Alessandro di Afrodisiade

Dizionario di filosofia (2009)

Alessandro di Afrodisiade


di Afrodisiade Filosofo (2° - 3° sec. d.C.). Insegnò la dottrina aristotelica ad Atene fra il 198 e il 211 d.C.; i suoi scritti originali a noi pervenuti sono Sul fato (in cui viene difeso il principio aristotelico della libertà del volere contro il determinismo stoico), Sulla mescolanza (in cui viene combattuta la concezione stoica della compenetrazione reciproca dei corpi), Sull’anima (in cui viene esposta sinteticamente la sua interpretazione della psicologia aristotelica) e una raccolta di brevi scritti e frammenti nota con il titolo di Questioni naturali. Ma A. è soprattutto famoso come il maggiore dei commentatori di Aristotele (ci rimangono i commentari al I libro degli Analitici primi, ai Topici, alla Meteorologia, al De sensu, ai libri I-V della Metafisica). Benché non si proponga altro compito che quello di chiarire Aristotele e di confermarne le dottrine di fronte alle altre scuole (in primo luogo la stoica), A. ha posto problemi di grande importanza storica. Modificando la dottrina del maestro, egli ritenne che l’individuale è ‘primo’ non solo per noi, cioè dal punto di vista della nostra progressiva conoscenza della realtà, ma anche per natura, cioè ontologicamente. Da ciò discendeva una concezione dell’universale come esistente soltanto nel nostro pensiero e non nella realtà e quindi un’accentuata prospettiva naturalistica. Ancora più importante è la rielaborazione della dottrina aristotelica dell’intelletto svolta nel De anima: A. distingue un intelletto «fisico» o «materiale» (nel senso che, come la materia, è mera potenzialità) e un intelletto «acquisito», capace di pensare e cioè di essere in atto quello che l’intelletto materiale è solo in potenza. Il passaggio dalla potenza all’atto è opera dell’intelletto ‘agente’, che non è una facoltà dell’anima umana, ma è unico e totalmente «separato» e s’identifica con la causa prima, cioè con la divinità. Solo l’intelletto agente è immortale, mentre quello materiale, come tutta l’anima umana, è destinato a perire col corpo. Questa interpretazione ha avuto grande fortuna nel Rinascimento, dopo la traduzione del suo trattatello De anima (1495), soprattutto con Pomponazzi (➔ alessandrismo).

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