ALGARDI, Alessandro

Enciclopedia Italiana (1929)

ALGARDI, Alessandro

Géza de Francovich

Scultore, n. a Bologna il 27 nov. 1595. m. a Roma il 10 giugno 1654. Studiò disegno e pittura con Lodovico Carracci, e frequentò la bottega del modesto scultore e incisore Giulio Cesare Conventi (1577-1640). Raccomandato dall'architetto della corte di Mantova Gabriele Bertazzoli, entrò verso il 1622 al servizio del duca Ferdinando pel quale fece modelli di argenteria e minute sculture di bronzo e di avorio che in maggior parte andarono distrutte o disperse durante il sacco di Mantova nel 1630. Nelle ricche raccolte artistiche dei Gonzaga ebbe, più ancora che all'accademia dei Carracci, occasione di avvicinare e studiare l'arte antica, ma questa gli si rivelò appieno solo a Roma, ove si recò, dopo un soggiorno di qualche mese a Venezia, nel 1625. Il cardinale Ludovisi, al quale era stato raccomandato dal duca, lo impiegò nel restaurare sculture antiche, ricercatissime allora da raccoglitori italiani e stranieri, e spedite in grande copia anche in Francia. L'A. fu considerato uno dei migliori restauratori di antichità, sebbene a noi siffatti restauri appaiano eccessivi e arbitrarî e rivelino piuttosto i modi e le forme della scultura del tempo. Delle statue antiche restaurate dall'Algardi si conservano l'Ercole che uccide l'Idra, già nel palazzo Verospi, oggi nel Museo Capitolino, il Mercurio facondo, un Portatore di fiaccola, una statua di Minerva, e un Marte, già nella collezione Ludovisi, ora nel Museo delle Terme. Intanto continuava a fare "putti, figurine, teste, crocifissi ed ornamenti" (Bellori), né mai abbandonò questo genere di lavori, per cui ebbe una predilezione speciale. Sappiamo che nel 1649 fornì il modello e il disegno per un cofano in argento donato da Innocenzo X alla regina di Spagna, e che mandò disegni decorativi in Spagna per Filippo IV per commissione avutane da Diego Velázquez. I più notevoli di questi oggetti in metallo e in avorio attribuiti all'A. sono: una Pietà in avorio, già nella collezione Rospigliosi, ora in possesso del signor von Liebermann a Berlino, il Gesù che cade sotto il peso della croce, in bronzo, a Palazzo Venezia (Roma), la Flagellazione di Cristo, in bronzo, nel Hofmuseum di Vienna (una replica è nel Palazzo Corsini di Firenze), una Madonna in bronzo, nel Palazzo ducale di Urbino e il Crocifisso pure in bronzo nella sagrestia di S. Pietro a Perugia. Verso il 1630 gli furono dal Domenichino commesse due delle quattro statue di stucco, il Battista e la Maddalena (fig.1), che decorano le nicchie della cappella Bandini nella chiesa di S. Silvestro al Quirinale. Nello stesso torno di tempo l'A. dovette eseguire i busti per la cappella dei Frangipani a S. Marcello al Corso, e lavorare alla tomba del cardinale Mellini, morto nel 1629, nella cappella gentilizia di S. Maria del Popolo. Ma commissioni importanti tardarono a giungere. I tempi volgevano allora poco favorevoli agli artisti della scuola bolognese. Trionfavano, sotto il pontificato di Urbano VIII, il Bernini e la sua arte nuova, in aspro contrasto coi canoni artistici dei Carracci, dei quali gli ultimi diretti scolari avevano nel 1630 lasciato Roma per Napoli. Anche l'A. ebbe a soffrire di questa ostilità. Alla morte di Carlo Barberini (1630), generale dell'esercito papale e fratello di Urbano VIII, il senato, avendo deciso di erigergli una statua onoraria in Campidoglio, diede all'A. l'incarico di restaurare a tale uopo una statua antica di imperatore. Improvvisamente questa statua, alla quale l'A. aveva già aggiunte le braccia e le gambe, gli fu tolta e mandata alla bottega del Bernini perché questi le facesse la testa: episodio caratteristico dell'antagonismo tra i due maestri. Dal 1640, anno in cui l'A. divenne principe dell'Accademia di S. Luca, cominciarono finalmente a venirgli incarichi più numerosi. Del 1640 è il gruppo in marmo raffigurante S. Filippo Neri con l'angelo inginocchiato nella sagrestia di S. Maria in Vallicella, e il busto in bronzo di Gregorio XV sopra la porta della sagrestia. Nel 1641 fece per il cardinale Bernardino Spada nella chiesa di S. Paolo a Bologna il gruppo con la Decollazione di S. Paolo (fig. 2). Altre opere di minor mole, come il Crocifisso per la chiesa di S. Ignazio e il Crocifisso in argento per la chiesa di S. Stefano a Pisa, sono perdute, mentrt. esiste ancora il S. Michele che atterra il demonio, fatto per la chiesa di S. Michele a Bologna, ora nel Museo civico di quella città.

L'attività dell'A. si esplicò varia e intensa soprattutto durante il pontificato di Innocenzo X (1644-55). Il Bernini, caduto in disgrazia presso la corte papale dopo la morte di Urbano VIII, fu sostituito nei lavori architettonici dal Borromini, e in quelli di scultura dell'A., il quale ebbe del resto modo di affermarsi anche come architetto. ll cardinale Camillo Pamphily, nipote di lnnocenzo X, gli diede a dirigere la costruzione della sua "villa di Belrespiro" davanti la porta S. Pancrazio. Altri lavori di architettura dell'A. sono: l'altare maggiore nella chiesa di S. Nicola da Tolentino, la fontana nel cortile di S. Damaso al Vaticano (1646-49), e la porta d'ingresso nell'interno della chiesa di S. Ignazio che conduce al Collegio Romano. L'attribuzione della facciata di questa chiesa all'A. è stata messa in dubbio dalla critica moderna. Fra le molte opere eseguite dall'A. durante il suo periodo di fortuna vanno rilevate: la tomba di Leone XI in S. Pietro, finita verso il 1650 (fig. 3); la grande pala d'altare in marmo con la Cacciata di Attila. (v. tav. LIII) incominciata nel 1646, e terminata, con l'aiuto del suo scolaro Domenico Guidi, nel 1650; la statua bronzea di Innocenzo X nel salone dei Conservatori, assegnata all'A. nel 1645, anch'essa finita nel 1650, (v. tav. LIV) e numerosi ritratti: il busto di mons. Orlando Santarelli in S. Maria Maggiore a Roma; la tomba di mons. Ottavio Corsini, morto nel 1649, in S. Giovanni dei Fiorentini; il ritratto di Urbano Cellini in S. Maria del Popolo; la tomba di Prospero Santacroce morto nel 1642, in S. Maria della Scala; il ritratto di Donna Olimpia e del principe Panfilo Pamphily, nel palazzo Doria - Pamphily (v. tav. LV); quello del card. Zacchia-Rondanini nella raccolta Ojetti a Firenze; il busto del card. Alessandro e del generale Michele Damasceni-Peretti nello Schlossmuseum di Berlino ove si trova anche, nel Museo Federico, il busto del card. Lodovico Zacchia (1626). E siamo ancora lungi dall'aver enumerato tutte le sculture attribuite all'A., sparse un po' dovunque: a Roma, a Bologna, a Genova, a Perugia, a Milano, a Piacenza, a Charlottenburg, a Dresda, a Monaco, a Londra, a Vienna, a S. Massimino in Provenza, a Salamanca e a Leningrado. La morte lo sorprese, mentre stava lavorando alla decorazione della chiesa di S. Nicolò da Tolentino; è suo l'altar maggiore che fu condotto a termine secondo i suoi progetti dagli scolari Domenico Guidi, Ercole Ferrata e Francesco Baratta.

L'A. è, col Bernini, lo scultore più notevole del Seicento a Roma, e rappresenta nelle sue tendenze artistiche un ideale opposto a quello del suo rivale. Già gli scrittori d'arte del sec. XVII avevano chiaramente riconosciute e distinte queste due correnti della scultura secentesca romana che fanno capo al Bernini e all'Algardi. G. P. Bellori, il difensore ed esaltatore del principio classico accademico, e perciò nemico del Bernini, tace nelle sue Vite di questo artista, chiamando invece l'A. nella lunga biografia dedicatagli "intelligente più d'ogni altro dell'età sua.... nelle cui mani fu restituito lo spirito dei marmi". L'A. si riallaccia, in fondo, a quella tradizione cinquecentesca che nella pittura contemporanea si oppose coi Carracci, col Domenichino, col Sacchi e col Poussin al dilagare dell'arte decorativa più schiettamente barocca di un Lanfranco e di un Cortona. L'educazione avuta alla scuola del Carracci che lo condusse a uno scrupoloso studio del vero, e la sua pratica nei minuti lavori di oreficeria e nei restauri di statue antiche spiegano a sufficienza l'arte composta, precisa ed equilibrata dell'A., in antitesi con l'impeto del genio berniniano che rifugge dal particolare e dalla fedele aderenza al soggetto, e cerca l'effetto impressionistico dell'insieme e il pieno dominio d'un motivo centrale cui le singole parti restino subordinate. Nonostante questa differenza sostanziale nel carattere dei due maestri, l'A. non poté sottrarsi all'influsso del suo concorrente più grande. Lo dimostra chiaramente la Maddalena di S. Silvestro al Quirinale, dipendente nell'atteggiamento e nel volto dalla S. Bibbiana del Bernini, ma col panneggio esuberante e pesante che non accompagna ma quasi sopraffà l'espressione del volto. L'A. fu soprattutto un ritrattista eccellente. Il ritratto del card. Garzia Mellini in S. Maria del Popolo, derivato nel motivo del busto tagliato all'altezza della cintola da quello del Bernini al Gesù, rappresentante il cardinale Bellarmino (1622), è trattato con una minuzia quasi pedantesca nelle pieghe fitte della mozzetta, nei merletti sulla manica del camice, nella testa fortemente realistica (v. tav. LVI). L'amore dello scultore per le cose minute gl'impedisce talvolta di penetrare più a fondo nell'anima dei personaggi rappresentati, e il suo virtuosismo brillante rimane allora alla superficie e non giunge alla sintesi. Talvolta l'A. riesce però a superare l'artificioso meccanismo della tecnica e crea ad esempio la bella immagine fiera e forte di donna Olimpia Pamphily o il ritratto del cardinale Zacchia-Rondanini, superbo per la nobiltà grave e austera dei tratti e per la trattazione magistrale del drappeggio. I difetti dell'arte algardiana sono meglio palesi nelle opere più complesse, come nel mausoleo di Leone XI in S. Pietro ove la statua del papa e le figure allegoriche della Prudenza (scolpita da Ercole Ferrata) e della Liberalità (eseguita da Giuseppe Peroni) ai lati dell'urna restano fredde e mute, chiuse, come nelle tombe del Rinascimento, nell'architettura della nicchia. Nella figura seduta di Innocenzo X al Campidoglio, l'A., seguendo il Bernini, si compiace nell'effetto pittorico dei panni ondeggianti e aggrovigliati, col quale effetto troppo contrasta il verismo esasperato del volto e la resa minuziosa dei particolari minori, una frangia, un ricamo, un merletto. L'A. ha spesso trattato anche il bassorilievo. L'esempio più insigne è l'enorme pala marmorea dell'Attila, alta m. 7, 15 larga m. 4,05, nella Basilica Vaticana, decantata dal Bellori "come scultura unica fra le moderne" e "lavoro così mirabile non mai deriso né dall'invidia ne dall'ignoranza". Il rilievo, derivato dall'affresco di Raffaello delle Stanze è animato da un sapiente e vario digradare di piani e di distanze; ma in quell'agitarsi delle figure manca la foga travolgente del Bernini. Data l'indole analitica dell'A., è ovvio che l'attività sua come architetto non potesse avere grande importanza. La facciata della Villa Pamphily, dal Passeri chiamata "deboluccia, povera e meschina", ha infatti un aspetto freddo e trito, sovraccarica com'è di nicchie, medaglioni e rilievi (fig: 4). Notevolissimi invece i bassorilievi in stucco nell'interno della villa, dove l'A., ispirandosi a simili lavori trovati nella Villa Adriana, ha creato una delle più belle e delicate opere decorative che in quel genere abbia dato il Seicento.

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