MORO, Aldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 77 (2012)

MORO, Aldo

Piero Craveri

MORO, Aldo. – Nacque a Maglie (Lecce) il 23 settembre 1916 da Renato e da Fida Sticchi, secondogenito di altri tre fratelli: Alberto e Alfredo Carlo, magistrati, Salvatore, funzionario, e di una sorella, Maria Rosaria, professoressa.

La famiglia paterna apparteneva alla piccola borghesia pugliese non priva di cultura. Il padre era maestro elementare, come già il nonno Salvatore, mentre i fratelli di quest’ultimo erano stati uno magistrato, l’altro pediatra. Era una famiglia laica, con quel forte senso dello Stato che caratterizzava agli inizi del secolo scorso una parte del ceto medio meridionale, nell’adesione convinta ai presupposti risorgimentali propri dell’età liberale. Renato, esperto di legislazione scolastica e aggiornato sulla cultura pedagogica del tempo, divenne, nel 1909, ispettore ministeriale. La madre, calabrese, a cui Moro fu molto legato, era figura femminile singolare, animata da una forte sensibilità religiosa, niente affatto clericale nella pratica del culto, pervasa dall’idea che l’elevazione della persona passasse attraverso l’immedesimazione continua nella fede religiosa (R. Moro, 1983).

Moro fece tutti i suoi studi nella scuola pubblica statale fino alla licenza liceale conseguita nel liceo classico Archita di Taranto, dove la famiglia si era trasferita. Durante la scuola media frequentò il Circolo giovanile cattolico S. Francesco d’Assisi, assieme al fratello maggiore Alberto, presso il convento di S. Pasquale dei frati minori: un’esperienza religiosa significativa, specie quella con il ‘gruppo del Vangelo’, di cui era animatore padre Michelangelo Ridola che, come avrebbe annotato lo stesso Moro, lo «aveva guidato nei primi passi della mia vita spirituale» (ibid., p. 21), conferendole quel tratto di intimità e riflessività interiore che accompagnò per tutta la vita la sua fede religiosa.

Col successivo trasferimento della famiglia a Bari, nel 1934, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e l’anno seguente prese a frequentare il circolo della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), di cui l’arcivescovo Marcello Mimmi aveva affidato l’assistenza religiosa ai domenicani.

Il loro insegnamento era caratterizzato da un approccio al tomismo più teologico che filosofico, secondo la lezione di padre Mariano (Felice) Cordovani, in cui era centrale il tema dell’amore per la verità (Giovagnoli, 1982) e un razionalismo più rivolto contro le tendenze irrazionalistiche che verso una nozione rigidamente ontologica del diritto naturale, e né apologetico, né contrapposto con intransigenza alle correnti del pensiero contemporaneo. Premesse che tutte si ritrovano nella riflessione religiosa e filosofica di Moro e segnano, nel suo approccio al tomismo, una diversità profonda da quello di un Guido Gonella, di un Giorgio La Pira, o di un Francesco Olgiati e dagli orientamenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Nel 1937 divenne presidente del circolo barese e tenne la relazione giuridica nel Congresso nazionale di quell’anno come in quello dell’anno successivo. La sua carriera nelle organizzazioni del laicato cattolico fu assai rapida: presidente nazionale della FUCI dal 1939 al 1941, nel 1945 lo divenne del Movimento dei laureati cattolici. In questa rapida ascesa bisogna tener conto di due elementi tra loro strettamente intrecciati: la lenta maturazione del clima ideale e politico del mondo associativo cattolico che aveva coinvolto Moro dal 1936 al 1939, nonché l’attività accademica che lo impegnò fino agli anni Cinquanta.

Un passaggio di questa lenta evoluzione fu la partecipazione dei fucini ai Littoriali della cultura e, anche se non si può parlare di un ‘entrismo’ dei cattolici come nel caso dei comunisti, la loro adesione fu vasta e articolata. Moro partecipò ai Littoriali di Napoli del 1937, come iscritto al Gruppo universitario fascista (GUF) di Bari, con gli auspici del professor Biagio Petrocelli, il penalista presso la cui cattedra avrebbe avviato la sua carriera universitaria. Concorse anche l’anno seguente ai Littoriali di Palermo. Il tema era l’universalità del fascismo che attrasse una larga partecipazione fucina, essendo lo stesso dibattito interno al fascismo caratterizzato da una pluralità di approcci che differivano dall’impostazione totalitaria ufficiale. La posizione di Moro seguiva tuttavia un altro filo di pensiero rispetto a quello del dibattito fascista dei Littoriali, ma ne presupponeva l’esistenza e le stesse tematiche. Rifletteva l’atmosfera degli ultimi anni Trenta in cui nelle organizzazioni del laicato cattolico la cesura col passato, in primo luogo quello prefascista, si era completata e la diversità cattolica si muoveva così in un orizzonte politico che non andava oltre il fascismo.

Nel 1939, l’anno in cui Moro assunse la presidenza nazionale della FUCI, la crisi tra il fascismo e l’Azione cattolica si era riaperta. Il nuovo pontefice, Pio XII, non volle affrontarla in modo diretto. Poiché il regime pretendeva un ricambio dei suoi organi dirigenti, la direzione complessiva venne assunta direttamente dalla Curia vaticana. La FUCI rimase per un anno senza presidenza e dopo la rinuncia di Giorgio Bachelet la scelta, suggerita dall’assistente ecclesiastico Franco Costa, cadde su Moro. In quel contesto la linea della sua presidenza non portò novità rilevanti. Così anche il germe di un approccio propriamente politico rimaneva escluso, pur non assente nei dibattiti dell’Associazione, come mostra l’esperienza di Adriano Ossicini e di altri. La svolta si avvierà piuttosto dopo il 1941, con la successiva presidenza di Giulio Andreotti.

Il segno della maturazione intellettuale e civile di Moro lo si trova invece in modo netto nella sua attività di studioso. Nel 1937 una relazione interna alla FUCI sull’attività del circolo barese aveva sottolineato la figura di un presidente «abbastanza a posto, ma che si occupa poco dell’associazione per dedicarsi allo studio» (R. Moro, 1983, p. 846). Fin dalla scuola secondaria assiduamente dedito allo studio, anche oltre l’ambito scolastico, si era laureato nel novembre 1938, conseguendo la lode con una tesi in diritto penale su La capacità giuridica penale, e il suo relatore, Petrocelli, l’aveva subito nominato assistente volontario. Negli anni seguenti pubblicò due lavori di notevole impegno, La capacità giuridica penale (Padova 1939) e La subiettivazione della norma penale (Bari 1942), con cui conseguì la libera docenza in diritto penale. Sono temi generali della materia penale, riguardanti il rapporto tra lo Stato e l’autore del reato, nonché il reato nei suoi elementi essenziali, come del resto l’altro suo volume su Unità e pluralità di reati (Padova 1947), col quale conseguì la cattedra nel 1948.

Solo l’ultimo rilevante suo lavoro accademico (limitatamente alla produzione scientifica, rimanendo invece costantemente legato all’attività docente fino all’ultimo), Osservazioni sulla natura giuridica dell’ “exceptio veritatis”, in Scritti giuridici in onore di Vincenzo Manzini, ibid. 1954, pp. 291-324) sulla tutela dell’onore individuale in una società democratica e del valore della verità in relazione ad essa, si cimentava con un tema della parte speciale, in cui «vibra una duplice ansia di democrazia e verità» (Vassalli, in Elia - Vassalli et al., 1982, p. 204), tra l’altro nel postulare un diritto di controllo nei confronti del potere politico, amministrativo e giudiziario. La dimestichezza con la teoria generale che si manifesta in queste opere anticipa riflessioni di filosofia del diritto, con conseguenti ricadute sul pensiero politico, di cui Moro aveva precoce consapevolezza ed erano oggetto anche delle sue considerazioni nelle relazioni ai convegni nazionali della FUCI (si veda tra l’altro L’illecito giuridico, in Azione fucina, 29 agosto 1937).

Nel 1942 ebbe l’incarico di filosofia del diritto dalla facoltà barese, succedendo a Michele Barillari, e le sue lezioni furono raccolte in dispense con il titolo Lo Stato (ibid. 1943). A queste nel 1944-45 seguì una seconda raccolta dedicata a Il diritto, e ancora nel 1946-47 una nuova edizione de Lo Stato integrata di due capitoli iniziali. Le lezioni furono poi ripubblicate insieme a un’introduzione e altri tre nuovi capitoli (Bari 1978).

La novità sta innanzitutto nel tema della prima dispensa, Lo Stato. Moro avrebbe voluto svolgerlo per una collana dell’editrice Studium, ma gli venne di contro proposto un opuscolo su I problemi dell’università, di cui si era già occupato (in Studium, XXXVIII [1942], 10, pp. 279-284). La scelta non abituale nel dibattito cattolico voleva essere una riflessione sul presente e il recente passato. Come è stato sottolineato, queste lezioni non sono accademiche ma hanno un «pathos etico-religioso», volto «a formare convinzioni» (Bobbio, in Elia - Vassalli et al., 1982, p. 12). Vi si confermano i tratti eterodossi della sua formazione cattolica rispetto a quelli abituali della coeva generazione. Tanto più forte il carattere intimistico della sua fede, volto a permeare e a costituire l’essenza stessa dell’attività sociale e politica, tanto alieno dal chiudersi in un cerchio preordinato, che la stessa dottrina sociale della Chiesa è considerata come parte di un divenire, in cui il termine «vita» ne segna la natura reale e spirituale e insieme il carattere di contemporaneità propria della storia. Era così presente in lui «un senso della storia e dello svolgimento storico negato alla maggior parte dei giusnaturalismi puri» (Elia - Vassalli et al., 1982, p. XXIV). Moro aveva tratto questo spunto storicistico probabilmente dall’idealismo cattolico di Widar Cesarini Sforza e di Felice Battaglia, più che dalla lezione di Giuseppe Capograssi (R. Moro, 1983), che pure per altri versi gli era omogenea (Moro avrebbe contribuito alla stesura del Codice di Camaldoli, per la parte relativa allo Stato, dei cui paragrafi fu estensore proprio Capograssi). È presente anche qualche spunto crociano, che doveva derivargli anche dai rapporti con l’ambiente barese. Non c’è dunque l’idea né di un «principe cristiano», né tantomeno di uno Stato conforme. Lo Stato si incarna nell’ordinamento giuridico, punto di equilibrio sociale, in cui si deposita la moralità del processo storico. Resta così liberale in senso garantista ed è implicitamente democratico per il realizzarsi della persona nel pluralismo delle istituzioni sociali. Ne consegue che il processo politico procede oltre le differenze ideologiche, proposizione in cui l’ecumenismo di Moro è già presente in tutte le sue valenze: quella dell’unità della nazione e quella della composizione degli interessi e dei contrasti ideologici delle diverse parti politiche.

Si iscrisse alla Democrazia cristiana (DC) solo nel 1945. All’esordio era stato presente, scrivendo sul primo numero del rinato organo pugliese del partito (Il nostro programma, in Il Risveglio, 14 novembre 1943), ma era nato un contrasto con l’esponente ex popolare, Natale Lojacono, che aveva dato vita alla DC di Bari ed era su posizioni rigidamente sturziane, antibadogliane e repubblicane.

Moro aveva seguito fra i giovani e rifletteva un orientamento in sintonia con quello dell’arcivescovo Mimmi. Collaboratore de La Rassegna, periodico sostenuto dalle forze militari alleate, il 4 giugno 1944, al culmine del suo dissenso con la DC locale, scriveva: «il fascismo non si supera ritornando indietro, ma andando avanti, molto avanti ad esso». Attento alla realtà meridionale, spingeva piuttosto il tasto della concordia nazionale, nel presupposto che essa non era esaurita dall’alleanza dei partiti antifascisti. Aveva partecipato alle riunioni di partito che avevano preceduto il Congresso antifascista di Bari (28-29 gennaio 1944), come responsabile della FUCI per il Sud, sostenendovi probabilmente queste tesi, che ribadì al congresso della DC dell’Italia libera a Napoli nell’aprile seguente.

Nel luglio 1945 i vertici democristiani inviarono a Bari Francesco Santoro Passarelli per dirimere la controversia, senza alcun esito positivo. L’intervento di Mimmi stemperò i contrasti e fu proprio il presule barese a volere Moro nelle liste democristiane per le elezioni del 2 giugno 1946 in cui fu eletto all’Assemblea costituente. Nell’aprile 1945 aveva sposato Eleonora Chiavarelli, conosciuta nella FUCI e da cui avrebbe avuto quattro figli: Maria Fida (1946), Anna (1949), Agnese (1952) e Giovanni (1958).

La presidenza del Movimento dei laureati cattolici, che tenne fino all’ottobre 1946, conservando ancora fino al 1948 la direzione di Studium, gli conferiva prestigio nel gruppo parlamentare democristiano alla Costituente. Non era semplicemente un ‘professorino’: divenne subito membro del direttivo del gruppo parlamentare e nel 1947 suo vicepresidente. Entrò nella Commissione dei 75, per far parte della prima sottocommissione, esplicandovi un’attività intensa, anche sulla stampa cattolica, e divenendo oratore ufficiale per la DC in più di un dibattito assembleare.

Quello costituente è un Moro decisamente progressista (De Siervo, 1982) che faceva propria, nei rapporti civili, la piena ed effettiva tutela delle situazioni soggettive e collettive ed era interventista nei diritti economico-sociali. Partiva dal presupposto che fosse venuto il momento di creare una realtà nuova, cioè uno Stato di popolo, in cui si compendiava anche la consapevolezza che la proposta politica dei cattolici fosse «connaturata» a una società di massa (Mosse, 1979, p. 12). Sono i segni di quell’approccio «quasi religioso» alla politica, a cui avrebbe fatto poi cenno (Memoriale..., a cura di F.M. Biscione, 1993, p. 34), a partire dal quale conseguiva l’equilibrio necessario che ispirò la sua azione mentre interveniva pressoché su tutti i temi di discussione nella fase preparatoria del progetto di Costituzione.

L’attività costituente fu il crogiuolo del suo rapporto con Giuseppe Dossetti (Pombeni, 1979). Dal 1946 al 1951 fu intrinsecamente legato al gruppo dossettiano e tale fu considerato dal partito. Così lo reputava anche Alcide De Gasperi, che ebbe a lamentarsi con il nunzio apostolico, Francesco Borgongini Duca, per i legami che Dossetti e Moro avevano con il Vaticano nella redazione della carta costituzionale (Sale, 2008).

In realtà Moro vi portava quell’interesse preminente alla «questione sociale» (Taviani, 2002) e alla costruzione di una società pluralistica ch’era di tutti i dossettiani, a cui tuttavia non si riducevano le sue riflessioni. Non si può dire così che la sua fosse una «prioritaria e previa sintonia spirituale» (Melloni, 1994). Era un’adesione che nasceva naturalmente da quel contesto politico in cui egli, come altri, per esempio Amintore Fanfani, portava la sua marcata diversità, con il suo modo di essere insieme partecipe e appartato (Glisenti, 1961).

Dossetti lo impose come sottosegretario agli Esteri nel quinto governo De Gasperi (Dossetti, 2003), dove ebbe la delega per l’emigrazione. A Rossena, nell’ultimo incontro con Dossetti, questi doveva constatare che l’ormai avvenuta cristallizzazione delle posizioni interne e internazionali chiudeva ogni prospettiva al suo iniziale progetto politico. Moro ne era in parte già discosto e accentuò in realtà, specie dopo l’affare Sturzo del 1952 (la possibile lista civica di Sturzo con monarchici e missini alle elezioni comunali di Roma), quella inclinazione che ne faceva già «il più degasperiano dei dossettiani» (Elia - Scoppola, 1987) e che aveva radici nelle sue prime riflessioni sulla «centralità» e l’«interclassismo» cattolico (Scritti e discorsi, I, pp. 31 s., 85 ss.). Prese a partecipare attivamente al nuovo raggruppamento di Iniziativa democratica che, pur postulando il ricambio generazionale, si stringeva allora al fianco di De Gasperi. Nella crisi che seguì le elezioni politiche del 1953 fu accanto al leader trentino e fece sue la posizione di questi nei riguardi del governo Pella. Con la nuova legislatura fu eletto presidente del gruppo dei deputati della DC, carica che tenne fino al maggio 1957 e che ne fece di diritto un membro del Consiglio nazionale e partecipe delle riunioni della direzione del partito.

Nella nuova legislatura una larga parte della DC propendeva per l’appoggio a destra, le minoranze di sinistra per aprire ai socialisti – che di lì a poco avrebbero avviato la loro parabola autonomista – suscitando la forte avversione della Curia vaticana. Fanfani, orientato verso questa seconda strada, praticava un estremo tatticismo, per non aggravare le spaccature interne. Moro appoggiò Mario Scelba ritenendo che un’apertura a sinistra non potesse comunque procedere che dalla vecchia formula centrista. Ma con ciò non si discostò da Fanfani. Fu confermato alla presidenza del gruppo nel gennaio del 1955 in contrapposizione alla candidatura di Andreotti e lo scarto dei voti fu esiguo. Segno indubbio che l’opposizione nel partito si andava ampliando, come si sarebbe visto con l’elezione, in quello stesso anno, di Giovanni Gronchi alla presidenza della Repubblica. La convergenza in Parlamento dei partiti di destra e di sinistra permise di raggiungere il quorum necessario. La prassi imponeva a Scelba le dimissioni e Fanfani non sostenne la sua ricandidatura in omaggio alle riserve della «concentrazione» (Andreotti, 1991). Moro segnò qui un primo dissenso con Fanfani. Il ritorno di Scelba, inteso come difesa della formula centrista, era stato sostenuto anche da Giuseppe Saragat, che in un secondo tempo propose la candidatura di Moro alla presidenza del Consiglio, come plausibile interprete di quella formula. Moro allora volle lasciare la presidenza del gruppo ed entrò, come ministro di Grazia e giustizia, nel successivo governo Segni (luglio 1955).

Non condivideva quel misto di azione di forza e di tatticismo politico con cui Fanfani conduceva la segreteria del partito. Non era tatticismo quello di Moro, ma l’inizio di una riflessione sul modo di gestire e interpretare l’equilibrio politico, a partire dal suo partito, che lo avrebbe caratterizzato nei due decenni seguenti. Tenne così una posizione equilibrata ed equidistante. La sua influenza nella DC di Bari si era consolidata. Anche se non era propriamente «uomo di partito» (Giovagnoli, 2008), pochi come lui ebbero il senso del partito. Nell’ottobre 1956, al VI Congresso della DC di Trento, fu eletto nel Consiglio nazionale al quarto posto dopo Fanfani, Antonio Segni e Mariano Rumor.

Col passaggio dal governo Segni al governo Zoli (maggio 1957) lasciò il ministero della Giustizia per quello della Pubblica Istruzione (formulò un «piano decennale per la scuola» che sarebbe stato poi riproposto nei programmi di partito e di governo, oltre all’approfondimento di altre questioni, Scritti e discorsi, II, pp. 538 s., 541 ss.).

Il primo governo Segni era stato l’ultimo a carattere centrista in quella legislatura. La formula non offriva più alcuna prospettiva di stabilità. Il monocolore Zoli, che gli era succeduto, si reggeva alla Camera sul voto del Movimento sociale italiano (MSI). Era un governo che, non volendo essere di destra, poggiava tuttavia su una siffatta maggioranza. La contraddizione evidente obbligò Fanfani a rendere esplicita una linea di svolta a sinistra, con cui sempre più si identificava, pur accentuandone ambiguamente gli aspetti programmatici piuttosto che quelli politici. Le elezioni, che sopravvennero nel maggio 1958, andarono bene per tutti i partiti, meno che per quelli di destra. La DC fece una campagna elettorale rivolta a sinistra e guadagnò voti a destra, e le sinistre si rafforzarono. Fanfani aveva capitalizzato a suo vantaggio un parziale rinnovamento dei gruppi parlamentari della DC, anche se per la maggioranza interna continuava a non poter prescindere dai notabili di Iniziativa democratica, e volle formare il suo secondo governo volgendosi a sinistra, con Saragat e l’appoggio esterno di Ugo La Malfa, senza aver però risolto nessuno dei problemi nel suo partito. Confermò Moro alla Pubblica Istruzione. Fu esperienza breve, dal luglio 1958 al gennaio 1959, essendosi ampliate le crepe nella DC prima col caso Milazzo in Sicilia (dove una coalizione trasversale che andava dai comunisti ai missini aveva eletto alla presidenza della Regione il democristiano autonomo Silvio Milazzo), poi con il flagello endemico dei ‘franchi tiratori’ alla Camera ed essendosi divisi i socialdemocratici, tra chi voleva affrettare l’ingresso del Partito socialista italiano (PSI) nella maggioranza e Saragat che frapponeva ostacoli per assicurarsi di essere la chiave di volta esclusiva dell’operazione. Fanfani fu costretto a dimettersi da presidente del Consiglio per dare subito dopo le sue dimissioni da segretario del partito. Contava, con quest’ultimo atto, di attenuare le diffidenze interne e di ricevere il reincarico da Gronchi, che più d’ogni altro lo avversava. Dovette lasciare costituire il secondo governo Segni, che ebbe il sostegno del Partito liberale italiano (PLI) e il voto di tutte le destre e in cui Moro non entrò, se non per calcolo, certo con saggia preveggenza. Quando, dopo la formazione del nuovo governo, le dimissioni della segreteria furono discusse dal Consiglio nazionale democristiano, Fanfani avrebbe voluto essere confermato, ma i maggiorenti di Iniziativa democratica, riuniti nel convento di S. Dorotea, avevano già deciso di accettarle. La DC passava da una gestione monocratica a una collegiale e a gestire quest’ultima fu eletto segretario Moro, il 16 febbraio 1959.

La prima sua uscita significativa fu la commemorazione di Luigi Sturzo, morto l’8 agosto 1859, con cui rivisitò il significato storico della vicenda popolare, ponendosi il quesito se quel partito, malgrado la dichiarata aconfessionalità e l’autonomia dalla S. Sede, avesse comunque realizzato l’unità politica dei cattolici e gli pareva di poter dire che prima dello scontro col fascismo questo era avvenuto. Così senza riprendere il tema della diversità della DC, partito «dei cattolici» e non «tra cattolici» come il Partito popolare italiano (PPI), sostenne che l’unità cattolica si poteva affermare nel segno dell’autonomia politica, liberando la Chiesa da responsabilità che non aveva, operando una «non fittizia» distinzione tra «azione cattolica ed azione politica» e confererendo al partito la responsabilità «della ricerca di contenuti nuovi», sui quali fondare l’unità politica dei cattolici, da realizzarsi nel consenso del corpo elettorale. Si spingeva così oltre l’impostazione e il dibattito originario della DC. Nei 14 punti in cui formulò la sua piattaforma politica per l’incipiente congresso di Firenze, non c’era inoltre più alcun riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, rimaneva fermo soltanto il riferimento agli «ideali cristiani». Era un dare fondamento alla politica del partito cattolico, al di là del suo rapporto con la Chiesa, introducendo un rinnovato principio di autonomia nel confronto con la gerarchia cattolica, allora particolarmente acuto e anche di recente segnato da una lettera indirizzatagli dal cardinale Giuseppe Siri, presidente della Conferenza episcopale italiana, che lo scongiurava di evitare l’apertura a sinistra.

Erano temi che sarebbero maturati negli anni seguenti tra le due sponde del Tevere, essendo tra l’altro morto nel 1958 Pio XII e salito al soglio Giovanni XXIII. Moro si proponeva intanto di rinsaldare l’unità della DC, col definire i termini politici della collaborazione di governo. Osservava che la DC, per il consenso che raccoglieva, aveva una responsabilità primaria nel garantire l’equilibrio politico. E poiché per raggiungere tale obbiettivo doveva collaborare con altri partiti, aveva un compito di mediazione all’interno del sistema politico, che poteva assolvere solo con un indirizzo chiaro e stringendo accordi di coalizione coerenti con esso. L’indirizzo rimaneva quello indicato da De Gasperi, di «un partito di centro che guarda a sinistra» nel programma e nelle alleanze. Ne derivava che la linea giusta era quella intrapresa dal governo Fanfani, coalizzandosi col Partito socialista democratico italiano (PSDI) e il partito repubblicano italiano (PRI), mentre l’ultimo governo realizzato da Segni, con la formula del monocolore di partito, era un’assunzione di responsabilità necessaria, non essendosi potuto raggiungere un accordo di coalizione. Quest’ultima formula era la norma a cui tendere, l’altra l’eccezione, quando non si poteva evitarla.

Su questa piattaforma Moro portò i ‘dorotei’ a vincere il Congresso di Firenze che si tenne alla fine di ottobre 1959. Aveva tolto a Fanfani, che pretendeva di conseguire la maggioranza, l’esclusiva nel sostenere la prospettiva di centrosinistra, pur rimettendolo in gioco; aveva inoltre dato la giustificazione necessaria al governo Segni e costretto i dorotei a dichiarare la non plausibilità di una scelta di centrodestra, che comunque non avevano mai osato far esplicitamente propria.

Ora bisognava operare la ‘mediazione’ necessaria per attuare questa strategia e la quadratura del cerchio non fu facile.

La crisi del governo Segni (febbraio 1960) portò un primo chiarimento. Il PLI di Giovanni Malagodi non accettò la chiusura a destra decisa dal Congresso della DC e fece cadere il governo, poi si mostrò disponibile a ricostruire un quadripartito, ma a quel punto erano Saragat e La Malfa a non volerlo e Moro si adoperò perché fosse dato l’incarico a Fanfani, che a sua volta non riuscì a stringere l’accordo con il PSDI e il PRI perché ormai si era andati oltre: il problema politico era diventato quello del coinvolgimento del PSI. Da questa empasse nacque, per iniziativa di Gronchi, il governo di Fernando Tambroni, esponente della sinistra democristiana che, dopo un tentativo di alleanza con il PSI, costituì il nuovo esecutivo con i voti dei monarchici e dei missini e fece qualche concessione di troppo a questi ultimi, destinata a sollevare una forte opposizione e uno scontro frontale con l’opposizione di sinistra che non aveva precedenti. La stessa DC fu costretta a dissociarsi e Fanfani tornò alla guida di un monocolore retto da una maggioranza centrista. Il centrismo si era fatto, così, emergenziale e l’avvenire stava ormai chiaramente nel compimento del centrosinistra. La lezione per la DC e anche per i suoi tradizionali alleati era stata dura. Così pure per i socialisti non era più tempo per intermezzi tattici: nel marzo del 1961 il Congresso del PSI accentuò il suo distacco dal Partito comunista italiano (PCI).

Il cerchio si chiudeva e Moro prese a tirarne le conseguenze per il suo partito. Forti resistenze permanevano nell’episcopato italiano ed egli si applicò con estrema cura ad attenuarle (D’Angelo, 2005). Anche le diffidenze americane si sopirono, specie con l’arrivo di John F. Kennedy alla presidenza (Nuti, 1999). Dopo le elezioni amministrative di novembre, sotto la regia di Moro furono varate numerose giunte con la partecipazione del PSI, segnatamente a Milano, Genova e Firenze. Alla fine del 1961 fu varata con un’analoga maggioranza la giunta della Regione Sicilia, liquidando così definitivamente il milazzismo. Quando il 27 gennaio 1962 si aprì il Congresso della DC a Napoli una parte della strada verso il centrosinistra era stata già percorsa. Moro aveva voluto che la DC partecipasse con sue iniziative al dibattito in corso tra i partiti di sinistra laica e nel PSI sul problema delle riforme da attuare in quella fase di trasformazione dell’economia e della società italiana, organizzando il convegno di San Pellegrino (settembre 1961). Su questa linea il congresso l’aveva seguito e il Consiglio nazionale lo rielesse segretario a larghissima maggioranza.

Nel mese seguente Fanfani costituì un governo di coalizione col PSDI e il PRI e con l’appoggio esterno socialista. Moro volle allora bilanciare questa definitiva svolta a sinistra portando nel maggio seguente al Quirinale Antonio Segni, tra i dorotei il meno convinto di quella scelta, ma nella prospettiva che così si sarebbe garantita l’unità della DC.

Questa era un’altra regola della deontologia politica di Moro: non prescindere mai dall’unità del partito, che avrebbe poi sempre perseguito, pagandone le inevitabili conseguenze. Perché allora bilanciare a destra la linea di sinistra del congresso evidenziava le forti resistenze interne, specie dei dorotei, al programma di riforme che Fanfani si accingeva a varare. Un Moro armato di estrema cautela contraddistingue questa fase politica. Il governo Fanfani introduceva riforme di rilievo tra cui la nazionalizzazione dell’energia elettrica, ma altre si arenavano, come le regioni, la legge urbanistica, mentre la politica economica era rinviata alla successiva legislatura, accompagnata da un documento impegnativo quale la «lettera aggiuntiva» di La Malfa.

Le elezioni dell’aprile 1963 non furono un successo né per la DC, né per il PSI. Toccava ora a Moro portare avanti la linea di centrosinistra facendola uscire dalle contraddizioni degli ultimi mesi della passata legislatura. I socialisti nel loro dibattito interno non vollero intendere i limiti della collaborazione e il fatto che più alzavano il tiro meno riuscivano a dare un’immagine complessiva riformatrice di quella operazione politica. Così avvenne in luglio col primo mancato approccio per un governo organico di centrosinistra. Il primo governo Moro, con la partecipazione del PSI, si costituì solo nel dicembre di quell’anno, su una piattaforma programmatica apparentemente avanzata, ma politicamente più debole. Non ne facevano parte quei ministri che nel governo Fanfani erano stati i protagonisti della linea riformatrice, Fanfani stesso, La Malfa e Fiorentino Sullo. Non si indicavano inoltre le priorità e i tempi di attuazione degli interventi previsti. La congiuntura economica si era fatta negativa, con un forte squilibrio della bilancia dei pagamenti. Banca d’Italia e governo l’affrontarono con provvedimenti deflattivi e un prestito dagli Stati Uniti. Quando a marzo il punto critico della congiuntura sembrò superato, il socialista Antonio Giolitti, ministro del Bilancio, prese a formulare il suo piano, centrato sul controllo della politica di bilancio e un accentuato intervento pubblico in settori produttivi cruciali, in cui rimaneva irrisolto il problema d’una politica dei redditi, ch’era stata alla base del programma precedente di La Malfa e per conseguire la quale occorreva un controllo dell’organizzazione sindacale, che avevano i comunisti e non i socialisti. Il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, con il sostegno del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, attaccò senza mezzi termini la proposta socialista. Il governo, essendo andato in minoranza alla Camera su un progetto di finanziamento della scuola privata, il 26 giugno 1964 diede le dimissioni.

La crisi fu accompagnata da fortissime pressioni esterne, anche da parte del presidente Segni, che puntava a rompere la coalizione e si preoccupava di garantirsi condizioni eccezionali di ordine pubblico, che poi vennero portate alla luce nel controverso dibattito sul tentativo di azione eversiva del cosiddetto ‘Piano solo’ (ideato dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, prevedeva il tempestivo intervento dell’Arma, prima del passaggio dei poteri dell’ordine pubblico dall’autorità civile a quella militare). Dopo una trattativa difficile, quello stesso mese, Moro riuscì a ricucire il centrosinistra, approdando a un suo secondo governo su una piattaforma più moderata (rimase in carica fino al gennaio 1966 quando, a seguito di un voto contrario su una legge di finanziamento della scuola materna, rassegnò le dimissioni, per costituirne, il 23 febbraio, un terzo non dissimile dal precedente). Essendo improvvisamente scomparso Segni, Moro poté rafforzarsi facendo eleggere alla presidenza della Repubblica Giuseppe Saragat (dicembre 1964). Dei propositi iniziali del centrosinistra rimaneva sostanzialmente una nuova più larga maggioranza parlamentare, con un clima politico più civile e disteso, ma con poche sporadiche risoluzioni che dessero il senso di una politica riformatrice.

In realtà erano i dorotei a conseguire ciò che non era riuscito a Fanfani: il controllo del partito e attraverso di esso delle funzioni di governo. La debolezza dei socialisti giocò a loro favore così come la mediazione di Moro, che non seppe, né probabilmente volle, interpretare un ruolo propositivo, esercitando le funzioni di capo del governo. Non era nelle sue corde. D’altra parte non perseguiva il potere in sé e per sé, ma pregiudizialmente in funzione della mediazione necessaria a orientare il sistema politico verso gli obiettivi prestabiliti.

Le elezioni del 5 giugno 1968 videro il tracollo dei socialisti che avevano proceduto a unificare i due partiti, il PSI e il PSDI, nel Partito socialista unitario (PSU). Moro conseguì, nel collegio Bari-Foggia, 295.167 voti di preferenza, ma l’arretramento del centrosinistra lo poneva in una situazione simile a quella in cui si era trovato De Gasperi dopo la sconfitta del 1953. Toccava ora ai dorotei assumersi l’onere della mediazione politica che per loro aveva svolto Moro e non fecero diversamente in quella quarta legislatura da come avevano agito nella seconda, dividendosi inoltre durante il suo corso.

Nella sopravvenuta difficoltà di ricostruire l’alleanza col PSI, Moro avvertiva un forte riflusso a destra che attraversava la DC dinanzi alle nuove tensioni sociali e tenne fermo l’obiettivo del centrosinistra. Ma a partire dal 1968 la sua riflessione abbracciò un orizzonte più ampio. L’insorgenza giovanile, studentesca e operaia gli si presentava come una novità che andava oltre quello che era stato il tradizionale rapporto tra società e sistema politico-istituzionale. Notava che il fenomeno non era solo italiano, si manifestava con evidenza in altre democrazie occidentali più solide di quella italiana (Scritti e discorsi, V, pp. 2966 ss.) e aveva caratteri nuovi più che generazionali, di natura propriamente antropologica. Considerava con preoccupazione il fenomeno della violenza politica e sociale, vedendone la possibile pericolosa deriva sul piano civile. Suggeriva così una «strategia dell’attenzione», con l’obiettivo di coinvolgere il PCI e le forze sociali «in assunzioni di responsabilità, impedendo che siano puro strumento di raccolta della protesta indiscriminata, e ciò in specie sui punti essenziali della salvaguardia del sistema democratico, delle scelte prioritarie del programma e in ordine alle grandi riforme che traducono in atto la Costituzione repubblicana». Queste riflessioni furono presentate durante il IX Congresso della DC nel giugno 1969 (ibid., pp. 2776 ss.) e in ciò si compendiava quello che definiva il «secondo tempo» della democrazia italiana.

D’altra parte l’avanzata del PCI in Italia si collocava in un quadro internazionale che destava diffuse preoccupazioni. Per esempio Saragat, già in un precedente incontro del febbraio 1969, aveva espresso questo genere di preoccupazioni, e nel luglio spaccava il PSU ricostituendo il suo partito di stretta osservanza atlantica col proposito di emarginare nuovamente l’altro troncone socialista, facendo cadere l’appena ricostituito quadripartito con il primo governo Rumor. Il secondo governo Rumor fu un monocolore, troppo debole per reggere una situazione di forte conflittualità sindacale che vide, nel dicembre 1969, l’attentato di piazza Fontana a Milano, la cui matrice di destra, al di là dell’apparente andamento delle indagini in corso, era stata comunicata dai servizi al ministro della Difesa Luigi Gui e da questi a Moro, che aveva assunto l’incarico degli Esteri e che subito si adoperò efficacemente, malgrado la riluttanza di Saragat, perché si ricostituisse, col terzo governo Rumor, la coalizione di centrosinistra (Craveri, 1995).

La deriva di destra aveva dunque una forte spinta esterna che si rifrangeva sugli apparati di sicurezza e settori dell’amministrazione, aveva nel MSI uno strumento a più tagli, si ripercuoteva nella DC rafforzando sempre latenti tendenze contrarie a qualsivoglia svolta a sinistra. Ciò conduceva, nelle difficoltà parlamentari e nella situazione sociale convulsa che il Paese attraversava, a posizioni altalenanti e alla ricerca di una più forte maggioranza all’interno del partito. Moro intese subito che il partito era l’effettivo terreno di scontro e già nel Consiglio nazionale del gennaio 1969 dichiarò di non poter «essere che all’opposizione» (Scritti e discorsi, V, p. 2640). Nel giugno 1969 all’XI Congresso della DC costituì una sua componente, a cui avrebbero aderito, tra gli altri, Leopoldo Elia,  Giuseppe Ermini, Gui, Tommaso Morlino, Tina Anselmi, Bernardo Mattarella, Angelo Salizzoni e Benigno Zaccagnini. La decisione presa da Moro ne faceva potenzialmente il leader della sinistra DC, ma aveva accanto solo la corrente di Forze Nuove di Carlo Donat Cattin, mentre la maggioranza della Base, guidata da Ciriaco De Mita, si accordò per una segreteria di Arnaldo Forlani, che era il delfino di Fanfani. Soffriva così d’un certo isolamento, tuttavia su di una posizione chiara e ben argomentata.

La spinta a destra tuttavia non si fermò e il terzo governo Rumor, per i contrasti interni tra partiti,  nel luglio 1970 lasciò il posto a un governo Colombo, anch’esso di centrosinistra. Mentre sempre più insistentemente si manifestavano spinte a destra, la goccia che fece traboccare il vaso furono le elezioni amministrative del giugno 1971 che segnarono un arretramento della DC e un vistoso successo del MSI, mentre il PCI rimaneva fermo, a completamento di una linea di tendenza già emersa nelle regionali del 1970. Nella DC presero forma due processi tra loro apparentemente convergenti: da un lato si consolidò l’ipotesi, che aveva come battistrada Andreotti, della riedizione di una formula di governo ‘neocentrista’: dall’altro prese nuovamente quota Fanfani che aveva raccolto intorno a sé un composito e forte blocco di potere e fin dal 1965 si era pronunziato per la reversibilità della formula di centrosinistra, ed era ora per una linea di emarginazione del PSI e di forte contrapposizione al PCI.

Fanfani fu il candidato della DC per le elezioni presidenziali che si tennero nel dicembre 1971, ma non conseguì il quorum necessario per un’ampia fronda interna alla DC, a cui Moro non fu estraneo. Il nuovo candidato ufficiale democristiano fu designato dai grandi elettori democristiani e vide la contrapposizione tra Moro e Giovanni Leone, il quale prevalse per pochi voti nel confronto interno e poi, con i voti determinanti del MSI, nel Parlamento. La DC ne uscì spaccata a metà e Moro acquisì il ruolo di leader indiscusso della sua sinistra, mentre Leone, accolte le dimissioni di Colombo, fece varare ad Andreotti un monocolore che portò alle elezioni del maggio 1972. Rinnovate le Camere, Andreotti costituì un governo col PSDI e il PLI, con Malagodi al Tesoro e l’appoggio esterno del PRI, senza la presenza della sinistra democristiana.

Il neocentrismo non fece una buona prova. Nel luglio 1973 il governo era dimissionario, mentre nella DC si aveva il ritorno di Fanfani che puntava alla segreteria del partito. Fedele al suo principio della reversibilità, questi aveva ora dichiarato reversibile anche la formula neocentrista. Moro intuì subito che si apriva uno spiraglio per avviare un mutamento di prospettiva politica. Poiché la DC era fratturata al suo interno senza direzione politica, Fanfani rappresentava un possibile catalizzatore. Moro si accordò con lui e insieme convinsero gli altri maggiorenti del partito a sottoscrivere il così detto ‘patto di palazzo Giustiniani’, in cui si definirono gli equilibri di partito intorno alla nuova segreteria Fanfani e ci si accordò, in vista del XII Congresso della DC (maggio 1973), per un ritorno stabile alla formula di centrosinistra. Così, dopo il congresso, uscito di scena Andreotti, si poté costituire un governo quadripartito, il quarto di Rumor, che introdusse quegli elementi deflattivi necessari a correggere la gestione di bilancio del governo precedente, determinando un contrasto tra Giolitti al Bilancio e La Malfa al Tesoro, a cui seguirono le dimissioni di quest’ultimo e del governo, e di seguito a un quinto governo Rumor.

Moro fu ininterrottamente ministro degli Esteri dall’agosto 1969, nel secondo governo Rumor, fino al novembre 1974 nel governo Colombo (chiamandosi fuori solo dal secondo governo Andreotti), il che non costituisce una pagina secondaria della sua biografia politica. Durante la IV legislatura, come presidente del Consiglio aveva dovuto mediare le posizioni di Fanfani, ch’era titolare degli Esteri, e le posizioni più filoatlantiche interne alla maggioranza. Il suo approccio alla politica estera conservava il patrimonio di temi proprio della cultura cattolica, anche nelle sue pregiudiziali utopiche, come il tema della pace, dando tuttavia a esse sempre meditata forma politica. Non mise mai in discussione il legame transatlantico, anche nelle polemiche sulla questione vietnamita, ma rese operante lo spazio politico che rimaneva a un Paese come l’Italia nell’ambito di un’alleanza come la NATO. Da questo punto di vista fu attento alla politica che nel 1969 Willy Brandt inaugurò verso l’Est europeo, sostenendola in ogni sede. Fece anzi di quell’impostazione il presupposto di un’analoga politica italiana verso i paesi del Mediterraneo. La solidarietà a Israele fu bilanciata da un’attenzione puntuale verso il problema palestinese. Non perse mai di vista lo stretto legame tra la politica estera e quella interna. Il ministero degli Esteri fu poi per Moro un osservatorio decisivo per constatare come molte delle fratture che attraversavano il sistema italiano si rifrangevano anche negli altri paesi europei e per altri versi sullo scenario mediterraneo. Il problema della violenza, quella interna e quella internazionale, fu un suo punto costante di riflessione (Ceci, 2011).

Il patto di palazzo Giustiniani garantì l’apertura ai socialisti ma non il superamento della pregiudiziale contrapposizione ai comunisti. Nell’ottobre 1973, il segretario del PCI Enrico Berlinguer avanzò la sua proposta di ‘compromesso storico’, su cui la DC non intese pronunciarsi, anzi Fanfani volle inasprire la polemica. Lo scontro era per lui necessario, poiché aveva bisogno di imbrigliare le irrequietezze interne al suo partito. Per rafforzarsi definitivamente finì per puntare tutte le sue carte sul referendum abrogativo della legge sul divorzio del 1974, che tuttavia ebbe esito negativo. La legge fu mantenuta e la sconfitta di Fanfani fu traumatica, per lui e la DC, e i partiti laici, in particolare i socialisti, cercarono di farla pesare. Moro, che non aveva affiancato Fanfani in quell’impresa ma non si era disdetto, cercò di distinguere i due piani, referendario e politico (Scritti e discorsi, VI, p. 3147). Ma, in ottobre, scosso da queste polemiche cadde il quinto governo Rumor. Leone incaricò Fanfani, che fu costretto a passare la mano a Moro. Le trattative per formare il nuovo governo durarono 51 giorni e alla fine Moro, ch’era l’unico ad aver le carte in regola per tentare quella difficile mediazione, riuscì a formare un bipartito, DC e PRI, con l’appoggio esterno del PSI e del PSDI. L’alternativa erano le elezioni, che nessuno voleva, avendo dichiarato i socialisti che non avrebbero fatta altra scelta che quella costituita da Moro ed essendosi fermamente associato a lui La Malfa. Il 7 dicembre raccolse alla Camera anche l’astensione dei liberali e l’opposizione «aperta e leale» dei comunisti.

Nel partito Moro non intese rompere con Fanfani. L’unione dei due faceva la debolezza di tutti gli altri e di ciò ambedue erano consapevoli. Fanfani contava di recuperare con un successo alle elezioni regionali del giugno 1975, che invece segnarono la sua definitiva uscita di scena, essendo la DC scesa al suo minimo storico dal 1948 col 35,3% e il PCI balzato al 33,4%. Moro, al Consiglio nazionale di luglio in cui Fanfani si dichiarò decaduto, giocando sulle divisione interne al gruppo doroteo riuscì a portare alla segreteria del partito Benigno Zaccagnini, che era presidente del Consiglio nazionale e suo fidato sodale. L’anno seguente, al XIII Congresso della DC, Zaccagnini fu confermato nella carica e con questo ultimo approdo tattico Moro tornò a tutti gli effetti alla guida della DC. Con Zaccagnini c’era una spartizione di compiti. Moro affrontò quello che era il nodo politico del momento, il rapporto col PCI, riprendendo le riflessioni iniziate già nel 1968 che, negli equilibri instabili della DC, aveva da ultimo sottaciuto.

La sua formula era stata la «strategia dell’attenzione». Parlava ora (settembre 1975) dell’indispensabilità di «un confronto serio, non superficiale, né formale, con la massima forza di opposizione, sul contenuto del programma e sulla intuizione politica» (Scritti e discorsi, VI, p. 3362). Anche se rinviava per il momento la soluzione politica di questo approccio, la conventio ad excludendum il PCI dalla responsabilità di governo gli si presentava ora come causa di una condizione oggettiva di irresponsabilità rispetto ai vincoli esterni, in primo luogo d’ordine economico, in materia di bilancio e di squilibrio della bilancia dei pagamenti, destinata così ad alimentare una deriva populista che attraversava anche gli altri partiti, a incominciare dalla stessa DC. Erano del resto i dati che l’esperienza di governo gli suggeriva, in cui la necessità del contenimento della spesa e delle retribuzioni, assieme all’aumento delle imposte si affiancavano a una politica monetaria e creditizia restrittiva, e in cui l’opposizione dei sindacati si rifrangeva su quella delle forze politiche.

Zaccagnini doveva eseguire un altro spartito, che era quello della «rifondazione della DC». Intervenendo al Consiglio nazionale del luglio 1975 e soffermandosi a lungo su questo tema, Moro aveva detto che «se la DC deve essere ricostruita, io mi auguro che essa rinasca libera dall’arroganza del potere» (ibid., VI, p. 3342). Il nuovo segretario, per l’integrità della sua persona, si prestava a interpretare questo ruolo e il tema della rifondazione, per la radicalità con cui veniva posto, serviva anche a cauterizzare la ripresa dei giochi correntizi, che erano un risvolto strutturale della vita di quel partito. Soprattutto serviva a riaprire la DC verso l’esterno, specie verso il mondo cattolico e a ristabilire rapporti che nella fase postconciliare si erano di molto allentati. Tutto ciò contribuiva a ridare vigore alla DC nella preparazione di quella partita finale che dovevano essere le elezioni politiche del giugno 1976. L’equilibrio di centrosinistra si era definitivamente esaurito, avendo tra l’altro i socialisti ritirato l’appoggio al governo Moro-La Malfa. Si andò così alle urne con un governo monocolore, il quinto di Moro, in cui il successo del PCI col 34,4% era atteso, ma non una così netta ripresa della DC, che risalì al 38,7%.

Le elezioni fecero emergere due vincitori, il PCI e la DC, ciascuno dei quali aveva bisogno dell’altro. Di questo instabile rapporto Moro fu l’impareggiabile regista. Si rivolse subito ad Andreotti, ch’era il leader virtuale della destra del partito e che ottenne l’incarico di formare il nuovo governo (Memoriale..., a cura di F.M. Biscione, 1993). Occorreva fronteggiare appunto le resistenze della destra per un accordo con i comunisti non più rinviabile, che provenivano dall’interno e dall’estero.

Il 7 luglio – durante la crisi, che durò 40 giorni – Moro, Rumor e Colombo rappresentarono l’Italia al vertice di Portorico dei paesi più industrializzati, dove il presidente degli Stati Uniti Gerald Ford, e i leader europei James Callaghan, Michel Debré e Helmut Schmidt si riunirono a parte, vincolando il sostegno finanziario per l’Italia a un rigoroso piano di rientro economico, condizioni per altro già enunciate dalla Considerazioni finali per il 1975 del governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, e che corrispondevano alle prese di posizione della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale. Si sottolineava inoltre che la formazione del nuovo governo non dovesse comportare l’ingresso dei comunisti nel governo (Varsori, 2008).

Queste valutazioni pesarono sulla trattativa e le condizioni economiche, che erano state così poste, furono tutte inserite nel programma di governo, enunciate da Andreotti anche in un intervento televisivo dell’ottobre 1976. Inoltre si impose la linea di un sostegno parlamentare, piuttosto che di un ingresso del PCI nel governo, che concluse quel primo round del confronto con i comunisti aprendo la strada alla formula del monocolore DC accompagnato dall’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI e del PLI, con cui Andreotti ottenne la fiducia.

Moro dovette tener conto anche delle resistenze interne del suo partito. Le difficoltà oggettive costringevano le sue diverse componenti a presentarsi come acquiescenti, tuttavia lasciando uno spazio ristretto di manovra da cui egli sapeva di non poter derogare se voleva mantenere l’unità del partito, ch’era sempre stata, e tanto più ora, un presupposto della sua politica, e che difese ad oltranza anche in un significativo discorso alla Camera, nel giugno 1976, sulla richiesta di autorizzazioni a procedere per Gui e Rumor, a seguito del giudizio sul caso Lockheed, uno scandalo di tangenti su commesse militari finito innanzi all’Alta Corte di Giustizia.

Questa dell’unità della DC era la difficoltà propriamente politica di quella trattativa, che gli stessi comunisti non avevano valutato appieno, costretti a convergere su una piattaforma per loro difficile da sostenere. Le astensioni designavano un governo di emergenza, in cui per altro la DC riacquisiva appieno il suo ruolo di centralità. I provvedimenti del governo ebbero successo, portando a un miglioramento di tutti i parametri economici, ma il prezzo per il PCI e la CGIL fu alto, segnato dal duro scontro con il movimento del ’77. Fu comunque approntato un programma comune, approvato alla Camera in luglio, che portò al completamento del welfare italiano. Ma per il PCI valeva l’adagio espresso da Eugenio Scalfari, che non si può stare a lungo col piede sulla porta (Craveri, 1995) e in dicembre Berlinguer annunziò la fine dell’astensione comunista.

Non era più tempo di «convergenze parallele», come Moro in precedenza si era espresso. Iniziava quella che egli denominò la ‘terza fase’ dell’ingresso del PCI nell’area di governo. Avvertiva che non era ancora possibile una partecipazione all’esecutivo, ma solo alla  maggioranza parlamentare. Il rapporto con Berlinguer si era fatto stretto e amichevole, nella consapevolezza della responsabilità comune (Ancora, 1985). Moro tenne fermo sul punto del non ingresso al governo e riuscì a far passare invece la sua proposta di allargamento della maggioranza, vincendo anche le resistenze interne al suo partito con un penetrante discorso, il 28 febbraio 1978, ai gruppi parlamentari della DC (Scritti e discorsi, VI, p. 3796). In quel discorso aveva tra l’altro detto che «se voi mi chiedete fra qualche anno cosa potrebbe accadere … io dico: potrà esservi qualcosa di nuovo». Non disse tuttavia che cosa. L’unica indicazione, di per sé non sufficiente, è costituita dall’intervista data al direttore del quotidiano La Repubblica, Eugenio Scalfari, e uscita postuma (Scalfari, 1979).

Moro insisté su tre concetti: la necessità che la DC si liberasse dell’incubo di essere partito di governo senza alternative; che l’ingresso del PCI nella maggioranza era necessario per la piena legittimazione di quest’ultimo e per superare l’emergenza, ma proprio per ciò il ‘compromesso storico’ come alleanza strategica andasse respinto; che in prospettiva il sistema politico si dovesse avviare verso un modello di alternanza. Difficile dire dunque come Moro configurasse la ‘quarta fase’ della sua politica. Quel che sembra certo è che Moro vedeva la fase in corso come di transizione e solo in quest’ottica la sua posizione convergeva con quella di Berlinguer, ma non nelle finalità ultime, non ritenendo egli una maggioranza DC-PCI come un possibile approdo definitivo.

Pochi giorni dopo quel discorso ai gruppi parlamentari, il 16 marzo, il gruppo terroristico delle Brigate rosse (BR), massacrata la scorta costituita da cinque uomini (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi), lo rapì a Roma in via Mario Fani e lo tenne prigioniero 55 giorni.

Di questa lunga detenzione abbiamo due nuclei di suoi documenti: le lettere che scrisse ai familiari, ai colleghi di partito e ad altri, in parte trasmesse dalle stesse BR, di cui è indubbia l’autenticità e umanissimi ne sono i drammatici accenti, che mostrano come egli non avesse mai dismesso la sua intima religiosità e il suo lucido equilibrio, edite ora nell’edizione di Miguel Gotor (Lettere dalla prigionia, Torino 2009), e il suo ‘memoriale’, raccolta di appunti che risalgono al ‘processo’ che gli intentarono i brigatisti, su episodi della storia politica da lui vissuta, di cui sono particolarmente penetranti i giudizi su uomini politici, specie del suo partito, ora in un’edizione curata da Francesco Maria Biscione (Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano,Roma 1993).

Le lettere di Moro costituiscono la filigrana dei drammatici eventi che caratterizzarono il periodo della sua detenzione. L’azione delle forze dell’ordine e dei servizi di intelligence per liberarlo fu del tutto impotente, probabilmente inquinata da impulsi e direttive contraddittorie. Sulle indagini di quei giorni ci sono del resto numerose analisi attendibili che ne mostrano le incongruenze. Negli anni seguenti i membri del gruppo brigatista, che compì l’omicidio di Moro e degli uomini della sua scorta, furono tutti arrestati e condannati. La vicenda è stata oggetto di un’inchiesta parlamentare ad hoc nella VIII legislatura e in seguito il Parlamento è tornato su di essa con le indagini delle Commissioni stragi. Dall’imponente materiale documentario raccolto da queste indagini giudiziarie e parlamentari non è emerso alcun certo elemento probatorio che mostri come l’azione delle BR possa aver avuto legami politici e supporti da servizi di intelligence di paesi stranieri. Ma il tema è stato più volte sollevato e indizi non mancano, anche in una lettera di Moro a Flaminio Piccoli che suggerisce una tra le piste possibili, quella palestinese. La documentazione raccolta non può del resto dirsi esaustiva e la ricerca storica dovrà indirizzarsi sulle carte, non ancora visibili, degli archivi di altri paesi, e di quelle che proverranno dalle istituzioni italiane che si sono occupate del caso.

Può invece dirsi ricostruito nella sua interezza il dibattito politico, che si svolse in quei giorni in Italia, tra il governo e i partiti della coalizione parlamentare che lo sorreggeva (Giovagnoli, 2005). Moro, il 29 marzo, in una lettera, da lui ritenuta riservata, al ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, fatta invece pervenire allegata a un comunicato delle BR, sollecitava di dare corso a una trattativa con i brigatisti al fine di uno scambio tra la sua persona e alcuni detenuti politici per terrorismo. Per oltre un mese il dibattito girò intorno a questo punto. La ripulsa di questa ipotesi da parte del governo e dei partiti fu netta e si espresse nella cosiddetta linea della fermezza, sostenuta in modo  particolare dal PCI. Era il partito più direttamente investito dalla polemica brigatista, isolato all’interno dell’Internazionale comunista – avversando l’URSS fermamente, tra l’altro, un suo ingresso al governo in Italia – preoccupato quindi di una qualsivoglia legittimazione, anche indiretta, alla sua sinistra, di un soggetto come le BR, essendo tra l’altro a conoscenza dei legami di questa organizzazione con il mondo comunista (Pons, 2006). Poiché la rottura della maggioranza di governo avrebbe aperto un vuoto inimmaginabile, i comunisti condizionarono fermamente quella drammatica decisione di non prendere alcuna iniziativa che non fosse l’azione, come detto sterile, delle forze dell’ordine, assecondati dal presidente del Consiglio Andreotti e dalla stessa direzione della DC. Tuttavia alcune crepe nello schieramento della fermezza si aprirono tra i democristiani e da parte del PSI, che con il suo segretario Bettino Craxi prese a sondare la possibilità di un canale di trattativa (Acquaviva - Covatta, 2009). Anche la S. Sede si mosse con più iniziative, pur non interferendo sulla linea del governo italiano: Paolo VI rivolse un appello televisivo alle BR (2 aprile) e in seguito scrisse una lettera aperta (22 aprile) per la liberazione di Moro senza condizioni. L’uccisione di Moro venne quando alcune di queste iniziative erano ancora in corso. Sulle circostanze di questa ultima decisione da parte delle BR non si hanno ulteriori e sufficienti elementi di valutazione.

Moro fu assassinato il 9 maggio 1978 e il suo cadavere fu fatto ritrovare al centro di Roma, in via Caetani, poco distante dalle sedi del PCI e della DC.

Era stato, dopo De Gasperi, il leader democristiano capace di guidare il suo partito in sincronia con l’evoluzione del sistema politico italiano, secondo obiettivi necessari di stabilità e progresso. Nella DC, dopo di lui, nessuno ebbe una visione altrettanto chiara per mantenerle il ruolo di centralità che tradizionalmente aveva avuto dalla sua fondazione e con la sua morte può dirsi avviata in modo irreversibile la crisi della prima Repubblica.

Opere: Oltre ai lavori penalistici e alle dispense di filosofia del diritto di cui si è dato conto, le raccolte più significative di scritti, discorsi, lettere e appunti sono: L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Milano 1979; Al di là della politica e altri scritti. Studium, 1942-1952, a cura di G. Campanini, Roma 1982; Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, I-VI, ibid. 1982-90; L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali, a cura di G. Di Capua, ibid. 1986.

Fonti e Bibl.: L’Archivio centrale dello Stato conserva le Carte di A. Moro e di recente sono state lì versate le carte del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari esteri sul ‘caso Moro’; le lettere dalla prigionia prodotte per il processo sono state versate all’Archivio di Stato di Roma; Atti Assemblea Costituente, Attività deputati, Roma s.d., pp. 186 s.; Atti e documenti della Democrazia cristiana. 1943-1967, I-II, Roma 1968; G. Di Capua, Come l’Italia aderì al Patto Atlantico, Roma s.d., pp. 82, 39; M. Glisenti, Avvertenze per una storia da scrivere, in Cronache sociali, 1947-1951, I, Roma 1961, p. 9; G. Acquaviva, Un italiano diverso. A. M., Taranto 1968, pp. 47/s.; G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, Firenze 1977, passim; S. Fontana, Il pensiero giuridico di A.M., in Civitas, XXIX (1978), pp. 41-62; G. Selva - E. Marcucci, Il martirio di A. M., Bologna 1978; G. De Rosa, prefazione a G. Gonella, Verso la seconda guerra mondiale. Cronache politiche. ‘Acta Diurna’ 1933-1940, a cura di F. Malgeri, Bari 1979, pp. XI s.; H. Kissinger, Gli anni alla casa Bianca, Milano 1979, pp. 729-731; G. Mosse, L’opera di A. M. nella crisi della democrazia parlamentare, in L’intelligenza e gli avvenimenti … cit., pp. IX-LXXV; P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e il fondamento della democrazia italiana, Bologna 1979, pp. 223, 225, 330, 391; E. Scalfari, Interviste ai potenti, Milano 1979, pp. 297 ss.; P. Nenni, Diari, 1943-1971, I-III, Milano 1981-83, ad ind.; R. Ducci, I Capintesta, Milano 1982, passim; A. Giovagnoli, Le premesse della Ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano 1982, pp. 28 s., 89; L. Elia - G. Vassalli et al., Cultura e politica nell’esperienza di A. M., Bari 1982; G. Baget Bozzo, A. M. Il politico della crisi, 1972-1973, Firenze 1983; R. Moro, La formazione giovanile di A. M., in Storia contemporanea, XIV (1983), pp. 893-968; [F. Mazzola], I giorni del diluvio, Milano 1985 (2a ed., firmata dall’autore, 2007); A. Rossano, L’altro Moro, Milano 1985; T. Ancora, Enrico, perché senza scorta, in Enrico Berlinguer, a cura di R. Di Blasi, Roma 1985, pp. 110 ss.; L. Elia - P. Scoppola, A. M. Il cristiano, l’intellettuale, il politico, Roma 1987; F. Traniello, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 237ss.; G. Andreotti, Governare con la crisi, Milano 1991, pp. 89 s.; M. Rumor, Memorie, 1943-1970, Venezia 1991, passim; A. Melloni, L’utopia come utopia, in G. Dossetti, La ricerca costituente, 1945-1952, Bologna 1994, p. 32; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, in Storia d’Italia, Torino 1995, ad ind.; G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, Bologna 1996, pp. 205s.; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione, Milano 1997, pp. 285-287; F.M. Biscione, Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico, Roma 1998; A.C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma 1998; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Bari 1999, passim; F. Cossiga, La passione e la politica, Milano 2000, passim; G. Fasanella - G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino 2000, ad ind.; P.E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna 2002, passim; G. Dossetti, A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, Bologna 2003, pp. 17 s., 61, 85 s.; V. Satta, Odissea nel caso Moro, pref. di G. Sabatucci, Roma 2003; A. D’Angelo, Moro. I vescovi e l’apertura a sinistra, Roma 2005; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna 2005; S. Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto M. secondo Mino Pecorelli, Roma 2006; S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino 2006, pp. 122 ss.; G. Galloni, 30 anni con M., Roma 2008; G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano 2008, p. 253; A. Giovagnoli, A. M.: un democristiano atipico, in Contemporanea, XI (2008), pp. 93 ss.; A. Varsori, Puerto Rico (1976); le potenze occidentali e il problema comunista in Italia, in Ventesimo secolo, VII (2008), ottobre, pp. 325 ss.; R. Moro, A. M. e la FUCI, Roma 2008; Moro-Craxi. Fermezza e trattativa trent’anni dopo, a cura di G. Acquaviva - L. Covatta, con prefazione di P. Craveri, Venezia 2009; A. M. nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di Mondo Contemporaneo, Milano 2011 (in particolare G.M. Ceci, A. M. di fronte ai terrorismi e alle trame eversive, pp. 167-206); M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di A. M. dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Torino 2011.

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