazione del fascismo", e con essa la giustificazione della partecipazione popolare al primo governo Mussolini, poi l'appassionata e insieme sfortunata difesa della proporzionale, nell'inutile susseguirsi di transazioni sulla legge Acerbo. Sarà in questi ultimi frangenti, con la connessa crisi dei popolari, quando questo partito si trovò a vedere intaccata la sua stessa composita ragion d'essere, con la forzata emarginazione di don Sturzo, che egli verrà ad assumere un ruolo centrale nella storia del popolarismo. Allora P. Gobetti gli riconoscerà un "singolare equilibrio di misuratore", "una capacità di sacrificio illimitata" (Scritti politici, Torino 1966, p. 861), che era consapevolezza storica della residua validità di testimoniare la necessità e possibilità del carattere democratico dell'azione politica cattolica, di contro al rivolgimento del fascismo e agli orientamenti ormai decisamente pronubi della S. Sede. A tutti questi drammatici passaggi egli partecipò con sempre crescenti responsabilità; e ciascuno di essi ha una giustificazione in sé, che fu oggetto di polemica politica, e ancor oggi di analisi storiografica. Ma tutti insieme possono essere assunti come elementi di una ricerca, o meglio di una prima transeunte definizione, che ha come tema il problema dell'equilibrio politico in un ordinamento liberaldemocratico fondato su un sistema elettorale proporzionale e quello del ruolo che in esso può svolgere un partito cattolico.

Il partito popolare era nato con un marchio di origine, quello della sua polemica allo Stato liberale, che tuttavia ne presupponeva l'esistenza e la continuità. Era un progetto di affermazione del primato cattolico che postulava una lunga marcia attraverso le istituzioni liberali, che fu invece troppo breve. Il D. condivideva i presupposti critici della polemica popolare, che esprimeva nella formula per cui "in fondo in Italia, per colpa dei governi liberali non è stato mai possibile un governo liberale" (Zunino, 1980, p. 146). Gli erano invece estranee, di questa polemica, le motivazioni più legate alla storia nazionale. Così fu uno sturziano meno intransigente, ma egualmente preoccupato del giuoco delle parti in cui il partito popolare poteva essere coinvolto, o escluso. Si formò presto la convinzione che la crisi del vecchio blocco liberale era irreversibile e il rapporto di alleanza con esso non poteva essere che contingente. Così, in modo assillante, girava intorno al problema del nuovo equilibrio di forze politiche al quale approdare.

Quel tratto caratteristico del suo temperamento politico, il realismo, non deve far da velo a questa ricerca. Commentando su Il Nuovo Trentino (la testata che continuava nel dopoguerra quella del Trentino) il congresso di Napoli (22 apr. 1920) si fermava sul problema della "tattica parlamentare" per affermare che il "collaborazionismo" era problema dei socialisti, "ma non può esistere per un partito", come quello popolare, "che stia sulla base della democrazia parlamentare" (Zunino, 1980, p. 134), e rivendicava la decisione in materia al gruppo parlamentare, con un integralismo opposto a quello di Sturzo, e che in termini analoghi lo dividerà poi anni più tardi da G. Dossetti.

Ciò non toglieva che il ruolo dei "partiti" costituisse per il D. la novità fondamentale di quel primo dopoguerra, e che su essi si dovesse in definitiva cercare di ancorare il problema dell'equilibrio politico, tenuto conto che propriamente di partiti se ne erano affermati in tutto tre: oltre al popolare, quello socialista e quello fascista.

L'attenzione verso i socialisti ha testimonianze precoci: fin dal congresso di Livorno egli ne indaga con interesse lo sviluppo, partendo dalla loro interna crisi, attento al profilo ideale, prima ancora che politico, nel quale era la radice dello scontro con il movimento cattolico, cercando nella concezione e difesa della democrazia il punto possibile di convergenza.

La questione socialista si pone dunque subito come oggetto pregnante di riflessione per il D., e durerà almeno fino al luglio 1922, per essere interrotta dalla giustificazione e difesa della partecipazione popolare al primo governo Mussolini, e per riprendere poi con l'Aventino. Ora proprio questa oscillazione così significativa non è frutto di un'incostanza dell'opinione, ma piuttosto di altri decisivi elementi che subentrano nella sua valutazione, e segnano l'evolversi generale degli avvenimenti.

Nel giugno del 1922 scriveva su Il NuovoTrentino che "la collaborazione con i socialisti non costituisce per il Partito Popolare un problema molto diverso da quello che ha dovuto risolvere per collaborare con le diverse fazioni della Democrazia e della destra ... Nessuno potrebbe negare che l'entrata di un partito, così numeroso e forte come il socialista, nell'ambito della vita costituzionale sarebbe un avvenimento storico di somma importanza". In quelle settimane, Sturzo conduceva una intensa serie di contatti coi riformisti per far maturare una soluzione, su cui sopravveniva improvvisa e non calcolata la crisi di luglio, col voto popolare e socialista contro L. Facta, all'insegna di un'ipotesi di "coalizione antifascista", che serviva a far deflagrare tutte le contraddizioni e a far perdere definitivamente il bandolo di una ipotesi appoggiata a sinistra.

Il D. era stato in quella contingenza ancora una volta un rifinitore abbastanza pedissequo della linea di Sturzo. Gli avvenimenti ne avevano tuttavia messo in luce i limiti, che erano poi quelli dell'intera esperienza popolare in quei frangenti storici e consistevano nell'impossibilità di uscire dalla formula del "collaborazionismo" per assumere un ruolo più ampio e decisivo, quello di perno centrale dell'equilibrio politico.

Quelle della "normalizzazione" e della "costituzionalizzazione" erano tesi, sia fossero rivolte sul versante di sinistra, sia su quello di destra, che implicavano un solido ancoraggio centrista del sistema politico. Ma proprio questa ipotesi necessaria, per quanto si affacciasse nella realtà del gioco politico, non riusciva a determinarsi, né i popolari potevano farsene interpreti per il carattere composito del loro movimento e per il vizio di origine, che li proponeva come "parte" circoscritta e instabile del blocco moderato, nel quale i raggruppamenti di democrazia liberale erano ormai prevalentemente inclini all'opposta soluzione, quella di una svolta conservatrice che, nell'ipotesi più liberale, quella di Giolitti, doveva passare attraverso il ripristino della legge maggioritaria a collegio uninominale, dalla cui sostituzione con la proporzionale aveva preso le mosse proprio l'esperienza popolare.

Al D. non sfuggiva questa contraddizione e ancora nel luglio 1922 sottolineava come "i democratici in gran parte sono dei veri e propri uomini di destra ... conservatori nel vero senso della parola, hanno voluto anche questa volta restare legati ai fascisti nella speranza che nelle nuove elezioni essi possano trovare un bastone e una rivoltella che li riporti con violenza in Parlamento" (Il NuovoTrentino, 29 luglio 1922).

La spaccatura decisiva passava all'interno del blocco d'ordine moderato e gli stessi popolari dovevano farne i conti. Sempre nel giugno del 1922 il D., a proposito del fascismo, aveva lucidamente constatato che "conclamato in un primo tempo movimento di difesa dell'ordine e dello Stato contro l'insidia del sovversivismo", si era in seguito rivelato "analogo, nella sua natura e nei suoi fini, al movimento bolscevico, perché come questo inteso a comprendere Stato, ordine, legge, vita pubblica con la semplice affermazione di una dittatura partigiana basata sulla violenza" (Ibid., 3 giugno 1922).

Il giudizio escludeva implicitamente un'ipotesi di "costituzionalizzazione" del fascismo. Ma dopo la fallimentare soluzione della crisi di luglio, la condizione minima di tenuta del sistema politico travalicava questi presupposti di principio, giacché era evidente che la continuità del blocco d'ordine moderato implicava ormai l'incorporamento in esso del fascismo. E a questa necessità dovette piegarsi il D. nella crisi che seguì la marcia su Roma. La decisione popolare di partecipare al governo Mussolini avvenne in condizioni particolari. Fu presa dal direttorio parlamentare, senza consultare Sturzo e il partito. Ebbe quasi le caratteristiche di un colpo di mano, sebbene dettato dall'urgenza e dall'eccezionalità della situazione. Nei mesi precedenti gli orientamenti a favore di questa scelta si erano manifestati numerosi tra i popolari; e la S. Sede si era espressa in modo esplicito per una soluzione d'ordine. L'opposizione di Sturzo era del resto stata debole: "sentiva la sconfessione e la scomunica pendergli sul capo", come dirà pochi giorni dopo Donati a Salvemini (Scritti sul fascismo, II, p. 9).

L'allineamento popolare nasceva dunque anche dal fatto che l'unità interna del partito aveva già raggiunto il limite di rottura, cosa di cui il D. doveva tenere conto. Era pure consapevole che, se la posizione di Mussolini si fosse consolidata, il ruolo dei popolari sarebbe stato ridotto al margini. Cercò di assicurare almeno ancora una garanzia, che gli pareva sarebbe potuta risultare decisiva, quella della conservazione del sistema proporzionale, ed ebbe su questo, come presidente del gruppo parlamentare, un colloquio con Mussolini, ricevendone assicurazione.

La crisi del partito popolare non poteva tuttavia dirsi scongiurata da queste decisioni. Le motivazioni ideali più profonde erano contrarie a quella forma di "collaborazionismo". Lo stesso D. al congresso di Torino (aprile 1923) doveva constatare che "per gli uomini che vengono dall'azione cattolica o dalle organizzazioni operaie non vi può essere scelta alcuna tra il pericolo di perdere il mandato o quello di smarrire nella massa grigia di un blocco". Sturzo operava per disincagliare il partito dalla collaborazione, senza spingersi fino ad una rottura col ministero. Il congresso di Torino, ancora sotto la sua regia, fu la riaffermazione dei principî ideali del popolarismo, la sottolineatura del loro carattere antitetico con l'incipiente regime. Fu anche la dichiarazione della non assimilabilità del popolarismo al nuovo blocco d'ordine, ma non ancora la rottura politica.

E proprio la relazione congressuale del D. costituisce l'esplicito documento di questa difficile tessitura. In sostanza era il tentativo insieme realistico ed illusorio di sostenere che c'era ancora una prospettiva. Da un lato la "collaborazione" veniva presentata come "una necessità di fatto", conseguenza inevitabile d'una serie di avvenimenti, dall'altra come una "coalizione", col che si intendeva correggere l'originario significato del "collaborazionismo", e siglare nella formula "governo di coalizione" un momento eccezionale e transeunte, con l'auspicio che "esso arrivi a spostare il pendolo verso il centro equilibratore temperando e regolando il moto iniziale" (Malgeri, p. 423).

Ma ormai le carte ultime si giocavano sulla riforma elettorale; e la rigida premessa proporzionalistica, di cui il D. era stato accanito difensore, via via si stemperava in una serie di compromessi (Aga Rossi, A. D. nel partito..., p. 34). Mussolini concentrò tutti i suoi sforzi intorno al progetto di legge che portava il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo. Disillusi i liberali, che continuavano a sperare nel ripristino dell'uninominale, la Destra nazionale dei popolari fu l'oggetto privilegiato delle sue pressioni.

Il D. fece parte della "commissione dei diciotto" che doveva esaminare il testo governativo, tenendo una posizione rigida; doveva poi sottoscrivere la relazione di minoranza, redatta da I. Bonomi, il primo documento "che firmarono insieme le opposizioni al fascismo" (De Rosa, 1966, II, p. 239).

Fu essenzialmente questo atteggiamento, che rifletteva la linea popolare del congresso di Torino a preparare la rottura definitiva. Don Sturzo si trovò, sotto l'incalzare delle minacce fasciste e delle pressioni della S. Sede, costretto a dimettersi. Quando alla metà di luglio la legge Acerbo giunse al voto finale, l'onorevole S. Cavazzoni e la Destra nazionale erano riusciti a congelare i popolari su di una posizione astensionistica, salvo votare loro stessi a favore, atto che condusse poi alla loro espulsione dal partito.

Il D. veniva eletto segretario del partito popolare dal Consiglio nazionale, il 20 maggio 1924, succedendo al triumvirato composto da Giulio Rodinò, Giovanni Gronchi e Giuseppe Spataro, che circa un anno prima aveva raccolto l'eredità di Sturzo. Le elezioni del gennaio 1924 l'avevano riportato in Parlamento. Gli spazi politici erano pressoché interamente consumati. L'Aventino era nell'aria e il delitto Matteotti lo rese inevitabile. Fu, tra i suoi, uno dei più coerenti nel seguire questa strada; "da buon tedesco", notava Turati, "è il più diritto e coraggioso di tutti" (Carteggio, VI, p. 484).

La politica diveniva testimonianza; ma fino a quando questa aveva un significato, non ne sottovalutava il valore. Nel luglio 1924, con il regime scosso dall'ondata di indignazione per l'assassinio di Matteotti, la polemica con gli ex popolari, che si erano allineati al blocco nazionale era un dovere al quale non si sottrasse. Ricordava loro che "il problema morale non è il futuro, il possibile, l'eventuale collaborazione coi socialisti: il problema è l'attuale collaborazione di fatto con i fascisti" (Zunino, 1980, p. 175). Ammoniva che si stava scavando, al di là della contingenza del fascismo, un solco di divisioni sociali e politiche più profondo.

La collaborazione coi socialisti si collocava dunque in una prospettiva di più lungo respiro rivolta a che "sorga e prenda vigore una salda e risoluta volontà centrista, la quale si proponga di sfuggire alla tenaglia dei due estremismi" (Ibid., p. 178). Non rinunciava così a tessere almeno un filo di discorso politico, che non costituiva un pericolo, ma certo un fastidio per il nuovo regime, non desiderando questo veder abilitate alternative, anche solo teoriche, alla contrapposizione fascismo-comunismo.

Alla Civiltà cattolica, che giudicava la sua posizione inutilmente arrischiata, ricordava le analoghe esperienze europee. Ma né prima, né tanto meno dopo il discorso di Mussolini del 25 genn. 1925, sembrò veramente pensare che vi fosse una possibilità reale di rovesciare la situazione. Sostanzialmente non condivideva iniziative come quelle di Donati, volte a cercare il terreno di una prova di forza.

I significati del suo messaggio erano in realtà prevalentemente rivolti all'interno del movimento cattolico. Ne è una testimonianza eloquente la sua relazione all'ultimo congresso del partito popolare, quello di Roma del giugno 1925.

Era riaffermazione dei valori del cattolicesimo democratico, soprattutto della loro storicità, onde il diritto naturale della persona si realizzava nella sua forma primaria con lo "Stato di diritto", al cui sviluppo "hanno contribuito tutte le scuole e tutti i partiti, e sopra tutto la trasformazione dei rapporti sociali che portò ai nuovi ordinamenti democratici" (Atti, 1969, p. 563). Questi presupposti non gli parevano rinunciabili, anche se non erano "dappertutto compresi, nello stesso campo cattolico". Era successo già in passato, dunque "non bisogna sconcertarsi per le divisioni politiche fra cattolici. Esse sono, in momenti gravi, raramente evitabili". Bisognava invece fare in modo di non "inasprirle" o "trasferirle entro l'Azione cattolica", ma questa restava "la battaglia che dobbiamo combattere... senza venire accusati dalla storia di diserzione" (Ibid., p. 569).

Il congresso di Roma fu l'ultimo atto significativo del partito popolare che, impedito d'ogni parte a svolgere le sue funzioni politiche e sociali, lentamente si spegneva. Il D. rassegnava le sue dimissioni dalla segreteria il 14 dic. 1925. Il Popolo aveva cessato le pubblicazioni ai primi di novembre; nel febbraio del 1925 il D. avrebbe lasciato la direzione del Nuovo Trentino. Dovette poi seguire da lontano gli ultimi svolgimenti, tra cui il tentativo dei parlamentari del suo gruppo di ritornare a Montecitorio. Dopo il fallito attentato a Mussolini di T. Zaniboni fu in pericolo anche la sua persona. Ancora indeciso sul da farsi veniva arrestato in treno a Firenze e processato per tentato espatrio clandestino.

Difeso da Filippo Meda, fu condannato in prima istanza (aprile 1927) a quattro anni di reclusione, di cui scontò sedici mesi (Rossini, 1974).Fu una prova dura, che non era soltanto quella del perseguitato politico, ma di chi si sente abbandonato dalla sua Chiesa. Dal carcere scriveva alla moglie: "quando ricevo la comunione, pare che Cristo non risponda, ma mi lascia un'impronta nello spirito" (Lettere dalla prigione, 1955, p. 56).

Ottenne la libertà condizionale nel luglio 1928 e fu sottoposto a permanente vigilanza della polizia, che sarebbe cessata solo col 1933: fra l'altro, in un primo tempo gli fu vietato di lasciare Roma, ove si era trasferita la famiglia. Si era sposato nel giugno 1922 con Francesca Romani, la sorella di Pietro, già suo compagno di studi a Vienna, anch'egli popolare trentino, membro della Camera; e dal matrimonio nacquero quattro figlie, Maria Romana, Lucia, che diventerà religiosa, Cecilia e Paola, l'ultima nel 1932. Fece fronte ai problemi di sussistenza in un primo tempo con traduzioni, collaborando fra l'altro a quella della Storia dei papi di L.v. Pastor. Nel marzo del 1929 egli veniva assunto dalla Biblioteca Vaticana come "collaboratore soprannumerario addetto al catalogo degli stampati", per divenire un decennio dopo, segretario. Togliatti sostenne che quello del D. fu "un antifascismo di tipo speciale"; e l'adagio ha avuto una certa fortuna polemica (Forcella, 1974, p. 160). Tutti gli "antifascismi" seguirono motivazioni diverse, peculiari alla parte che espressero. Altro è il giudizio che riguarda le vicende dell'Aventino o del Comitato di liberazione nazionale (CLN) in cui la categoria "unitario", sebbene in termini assai diversi, ha valore direttamente politico. Ma tra l'Aventino e il CLN non si può parlare di un antifascismo "unitario"; così i comportamenti del D. vanno collocati in un complesso di valutazioni più ampie. Sono note le distinzioni che Sturzo, Ferrari e Donati tennero nei riguardi della Concentrazione antifascista di Parigi, come già in parte rispetto all'Aventino. La traiettoria del D. fu meno appariscente, ma più complessa.

Non è esatto interpretare il suo silenzio come rinuncia "ad ogni effettiva opposizione al fascismo" (Galli, 1978, p. 38). Si potrebbe anzi dire che il "suo" antifascismo segna la liquidazione, o meglio il superamento dell'esperienza popolare. Perché egli assunse come punto di riferimento essenziale il problema della sintonia con gli indirizzi politici della S. Sede. Una sintonia che non poteva certo essere assoluta, quindi non necessariamente, nell'immediato, politica, ma certo storico-politica. Egli avvertiva che in quegli anni la posizione della Chiesa, rispetto al concerto delle potenze e degli Stati, era tornata a travalicare i limiti tradizionali della difesa delle sue libertà corporative, e poneva un problema più ampio di esistenza, che comportava una diversa dimensione della sua strategia, da cui l'azione politica dei cattolici non poteva prescindere, se voleva continuare a dirsi tale e conservare insieme una qualche autonomia. In questo contesto il cattolicesimo democratico per il D. rimaneva una prospettiva essenziale, anzi necessaria alla Chiesa stessa, convinto che il processo di trasformazione egualitaria delle società moderne non poteva considerarsi risolto con i "fascismi", ma avrebbe richiesto altri assestamenti, di cui appunto il "democratico" era il bastione naturale, su cui si sarebbe verificato il confronto decisivo, con quella che lui considerava l'ipotesi sovvertitrice estrema, quella comunista.

E, in quest'ottica, la sua era una posizione di sostanziale sintonia con quelle che erano le preoccupazioni di fondo della S. Sede. Sapeva che queste ultime implicavano una diversificazione di ruoli tra cattolici, e che il suo era tra i più ingrati, quello di una possibile carta di riserva, e che per conservarlo e garantirlo doveva affidarsi ad un percorso molto stretto ed accidentato, nel quale doveva fare attenzione a non anteporre troppo decisamente il "democratico" al "cattolico", ma il più possibile presentare il primo come un necessario posterius. Pur nei margini esigui in cui gli era consentito di esprimersi, si applicò a questo ruolo con consumato tatticismo. Alcuni articoli, che scrisse per L'Illustrazione vaticana, in cui teneva una rubrica di politica estera con lo pseudonimo di Spectator, in difesa di E. Dollfuss, e in favore di F. Franco, e che ancor oggi stridono nella sua biografia, vanno probabilmente letti in questa chiave.

Sono posizioni che si collocano in contrasto con le opinioni da lui formulate sugli avvenimenti interni della vita italiana, espresse in modo più coperto e privato, ma cercando di dare anche ad esse il significato, di segnali politici. Segnatamente nel giudizio che diede del concordato, in cui mostrò subito di considerare come positiva la soluzione "istituzionale" del tradizionale rapporto tra Stato e Chiesa, ma si preoccupava del successo politico che il fascismo ne conseguiva e del danno che da ciò derivava al cattolicesimo, domandandosi se da ciò "ne verrà una compromissione della Chiesa, come in Spagna con De Rivera, o peggio" (Catti De Gasperi, p. 210). Così formulando la sua critica, coglieva il punto debole dei Patti lateranensi dal punto di vista della Chiesa, e antivedeva i riflessi che ne sarebbero conseguiti per le organizzazioni del laicato cattolico, su cui avrebbe cercato di operare, ponendo l'accento sul fatto che "il Concordato è una cosa e la concordanza è un'altra" (Lettere sul concordato, p. 73).

Non vanno dimenticati in questo quadro gli scritti di carattere storico politico che egli redasse in quegli anni, i primi dei quali furono il saggio su I tempi e gli uomini che prepararono la "Rerum Novarum" e quello già ricordato sul "Centrum germanico" del1928, e ancora quello su René de la Tour du Pin, tutti scrupolosi ed attenti nel ricostruire le origini e i profili dottrinali del cattolicesimo democratico. E va ricordata la più tarda, lunga recensione al volume di B. Croce su la Storia d'Europa dove con fervore polemico lamentava la cancellazione in essa del ruolo avuto dal cattolicesimo liberale e democratico, in cui toccava in modo sfumato il tema delicato del prius e del posterius dell'azione cattolica rispetto all'evolversi storico delle istituzioni politiche della società civile, che egli pretendeva cogliere sotto l'aspetto storico, proponendolo in realtà in termini politici.

Sono gli "studi e gli appelli della lunga vigilia", che dopo l'avvento al potere di Hitler e dopo la conquista dell'Etiopia, gli parve probabilmente troppo lunga. Quello di cui il D. doveva prendere atto, era la sua condizione di "doppia solitudine, quella di lui cattolico..., e quella di lui politico" (Dalla Torre, p. 167). Nel 1934 ebbe un forte esaurimento nervoso che lo rese quasi incapace di lavorare. La sua sfera di rapporti era limitata. Vedeva solo qualche intimo come Spataro, Cingolani, Gonella, Bonomelli e il Longinotti, bresciano, legato a monsignor Montini, ed aveva rapporti di amicizia con il conte Dalla Torre, allora direttore dell'Osservatore romano, che lo chiamò a far da segretario del comitato organizzativo della Mostra internazionale della stampa cattolica tra il 1934 e il 1937 (ricoperse anche lo stesso incarico per l'Esposizione di arte missionaria). L'incarico per quanto modesto fu occasione di maggiori contatti esterni. Molte sono le testimonianze che mostrano come egli cercasse di allargare i suoi rapporti alla nuova generazione, cresciuta nelle file dell'Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), anche se ciò resta da esplorare nella sua interezza, così come l'insieme di relazioni che venne stabilendo in quegli anni in Vaticano.

Non dovette essere solo a ragione dei loro personali rapporti se nel settembre del 1942 Dalla Torre gli affidava il compito di redigere, per suo conto, il promemoria sulla situazione italiana da affidare a Myron Taylor, rappresentante personale del presidente Roosevelt presso Pio XII e ciò all'indomani del terzo incontro che il diplomatico aveva avuto con il pontefice, nei mesi in cui le sorti della guerra incominciavano a rovesciarsi.

La Democrazia cristiana può dirsi fondata dalla data della stesura e approvazione delle Idee ricostruttive, che è quella della primavera del 1943. Ma fin dalla metà del 1940, e poi più segnatamente dagli inizi del 1942, incominciò a snodarsi un crescente lavorio di azioni e propositi, che apparentemente non hanno un centro propulsore, e sono piuttosto il frutto di spinte centrifughe, a cui senza apparenti sforzi il D. venne proponendosi come il punto naturale di confluenza.

Andreotti ha sottolineato come non risulti che il D. "abbia informato o fatto informare il Pontefice della sua determinazione di dar vita ad un partito di cattolici" (G. Andreotti, Intervista su D., a cura di A. Gambaro, p. 227). D'altra parte altre testimonianze autorevoli, come quella di monsignor Sergolini, assistente generale dell'Azione cattolica, ci dicono che in quel periodo l'attenzione dei cattolici fosse volta a "che dice il Papa" (Scoppola, 1974, p. 28). Ora, ancora nell'agosto del 1943, Gedda metteva a disposizione di Badoglio l'Azione cattolica, mentre il segnale pontificio che viene considerato il fuoco verde per la Democrazia cristiana (DC) fu il radiomessaggio natalizio del 1942.

Regnava indubbiamente una certa confusione in campo cattolico nel mezzo di quei frangenti, e il D. sicuramente non ebbe un'investitura, ma seppe prendersela. Si può dire che egli in un primo tempo giocò in anticipo, poi di rimessa.

La debolezza di quello che è stato definito il "partito romano", cioè l'influente consorteria della Curia romana, che cercò di ancorare saldamente a destra, lungo un asse clericomoderato, non necessariamente col segno distintivo cattolico, il sistema politico italiano, fu, lungo tutto il decennio che va dal 1942 al 1952, quello di non riuscire mai a costruire una soluzione politica reale sulla quale puntare. Così pure per esso la DC divenne una necessità, anche se mai interamente digerita. Più realisticamente, invece, per il responsabile della sezione affari straordinari della segreteria di Stato, mons. D. Tardini, si trattava di una soluzione necessaria alla quale attenersi per una stabilizzazione moderata; là dove il suo sostituto, monsignor Montini, partiva dallo stesso presupposto, ma veniva inserendolo in una visione più duttile del pluralismo istituzionale e del rapporto tra fede e politica. Tutte e tre queste posizioni vaticane, nelle quali non è forse improprio schematizzare l'assai composito insieme di rapporti politici della Curia romana, potevano inoltre dirsi consonanti a quelli che erano gli indirizzi del pontificato di Pio XII, in quella svolta epocale, in cui il magistero universale della Chiesa, rotti tutti gli antichi argini temporali, veniva riproposto nella sua essenza religiosa, ma operante in una realtà storica attraversata da grandi fratture, prima fra tutte quella con il mondo comunista, e quindi volto ad una missione spirituale, che non poteva non porsi in termini di crociata religioso-politica.

Al D. non sfuggiva certo questo intreccio complesso di motivazioni e inclinazioni della S. Sede. Nel citato documento preparato per il conte Dalla Torre era del resto stato cauto, ponendosi in consonanza con quel clima di attesa che attraversava gli ambienti vaticani.

Non metteva ancora avanti l'ipotesi di un partito dei cattolici, piuttosto indugiava su quella di un governo nazionale, come momento di trapasso dal fascismo, tesi intorno a cui si fermava allora l'attenzione di tutti, dagli ambienti moderati del fascismo, al Quirinale e al Vaticano. Passava in rassegna una vasta rosa di candidati a capo del governo, che andava dal conte G. Ciano, al maresciallo E. Caviglia, ad esponenti dell'Italia prefascista, escludendo però i fuorusciti, segnalando molti, senza raccomandarne nessuno.

Ma la sua scelta fu subito quella della ricostruzione del partito dei cattolici. Si mosse nella cerchia dei vecchi popolari, quelli che si trovavano a Roma come M. Scelba, P. Campilli, Giordani, M. Cingolani, G. Tupini e altri. Nel 1942 aveva intensificato i rapporti con il gruppo neoguelfo milanese, l'unico ad aver svolto attività clandestina antifascista fin dalla sua costituzione nel 1931, guidato da P. Malvestiti, Malvasi, Jacini e patrocinato da Enrico Falck. Nell'agosto di quell'anno un incontro a Sella Valsugona aveva costituito la prima saldatura tra i "diversi tronconi di cattolici disponibili" (Orfei, p. 19). Anche all'università Cattolica, specie dopo il radiomessaggio natalizio del pontefice, erano iniziati intensi colloqui tra i docenti, alla presenza di A. Gemelli e F. Olgiati, a cui davano impulso tra gli altri Lazzati, Dossetti e A. Fanfani, che avrebbero poi costituito il nucleo milanese della "comunità del porcellino". Il D. cercò del resto costantemente di tessere rapporti sempre più stretti con i giovani che venivano dalla militanza delle organizzazioni laicali cattoliche, e il convegno romano dei laureati cattolici del gennaio 1943 e poi quello della Gioventù di azione cattolica furono le prime occasioni di verifica.

Ma di una vera e propria progressiva osmosi si può parlare dopo l'8 settembre; a Jacini, che gli aveva mandato in lettura il dattiloscritto della sua Storia del partito popolare, poneva questo interrogativo: "il seme della rinascita del partito e dei sindacati cristiani, sarebbe stato custodito dall'A.C.? Forse tu volevi esprimere che la formazione religiosa della gioventù cattolica rappresenta un humus fecondo per la rinascita del seme... Ma custodia del seme no!" (De Gasperi scrive, 1974, I, p. 187).

Tra i più giovani aveva acquisito subito la collaborazione di Pasquale Saraceno e Sergio Paronetto, che nei primi mesi del 1943 parteciparono alla stesura delle Idee ricostruttive, per altro opera della ricomposta cerchia dei popolari, con l'assenso dei neoguelfi milanesi, a cui si dedicarono in particolare Paolo Bonomi, Pietro Campilli, Guido Gonella, Camillo Corsanego, Achille Grandi, Giovanni Gronchi, Stefano Riccio, documento rivolto soprattutto verso il mondo cattolico, traduzione politica dei principî raccolti nel Codice di Malines, che venne subito diffuso clandestinamente. Con la sua pubblicazione e le commissioni di studio che seguirono, primo nucleo organizzato, si chiude "la fase di preparazione" (Orfei, p. 30) del nuovo movimento politico cattolico; rimaneva la scelta del nome, che fu più tardi un compromesso coi giovani che volevano del "nuovo", e del simbolo, che rimase quello popolare, diffuso da Scelba all'indomani del 25 luglio in migliaia di esemplari.

Non bastava tuttavia costituirlo, il partito dei cattolici, occorreva anche accreditarlo, su due versanti, quello del Vaticano, come si è visto, e in quell'embrione di vita democratica, che incominciava a muoversi. Quanto al primo, la costituzione del governo Badoglio, non complicava le cose, anzi le favoriva, giacché la soluzione "regia" nascondeva la mancanza di un progetto politico. Nel corso del 1942 era andata costituendosi quella intesa pluripartitica tra le correnti antifasciste, ove si pose subito il problema della partecipazione dei comunisti, rispetto a cui il D. doveva sciogliere la riserva solo nel gennaio del 1943, così come, nella rete sempre più stretta di contatti che precedettero il 25 luglio, fu molto cauto a che non si anticipassero indirizzi che avrebbero poi potuto trovarsi in contrasto con le decisioni del re. All'indomani del 25 luglio quegli incontri si formalizzavano nel Comitato nazionale delle correnti antifasciste. In attesa dell'armistizio nessuno intendeva veramente forzare la mano. Ma, dopo l'8 settembre, il costituito Comitato di liberazione nazionale (CLN), essendosi verificata la dichiarazione di guerra alla Germania e la cobelligeranza, nella sua riunione del 16 ottobre, chiedeva le dimissioni di Badoglio e la costituzione di un governo antifascista. Il D. non aveva partecipato alla riunione e dissentì con forza (G. Spataro, D. e il Part. pop. ital., Roma 1975, p. 230) dai suoi amici di partito, in primo luogo Gronchi, che vi avevano aderito.

L'ordine del giorno del CLN del 16 ottobre affermava tra l'altro che il nuovo governo avrebbe dovuto "assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato". Era questo un punto cruciale, perché poteva implicare, con il mutamento di regime politico, la soluzione del problema istituzionale, col passaggio di fatto alla forma repubblicana e la rottura della continuità dello stesso ordinamento statale. Soprattutto i socialisti posero in questi termini contestuali il problema. Il D. temeva che "gli anglo-americani avessero potuto riconoscere all'URSS una maggiore influenza sull'Italia" (Ibid., p. 232), preoccupazione che doveva attenuarsi solo nel luglio dell'anno seguente con la visita a Roma di Churchill. Ma in quelle contingenze avvertiva come pericolosa ogni partecipazione a qualsiasi tentativo di mutamento della situazione interna. Formulò il proposito, che perseguì fino al referendum del 2 giugno 1946, che la questione istituzionale fosse demandata alla consultazione popolare dopo la Liberazione. Tenne quindi fermo anche il principio che il passaggio ad un governo di concentrazione antifascista non potesse avvenire fuori dalla continuità istituzionale. Giudicava l'ordine del giorno votato dal congresso dei CLN delle regioni meridionali (Bari, gennaio 1944) una "proposta giacobina" (Ibid., p. 260).

Nella Roma "città aperta" tutte le sue mosse erano improntate a scrupolosa prudenza. Seguiva le trattative del "patto di Roma" che dovevano portare alla costituzione della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) unitaria, preoccupato da un lato di affermare il principio di un sindacato elettivo, dall'altro che la presenza cattolica nel nuovo organismo fosse garantita, assicurandosi che l'eventuale proclamazione di sciopero generale rimanesse sotto il controllo politico del CLN; e insisteva inoltre per l'unità di comando dei gruppi partigiani che operavano nella capitale.

Ma poiché i socialisti, con i comunisti e gli azionisti, non demordevano dalle loro posizioni, si determinava uno scontro all'interno del Comitato centrale di liberazione nazionale che alla fine di marzo, con le dimissioni di I. Bonomi dalla presidenza, rischiava di prendere la strada di una rottura irreparabile. In questo quadro vanno collocati l'articolo delle Izvestija del 30 marzo di sostegno al governo regio e la cosiddetta svolta di Salerno operata da Togliatti, che il 22 aprile consentiva la formazione del secondo ministero Badoglio.

Dopo la liberazione di Roma l'interlocutore principale del D. non fu più il "giacobino" Pietro Nenni, ma il comunista Palmiro Togliatti. La politica dell'uno venne ad intrecciarsi strettamente con quella dell'altro, nei tre anni di collaborazione governativa. Il comune denominatore fu la costruzione degli ordinamenti democratici. Togliatti non aveva un'idea giacobina della democrazia. Valutava i rapporti di forza tra le parti politiche in termini elettorali, sociali ed internazionali. A questa impostazione non era alieno neppure il De Gasperi.

Tutti e tre questi elementi rimanevano tuttavia incerti alla data del 18 giugno 1944 quando ambedue entravano a far parte, come ministri senza portafoglio, del primo governo Bonomi; e anche se molti elementi si sarebbero chiariti nel corso di quegli anni, alcuni rimanevano ancora incerti alla data del luglio 1947, quando il D. ruppe la coalizione tripartita.

Togliatti, poiché la sua tattica non era quella del colpo di Stato, né poteva neppure essere quella dell'alternativa democratica, ma piuttosto della penetrazione nella società e, attraverso di essa, del condizionamento delle forze politiche e dello Stato, doveva da un lato scegliere l'interlocutore più forte alla sua destra e, in questi termini, privilegiarlo, dall'altro affermare l'egemonia del suo partito sulla Sinistra, con una strumentale politica unitaria. Da questo punto di vista la scelta della DC e del suo leader era ovvia. Rispetto agli equilibri prefascisti, sia Togliatti sia il D. puntavano dunque decisamente ad un ancoraggio centrista del sistema politico, che facesse perno sui cattolici. A questo presupposto comune i due leader connettevano tuttavia strategie diverse. Togliatti preconizzava un centrismo su cui l'influenza comunista sarebbe stata determinante, elemento insieme stabilizzatore del sistema e disgregatore del blocco d'ordine. Pensava probabilmente che il nuovo partito dei cattolici si sarebbe portato dietro alcune delle contraddizioni che erano state proprie del partito popolare, tra un radicamento sociale a natura democraticoprogressiva e un ceto politico condizionato dalla Chiesa e dall'opinione moderata. E fu questo probabilmente l'errore di valutazione di Togliatti, tanto più che il suo schema tattico non prevedeva varianti possibili, cosicché a realizzarsi fu sostanzialmente l'obiettivo della stabilizzazione politica, piuttosto che quello della cosiddetta "democrazia progressiva".

I termini del confronto sono già chiari dalle prime battute. Quando nel luglio del 1944 Togliatti formulava a Roma la sua proposta di alleanza tra i tre partiti di massa, il D. rispondeva subito ponendo questo interrogativo: "volete la repubblica sociale, la repubblica socialista, la repubblica comunista, la repubblica democratica?" (Discorsi..., 1985, p. 12). Una risposta chiara gli pareva indispensabile perché l'unione delle forze antifasciste doveva considerarsi un elemento eccezionale atto a fronteggiare la lotta al nazifascismo, ad affrontare le conseguenze socioeconomiche della guerra, a costruire le istituzioni democratiche.

Aveva dunque dinnanzi a sé un difficile percorso, lungo il quale trovare di volta in volta l'accordo, tenuto conto che la vocazione dei partiti su più punti era diversa, mentre il nuovo patto costituzionale andava costruito cercando il denominatore comune. Per la DC l'obiettivo era fermamente quelle di arrivare presto alla democrazia, garantendo la continuità dello Stato, il principio della proprietà privata, i diritti della persona.

Un documento chiaramente espressivo di questa linea è l'ordine del giorno votato dal congresso interregionale di Napoli del luglio 1944, su proposta di Giuseppe Alessi, che rifletteva le posizioni del D.: "noi siamo partito d'ordine e di legge, facciamo opera di disciplina in tutto il paese e alla necessaria solidarietà dei partiti antifascisti sacrifichiamo molte particolari esigenze" (Spataro, p. 358). In questa fase la DC si proponeva dunque come il partito di centro che guardava a destra, cementando intorno a sé il blocco d'ordine, e così facendo manifestava quella vocazione, che poi il D. espliciterà chiaramente, di proporsi come partito "nazionale".

Al di là delle posizioni programmatiche l'effetto di questa posizione fu di spostare a destra il confronto con i comunisti. Se ne vide l'effetto già nella crisi del primo ministero Bonomi (dicembre 1944). I colloqui di Mosca tra Stalin e Churchill, dell'ottobre 1944, avevano definito le rispettive aree di influenza postbellica nei Balcani e di conseguenza anche la posizione dell'Italia nella sfera occidentale. Ciò conferì maggiore sicurezza alle Destre. Bonomi, dando le sue dimissioni nelle mani del luogotenente, consolidava di fatto il principio della continuità istituzionale, indebolendo il ruolo del CLN centrale, e di qui ponendo il problema della funzione istituzionale del CLN dell'Alta Italia, questione la cui definizione, sotto l'aspetto militare, venne lasciata gestire dal Comando alleato, e sotto quello politico-istituzionale passò, attraverso una serie di assestamenti differenti, fino alla crisi del governo Parri.

Ma proprio questa mancata soluzione dei problema del CNL faceva, in modo definitivo, del governo centrale il baricentro del sistema politico-istituzionale; svolta anche questa decisiva, alla quale Togliatti non si sottrasse, lasciando socialisti e azionisti soli all'opposizione del secondo governo Bonomi, in difesa di un esito politico-istituzionale della lotta di liberazione, che non era così già più nell'ordine delle cose.

Non meno decisivo in questa crisi fu il ruolo del D., poiché dinanzi alla iniziale intransigenza non solo dei socialisti, ma anche dei comunisti, il naturale candidato alla successione non poteva che essere proprio lui, che avrebbe tra l'altro espresso una soluzione mediana, come candidato "istituzionale" e del CLN, il che era senz'altro nei voti dei comunisti ed accettabile anche per gli altri. Egli si sottrasse abilmente a questo incastro, intuendo che, se voleva mantenere la sua posizione di centralità, doveva evitare di affrontare in prima persona il "vento del Nord", espressione con la quale allora si designava l'insieme di aspirazioni di rinnovamento che provenivano dalla Resistenza, sia come mediatore, sia come dichiarato oppositore.

Non è esatto dire che la DC pose la sua ipoteca sul potere, che sarebbe durata poi nei decenni successivi, quando dopo il 25 aprile avanzò la candidatura del D. alla presidenza del Consiglio, perché quell'ipoteca era implicita probabilmente fin dalla svolta di Salerno, certamente dalla costituzione del secondo governo Bonomi. Del resto, in quella prima occasione, la candidatura del D. fu chiaramente strumentale per fermare le pretese di Nenni e dei socialisti, contro cui conveniva anche il Partito comunista italiano (PCI).

Quello che presto venne configurandosi non era un asse tripartito, ma bipolare, costituito dalla DC e dal PCI, rispetto a cui l'insieme delle altre forze politiche andava ponendosi in posizione "ausiliaria", su di un lato e sull'altro (la crisi del Partito d'azione e più tardi quella più complessa dei socialisti nascono in parte anche da qui), anche se quei governi di grande coalizione, che si succedevano, nascondevano apparentemente questa realtà, la cui logica si faceva sempre più stringente, e chiaramente si manifestava nei momenti di crisi e nelle soluzioni che rispetto ad essi dovevano essere trovate. Così la soluzione Parri fu l'ultima transitoria di un processo politico i cui esiti erano già determinati da un "patto istituzionale", che immediatamente precede quello "costituzionale", rispetto a cui il "vento del Nord" non poté influire più che tanto, esaurendosi appunto nel simbolico esito del governo di Ferruccio Parri.

Già nel secondo governo Bonomi il D. era divenuto ministro degli Affari esteri, e tenne saldamente quell'incarico durante il governo Parri e poi ad interim nel primo e nel secondo da lui presieduti, fino alla definitiva redazione del trattato di pace.

Un ruolo irto di difficoltà, per la condizione estrema di inferiorità in cui doveva muoversi la politica estera italiana, in presenza di problemi vitali in discussione, che riguardavano l'integrità territoriale; ed era il caso della Venezia Giulia e di Trieste, dell'Alto Adige, della Valle d'Aosta e delle altre zone del confine occidentale su cui la Francia avanzava le sue pretese. C'era poi il problema della sorte dei prigionieri di guerra italiani, specie quelli dell'armata italiana in Russia (ARMIR) e ancora quello del destino delle ex colonie italiane. In ultimo, dovevano essere definite le modalità e i termini del governo militare alleato sul territorio nazionale. Formalmente si trattava di superare le clausole assai strette dell'armistizio, per ridefinire sia i contenuti sia le prospettive, facendo valere il ruolo di cobelligerante e il contributo bellico dato dalle formazioni partigiane. La divergenza di interessi e strategie tra gli interlocutori rendeva tuttavia difficile seguire linearmente questa strada. Anche se la collocazione dell'Italia nel blocco occidentale poteva dirsi decisa fin dal 1943, molte erano le variabili ancora da definire tra le potenze alleate nella determinazione delle reciproche sfere di influenza, tra i principi della Carta atlantica, gli accordi anglo-sovietici di Mosca e le incertezze che seguirono la conferenza di Yalta. Cosicché in questo complesso scenario diplomatico la soluzione concreta dei problemi tendeva spesso ad arenarsi o ad assumere sbocchi più o meno vantaggiosi. In particolare, diversi erano gli orientamenti inglese ed americano: deciso il primo lungo l'asse di una tradizionale politica egemonica; più aperto, ma anche più incerte, il secondo, almeno fino alla definizione della dottrina Truman.

Il D. seppe muoversi con accortezza in questi frangenti, contribuendo alla soluzione positiva dei punti più critici, quali Trieste, la Valle d'Aosta e in particolare l'Alto Adige; quest'ultimo con l'accordo bilaterale del settembre 1946, alla cui conclusione non fu secondario l'apporto della sua esperienza personale. Ogni questione ha un suo peculiare intreccio diplomatico, ma il filo conduttore della politica del D. in questo settore fu certamente di interpretare, e in qualche modo predeterminare, lo stretto legame che intercorreva tra le strategie politiche degli Alleati e l'evoluzione della politica interna italiana. Da questo punto di vista il ruolo di ministro degli Esteri era indubbiamente decisivo. Acquisiva tra l'altro la posizione di interlocutore privilegiato di Noel Charles e Alexander Kirk, rispettivamente alto commissario britannico ed americano (Ellwood, p. 155), responsabili dell'amministrazione militare alleata in Italia.

Proprio nell'autunno del 1945, terminata anche la guerra col Giappone, delineandosi il trapasso alla pace, in una tensione crescente tra i blocchi, che già era un primo preludio alla guerra fredda, il problema della normalizzazione politica ed istituzionale in Italia si delineava come un tassello decisivo della politica anglo-americana e richiedeva una fase delicata di passaggi, a cui conferire una certa meditata sincronia e che riguardavano, da prima, la smobilitazione delle forze partigiane, il ritorno alla normalità statuale e la concomitante cessazione del regime di occupazione militare, poi la soluzione del problema istituzionale e l'elezione dell'Assemblea costituente, come presupposto necessario d'un trattato di pace.

I timori e il disorientamento degli Alleati nell'affrontare questi delicati passaggi erano evidenti, preoccupati della polarizzazione a sinistra che la Resistenza aveva determinato nel Nord, incerti sull'esito di una consultazione popolare. Il governo Parri era parso agli Alleati un punto di equilibrio soddisfacente, cosicché non interferirono nella sua crisi del novembre 1945, come era avvenuto in quella del primo governo Bonomi. Questa si sarebbe prodotta dall'interno, portando a soluzione il primo ordine di problemi che erano sul tappeto.

Già nel luglio del 1945, all'indomani della costituzione del governo Parri, il D. aveva messo le mani avanti dichiarandosi chiaramente, in un discorso tenuto a Milano, in favore della continuità dello Stato, sostenendo che "i diritti degli italiani si stabiliscono non solo in confronto all'una o all'altra forma di Stato, ma in confronto dello Stato stesso" (Discorsi politici, 1969, p. 44). Così metteva a nudo il problema del trapasso alla democrazia: esso poteva avvenire in una forma prerivoluzionaria, ed era la tesi del primato dei CLN e del mutamento radicale della struttura dello Stato, che le Sinistre sostenevano, ma non con scopi rivoluzionari, sebbene sostanzialmente elettorali; oppure doveva realizzarsi nel senso della restaurazione statuale e del connesso rinnovo della classe politica, attraverso le elezioni democratiche.

La restaurazione dello Stato si poneva dunque come un prius, a cui avrebbero dovuto seguire con gradualità una prima prova d'assaggio elettorale, per le amministrazioni locali, e poi la scelta istituzionale nella forma referendaria e l'elezione dell'Assemblea costituente. I tempi e le modalità di questo trapasso risultavano decisivi, giacché non a caso le Sinistre, specie i socialisti, intendevano la questione dello Stato come un posterius, volevano il più possibile ravvicinata la data dei comizi elettorali e una Costituente con pieni poteri.

La messa a punto di questa strategia richiedeva estrema accortezza e una stretta intesa con le autorità alleate, che avrebbero dovuto accompagnare questo trapasso col passaggio dei poteri amministrativi dalle autorità militari a quelle civili, il che avvenne poi nel gennaio del 1946 con la presidenza De Gasperi. Non a caso si parlò di un "governo segreto", che era il luogo di queste intese, e la cui sede era nel gabinetto del D. (Gambino, 1975, p. 89). E non a caso la crisi del governo Parri venne aperta da un veemente discorso del presidente del Consiglio contro una presunta congiura di destra. A far da contrappeso alla linea di destra mancava però non solo una "congiura di Sinistra", ma una plausibile linea politica che delineasse a tutto tondo le soluzioni dei vari punti critici del passaggio alla democrazia.

Il D., il 10 dic. 1945, costituì il suo primo governo che fu l'ultimo ad ispirarsi alla formula dell'unità antifascista. Doveva infatti definitivamente liquidare l'eredità politica dei CLN e portare alla Costituente. La sua ascesa alla presidenza del Consiglio fu accompagnata dalla generale consapevolezza, tra gli osservatori esterni e le forze politiche italiane, che con essa si metteva alla prova un'ipotesi determinante del futuro equilibrio interno del paese, conferendo alla DC la possibilità di divenire il perno centrale del sistema politico.

Una prova che, ad esempio, negli ambienti vaticani era temuta, giacché, come osservava monsignor Tardini in un promemoria per i suoi interlocutori americani "non è possibile essere anticipatamente certi che egli riesca" (Di Nolfo, p. 246), ma si accompagnava alla convinzione, che lo stesso esprimeva in un incontro con il diplomatico statunitense Tittinan, di come non ci si potesse aspettare "che i processi democratici funzionino in Italia finché il governo resterà la creatura del Comitato di liberazione nazionale (che assomiglia al rapporto esistente tra il governo e il partito fascista)" e come l'unica alternativa fosse il "ritorno alla democrazia mediante elezioni" (Ibid., p. 255).

A condividere questo giudizio, che la prova di forza decisiva sarebbe stata quella elettorale e non altre, c'era dall'altra parte anche Togliatti. Poiché i limiti operativi del leader comunista erano "nella situazione internazionale e nello stretto legame tra la Russia comunista e ogni partito comunista europeo" (Valiani, p. 12), anche se a quella data non erano così vincolanti come lo sarebbero diventati sempre più dall'anno seguente, l'arena elettorale e parlamentare costituiva anche per i comunisti italiani un presupposto di autonomia politica. Questa scelta di Togliatti comportava dunque implicitamente il superamento della coalizione antifascista e l'attestarsi su di una formula politica nuova, che sarebbe stata poi quella del tripartito o meglio dell'accordo tra comunisti e cattolici. Ciò comportava necessariamente il rapido superamento del retaggio postinsurrezionale del 25 aprile, l'accettazione della normalità statuale, di cui anzi Togliatti si proponeva di gestire uno dei processi più delicati, quello dell'epurazione, assumendo l'incarico di ministro di Grazia e Giustizia, che si risolse poi in una larga amnistia, senza assumere quel segno di pacificazione "nazionale", che egli avrebbe voluto politicamente imprimergli.

Fu del resto il primo governo del D. quello che portò alla liquidazione dei prefetti politici, alla riconsegna delle aziende industriali ai loro proprietari, ad una prima liberalizzazione del cambio, senza che si attuasse quel "cambio" della moneta, col quale si voleva dare un primo impulso dirigistico all'azione di governo. Ma il fulcro dell'azione del governo furono la questione istituzionale, e la definizione dei poteri della Costituente. Il D. riuscì a far prevalere le sue tesi del referendum istituzionale e dei poteri legislativi delegati dalla Costituente al governo. Frapponeva così alla fluidità dei possibili schieramenti parlamentari due filtri, uno quello della consultazione diretta, l'altro quello del ristretto ambito del Consiglio dei ministri nella gestione dei più rilevanti atti politici, configurando una procedura di passaggio graduale alla democrazia e garantendo così ulteriormente il principio della continuità dello Stato.

La questione istituzionale ineriva poi direttamente alla definizione dell'ambito elettorale a cui la Democrazia cristiana doveva fare riferimento. Il D. aveva già proposto la formula del "partito di centro che guarda a sinistra", che si aggiungeva al tradizionale bagaglio interclassista del pensiero sociale cattolico.

Del resto "centralità" e "interclassismo" sono formulazioni, l'una politica, l'altra sociale, di uno stesso concetto; e un partito dei cattolici non poteva discostarsi da questi presupposti. Ma la scelta del potenziale ambito elettorale a cui rivolgersi andava oltre la dimensione, che era stata propria del partito di Sturzo.

La posta in giuoco richiedeva di scendere nel profondo cuore moderato del paese, alle "cosidette masse grigie, pigre, le masse lente" (Discorsi politici, 1969, p. 39), l'Italia della media e piccola borghesia rurale e urbana, dove nel dopoguerra era maturata la rottura del fascismo con l'Italia liberale e che i partiti storici che ancora la rappresentavano, come appunto il liberale, si avvertiva non avrebbero più potuto recuperare. E si trattava ora di condurre questi ceti a pesare nell'ambito di una democrazia, cosicché ogni atto politico risultava decisivo.

Il partito era a larga maggioranza repubblicano, ma il D. non volle che compiesse formalmente questa scelta, come dagli Stati Uniti richiedeva Sturzo, rispetto al quale egli fece quanto poteva per ritardarne il ritorno in patria.

Questo disegno di conservazione poteva inoltre convivere con i temi della socialità cattolica, in cui si sostanziavano le proposte per la Costituente formulate dal primo congresso del partito nell'aprile 1946 a Roma, di cui era caratteristico un certo amalgama anticapitalistico. Questo doveva stemperarsi dopo la svolta del 1947, quando la linea degasperiana avrebbe allineato attorno a sé anche gli interessi vitali del capitalismo italiano; e, in un ormai definito quadro di opzioni di politica interna ed internazionale, il D. avrebbe proposto la DC come "partito nazionale".

L'esito del referendum del 2 giugno 1946 gli affidava in via transitoria i poteri di capo dello Stato; ed anche in questa veste, oltre che in quella di presidente del Consiglio dei ministri, egli affrontò la prova di forza con la monarchia, che seguì la prima proclamazione dei risultati a favore della repubblica, preoccupato di evitare fratture più o meno pericolose, per le conseguenze immediate e future che avrebbero potuto comportare per l'equilibrio sociale e politico del paese. Con la soluzione della crisi di giugno e l'elezione di E. De Nicola a capo provvisorio dello Stato, si avviavano i lavori dell'Assemblea costituente, rendendosi inevitabile la formazione di un nuovo governo che tenesse conto dei rapporti di forza tra i partiti sanciti dal verdetto elettorale.

Le elezioni avevano profondamente mutato il sistema politico italiano. L'operazione degasperiana di coagulare l'elettorato moderato intorno alla DC era largamente riuscita; e uscivano così di scena le vecchie formazioni del Centro che avevano dominato l'equilibrio politico dell'Italia liberale. Il partito del D. acquisiva ora definitivamente due caratteristiche: quella di essere un partito di centro e di calamitare intorno a sé l'insieme dell'elettorato conservatore.

Da ciò gli derivava la peculiare responsabilità di assicurare il necessario equilibrio politico al paese, avendo la scelta tra due possibili alternative, quella di avviare un modello di democrazia classica, basato sull'alternanza, assumendo un ruolo guida del blocco moderato che lo sorreggeva elettoralmente, oppure quella di stabilizzare il sistema su di un'ipotesi centrista. Ambedue i modelli avevano caratterizzato l'Italia liberale. Fino al 1919 la legge elettorale aveva proposto il primo modello, quello dell'alternanza, moderandolo con una continua tattica politica centrista, di cui il decennio giolittiano era stato un'ovvia palestra, che dopo il 1919 non era stato possibile tornare a rendere operante. L'esperienza politica del D. era maturata proprio in quei frangenti di rottura, nella ricerca, rivelatasi impossibile, di un nuovo equilibrio centrista. Le peculiari condizioni in cui il paese si trovava nel 1946, sia sul versante interno, sia in quello internazionale, proponevano, anche se in termini radicalmente diversi, lo stesso problema.

Rompere l'equilibrio centrista, che era in parte anche il lascito della politica di unità antifascista, costituiva un rischio non calcolabile, che il D. non pensò minimamente di assumersi. Così la formula fu quella di un governo di coalizione tra la DC e i due partiti della Sinistra: Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP) e PCI, i tre partiti cosiddetti di "massa", onde la denominazione "tripartito", sebbene vi partecipassero anche i repubblicani che alla Costituente avevano conseguito un lusinghiero successo. Rimasero fuori i liberali; così apparentemente il D. sacrificava proprio la Destra, che gli aveva dato un buon numero di voti, e per questo volle mantenere al Tesoro il liberale Epicarmo Corbino, che vi entrava a titolo personale.

Le responsabilità della DC erano accresciute dal vuoto, che storicamente si andava determinando, delle posizioni socialiste. Il PSIUP, pur avendo conseguito un buon risultato elettorale, non si mostrava capace di una proposta politica al Centro, né tantomeno esercitava una durevole egemonia a Sinistra. Così una politica di centro implicava sostanzialmente un accordo stabile con il PCI. E indubbiamente la filosofia centrista del D. muove inizialmente da questa premessa intorno alla quale sono nate discussioni storiografiche e polemiche ancora aperte, e di cui elementi di giudizio determinanti debbono essere anche la svolta del 1947 e la legge maggioritaria del 1953.

La coalizione tripartita innescava subito una serie di processi politico-istituzionali, alcuni dei quali legati a quella particolare congiuntura storica, altri di natura politico-istituzionale, che si sarebbero rivelati duraturi, probabilmente perché connessi all'essenza stessa della formula centrista; tra quelli contingenti, la questione economica e il trattato di pace, con i problemi di politica internazionale ad esso legati.

I problemi di deflazione e di rilancio produttivo propri del dopoguerra attendevano una soluzione dopo la normalizzazione proprietaria. Il governo seguiva una via di cauto liberismo, procedendo al graduale smantellamento della politica vincolistica del periodo bellico, poggiando sugli aiuti alimentari e di materie prime degli Stati Uniti. Le Sinistre non avanzavano alternative a questa linea, al di là di qualche tentativo socialista. Togliatti era sostanzialmente convinto che la stabilizzazione sarebbe derivata da un oggettivo riequilibrio del mercato, in un periodo più o meno lungo di tempo. Non rinunciava tuttavia a fare della politica economica un tema politico dominante, usando la leva sindacale e non perdendo occasione per mettere in difficoltà la posizione del governo, scoprendo a destra la DC. In proposito restano emblematiche le dimissioni del ministro del Tesoro, il liberale Epicarmo Corbino, chieste ed ottenute dalle Sinistre, per il suo presunto conservatorismo, avendo egli vanificato il progetto del "cambio" della moneta, quando in realtà l'insuccesso della sua politica liberista stava semmai nella eccessiva cautela, specie sotto l'aspetto monetario, a cui sovrintendeva L. Einaudi, come governatore della Banca d'Italia, essendo stato fissato il cambio della lira col dollaro ad un livello troppo basso, per favorire il necessario riflusso di capitali, probabilmente, anche in connessione di un ancor incerto quadro politico e sociale.

La struttura del trattato di pace con l'Italia era stata intanto messa a punto nel luglio del 1946; e gli sforzi fatti dal D. e dalla diplomazia italiana fin dalla conferenza di Londra del settembre dell'anno precedente, e quindi da quella di Parigi, dove egli era intervenuto in un'atmosfera glaciale, rotta solo da una stretta di mano del segretario di Stato americano F. Byrnes, avevano avuto un esito molto parziale.

L'Italia perdeva la Venezia Giulia, in gran parte assegnata alla Iugoslavia, e in parte costituita in entità autonoma, senza rispettare la linea etnica, sulla cui base era stata formulata la proposta americana; perdeva inoltre Briga e Tenda, cedute alla Francia; rinunciava unilateralmente a tutte le colonie; cedeva il Dodecaneso alla Grecia, l'isolotto di Saseno all'Albania. Limiti erano poi fissati ai suoi armamenti, e valutata in 100 milioni di dollari l'entità delle riparazioni di guerra dovute all'URSS.

Il blocco sovietico, l'Inghilterra e la Francia agirono esclusivamente in funzione dei loro interessi di potenza e di sicurezza, gli Stati Uniti non si erano mossi ancora secondo una loro linea di politica europea e pur costituendo il maggior punto di riferimento dell'Italia nella trattativa, la loro preoccupazione fu piuttosto quella di arrivare ad un accordo, che sui contenuti di questo.

La firma del trattato poneva così inevitabilmente dei problemi di politica interna, manifestandosi la delusione sia a Destra, sia a Sinistra, perché offesi i sentimenti nazionali, nonché quelli di chi aveva partecipato alla lotta di liberazione, e ne vedeva misconosciuto il contributo. Più gravi erano i contrasti con i comunisti che accrescevano le diffidenze, anche per nascondere l'imbarazzo dei loro peculiari problemi di partito, dovendo coprire gli interessi di potenza dell'URSS, in particolare riguardo al confine iugoslavo, più in generale rispetto alla loro politica nel Mediterraneo.

Meno apparenti, ma più durature, le conseguenze che la formula centrista del tripartito apportava alla forma stessa del sistema politico-istituzionale. Togliatti non era entrato nel governo per conferire un maggior margine di autonomia al suo partito. Ma nel voto di fiducia si era rivolto, alla Camera, al D., parlando del "suo governo" (Discorsi parlamentari, I, p. 412).

Quella dell'autonomia era un'esigenza peculiare dei comunisti, in quel momento sempre più condizionati dalle crescenti tensioni esterne; ma in quella occasione essa era anche congeniale a quella forma di governo di coalizione, che sovrapponeva necessariamente all'esigenza di omogeneità dell'azione di governo, quella di specificazione dell'iniziativa politica dei partiti.

A sua volta, il D. lasciava la segreteria del partito ad A. Piccioni nel settembre 1946. Questa disarticolazione si sarebbe approfondita, dopo le elezioni amministrative del novembre, che videro un regresso della DC a favore delle Destre e un progresso del PCI a scapito del PSIUP, con il Consiglio nazionale del partito del dicembre, che vedeva delinearsi la nascita delle correnti interne alla DC, quella dossettiana, distinta da Gronchi, e un primo troncone di destra, che faceva capo a Stefano Jacini.

La mancanza di solidità del quadro istituzionale che l'accordo politico doveva compendiare, si risolveva in un vuoto interno della compagine di governo, che doveva far perno sulle capacità di mediazione del D., ma vedeva sempre più collocate all'esterno le sue motivazioni di fondo, giacché eccezionale era la ragione della coalizione, data dalle contingenze di politica estera e nazionale; distinta la responsabilità del governo e dei partiti; frantumate le posizioni interne di questi ultimi, in una logica che era sempre meno quella del loro originale dibattito e sempre più quella dei contrasti che attraversavano la stessa coalizione.

La debolezza del tripartito derivava così dalla sua stessa natura. Né il D. né Togliatti volevano la sua crisi, giacché esso rispondeva a quella vocazione alla mediazione e centralità propria del primo e alla scelta di un accordo stabile con le masse d'ordine che caratterizzava la politica comunista. Congiuravano tuttavia contro questa ipotesi di stabilità i processi contraddittori che da essa stessa scaturivano e che erano sostanzialmente quelli dell'inevitabile crisi delle altre forze politiche, in particolare dei socialisti, e del livello non sufficiente di accordo, al fine di affrontare i nodi centrali della politica economica ed estera.

La crisi socialista si riproponeva, allo stesso modo del primo dopoguerra, come crisi di identità tra partito operaio e riformista, solo che ora lo specifico massimalista non poteva porsi altrimenti che come filocomunista, e quello riformista come tributario della politica del governo senza solidi referenti, anche solo dialettici, a sinistra, dove appunto l'egemonia comunista poteva dirsi già consolidata. La scissione socialista di palazzo Barberini (gennaio 1947) apriva dunque di riflesso una spaccatura determinante nell'equilibrio politico, perché il vuoto socialista, derivato com'era inoltre anche da una congiuntura internazionale sempre più tesa, metteva a nudo il rapporto tra il PCI e la DC, conferendogli una pregnanza che soprattutto quest'ultima non poteva a lungo sostenere.

La scissione socialista avvenne mentre il D. era negli Stati Uniti. Era il gennaio del 1947 e l'amministrazione americana stava preparando la sua svolta definitiva di politica estera, che l'avrebbe portata ad assumere le funzioni di leadership nello scacchiere europeo e mediterraneo, con la formulazione della "dottrina Truman" e con il piano Marshall. Il D. tornò avendo definitivamente acquisito l'appoggio americano, ma vedendo conseguentemente ridursi i suoi margini di mediazione interni, nel momento in cui la crisi era virtualmente aperta con le dimissioni dei ministri socialisti della corrente scissionista di G. Saragat. Il 2 febbraio aveva già costituito il suo terzo governo, rinnovando la formula tripartita. Pure c'erano i termini per una rottura; e ci si può chiedere perché egli non l'abbia anticipata a quella data, invece di aspettare la nuova crisi di maggio.

Tra il febbraio e il maggio del 1947 il tempo non scorse peraltro inutilmente; e il terzo governo De Gasperi fu in effetti un governo di transizione. Appena questo fu costituito i partiti dovettero affrontare la discussione plenaria sull'art. 7 della costituzione. Il D., che praticamente non aveva preso parte ai lavori costituenti, si impegnò a fondo su questo punto, condizionato dal Vaticano, la cui posizione fu intransigente e fece pressioni durissime sulla DC attraverso l'Azione cattolica: il che sottolineava una dualità di presenza cattolica, che si annunciava foriera di conseguenze.

Nel Comitato dei 75 il secondo comma dell'articolo, che fa riferimento ai Patti lateranensi, era passato di stretta misura, dissentendo anche i comunisti su di esso, là dove Togliatti era stato con Dossetti presentatore del testo del primo comma. Il voto decisivo dei comunisti nella seduta plenaria ha lasciato uno strascico di interpretazioni. Un testimone privilegiato, quale Lelio Basso, ricordava come ai suoi appunti critici Togliatti rispondesse: "questo voto ci assicura un posto al governo per i prossimi vent'anni" (G. Bocca, Palmiro Togliatti, Bari 1978, p. 450). Certamente esso contribuì a consolidare quel carattere centrista del sistema politico italiano che sarebbe sopravvissuto anche alla guerra fredda. E inoltre certamente, in quei frangenti così precari per la coalizione, una sconfitta della DC sull'art. 7 avrebbe potuto avere le conseguenze di un colpo di grazia.

Ma non era questo il solo terreno su cui i comunisti cercavano di puntellare una alleanza sempre più fragile.

Mario Scelba aveva assunto il ministero degli Interni, di cui nel precedente governo era stato titolare ad interim lo stesso D., e aveva iniziato subito a spingere a fondo la riorganizzazione della Pubblica Sicurezza, intensificando la ricerca dei depositi nascosti di armi ed intervenendo con decisione nelle questioni sociali e politiche, senza che la reazione comunista e sindacale si manifestasse più che tanto.

Ma soprattutto era la questione economica che veniva al pettine in modo sempre più stringente. Fu il socialista Rodolfo Morandi ad elaborare in quattordici punti una linea di stretta austerità: si parlava di contenimento della spesa pubblica, di controllo dei prezzi e di abolizione di quelli politici, di governo monetario e creditizio.

Salvo il corollario, peraltro conseguente, dei licenziamenti, tutti i capitoli necessari ad una manovra deflattiva erano enunciati, anche se non veniva dichiarato esplicitamente il principio stesso dell'operazione: il che non era solo un artificio, ma una oggettiva difficoltà d'ordine politico e sociale.

L'aver indicato la strada senza imboccarla, rafforzava comunque le posizioni più intransigenti degli ambienti finanziari ed industriali, che si esprimevano attraverso il governatore della Banca d'Italia, Luigi Einaudi, e il presidente della Confindustria Angelo Costa, e che assumevano una pressante omogeneità di vedute, cosicchè il D. stesso le definiva come il "quarto partito".

Quella del quarto partito era nel linguaggio stesso degasperiano una metafora con più valenze, in funzione del dibattito interno al suo partito, perché metteva in luce l'oggettiva necessità di dare un ruolo decisivo a questo segmento portante del blocco d'ordine e in termini più generali perché designava una possibilità di "ricostruzione" dell'Italia postbellica, col pieno suo reinserimento nel sistema capitalistico internazionale, sotto l'egida dell'aiuto americano.

Era la realizzazione di questa ipotesi, l'unica a presentarsi come plausibile, che si scontrava con le ragioni politiche del governo tripartito, in particolare con il basso profilo decisionale ed operativo di cui era capace la mediazione del D. all'interno di esso.

Togliatti, proprio nei giorni della formazione di questo governo, commentando il viaggio negli Stati Uniti del D., aveva voluto sottolineare l'intreccio sempre più stretto tra politica degasperiana ed americana e il grado di dipendenza che ne sarebbe derivato al paese.

Ma quell'intreccio era una necessità storica le cui prospettive politiche ed economiche erano trasparenti, come del resto i motivi di opposizione dei comunisti. Per quanto essi cercassero di recuperare su altri terreni le ragioni dell'intesa tripartita, questo era infine divenuto il nodo fondamentale, cosicché la fuoriuscita del PCI e dei socialisti dal governo, che caratterizzò la svolta di maggio del 1947, può essere anche intesa come una deliberata autoesclusione.

Gli anni della guerra fredda la trasformarono in "conventio ad escludendum", come lo stesso D. sempre più fu portato a sottolineare, e tuttavia non sradicarono l'impianto centrista del nuovo sistema politico di cui i comunisti facevano parte, cosicché la loro opposizione non divenne mai politicamente alternativa, ma fu semplicemente dialettica; e il grado di intensità di questa dialettica era dato dalla mobilitazione sociale che essa di volta in volta generava o utilizzava e dal conseguente livello di controllo che su di essa poteva esercitare il governo, nonché dal contesto internazionale nel quale si svolgeva.

Proprio questa valutazione relativa alla tenuta del sistema sociale e politico fu uno degli elementi di maggiore incertezza della sofferta decisione del De Gasperi. Più volte tornò su questo punto sottolineando di aver compiuto quella scelta "da solo", anche se poi il partito lo sostenne fino in fondo, dopo aver attraversato un momento in cui le perplessità erano state notevoli.

Il 31 maggio varava un governo a prevalenza democristiana, con Luigi Einaudi alle Finanze e Tesoro e Carlo Sforza agli Esteri, il liberale Giuseppe Grassi alla Giustizia e alcuni ministri tecnici tra cui Cesare Merzagora, Gustavo Del Vecchio e Guido Corbellini. Raccolse una maggioranza di stretta misura col voto dei liberali e dei qualunquisti. Il temuto scontro politico e sociale non avvenne. Nei mesi seguenti Togliatti avrebbe sollecitato la CGIL ad una maggiore iniziativa; ma questa restava in parte paralizzata dal suo assetto unitario. Su Einaudi e Sforza fecero perno gli impegni più rilevanti che il governo aveva di fronte: la politica economica e la firma del trattato di pace.

La manovra deflattiva che il governo mise subito a punto ebbe i suoi primi effetti nell'autunno con la caduta dei prezzi all'ingrosso.

Ma la cosiddetta "linea Einaudi", con i presupposti liberisti che la caratterizzarono (tenuta del cambio, controllo creditizio, politica di bilancio) improntò poi tutto il quinquennio successivo e fece da premessa all'utilizzazione degli aiuti del piano Marshall. Le critiche che ad essa vennero mosse, di ostacolare la maggiore potenzialità espansiva dell'economia italiana, vanno accompagnate anche dalla valutazione che essa indubbiamente determinò le condizioni di stabilità necessarie per il processo di reinserimento dell'economia italiana nel contesto internazionale, con la liberalizzazione dei cambi e le riduzioni tariffarie, e consentì al settore industriale di cogliere le occasioni date dall'espansione del mercato estero, specie col boom coreano, accentuando il carattere dualistico di questo e il modello di un'economia trainata dalle esportazioni, ma senza impedire la molteplicità di interventi riformistici della prima legislatura.

Nell'autunno seguente e nell'inverno del 1948 poterono anche essere ammortizzate le conseguenze politiche e sociali derivanti dallo sblocco dei licenziamenti che la manovra deflattiva prevedeva, grazie anche alle misure adottate dal ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, uno degli esponenti più in vista del gruppo dossettiano.

Il voto della Costituente per la firma del trattato di pace non fu un risultato facile da conseguire. Anche il D., dopo la conferenza di Parigi che ne aveva redatto il testo definitivo, aveva preso una posizione dura, che poteva voler preludere ad una domanda di revisione delle sue clausole. Ma dopo il viaggio in America, poiché questa era un'esplicita richiesta dell'amministrazione statunitense, nel reciproco intreccio di promesse che aveva scambiato con i suoi interlocutori americani, il D. aveva fretta di acquisire la ratifica parlamentare. Era sicura l'opposizione delle Destre, mentre, non essendo stato il trattato ancora firmato dall'URSS, comunisti e socialisti chiedevano un rinvio della discussione. Furono i repubblicani e i socialdemocratici, che non facevano parte della maggioranza del governo, a venire in aiuto del D., per coerenza con la loro posizione filoccidentale, consentendo la ratifica del trattato col voto del 13 luglio 1947.

Si gettavano così anche le premesse per quel rimpasto del governo del dicembre seguente, primo decisivo passo verso quella che comunemente viene definita la formula di governo "centrista", cioè la coalizione della DC con i partiti di democrazia laica, che avrebbe costituito un punto di riferimento costante per il D. durante tutta la legislatura, e che in realtà era una riduzione storicamente contingente, ma date le circostanze, senza possibilità di ampliamento, della tradizionale azione centralizzata del sistema politico, propria della concezione degasperiana.

Il D., sia prima sia dopo la vittoria elettorale del 18 apr. 1948, faceva intendere ripetutamente l'adagio che "la DC non può fare da sola" nell'esercizio della sua leadership di governo e doveva muoversi in un quadro di alleanze stabili (Baget Bozzo, I, p. 157). È un punto questo che si chiarisce via via nel corso degli ultimi anni dell'esperienza degasperiana.

Alla fine del 1947, quando il ruolo da essa assunto nello schieramento politico era quello del consolidamento dello Stato, del risanamento economico e della ricostruzione postbellica, dello schieramento filoccidentale, che la portava a coprire tutto l'arco delle posizioni che andavano dal fronte conservatore alla socialdemocrazia, tale posizione degasperiana era inerente alla necessità di proporsi come "partito nazionale": il che era certo più credibile configurandosi la DC come pilastro di un'alleanza di forze convergenti, piuttosto che come parte fra di esse. Ed era un modo anche per accentuare il carattere laico del partito, giacché lo scontro nel paese non si proponeva più, come lo stesso Pio XII aveva enunciato nella vigilia elettorale del 1946, tra cristianesimo e materialismo, ma tra "mondo occidentale" e "mondo comunista", saldando insieme motivi diversi, quali la libertà della Chiesa, la società borghese, la democrazia occidentale. Ne risultava inoltre, non solo tatticamente, giustificato il carattere "centrista" della forma di governo, non più secondo lo schema originario di centralità politica e sociale, data la riduzione delle forze politiche che la componevano, ma nel senso di una comune centralità di obiettivi ideali e politici.

L'Azione cattolica che si gettò nello scontro elettorale del 1948 con i Comitati civici, dando un contributo sostanziale alla vittoria democristiana, si mosse in questo contesto precostituito, senza quindi snaturare l'impostazione politica del De Gasperi.

La vittoria del 18 aprile della DC, con il suo 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta nella Camera dei deputati, mutarono i presupposti politici entro i quali fino ad allora si era mossa la strategia del De Gasperi.

Ora il partito poteva fare "da sé", anzi per qualcuno doveva, perché quel consenso costituiva un mandato non solo politico, ma era il suggello di un'egemonia nuova a cui occorreva dare un significato. Paradossalmente si potrebbe attribuire al D. la riflessione, di tutt'altro significato, del parroco di Barbiana: "è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta" (Lettere di don L. Milani, Milano 1975, p. 4).

Il D. lungo tutti quegli anni era riuscito ad evitare qualsivoglia netta definizione del tema del partito. La sua formula "partito dei cattolici" era certo diversa da quella del "partito fra i cattolici" che era stata di Sturzo. Già così essa spostava l'accento dal "partito" all' "unità dei cattolici", il cui elemento disciplinare era posto dall'esterno, era "disciplina cattolica". C'era in questa impostazione un'eco del D. trentino, ma anche la sofferta esperienza della disgregazione del partito popolare e della sua sconfessione ecclesiastica.

L'autonomia del cattolico stava nell'agire politico tra società e Stato. Non il partito, ma in primo luogo le istituzioni pubbliche, governo e Parlamento, costituivano dunque la scena peculiare dell'autonomia politica del cattolico. La laicità della politica si esprimeva nello Stato piuttosto che nel partito, che doveva rimanere un'istanza subordinata, punto di convergenza dell'unità dei cattolici, presupposto, ma non guida dell'attività parlamentare e di governo. La politica delle alleanze era così un corollario indispensabile di questo schema, perché la necessità di esse era la tangibile espressione dell'insopprimibile carattere storico della laicità dell'azione politica, là dove il partito rimaneva un'istanza che, nella sua essenza, non poteva sfuggire ad una qualche caratterizzazione confessionale, anche se la sua funzione di tramite aveva pure essa una qualificazione propriamente laica.Si potrebbe dire che il controverso rapporto dialettico tra partito, governo e Parlamento, che sta a fondamento d'ogni moderna democrazia, trovava nella concezione del D., almeno formalmente, un approccio assai simile a quello proprio del "sistema britannico" (Elia, p. 331), così schematizzabile: prima il governo, poi la maggioranza parlamentare, infine il partito. La leadership del governo avrebbe costituito dunque il punto di riferimento naturale, se si vuole, il momento di sintesi di questa gerarchia istituzionale. Ma lo schema per essere operativo avrebbe dovuto anche far perno su altri presupposti politici ed istituzionali, che non contrassegnavano il pensiero e neppure la realtà politica nella quale il D. si trovava ad operare.

Innanzitutto l'originario punto di partenza "centrista" avrebbe dovuto trasmutare in una concezione alternativista della democrazia, tema che il D. si troverà a sfiorare nel 1952, quando avviò il discorso della legge elettorale maggioritaria, senza metterlo a fuoco, preoccupato di non porre in discussione il pur precario sistema di alleanze che aveva mantenuto attorno al suo partito. Inoltre, sarebbe stato necessario dare una definizione più chiara proprio al tema del partito e alla relazione di questo con le organizzazioni collaterali del mondo cattolico, in particolare l'Azione cattolica, che con i Comitati civici aveva avuto un ruolo preminente nella campagna elettorale. Da ultimo c'era il problema di adeguare e collaudare il funzionamento delle istituzioni pubbliche, che la nuova carta costituzionale aveva disegnato e che la prima legislatura doveva rendere operanti.

Il D. in un primo tempo superò di slancio questa fitta ragnatela di problemi, per trovarsene in un secondo momento sempre più prigioniero. In realtà il sistema degasperiano resse a tutte le spinte contrastanti che via via prendevano quota, fino a che fu univoca la sua linea di governo, specie sui due temi di fondo che fin dalle origini avevano contrassegnato la sua difficile ascesa: la politica estera e quella economica. Quando varianti sempre più significative della linea di governo furono da lui stesso accettate e fatte proprie, poiché ciò avvenne fuori dal filtro istituzionale del partito, si determinarono frantumazioni crescenti, nel governo, nella maggioranza parlamentare e nel partito stesso.

Il dibattito sul partito prese quota lentamente. Il secondo congresso della DC, nell'aprile 1948, era stato, come si è visto, dominato dai problemi che la scadenza elettorale poneva. Ma già alla fine di quello stesso anno il dibattito interno si faceva più vivace. Il tema dell' "unità del partito" incominciava ad essere posto in relazione a quello della sua "democratizzazione", secondo la formula di Gronchi, e delle sue interne "correnti", come prendeva a rimproverare il segretario politico Piccioni. All'assemblea organizzativa del gennaio 1949 Dossetti proponeva la formula del "partito programmatico".

Quello che Dossetti venne elaborando in quegli anni costituiva sotto ogni aspetto un'alternativa radicale non solo al D., ma alla stessa DC, così come si era venuta affermando in quello scorcio del dopoguerra. Era l'utopia cattolica che prendeva le mosse dall'umanesimo di J. Maritain e faceva coincidere l'idea della "riforma" con quella dell'autonomia politica dei cattolici. Ora in essa utopici non erano i contenuti della riforma, che anzi con grande modernità Dossetti e i suoi amici mutuavano dalle esperienze del riformismo europeo, in particolare da quella laburista inglese, ma proprio la concezione politica ed ecclesiale che li sottointendeva. Quando il D., in una lettera a Pio XII, del gennaio 1952, liquidava quell'esperienza di "laburismo cristiano", perché "razionalizzando metodo, dottrina e azione procede alla riforma sociale nella più ampia misura, trascurando il rischio dell'isolamento o, in ogni caso, della riduzione delle forze" (De Gasperi scrive, I, p. 115), sapeva di sfondare porte aperte, giacché la visione pontificale non era quella della "reformatio", ma semmai delle due "civitates" contrapposte, tanto che la scontata condanna a sinistra veniva da lui proposta per invocarne una di uguale segno sulla destra. Meno sincero, forse, il D., quando nel marzo del 1949 aveva scritto allo stesso Dossetti: "sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo 'microcosmo', per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive" (ibid., p. 303). Capiva comunque che era un "microcosmo" politicamente non troppo inquietante, sebbene da esso avrebbe tratto vigore l'approfondimento di due temi, quello del partito e quello del programma, che non erano congeniali alla concezione del De Gasperi.

Contro le ipotesi del "partito programmatico" il D. manteneva al centro del dibattito la politica del governo: egli del resto era consapevole che la base del partito chiedeva, come conseguenza del 18 aprile, una riforma della società civile. Il III congresso della DC si tenne a Venezia, e fu quello del "terzo tempo sociale". Anche Giuseppe Pella annunziò massicci investimenti pubblici. Il programma della riforma agraria faceva già il suo iter, sotto la guida del ministro dell'agricoltura, Antonio Segni. Ezio Vanoni presentava la sua riforma tributaria. G. Gonella annunziava la riforma della scuola media. Fanfani aveva lanciato il suo piano INA-Casa. In effetti il congresso fu luogo di sintesi di quella prima ventata di riforme strutturali che investì la nuova legislatura; vi si discusse anche della strumentazione istituzionale che la loro attuazione comportava.

Stavano già allora venendo al pettine le disarmonie prestabilite del nostro sistema politico e costituzionale, in particolare l'eccesso di garantismo nel procedimento legislativo, che derivava dal tipo di bicameralismo adottato, ma anche dai regolamenti dei due bracci del Parlamento, specie quello della Camera dei deputati, che quasi pedissequamente aveva richiamato in vigore il testo prefascista, con l'ampio spazio che ne derivava all'iniziativa parlamentare di contro a quella del governo, nonché la mancata definizione del funzionamento collegiale di quest'ultimo e la necessità che subito si avvertì d'una legge che definisse i poteri della presidenza del Consiglio.

Alla prova dei fatti era difficile governare, anche con la maggioranza assoluta. Il carattere composito del blocco d'ordine del 18 aprile si manifestava soprattutto nell'azione parlamentare, in una continua diacronia di spinte centrifughe, interne alla DC e alla più ampia maggioranza di governo, che venivano ad intralciarne l'iniziativa. La domanda di un indirizzo programmatico nella sede di partito, mossa in particolare dai dossettiani, pur non appartenendo alla scala di priorità politiche che era propria del D., tuttavia veniva incontro a quella necessità elementare d'ordine richiesta dall'azione di governo, soprattutto rispetto ai gruppi parlamentari. Proprio questo aspetto era colto numero due del gruppo dossettiano, Amintore Fanfani, che dopo il congresso di Venezia proponeva al D. la collaborazione sua e della sua corrente all'attività riformatrice del governo.

I tempi non erano tuttavia ancora maturi per questo ribaltamento, dal partito al governo, della linea dossettiana. In quella congiuntura d'altra parte la disponibilità di Fanfani portava acqua al mulino di chi, come Piccioni e parte del vecchio gruppo popolare, inclinava verso una soluzione di governo a prevalente impronta democristiana. Al contrario il D. aveva fretta di ristabilire le condizioni dell'alleanza quadripartita che già avevano caratterizzato il suo quinto governo, all'indomani delle elezioni, e che poi erano venute meno per la fuoruscita dei socialdemocratici, impegnati a riaggregare le ulteriori disaggregazioni del vecchio tronco socialista. Alle sue tradizionali motivazioni di politica interna si aggiungevano valutazioni nuove di carattere internazionale, giacché l'apertura del fronte coreano inaspriva i termini della guerra fredda. Il D. dunque bruciava i tempi e insieme con essi i propositi dei suoi amici di partito, costituendo nel gennaio 1950 il suo sesto governo tripartito (i liberali se ne erano tenuti fuori, avvolti nelle polemiche sulla legge agraria), dal quale Fanfani rimaneva escluso. Sentiva tuttavia il bisogno per la prima volta di bilanciare questa operazione con un'apertura a livello di partito. Nella sessione di aprile del Consiglio nazionale della DC, toccando il tema delle correnti, contro la "communis opinio" della maggioranza, osservò che nella posizione di Dossetti c'era "una concezione diversa dei rapporti tra partito e governo, che è forse quella dell'avvenire" (Baget Bozzo, II, p. 316), aprendo così la strada ad un rinnovo della segreteria, che da P. E. Taviani passava a Gonella, con lo stesso Dossetti come vicesegretario.

Quello che ne seguì fu un equilibrio precario e transeunte. Il D. aveva così congelato le polemiche che provenivano dall'interno del partito, ma non quelle che attraversavano i gruppi e la maggioranza parlamentare. L'iniziativa di governo si manteneva densa e febbrile, ma le sue cinghie di trasmissione verso il Parlamento e il paese divenivano sempre più contraddittorie. Una testimonianza significativa di ciò fu l'iter parlamentare della riforma agraria: accanto al progetto del governo, se ne aggiunsero altri di iniziativa parlamentare, proprio da parte del gruppo democristiano, che portarono a ridefinizioni successive e al varo di una legge stralcio relativa all'esproprio della grande proprietà agraria.

Era questa una parabola che sarebbe, con maggiore o minore intensità, divenuta prassi costante del processo legislativo, in cui il filtro della maggioranza tendeva istituzionalmente a imprimere un suggello all'iniziativa legislativa del governo. E ciò in presenza di un'agenda assai fitta di iniziative, quale quella che caratterizzò tutta la prima legislatura, la più impegnata nelle riforme, che oltre alle accennate, metteva ora in cantiere l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, lo statuto dell'Ente nazionale idrocarburi (ENI), e quello nuovo dell'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), e avviato altre numerose iniziative riguardanti la stampa, i codici, il pubblico impiego e l'ordine pubblico, con la legge Scelba.

Questa frantumazione parlamentare dell'azione del governo era tuttavia un sintomo sempre più pesante di crisi a cui il D. non sapeva far fronte, pur con il suo indiscusso prestigio e capacità di mediazione. Si avanzava poi una critica ancor più radicale che rischiava di minare l'essenza stessa della sua politica e che in primo luogo si appuntava sulla cosidetta "linea Pella". Questa critica aveva, in alcuni, connotati fortemente ideologici, in altri più pragmatici. La premessa del discorso stava nei rilievi, che vennero anche dai responsabili americani del piano Marshall, sui condizionamenti che derivavano allo sviluppo produttivo dalla politica monetaria e di bilancio.

Dossetti, coerentemente alla sua visione, vedeva nel superamento della linea Pella la premessa indispensabile d'un nuovo corso istituzionale. Ripeteva un giudizio che Sturzo aveva dato del primo governo Mussolini, secondo cui "il primo partito organizzato è oggi il governo" (Cronache sociali, a cura di M. Glisenti - L. Elia, Roma 1961, p. 625), ed a cui contrapponeva la sua concezione democratica del partito, consapevole che la gestione della politica economica fosse l'elemento portante del governo come partito.

Meno globale era l'attacco contro la linea Pella di altri settori della DC, all'insegna di un deficit spending senza molta ortodossia teorica, ma in cui c'era del vecchio e del nuovo. Vecchie erano le tradizionali pretese elettoralistiche, specie di deputati meridionali, che caratterizzavano ad esempio il gruppo di destra della Vespa, in parte nuove quelle che facevano capo soprattutto a Fanfani, centrate su politiche settoriali, di cui il piano INA-Casa era stato un esempio, che da un lato erano rivolte prevalentemente alla tutela di posizioni sociali che rimanevano escluse o marginali allo sviluppo propriamente capitalistico, dall'altro intervenivano nel processo di accumulazione direttamente attraverso la mano pubblica, con quel corredo di enti e partecipazioni, di cui negli anni Trenta il regime fascista aveva gettato le premesse sistematiche, e che tutte insieme preconizzavano, rispetto alla concezione del D., una prospettiva nuova di governo come "partito organizzato".

Questa linea, che poi ebbe il sopravvento e caratterizzò tutto il decennio, è stata definita di "protezionismo liberale" (Amato, p. 15), ove il primo termine si riferisce alla tutela di interessi "altri" da quelli capitalisti, funzionali all'equilibrio sociopolitico del paese.

In effetti i due termini poterono convivere, nella continua progressione dello sviluppo economico destinata a durare oltre un ventennio. L'originaria impostazione liberista era temperata da un processo distributivo che prendeva una ibrida forma politico-istituzionale e poteva alimentarsi con i margini creati dall'espansione produttiva.

Lo statuto della politica economica rimaneva liberista; la prassi politica e molti dei suoi strumenti istituzionali se ne discostavano. L'azione di governo perdeva necessariamente di coerenza interna, perdeva soprattutto l'ortodossa predeterminazione propria del liberismo, non acquistando l'omogeneità di un indirizzo dirigistico. Ezio Vanoni avrebbe fatto un tentativo in questa direzione con il suo "schema", che è del 1954, e sul problema sarebbero poi tornati i governi di centrosinistra con la politica di programmazione. Ma quest'ultima avrebbe richiesto, come referente necessario, un assetto politico-istituzionale in cui i rapporti tra governo e partito fossero funzionali a sorreggere scelte di indirizzo univoche, che non era quello che già si stava coagulando in quella prima legislatura.

Ciò non intesero, né allora, né dopo, le Sinistre, basta pensare alle critiche che Togliatti formulava all'iniziativa presa da G. Di Vittorio, proprio in quegli anni, di "un piano del lavoro", e più tardi ai dibattiti socialisti. Una attenta lettura, dall'angolo visuale opposto, merita anche la furibonda polemica liberista che conduceva Sturzo, in qualche modo simile a quella di Ernesto Rossi.

Il D. avvertiva che la linea Pella era un pilastro del suo sistema di governo e rappresentava quel coefficiente minimo di controllo politico sulla politica economica di cui esso era capace, oltre al quale, a costringere alla coerenza l'azione di governo, vi erano soltanto le regole di mercato. Lo guidava in ciò più il suo "istinto" di politico che una riflessa visione di statista. Non era aiutato né dalla sua formazione culturale, né dalla sua esperienza politica, essendo stato tagliato fuori, come del resto era accaduto a tutto il ceto politico antifascista, da quell'analisi diretta dei fenomeni economici, che negli anni Trenta aveva gettato i fondamenti della nuova economia.

Ma quello stesso istinto che lo aveva portato fino ad allora a difendere Pella si allargava ad altre considerazioni attinenti all'equilibrio politico. Le elezioni amministrative che si erano tenute in due turni nel maggio e nel giugno del 1951 avevano segnato un netto arretramento della DC, soprattutto a favore delle Destre. Un nuovo fantasma attraversava la scena politica e polarizzava l'attenzione della DC e del mondo cattolico. Essendo nel frattempo andata in porto l'unificazione tra il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) e il Partito socialista unificato (PSU), Saragat aveva nuovamente ritirato i ministri socialdemocratici dal governo. Il D. questa volta non si preoccupò tanto di ricostruire la formula quadripartita, date anche le difficoltà che gli provenivano da socialdemocratici e liberali. Formò un governo bicolore con il Partito repubblicano italiano (PRI), col quale cercò di raggiungere il massimo di unità interna nella DC. L'accordo avvenne sostanzialmente con Fanfani: Pella lasciava a Vanoni il Tesoro per andare al Bilancio e Fanfani entrava nel governo come ministro dell'Agricoltura. Si suggellava così la definitiva spaccatura della corrente che aveva fatto capo a Dossetti, e questi prendeva definitivamente la decisione di lasciare la vita politica.

Passava nei fatti una concezione del governo e del partito molto lontana dagli originari intenti del D., ed essa si sarebbe fatta strada negli anni seguenti, fino ad affermarsi definitivamente nel congresso della DC del 1954. Di essa egli fu mallevadore suo malgrado.

Si faceva avanti una nuova generazione di cattolici, formatasi nel periodo della clandestinità e del dopoguerra, che, cementata da questa comune esperienza, andava assumendo sempre più una posizione centrale nel partito, accanto al vecchio gruppo maggioritario di prevalente origine popolare, dandosi come punto di riferimento la corrente di "iniziativa democratica", che raccoglieva le adesioni degli ex dossettiani, come A. Moro, G. B. Scaglia, L. Gui, G. Galloni, A. Ardigò, Pecci, di parlamentari fino allora non ancora troppo impegnati nelle polemiche del partito, come M. Rumor, O. L. Scalfaro, A. Salizzoni, B. Zaccagnini e anche quella di un ex segretario come P. E. Taviani.

Il D. aveva bisogno di questo supporto nuovo nella difficile prova che lo attendeva con la Destra del mondo cattolico. Nel gennaio del 1952 l'uomo dei Comilati civici, Luigi Gedda, assumeva la presidenza dell'Azione cattolica. Il ruolo determinante dell'associazione, come del resto di tutta l'organizzazione ecclesiale, nel sostegno politico ed elettorale della DC, e l'influenza che essa aveva sui gruppi parlamentari e sullo stesso partito non era una novità, né si era mai posto in contraddizione con la concezione degasperiana del "partito dei cattolici". Di nuovo c'era che ora l'Azione cattolica pretendeva di assumere un ruolo più direttamente politico. La nuova presidenza veniva a costituire un diaframma tra il partito ed il Vaticano. Così era l'unità stessa dei cattolici ad essere minacciata.

Un primo banco di prova della nuova situazione furono le elezioni amministrative della capitale che dovevano tenersi nella primavera di quell'anno. Il D. uscì vincente da quel primo confronto, perché il terreno scelto da Gedda per incidere sugli equilibri politici, fu essenzialmente quello delle alleanze elettorali, e si mandò avanti il nome di Luigi Sturzo per accreditare un blocco elettorale comprendente le Destre. Il primo no venne dai partiti laici. Così sulla bilancia stavano due possibili schemi di alleanza, a destra e al centro. Non fu difficile al D., a cui Giulio Andreotti fece da tramite, di convincere gli ambienti vaticani, che una scelta a destra, posta ormai in termini così traumatici, avrebbe avuto effetti perturbatori su tutto l'equilibrio politico. Un blocco di centro, al posto dell' "operazione Sturzo" vinse di stretta misura le elezioni romane; ma in generale quella prova elettorale, se pur parziale, per il numero limitato di amministrazioni che coinvolgeva, confermò gli andamenti elettorali dell'anno precedente, con il forte calo della DC e la crescita delle Destre.

Il pericolo di una rottura a destra dell'unità cattolica rimaneva vivo. Lo stesso D. era esplicito su questo punto. Scriveva a Scelba, nel giugno 1952: "in Vaticano si insiste sulla manovra tattica avviata durante le amministrative... Temo il peggio, cioè che si mediti una iniziativa per un nuovo partito" (De Gasperi scrive, I, p. 209). Gli interessi che erano stati lesi dalla legge stralcio della riforma agraria si erano messi in movimento: la rimozione di Pella e il rilancio della mano pubblica, specie con la costituzione dell'ENI, avevano mutato anche gli umori della Confindustria di Costa. Prendevano così corpo i lineamenti di un nuovo blocco d'ordine.

Il D. inclinò a destra nell'ultimo tratto della legislatura, non perdendo di vista i partiti di Centro come suo referente politico. Nel luglio del 1952 scriveva a Piccioni, vicepresidente del Consiglio e ministro guardasigilli: "la stagione sarà procellosa e si esigerà un nostro sforzo intenso e serrato. Non parlo qui del partito, parlo dell'attività parlamentare che diventerà preminente e decisiva. Bisogna... intenderci previamente su quello che vogliamo che si faccia o non si faccia, e poi serrar sotto, per spingere e dirigere la maggioranza. Il compito direttivo spetta qui al governo" (ibid., I, p. 195). Riproponeva così il metodo tradizionalmente consono alla sua concezione politico-istituzionale. E gli obbiettivi da conseguire erano questa volta anch'essi di carattere istituzionale: la legge sindacale, quella sullo sciopero e quella sulla stampa; l'aggiornamento del codice penale; il decentramento amministrativo, piuttosto che l'istituzione delle regioni; la legge sulla presidenza del Consiglio. Nessuna di queste leggi sarebbe passata. Attraverso un programma di "Stato forte" e di "democrazia protetta" il D. intendeva imbrigliare il sistema politico. Ma era proprio questo l'anello debole della sua strategia. Il passaggio necessario diveniva così quello della legge elettorale.

In un primo momento aveva fermato la sua attenzione sul "sistema uninominale a due turni" (Baget Bozzo, II, p. 402), col quale, "nel ballottaggio ... si avrebbero due fronti", ma aveva ripiegato su una proporzionale con premio di maggioranza. A Sturzo, che era per il primo sistema, faceva osservare: "le difficoltà dell'uninominale provengono specialmente, come sai, dai socialisti democratici". Quali che fossero le valutazioni riteneva "errore certo spingerli verso i socialcomunisti" (De Gasperi scrive, II, p. 62).

Così i problemi propri del sistema politico si sovrapponevano al modello istituzionale. Anche in quella scelta decisiva si manifestava di nuovo una discrasia fondamentale tra il suo modello di democrazia basato sul primato del governo e la sua concezione centrista del sistema politico. Mentre inclinava a destra rimaneva saldamente ancorato al centro. Nel IV congresso del partito, che si tenne a Napoli nel novembre 1952, riuscì ancora a raccogliere intorno a questa linea un'ampia maggioranza, saldando in un'unica lista la vecchia maggioranza guidata dagli ex popolari e la seconda generazione organizzata in Iniziativa democratica.

Ma quest'ultima edizione della vecchia unità presentava una crepa, piccola, ma significativa, con la presentazione in lista separata di G. Pastore e dei sindacalisti, che non traeva la sua origine tanto dal dibattito congressuale, quanto dall'appoggio del presidente dell'ENI, Enrico Mattei. Anticipando i tempi, questi individuava nel partito la sede decisionale primaria, e nella sua frantumazione e riaggregazione per correnti e gruppi la modalità ordinaria dell'esercizio del potere, che la leadership degasperiana aveva l'effetto ancora di lasciare in ombra.

In quell'ultimo governo della prima legislatura repubblicana il D. aveva assunto, ad interim, ilportafoglio degli Affari esteri. Anche questo era stato un compromesso. Da più parti, soprattutto dalla sinistra del suo partito, con sfumature diverse da Dossetti a Gronchi, erano state sollevate, in modo sempre più insistente, pregiudiziali su Carlo Sforza. Il D. l'aveva tenuto accanto a sé fin dal suo terzo governo. Così Sforza era venuto a rappresentare la continuità di una politica, quella filoamericana dei governi De Gasperi. Aveva portato al voto della Costituente il trattato di pace, patrocinato l'adesione al Patto atlantico nel 1949, fermamente allineato l'Italia accanto agli Stati Uniti durante la guerra di Corea. Il D. non intendeva certo deflettere da quella linea.

Proprio nell'ultimo scorcio del 1952 tuttavia i rapporti tra gli alleati atlantici attraversavano una delicata fase evolutiva. Nel maggio del 1952 questi avevano firmato un accordo che restituiva piena sovranità alla Repubblica federale tedesca. Da parte sovietica si era risposto con un'offerta di unificazione della Germania, all'insegna della neutralità tra i due blocchi. Era una proposta abile e sostanziale, che attraverso la neutralità tedesca affacciava l'ipotesi di un ruolo autonomo dell'intero continente europeo e sollecitava le spinte neutralistiche, anche all'interno degli altri paesi. Il nodo veniva sciolto dal cancelliere tedesco, il democristiano Konrad Adenauer, che respingeva l'offerta sovietica, la quale non sarebbe poi più stata riproposta. Così egli allontanava indefinitamente il traguardo dell'unificazione tedesca, ponendo in modo cogente la necessità di un diverso legame che rinsaldasse, come contrappeso, l'unità delle nazioni dell'Occidente europeo. Nacque così l'ipotesi della Comunità europea di difesa (CED), alleanza politico-militare europea all'interno del Patto atlantico, legata ai nomi di Adenauer, del D. e del francese, anch'egli democristiano, R. Schuman, la cosiddetta "Europa, di Carlo Magno".

Il D. perseguì con tenacia l'obiettivo della ratifica del trattato. Alla vigilia della cancellazione di quel progetto, con il voto contrario dell'Assemblea nazionale francese, nell'agosto del 1954, pochi giorni prima della sua morte, sollecitava ancora Fanfani perché si adoperasse a favorire la riuscita dell'impresa, notando che senza quel trattato veniva "ritardato di qualche lustro ogni avviamento dell'Unione Europea" (Ibid., I, p. 336). In effetti l'Europa che doveva nascere un quinquennio più tardi con i Patti di Roma, sarebbe stata una pallida sinopia di quell'originale progetto. Esso inoltre avrebbe chiuso ogni possibilità di formulare ipotesi di politiche nazionali neutralistiche, condizionando in modo definitivo il dibattito interno di politica internazionale, tagliando tutti quei fili che in qualche modo congiungevano, su questo tema cruciale, posizioni di destra e di sinistra, esterne ed interne alla stessa Democrazia cristiana. Così un insieme di circostanze, che sfuggirono al controllo del D., fecero sì che egli non potesse saldare l'ultimo anello della sua politica estera, che tuttavia rimane uno dei lasciti più duraturi della sua opera di statista.

Dopo un duro scontro parlamentare sulla legge maggioritaria il D. portava la DC alla nuova prova elettorale del 7 giugno 1953 apparentata ai tre partiti di democrazia laica, alla ricerca di un premio di maggioranza, che le avrebbe fatto conseguire la stessa preminenza in Parlamento della legislatura precedente, anche con un minor numero di suffragi, come era nelle previsioni. Portava anche un bilancio oltremodo vasto di realizzazioni e un positivo mutamento di condizioni economico-sociali, per cui a giusto titolo meritava il titolo di "presidente della ricostruzione". Dalle elezioni si pretendeva conseguire un assestamento definitivo del sistema politico-istituzionale, cosa che in effetti seguì a quei risultati elettorali, pur non scattando il quoziente maggioritario, in una forma che non era quella, assai contraddittoria, preconizzata dal De Gasperi.

Il risultato elettorale del 7 giugno realizzato dalla DC, con il 40,1% dei voti, fu a torto considerato una sconfitta. In realtà la DC conseguiva definitivamente quel ruolo di partito di maggioranza relativa, che era consono alle premesse centriste del sistema politico, e che solo una situazione eccezionale come quella del 18 aprile, aveva diversamente configurato. Allora essa aveva convogliato quasi tutti i voti della Destra, anche estrema; ora, stabilizzatasi la situazione, questa tornava a prendere il suo posto nella costellazione politica. L'uninominale, non la maggioritaria, avrebbe ricreato le condizioni del 18 aprile. L'eventuale scatto del premio di maggioranza era invece destinato a rinsaldare il "piccolo centrismo" della prima legislatura, isolando maggiormente le estreme. Non essendosi l'evento verificato, la politica di centro doveva essere costruita su di uno specchio di ipotesi e di alleanze più ampio.

E questo sarà per molte legislature il centrismo dopo il 7 giugno: un alternarsi di formule parlamentari di centro: centrodestra, "centrismo" propriamente detto, infine centrosinistra. E di queste formule il centro era appunto costituito dalla DC, con una tonalità nuova rispetto al periodo degasperiano, in cui l'accento era propriamente messo sulla coalizione, ora invece cadeva sul partito, giacché il sistema diveniva, come si disse poi, su di esso "polarizzato" (Sartori, 1987).

Non sarebbe improprio dire che col 7 giugno la DC affermava definitivamente la sua primazia nel sistema politico italiano. E tuttavia quell'assestamento definitivo del sistema politico intorno al polo democristiano, che il risultato elettorale imponeva, non fu facile a calibrare nelle formule parlamentari e di governo. A farne le spese fu proprio il De Gasperi. Incaricato da Einaudi di formare il suo VIII governo, inaugurò una nuova prassi, quella delle consultazioni, come presidente del Consiglio incaricato, di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Cercava una maggioranza, che sapeva non poter trovare a sinistra.

Nenni percepiva che il giuoco si faceva più largo ed era desideroso di incominciare ad entrarvi. Ma le condizioni per un simile evento erano comunque inaccettabili per il D., perché tra l'altro poggiavano su di una debolezza intrinseca che era propria di Nenni e dei socialisti, il timore della concorrenza comunista, per cui, non tanto in politica interna, ma in politica estera, ponevano indirettamente alcune pregiudiziali, ch'erano dei comunisti. Togliatti sapeva benissimo di esser fuori giuoco e, a stare al verbale che di quegli incontri tenne Andreotti, lo disse apertamente, dichiarando di avere "il tempo dalla sua e che poco importa domani o dopodomani" (Andreotti, 1977, p. 134).

II D. ribadiva invece la sua professione di fede che lo vedeva "in qualunque posto... sempre centrista" (Il Messaggero, 10 giugno 1953). Ma in quel momento gli era pressoché impossibile stringere nuovamente intorno a sé l'alleanza con i partiti di democrazia laica, per effetto del trauma elettorale, giacché l'apparentamento, nelle previsioni, li voleva preferiti alla DC, e nei risultati era stato proprio l'opposto, e in particolare si manifestava nella delusione della socialdemocrazia di Saragat, con cui, come questi ebbe a dire, il destino era stato "cinico e baro", penalizzandola, come partito di centro, e premiando nel Partito socialista italiano (PSI) di Nenni, il partito di sinistra. Costituì per la prima volta un monocolore integralmente democristiano, senza aprire ai monarchici, i cui voti avrebbe accettato come aggiuntivi di quelli di centro.

La sconfitta parlamentare dell'ultimo ministero del D. (28 luglio 1953) fu un trauma, che ebbe ripercussioni anche internazionali. Einaudi preoccupato, con procedura extra ordinem, si recava nella casa del D. di Castelgandolfo, per riproporgli l'incarico. Le posizioni parlamentari rimanevano tuttavia rigide; ed egli passò la mano a Piccioni, che in presenza delle stesse sue difficoltà rinunciava. Tornava allora di scena Einaudi che designava, contro l'indicazioni degli stessi gruppi parlamentari della DC, Giuseppe Pella, suggerendogli due tecnici nelle persone di C. Bresciani Turroni e di Modesto Panetti. Ne venne fuori una sorta di governo amministrativo del presidente della Repubblica, sganciato dalla volontà dei partiti, che raccolse la maggioranza in Parlamento, oltre che dai gruppi DC, dal PRI, dal PLI e dai monarchici, con l'astensione del Partito socialista democratico italiano (PSDI) e del Movimento sociale italiano (MSI). Pella aveva parlato di un "ancor maggior collegamento con il Parlamento". Si era ad un passaggio delicato, in cui mosse successive erano imprevedibili.

A rendere più teso il clima politico sopravvenne la questione di Trieste. Tito, probabilmente giudicando indebolita la posizione internazionale dell'Italia, alzò le pretese, spingendo le sue rivendicazioni oltre la zona B. Pella giocò la carta nazionalistica, creando un clima di suspense, senza sbocchi diplomatici, che anzi indebolivano i rapporti con gli alleati e fatalmente gettava i presupposti di incidenti, anche sanguinosi, tra l'amministrazione anglo-americana e la popolazione di Trieste (nov. 1953). Questo corso piaceva alle opposizioni interne, alle Destre naturalmente, ma anche alle Sinistre, per l'incrinatura del tradizionale quadro di alleanze internazionali che fortunosamente ne conseguiva, per l'impaccio che ne traeva inoltre la DC, nei suoi assetti interni e nei rapporti con l'insieme delle forze politiche.

Il D. avvertiva ciò e decideva di riassumere la segreteria del partito nel Consiglio nazionale della fine di settembre 1953. Fu Scelba, probabilmente senza preavvertire il D. (Ottone, p. 220), a pronunziarsi contro Pella e ad aprire un confronto all'interno della DC, che sembrò chiudersi con un rimpasto, approvato dal D., ma respinto dai gruppi parlamentari, controllati dalla corrente di Iniziativa democratica, per la sostituzione di R. Salomone con S. Aldisio al ministero dell'Agricoltura. Pella dava allora le dimissioni, aprendo una crisi di cui lo stesso Einaudi doveva sottolineare i dubbi profili di correttezza costituzionale (gennaio 1954).

Il dibattito interno alla DC era ormai uscito dagli argini tradizionali, in un clima già precongressuale. Quella fase di "monocolore fluttuante" costituita dal governo Pella, non era fatta per stabilizzarne gli equilibri interni.

Fluttuante era in effetti divenuto il sistema delle alleanze parlamentari e questo determinava una pericolosa iterazione nel dibattito interno del partito. Gronchi rinverdiva la matrice populista del popolarismo e si dichiarava per l'apertura a sinistra, non senza mantenere approcci con la destra del suo partito, facendosi ancora una volta paladino della proporzionale, come procedura congressuale, tema sul quale vedeva confluire Gonella, con alcuni esponenti della vecchia maggioranza popolare ormai in crisi, e lo stesso Pella, divenuto l'obbligato riferimento simbolico di un'apertura a destra.

Era necessario operare una certa ridefinizione tattica su questo tema delle alleanze e insieme ridare una maggioranza univoca del partito. Il D. scelse Iniziativa democratica, la corrente intorno a cui si raccoglieva la larga maggioranza della nuova generazione democristiana; e quest'ultima scelse lui per affermare il suo ruolo centrale ed egemone nel partito. Da questo connubio nacque la candidatura Fanfani alla presidenza del Consiglio. L'uomo, come disse il D. nel dibattito sulla fiducia, "che potrà riuscire a dare una nuova impronta alla nostra economia nazionale" (Discorsi parlamentari, II, p. 1217).

Fu l'ultimo discorso parlamentare del De Gasperi. Parlò della nuova "miseria parlamentare", definì una scala di priorità nelle alleanze. Quella con i partiti di democrazia laica era una "formula di necessità"; ma in prospettiva il sistema politico offriva uno spettro di possibilità più ampie che avrebbero potuto maturare, perché tra il Centro e le ali estreme, comunisti e fascisti, con cui non era possibile nessun accordo di governo, c'erano le mezze ali socialiste e monarchiche.

Per quanto più spregiudicato del D. (stava ad esempio in campo monarchico maturando la spaccatura tra A. Covelli e A. Lauro), neppure Fanfani riuscì a raccogliere il consenso necessario sulla base di questo rigido schema. Fu la volta di M. Scelba che poté ricostituire l'alleanza quadripartita cedendo su di un punto decisivo, il ritorno alla proporzionale, in una forma più accentuata del 1948. Era una rinunzia di principio non secondaria da parte della DC e insieme la ratifica dello status quo. Lo richiedeva soprattutto Saragat, che probabilmente già pensava all'unificazione socialista, ma che soprattutto dava ai partiti di democrazia laica un ruolo, che dopo le elezioni del 13 giugno non poteva più essere quello di comprimari del "centrismo ideologico", come ormai lo stesso D. non proponeva più, ma era la conferma di un potere residuo, non irrilevante, cioè la parziale facoltà di veto sulle candidature alla guida del governo e sulla composizione e gli orientamenti di questo.

La nuova dirigenza di Iniziativa democratica aveva accettato la leadership degasperiana nella convinzione però che la DC doveva "fare da sé". E questa fu la sua carta originale al congresso di Napoli del giugno 1954. In esso modulò il suo credo "centrista" con la sua proposta "organizzativista".

In proposito più che la forma contava la prassi che era maturata in quegli anni, tra le vicende interne del partito e l'esperienza di molti suoi esponenti al governo, costituita dall'utilizzazione della finanza pubblica e dal raccordo con gli enti economici. Creando questo nuovo intreccio la DC si avviava anche a cauterizzare la sua dipendenza dai due pilastri del blocco d'ordine, con cui si era confrontato il D., il "quarto partito" della Confindustria e, almeno in parte, lo stesso Vaticano.

Nella sostanza ne usciva così ribaltato lo stesso modello degasperiano e lo schema istituzionale originario, pur incompleto e contraddittorio, anzi forse proprio per questo, si mutava nel suo contrario: prima la corrente, poi il partito, poi la maggioranza parlamentare e poi il governo.

A questo schema sarebbe mancato quel fattore essenziale, che la leadership del D. aveva a lungo garantito, cioè un centro univoco di imputazione della decisionalità e responsabilità a livello istituzionale, per il circolo vizioso che si determinava tra i vari e indefiniti livelli di potere, che conferiva al sistema una stabilità elettorale a cui non ne corrispondeva una uguale, parlamentare e di governo.

Il discorso del D., che al congresso di Napoli mostra come questo schema continuasse a non essergli consono, più che un testamento risultò essere una conclusiva testimonianza. Riaffermò il primato del governo sul partito, il principio dell'unità politica dei cattolici come essenza del partito stesso, la necessità di guidare e il pericolo di essere guidati dalle alleanze, infine fece ancora un accenno all'uninominale, come idea possibile da non abbandonare (Discorsi politici, p. 602).

Quello che una testimonianza familiare ha definito "un uomo solo", dopo aver dominato la scena politica lungo tutto un decennio cruciale nella storia della nazione italiana, si avviava in solitudine verso la morte, che lo colse il 19 ag. 1954 a Borgo Valsugana (Trento).

Sono stati raccolti in diverse pubblicazioni i seguenti scritti del De Gasperi. Per il periodo trentino: I cattolici trentini sotto l'Austria, a cura di G. De Rosa, I-II, Roma 1964; e alcune lettere dello stesso periodo in L. Bedeschi, Il giovane D. e l'incontro con Murri, Milano 1974. Per il primo dopoguerra, Atti dei congressi del Partito popolare italiano, a cura di F. Malgeri, Brescia 1969, e A. De Gasperi, Discorsi parlamentari, 1921-1954, a cura della Camera dei deputati, Roma 1985; per uno scritto retrospettivo del D. sul periodo, I profughi in Austria, in Il martirio del Trentino, Trento 1921, pp. 99-104. Per il periodo fascista si vedano le due raccolte di lettere, Lettere dalla prigione 1927-1928, Milano 1955, e Lettere sul Concordato, Brescia 1970, con scritti di M. R. Catti De Gasperi, e G. Martina. I saggi di carattere storico sono stati più volte ripubblicati: l'edizione più completa è data dal volume I cattolici dall'opposizione al governo, Bari 1955, che contiene gli scritti: I tempi e gli uomini che prepararono la "Rerum Novarum"; Un maestro del corporativismo cristiano: René La Tour du Pin; Il "centro germanico". Assai più ricche di suggestioni sono le note che quindicinalmente tra il 1933 e il 1938 il D. siglò per L'Illustrazione vaticana con lo pseudonimo di Spectator; una scelta di queste si trova nel già citato volume I cattolici dall'opposizione al governo, pp. 295-470, e in A. Paoluzzi, D. e l'Europa degli anni Trenta, Roma 1974.

La più completa raccolta degli scritti dal 1943 in poi, si trova negli Atti e documenti della Democrazia cristiana 1963-1968, Roma 1967, I, pp. 1-8, 21-31, 36-51 (Idee ricostruite della Democrazia cristiana; La parola dei democratici cristiani; Il programma della Democrazia cristiana). Raccolte parziali di questi scritti si trovano nel già citato volume I cattolici dall'opposizione al governo; in E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla democrazia cristiana, Bologna 1969 e in Idee sulla democrazia cristiana, a cura di N. Guiso, Roma 1974. Utili fonti relative al D. in P. Scoppola, La proposta politica di D., Bologna 1977, e in G. Merli, D. e il progetto di unità sindacale, in Annuario del Centro studi CISL, 1965-1966, pp. 290-304. Fondamentali per questo e i periodi successivi sono i due volumi di lettere pubblicati sotto il titolo di D. scrive, a cura di M. R. Catti De Gasperi, Brescia 1974. Degli scritti del D. nel dopoguerra si hanno pochi esempi: la prefazione a G. Toniolo, Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, I, Città del Vaticano 1949, e Gli insegnamenti e le direttive sociali di Pio XI, pubblicato in I cattolici dall'opposizione al governo, pp. 193-211. Si vedano ancora A. De Gasperi, I discorsi politici, a cura di T. Bozza, Roma 1969, e Lettere al Presidente. Carteggio D.-Malvestiti 1948-1953, a cura di C. Bello, Milano 1964. Un verbale, che registra l'intervento del D. ad una riunione sulla CED tenuta nel dicembre 1951 a Strasburgo, è in M. Albertini, La fondazione dello Stato europeo, in Il Federalista, marzo 1977, pp. 15-31. Da ultimo, assai utile, l'antologia di P. G. Zunino, Scritti politici di A. D., Milano 1980.

Fonti e Bibl.: Manca una biografia storica del D.; numerosi i lavori tra la memorialistica e il reportage: G. Andreotti, D. e il suo tempo, Milano 1964, e di M. R. Catti De Gasperi, D. uomo solo, Milano 1964; I. Giordani, A. D., Milano 1955; P. Ottone, D., Milano 1968; G. Andreotti, D. visto da vicino, Milano 1986; fa eccezione il profilo biografico - che si arresta però alla seconda guerra mondiale - di E. Carrillo. A. D., The long apprenticeship, Notre Dame, Ind., 1965. Per il periodo trentino fino alla prima guerra mondiale assai utili le indicazioni del libro di L. Bedeschi, Il giovane D. e l'incontro con Murri, Milano 1974; e il lavoro di U. Corsini, Il colloquio D. - Sonnino, Trento 1975. E ancora R. A. Webster, Il primo incontro tra Mussolini e D. (marzo 1909), in Il Mulino, VII (1958), pp. 51-55, e R. Moscati, La giovinezza di D., in Clio, II (1966), pp. 436-471, e dello stesso D. e il Trentino, in Nuova Antologia, CIX (1974), pp. 173-182 e D. nel Parlamento austriaco, ibid., CXI (1976), pp. 20-44, e D. nel primo dopoguerra, in Clio, XI (1975), pp. 51-75. Si veda anche G. Valori, D. Parlamento austriaco, 1911-1918, Firenze 1953 (si tratta di un pamphlet pubblicato per la prima volta nel 1924) e dell'intervento di E. Battisti, Italianità di D., Firenze 1957, e da ultimo il volume a più voci D e il Trentino tra la fine dell'800 e il primo dopoguerra, a cura di A. Canavero-A. Moioli, Trento 1985. Per il primo dopoguerra e l'avvento del fascismo, F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, VI, Il delitto Matteotti e l'Aventino, Torino 1949, ad Indicem; E. Aga Rossi, A. D. nel Partito popolare, in Il Movimento di liberazione in Italia, XXI (1969), 94, pp. 3-34, e M. Rossi, Da Sturzo a D., Roma 1985. Si veda anche G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, II, Il Partito popolare italiano, Bari 1970 e dello stesso L. Sturzo, Torino 1977; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere, 1921-1925, Torino 1966, ad Indicem. Si veda anche il vecchio lavoro di S. Jacini, Storia del Part. popol., Milano 1951, e il profilo del D. in P. Gobetti, Scritti politici, Torino 1960. Alle vicende giudiziarie del D. è dedicato il volumetto di G. Rossini, D. e il fascismo, Roma 1974; si veda anche E. Forcella, in Celebrazioni di un trentennio, Milano 1975; il saggio di A. Giraldi su gli Scritti di D. sulla guerra civile spagnola, in Clio, X (1974), pp. 465-500, e le brevi note di R. A. Webster in La croce e i fasci, Milano 1964. Per il periodo del dopoguerra, G. Dalla Torre, Memorie, Milano 1965, e I. Bonomi, Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944, Milano 1947; L. Valiani, L'Italia di D. 1945-59, Firenze 1982; L. Basso, Due totalitarismi, Fascismo e Democrazia cristiana, Milano 1951; P. Togliatti, Per un giudizio equanime sull'opera di A. D., e altri scritti raccolti in L'opera di D., Firenze 1958, e ora in Momenti della storia d'Italia, Roma 1974, pp. 179-275. Si vedano inoltre vecchi lavori di G. Tupini, I democratici cristiani. Cronache di 10 anni, Roma 1954; G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, Milano 1952; più recentemente il volume di P. Scoppola, La proposta politica di D., Bologna 1977, e dello stesso, Gli anni della Costituente tra politica e storia, ibid. 1980; si veda anche G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di D. e di Dossetti, 1945-1954, I-II, Firenze 1974. Ruotano intorno ai temi sollevati da questi lavori i contributi di G. Amendola, La rottura della coalizione tripartita: maggio 1947, in Il Mulino, XXIII (1974), pp. 780-98, di A. Gambino-G. Tamburrano-P. Scoppola, Ancora sull'avvento di D., ibid., XXVI (1977), 249, pp. 73-97, di C. Giovannini, Sull'integralismo cattolico, in Rivista di storia contemporanea, VI (1977), 2, pp. 161-186, e di P. Spriano, Le "scelte di campo" del 1947, in Sulla rivoluzione italiana, Torino 1978, pp. 196-206. Il lavoro di A. Gambino, Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere DC, Bari 1975, è il più organico sull'intero periodo: sua è pure l'edizione dell'intervista su D. di G. Andreotti, Bari 1977; di analogo interesse è anche il libro di E. Piscitelli, Da Parri a D. Storia del dopoguerra 1945/1948, Milano 1975. Ancora, N. Kogan, L'Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Bari 1968, e G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo 1943-1968, Bologna 1970. Si veda anche E. Ragionieri-C. Pinzani, Dall'Unità ad oggi, in Storia d'Italia, Einaudi, IV, 3, Torino 1976, e G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi, Milano 1975. Annotazioni generali assai interessanti si trovano pure in S. Setta, L'Uomo Qualunque 1944/1948, Bari 1975. Di taglio storico-politologico sono i lavori di R. Orfei, L'occupazione del potere. I democristiani '45-'75, Milano 1976, e di G. Galli, Storia della Democrazia Cristiana, Bari 1978, e dello stesso anche Il difficile governo, Bologna 1972. Non si può omettere come punto di riferimento interpretativo il saggio di P. Sartori, Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in Tempi moderni, XXXI (1987), pp. 4-34. Aspetti particolari dell'azione governativa del D. nella guida bibliografica, Il dopoguerra italiano 1945-1948, Milano 1975; nella raccolta antologica di M. Legnani, L'Italia dal 1943 al 1948, Torino 1973, e nel contributo di D. Novacco, sopra I governi di D., in Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino 1974, pp. 71-98. Sul D. e la Resistenza v. la analisi di G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia, Milano 1976; sui rapporti tra il D. e i comunisti nel periodo resistenziale, P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, IV-V, Torino 1973-75, ad Indicem, e P. G. Zunino, La questione cattolica della Sinistra italiana 1940-1945, Bologna 1977. Per la politica internazionale tra i numerosi lavori: E. Collotti, Collocazione internazionale dell'Italia dall'armistizio alle premesse dell'alleanza atlantica (1943-1947), in L'Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Milano 1977; D. W. Ellwood, L'alleato nemico, Milano 1977; L. Mercuri, 1943-1945. Gli alleati e l'Italia, Milano 1980. Vedi ancora R. Faenza-M. Fini, Gli Americani in Italia, Milano 1976; S. Seefaty, Gli Stati Uniti e il tripartitismo in Francia e in Italia, 1940-1947, in Il Mulino, XXV (1976), pp. 416-440; assai utile su questo argomento è il volume di E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952, Milano 1978; R. Morozzo della Rocca, La pol. estera ital. e l'Unione Sovietica (1944-1948), Roma 1985, ed E. Aga Rossi, L'Italia nella sconfitta, Napoli 1985, e da ultimo l'indispensabile lavoro di P. Pastorelli, La politica estera italiana nel dopoguerra, Bologna 1987. Sui rapporti tra il D., DC e mondo cattolico al lavoro di D. Settembrini, La Chiesa nella politica italiana (1944-1963), Pisa 1964, si sono recentemente aggiunti G. Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile, in L'Italia contemporanea 1945-1975, Torino 1976; C. Giovannini, La Democrazia Cristiana dalla fondazione al centro sinistra (1943-1962), Firenze 1978; sulle frizioni con le sinistre interne alla DC: G. Galli-P. Facchi, La sinistra democristiana, Storia e ideologia, Milano 1962, e, oltre al già citato volume di Baget Bozzo, si veda ora P. Pombeni, Le "Cronache sociali" di Dossetti, Geografia di un movimento di opinione, Firenze 1976. Per un giudizio sulla politica istituzionale del D. sempre utili L. Elia, La forma di governo dell'Italia repubblicana, in Il sistema politico italiano, a cura di P. Farneti, Bologna 1973, pp. 290 ss.; E. Cheli, Il problema storico della Costituente, in L'Italia 1943-1950. La ricostruzione, Bari 1974, pp. 193-254; G. Rumi, La Democrazia cristiana e l'autonomia regionale (1943-1947), in Clio, X (1974), pp. 303-352, e G. Scaparri, La Democrazia cristiana e le leggi eccezionali, 1950-1953, Milano 1977. Sempre illuminanti i giudizi di G. Maranini, Storia del potere in Italia, 1948-1967, Firenze 1967, L'europeismo degasperiano, in S. Pistone, Italia e integrazione europea nella politica europea di D., Milano 1981; K. Adenauer e A. D.: due esperienze di rifondazione della democrazia, a cura di U. Corsini-K. Repgen, Bologna 1984; sulla politica economica dei governi del D.: A. Graziani, L'economia italiana 1945-1970, Bologna 1972; C. Daneo, La politica economica della ricostruzione (1945-1949), Torino 1975; P. Barucci, Il dibattito sulla politica economica della ricostruzione (1943-1947), in L'Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Milano 1977, pp. 391-411, e G. Amato, Introduzione a Il governo dell'industria in Italia, Bologna 1972, pp. 13 ss. Vedi inoltre: V. Foa, La ricostruzione capitalista nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, II (1973), 4, pp. 433-55; B. Bottiglieri, La politica economica dell'Italia centrista, Milano 1984. Utili indicazioni sono anche in A. Giovagnoli, La Pontificia Commissione Assistenza e gli aiuti americani (1945-1948), in Storia contemporanea, IX (1978), 5-6, pp. 1081-111. Gli aspetti agrari della politica degasperiana sono affrontati da: M. Legnani, Aspetti economici delle campagne settentrionali e motivi di politica agraria nei programmi dei partiti antifascisti (1942-45), in Il Movimento di liberaz. in Italia, XVII (1965), 78, pp. 41-84; A. Scalpelli, I programmi politico-sociali dei cattolici nella Resistenza: una proposta di discussione, ibid., XXII (1970), 98, pp. 73-90; R. Piazza, Dibattito teorico e indirizzi di governo nella politica agraria della Democrazia cristiana (1944-1951), in Italia contemporanea, XXVI (1974), 117, pp. 49-69, e G. Bertolo-R. Curti-L. Guerrini, Aspetti della questione agraria e delle lotte contadine nel secondo dopoguerra in Italia: 1944-1948, ibid., pp. 3-47.

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