CASATI, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASATI, Alessandro

Piero Craveri

Nacque a Milano il 4 giugno 1881 da Alfonso e da Luisa Negroni.

Le ascendenze familiari esercitarono su di lui un'influenza psicologica più profonda della naturale consapevolezza dinastica, ed essa traspare dalle sue pagine autobiografiche, dai carteggi e dai ricordi dei conoscenti e degli amici: una singolare consuetudine ad evocare persone e cose del passato, a rimuovere il diaframma della realtà presente, senza voler percepire soluzioni di continuità. Così il palazzo Soncino a Milano, dove nacque, nella rimembranza ancora animato dalla presenza di Teresa Casati e Federico Confalonieri e la casa della nonna materna, Giuseppina Negroni Morosini, a Vezia, nel Canton Ticino, "una dimora tutta penetrata di spiriti eroici e romantici, con la cappella in cui è sepolto Emilio Morosini e dove in un'urna era conservato il cuore di Kosciutzko" (Gallarati Scotti, p. 12).

La formazione intellettuale del C. (fece i suoi studi nel collegio Alessandro Manzoni di Merate) è tutta segnata dalle forti suggestioni dell'ambiente domestico. Difficile coglierne compiutamente i segni determinanti. Del resto, la sua partecipazione alla vita pubblica italiana, che copre tutto l'arco del primo cinquantennio del Novecento, rimane una testimonianza singolare: quella di una figura insieme distaccata e partecipe, il cui filo conduttore, politico e intellettuale, quasi mai si identifica pienamente con le ideologie dominanti e con il contesto di forze in cui si trovò ad operare. C'è invece nel C. una fedeltà agli ideali aristocratici propri di una componente del "moderatismo" lombardo, il cui motivo ispiratore ritroviamo passo passo in tutte le scelte qualificanti della sua vita.

Una delle immagini dell'adolescenza, che ricorrono con più frequenza nei suoi scritti, è quella del vecchio Stefano Jacini. Il cattolicesimo liberale e il programma politico di questo, messo a punto negli ultimi scritti, che voleva una conciliazione tra Stato e Chiesa al fine della costruzione di un partito "conservatore nazionale", la cui base di massa e la cui funzione dirigente sarebbero state costituite da un "ruralismo-agrario", fu una delle testimonianze più arcaiche della vecchia "consorteria lombarda". Ebbe modo tuttavia di filtrare, attraverso le fratture sociali del '98 e il neoconservatorismo, industriale e commerciale, degli ultimi decenni del secolo, per tornare ad essere uno dei pilastri del programma di stabilizzazione sociale e politica degli ultimi anni del decennio giolittiano e più tardi del fascismo.

Questi motivi "politici" fanno certamente da sfondo alla formazione civile del C., che si applicò, fin dalla giovane età, ad approfondire gli aspetti "idealistici", cosicché il tema della "conciliazione" tornava ad essere preminentemente quello del rapporto tra religiosità cattolica e tradizione liberale del Risorgimento. Non fu inizialmente estranea a questo ripensamento la lettura del Rosmini, consumata nel cenacolo tenuto dal barnabita Pietro Gazzola, prevosto di S. Alessandro. Fu anzi questa esperienza probabilmente determinante a spingere il C. verso l'esperienza del "modernismo", a cui egli, già allora, connetteva motivi civili e politici disparati, che compendiava nella formula della "crisi religiosa del Risorgimento". Nel gennaio del 1907, per iniziativa sua, di Tommaso Gallarati Scotti ed Antonio Aiace Alfieri, usciva a Milano il periodico dal titolo giobertiano di Rinnovamento. Come ha notato Gallarati Scotti, più legato del C. agli aspetti "religiosi" di quella esperienza, la rivista non fu solo "una reazione contro il conservatorismo ecclesiastico... [ma] anche e più una reazione contro il neopaganesimo, il neoestetismo, il positivismo e lo scetticismo che corrompeva lo spirito italiano" (Vita di A. Fogazzaro, p. 474). Per il C. certamente l'interesse rivolto al modernismo non ebbenulla di esclusivo; la sua adesione ad esso, per quanto sentita, si collocava in un quadro culturale più ampio. Ciò si riflette del resto nel carattere aperto della rivista che accanto al Von Hugel, al Tyrrel o a Fogazzaro, Buonaiuti, Murri annoverava collaboratori come il Vossler e l'Unamuno.

Nel 1911, prendendo occasione da un articolo del Boine sulla Voce (Di certe pagine mistiche, 1º apr. 1911, pp. 3 s.), che tra l'altro ripercorreva criticamente i tratti salienti dell'esperienza modernista, il C. si mostrava non convinto del giudizio, che gli pareva unilaterale, del Croce e lo interrogava circa "la legittimità dell'accostamento modernismo d'annunzianesimo, da Lei ribadita anche in un'ultima bibliografia sulla Critica... C'era... nel modernismo di alcuni un'inquietudine conoscitiva, un amore alla verità, che equivale a sincerità morale e che è proprio l'opposto del d'annunzianesimo" (lettera a B. Croce, del 1º maggio 1911).

Si ha l'impressione che una valutazione della partecipazione del C. alla crisi modernista in Italia debba risalire più indietro, e ancor più uscire dall'ambito di un'analisi, ristretta alla cultura e ai sentimenti civili del cattolicesimo italiano, a cui più volte si è voluto ricondurla. Quel che egli visse in quegli anni non fu tanto la crisi modernista e il movimento di rinnovamento del cattolicesimo, bensì, piuttosto, la crisi del liberalismo italiano ed europeo. Per il C., più che per altri, il fenomeno del modernismo fu in realtà l'ultimo anello di congiungimento tra una problematica interna al mondo cattolico-liberale, il che poté creare l'illusione della continuità: una continuità immaginaria, senza radici nella nuova realtà politica e sociale, che veniva lentamente svolgendosi, come riflesso del processo di industrializzazione del paese.

La coscienza della crisi, connessa tuttavia all'illusione che gli ideali liberali continuassero ad operare nella vita sociale e politica, spiega la naturalezza con la quale il C. operò il passaggio da quella iniziale esperienza di Rinnovamento all'incontro con il pensiero crociano. Passaggio che è parso anche il segno di una sua già precedente disposizione critica e filosofica, di un interesse per l'hegelismo e il materialismo storico, che, per altro, al Buonaiuti, nei mesi di preparazione del convegno di Molveno (settembre 1907), era apparso motivo di "affinità" piuttosto che di distacco (Scoppola, p. 242).

Ma le note filosofiche che il C. scrisse in quegli anni per Rinnovamento non offrono una tale conferma. Sia quella sullo Hegel e in particolare sul Saggio del Croce, sia quella sul Labriola, l'una in cui si sottolinevano gli aspetti metafisici dello schema dialettico hegeliano, con accenti che, accostati alla più tarda revisione del Croce, acquistano il sapore di un avvertimento critico, l'altra che connetteva puntualmente l'opera di Labriola col possibile esito nelle riflessioni "critiche" del Croce e "politiche" del Sorel, palesano la piena maturità intellettuale nell'affrontare temi di storia del pensiero filosofico. Manca tuttavia in esse la presenza di un vero e proprio problema critico: non appare traccia né dei problemi propri del "modernismo", né di quelli del "liberalismo", ma semmai una disposizione a storicizzare ogni esperienza di cultura, a darle una precisa collocazione nella storia del pensiero, che è sempre, paradossalmente, il segno di una negazione della storia, l'affermazione precritica, sostanzialmente psicologica, della continuità e sviluppo delle forme "ideali", al di là dei processi storici del reale.

Quando nel 1909 Rinnovamento cessò le sue pubblicazioni, il C. fu uno dei più indifferenti alla condanna ecclesiastica del movimento modernista. Ma non volle più impegnarsi in nuove esperienze editoriali. Fu tra i sostenitori del Leonardo e de La Voce, rimanendone però nel contempo distaccato spettatore e critico, sebbene dalla cerchia degli amici e dei collaboratori venissero sollecitazioni per nuove iniziative.

"Sto cercando di convincere Casati a fare un Rinnovamento più filosofico, più diidee e anche più d'entusiasmo..." (Amendola Kühn, p. 189)scriveva l'Amendola al Papini nel mese di luglio del 1909. Ma l'idea non sembra sollecitare Casati. "Egli mi ha proposto, scriveva un anno più tardi l'Amendola ancora al Papini, la fondazione di una rivista trimestrale, prevalentemente storica per gli studi filosofici e religiosi, ma con intonazione teorica, che vorrei darle io" (p. 228). Una rivista che nelle intenzioni dell'Amendola doveva rappresentare "una tentenza idealistica e religiosa, che continui da un lato la Critica, in quanto idealità, ma che la sorpassi, la neghi ed eventualmente le contrasti il terreno in quanto religiosa" (p. 239).

Il carteggio del C. col Croce ci aiuta ad intendere quanto egli potesse raccogliere del programma dell'Amendola, nonché le ragioni interiori che lo indussero a rinunziarvi. Coll'esperienza di Rinnovamento il C. abbandonava in realtà ogni più largo proposito di elaborazione teorica. L'opera del Croce, che proprio in quegli anni veniva delineando il suo sistema di "filosofia dello spirito", doveva sembrargli sempre più un punto di riferimento sicuro, un appagamento della sua iniziale "inquietudine conoscitiva". Alle soglie della maturità il C. pareva dunque rinunziare coscientemente a svolgere un ruolo primario nella vita culturale e la sua volontà ripiegare in un imperscrutabile processo di autodisciplina etico-intellettuale.

Un'attitudine che egli stesso ebbe a definire con una battuta scherzosa, quando, negli anni di guerra, rispose ad Angelo Gatti, il quale si meravigliava dell'influenza di lui sul Capello, che la sua "vocazione" consisteva nell'aiutare gli altri. Di qui il carattere esemplare a cui improntò la sua figura, quel distacco, a volte inumano, in cui lo coglieva Ardengo Soffici, in una nota pagina del suo Kobilek (Firenze 1918), quando in un'azione di guerra ritraeva la sua "sicurezza mistica durante tutto il combattimento", che provocava "in noi tutti che lo seguivamo un senso di reverenza, ma di sconcerto e magari di repugnanza, quasi quell'altezza morale scoraggiasse gli ultimi resti del nostro egoismo, della nostra miseria troppo umana" (pp. 150 s.).

Fu così, in questa cosciente incoscienza, che il C. superò gli anni in cui maturava definitivamente la crisi delle sue idealità "romantiche". Membro dell'Associazione costituzionale, la più tradizionale istituzione politica del moderatismo lombardo, egli si mostrava restio a concepire ed affrontare la vita civile del paese, nei termini che le nuove forme di organizzazione politica imponevano. Dinnanzi al voto sul suffragio universale, scriveva sprezzantemente al Prezzolini - che sulla Voce aveva pubblicato un articolo in favore di esso - togliendo alla rivista il suo apprezzamento e il suo sostegno. Vedeva avvicinarsi la guerra con la lucidità del conservatore: "fatti come quelli avvenuti ultimamente in Toscana e Romagna - scriveva al Croce il 26 apr. 1915, commentando le reazioni che preludevano l'ordine di mobilitazione generale - mi persuadono sempre più della necessità di una prova, sia pure dolorosissima. Altrimenti come potremmo dominare questo spirito invadente di anarchia? La pedagogia sociale è ben più impotente dinnanzi a simili mali, che si manifestano nelle regioni d'Italia che meno soffrono di disagio economico".

Arruolatosi come sottotenente, il 17 apr. 1917 veniva promosso capitano e, il 21 maggio di quell'anno, maggiore per meriti di guerra conseguiti sull'altopiano di Asiago e nella conquista del Kobilek, alla testa del 127º reggimento di fanteria della brigata Firenze. Ferito sulla Bainsizza, il C. si guadagnava col grado di tenente colonnello la medaglia d'argento al valor militare. Nei primi mesi del 1917 aveva fatto parte dell'Alto Comando della 2ª Armata, ed era stato uno stretto collaboratore del generale Capello. Gatti gli attribuisce il merito di aver convinto Capello a ridurre e quindi a rendere più efficace il suo disegno di operazioni. Numerose testimonianze indicano, anche se è difficile attraverso di esse arrivare ad una ricostruzione più precisa, che il C. seguì da vicino le vicende del Comando supremo prima e dopo Caporetto.

Le vicende della guerra conferirono alla figura del C. una rilevanza pubblica che prima non aveva. Personaggio ormai rappresentativo, gli vennero affidati, nell'immediato dopoguerra, incarichi politico-diplomatici. Nel 1923 fu chiamato dal Gentile ad assumere la presidenza del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, e il 1º marzo di quell'anno veniva nominato senatore. Successe al Gentile come ministro della Pubblica Istruzione il 1º luglio 1924. Legato al gruppo che faceva capo ad Antonio Salandra, ne seguì gli orientamenti e ne divise le responsabilità, fino alle sue dimissioni dal governo presentate il 3 genn. 1925.

In questa sua comparsa alla ribalta della vita pubblica il C. svolse un ruolo marginale. Il tratto di strada che percorse a fianco delle fortune nascenti del fascismo, a cui prestò il prestigio del suo nome, fu congeniale al suo conservatorismo, che gli faceva intendere come pregiudiziale alla continuità dell'ordinamento liberale la restaurazione dell'ordine sociale. Ristabilito questo ultimo ed infrante le istituzioni liberali, il divorzio del C. dal fascismo fu altrettanto naturale: in modo più diretto ed esplicito la sua breve parabola politica corre parallela a quella allora percorsa da vasti settori del ceto dirigente liberale.

Spezzatosi il legame con la vita pubblica, anche l'orizzonte privato sembrava restringersi, ed accentuare il distacco tra le "molte conoscenze" e le "poche amicizie", come egli osservava contemplando il frantumarsi di quel mondo di relazioni sociali che era stato un suo così naturale alimento (lettera al Croce dell'11 marzo 1930). Sono di questi anni le sue maggiori fatiche storico-erudite. Nel 1931, sull'Archivio storico lombardo usciva il saggio su Giuseppe Gorani e la guerra dei sette anni (ora in Saggi, postille e discorsi, Milano 1957, pp. 27 ss.); più tardi l'edizione dei tre voll. di Memorie di G. Gorani (Milano 1936-1943). Attendeva anche alla preparazione di un volume sull'Italia contemporanea, il cui materiale preparatorio, assieme alla sua amplissima biblioteca, doveva andare distrutto col bombardamento della sua casa milanese, nel 1943.

Dopo la caduta del fascismo il C. tornò ad immedesimarsi nelle vicende politiche. In una lettera del 10 apr. 1943 da Roma, chiedeva al Croce l'adesione al nuovo partito liberale. In quei mesi prendeva attiva parte ai colloqui politici che precedettero il 25 luglio. Nel novembre del 1943, rifugiatosi nel Seminario pontificio di S. Giovanni in Laterano, ove tra gli altri si trovavano Nenni, De Gasperi, Ruini, e Bonomi, rappresentò il P.L.I. nel Comitato di Liberazione nazionale. Nel giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma e le dimissioni del governo Badoglio, entrava a far parte del governo Bonomi come ministro della Guerra (ricoprì lo stesso incarico anche nel secondo gabinetto Bonomi). Contribuì al potenziamento del Corpo italiano di liberazione, attendendo con cura alla riorganizzazione tecnica dell'esercito, alla formazione delle brigate "Legnano" e "Cremona", che ruppero con gli Alleati la linea gotica, e al rafforzamento dell'Arma dei carabinieri.

Nel Corpo italiano di liberazione si era arruolato il suo unico figlio Alfonso, nato a Milano nel 1918 dal matrimonio del C. con Leopolda Incisa della Rocchetta, che, il 6 ag. 1944 sul fronte adriatico, presso Iesi, proteggendo col suo plotone la ritirata di reparti polacchi e italiani, moriva in combattimento.

Il C. portò in quelle vicende un senso del dovere e di dedizione, coerente con la sua storia. Esponente di un ceto dirigente la cui crisi si era consumata nel primo decennio del secolo e che nel secondo dopoguerra non doveva più esprimere alcun segmento reale della società italiana, tornò a svolgere un ruolo contingente, comune ad altre figure dell'Italia liberale, di testimonianza della continuità, nella vita civile del paese, del presente col passato prefascista.

Un ruolo, da questo punto di vista "rappresentativo", riconosciuto e non osteggiato da alcuna forza politica dello schieramento antifascista, che ebbe il suo peso specie nei rapporti con le potenze alleate, e che poi, nelle vicende che seguirono la Liberazione, andò a cementare le caratteristiche "nazionali" del blocco moderato guidato dall'on. De Gasperi.

Questo destino, dunque, probabilmente amaro, toccò al C., ultima sopravvissuta figura pubblica della tradizione liberale lombarda del Risorgimento. Quando nel 1945 gli successe al ministero della Guerra l'amico Stefano Jacini, egli ricoprì altri incarichi di rilievo pubblico. Fu membro della Consulta nazionale, presidente del Consiglio supremo di Difesa e nell'anno 1948 del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Fece parte della delegazione italiana all'Assemblea del Consiglio d'Europa fino al 1953 e della delegazione italiana all'UNESCO, alla cui conferenza generale del 22 maggio-16 giugno 1950 a Firenze tenne la presidenza. Tornato nel Senato repubblicano come membro di diritto nel 1948, successe a Vittorio Emanuele Orlando nella presidenza della Federazione italiana della stampa e della Dante Alighieri. Fu anche presidente delle commissioni per la pubblicazione dei carteggi di Cavour e dei documenti diplomatici italiani.

Alcuni mesi prima che la morte lo cogliesse, nella sua villa di Arcore, il 4 giugno 1955, aveva disposto che le carte di Teresa Casati e Federico Confalonieri venissero affidate al Museo del Risorgimento di Milano.

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