Manzóni 〈-ʒ-〉, Alessandro. - Scrittore italiano (
Vita e opereNato dall'infelice matrimonio di Giulia Beccaria, la figlia di Cesare, con un gentiluomo di lei molto più anziano, il conte Pietro M. (o, come voleva una diffusa diceria, dalla relazione adulterina della madre con il minore e meno noto dei fratelli Verri, Giovanni), per il disaccordo dei coniugi, che finirono con il separarsi, e il disinteresse della madre, fu educato nel collegio dei somaschi, a
La produzione poetica giovanile di M., nella quale spiccano il poema Il trionfo della libertà (1801), composto per la pace di Lunéville e la ricostituzione della
La dimora a Parigi (1805-10) permise a M. di frequentare attivamente gli ambienti intellettuali che costituivano il crogiolo della più avanzata ricerca filosofica e letteraria dell'Europa di allora. Specie alla "Maisonnette" di Meulan, presso la vedova del Condorcet, che conviveva con
Più sicuro è l'influsso di Enrichetta Blondel, che M. aveva sposato giovanissima nel 1808, per la quale il problema religioso non era filosoficamente eludibile: calvinista, ella sentì imperioso il bisogno di essere istruita circa quella fede cattolica secondo la quale era stata battezzata la prima figlia, Giulia: ascoltò l'abate
Nel 1810 M. tornò a Milano, donde non si mosse più se non per brevi viaggi (importante quello parigino del 1819, nel corso del quale entrò in contatto con
M. non partecipò mai direttamente alle polemiche letterarie e alle lotte politiche del suo tempo, pur prendendo posizione con fermezza nell'uno e nell'altro campo. In quello politico, il suo pensiero cattolico-liberale e il suo ideale monarchico e unitario restarono ben saldi per tutta la lunga vita, da quando nel 1814 sottoscrisse la petizione del senato del
L'attività letteraria di M. anteriore alla duplice conversione, lungamente sottovalutata dalla critica, pur conservando il suo carattere giovanile e preparatorio rispetto alla maggiore produzione successiva, contiene in sé elementi di grande interesse, dal dato originario di una personalità inquieta e complessa alla precoce grande padronanza tecnica del versificatore, alla sicurezza dei progetti e già quasi alla predestinazione dell'incontro tra la sete di assolutezza, per esempio attestata dal pindarismo di Urania, e l'energia stilistica dell'imitatore di Dante e di Parini e gli sbocchi istituzionali offerti dal cattolicesimo militante e dal romanticismo. Discende così naturalmente dagli sciolti In morte di C. Imbonati la volontaria mortificazione cui M. sottopone, prima negli Inni sacri e poi nelle tragedie, la propria individualità e gli ideali letterarî a essa connessi, l'una e gli altri sacrificati a una missione di verità che è sì innanzitutto riconoscimento della vanità di ogni sforzo di salvezza individuale e recupero della propria identità di fedele, ma risponde anche all'intuita necessità di un compito sovrumano per l'artista moderno e si concilia comunque con la raffinatissima institutio retorica che nello scrittore avrà sempre il compito di esorcizzare la complessità del reale e la tragedia del vivere, conferendo a ognuna delle sue pagine lo statuto privilegiato di ciò che non è il frutto di un ragionamento individuale, ma appena l'anticipazione sapiente dell'"assenso" collettivo.
Nel quindicennio di maggior fervore creativo (1812-27), M. è preso dall'urgenza di dar voce poetica alle sue nuove credenze religiose. Rievoca quindi negli Inni sacri i grandi eventi del passaggio terreno di Gesù, la loro eterna contemporaneità attraverso i riti della Chiesa, o esalta l'aiuto che agli umili è dato dall'umile e regale Maria, escogitando un linguaggio poetico che si ispira direttamente a quello della Bibbia per restituire alla liturgia freschezza e entusiasmo e dalla poesia profana del Settecento e dal melodramma rileva ritmi fortemente cadenzati e predisposti all'esecuzione corale. Prima di affidare al romanzo l'eredità pariniana e montiana di uno stile tanto più eletto quanto più efficacemente si confronta con la realtà, negli Inni sacri e nella poesia civile di Marzo 1821 e del Cinque maggio, come nei cori "lirici" delle tragedie, M. realizza una poesia in cui il tema è dato, più che dalle Scritture, dalla preveggenza del sentimento religioso o patriottico e viene svolto da un poeta per una volta capace di condividere lo stesso fiducioso abbandono al canto e alle parole del lettore più semplice. Per un altro verso, le tragedie ruotano intorno al dilemma formulato da Adelchi morente: nel mondo "non resta che far torto o patirlo". Il senato veneto che condanna l'innocente Carmagnola, Carlo che ripudia l'innamorata Ermengarda, Desiderio che prende le armi contro
È questo il momento del più esplicito impegno romantico manzoniano, che non senza ragione trova la sua più netta espressione nella tragedia e nella forza dei contrasti che informa la prima redazione del romanzo. Nelle ferme pagine della seconda redazione del romanzo, subentra un'ulteriore maturazione della poetica manzoniana, che già non aveva mai mostrato indulgenza verso le posizioni estreme del romanticismo. Nei Promessi sposi, la stessa pietà per gli oppressi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori; e se mai domina la dolente rappresentazione della violenza cui soggiace Gertrude, monacata a forza, o quella della miserabile fine di Don Rodrigo. Al delitto anche gli oppressori sono trascinati: quello di Gertrude nasce dalla violenza familiare, che a sua volta dipende dalle convenzioni sociali. La persecuzione di Don Rodrigo è effetto non di passione o di vizio, ma della necessità cui egli non sa sottrarsi di vincere il "punto d'onore", di conservare cioè il prestigio della sua casata, che appunto per questo è tutta solidale con lui. Mentre però nelle tragedie gli oppressi piegavano sotto il male, rifugiandosi solo nel pensiero e nella speranza di Dio, nei Promessi sposi lottano contro di esso. Non Renzo, la cui ribellione è disordinata e inefficiente perché contenuta tutta nei limiti dell'azione terrena, ma fra Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo, che concretamente e coraggiosamente agiscono in nome della Provvidenza di cui sanno d'essere strumenti, sono i rappresentanti dell'umanità ideale per M.; e l'Innominato, allorché egli piega al servizio del bene la sua energia che la conversione non ha domato; e Lucia, con la forza disarmata ma invincibile della sua innocenza e della sua fede. Se poi l'inutile fede religiosa di Don Abbondio, la viltà che lo porta a diventare strumento dell'ingiustizia, rappresentano il contro-ideale di M., lo scrittore però sa che "il coraggio uno non se lo può dare"; che è solo di pochi purtroppo quella terrena fortezza senza odio che egli, giunto al culmine della sua arte, ci propone come guida e meta della nostra vita. M. riconosce nel romanzo il terreno di uno scontro cruciale tra le ragioni della letteratura, o in ultima istanza della ragione senz'altro, e la casualità della verifica storica, salvo poi rassegnarsi a questa apparente casualità come alla prova da superare cristianamente grazie alla fede. Il suo rifiuto e la sua aperta polemica contro il romanzesco, evocato con tutte le cautele e puntualmente esorcizzato, interpretano bene le resistenze di fondo, innanzitutto linguistiche, di tutta la nostra tradizione al "meraviglioso" moderno e alla sua vocazione popolare; e proietteranno un'ombra tenace su tutti i romanzi posteriori, contribuendo a rafforzare preclusioni e riserve e incoraggiando con il proprio esempio gli sbocchi, atipici in ambito europeo ma caratteristici della nostra tradizione, verso il romanzo-poema e il romanziere-storiografo.Il Manzoni e la questione della linguaM., già da giovanissimo, aveva romanticamente lamentato la frattura esistente in Italia tra lingua parlata e lingua letteraria. Non solo per le sue prime poesie, ma anche per gli Inni sacri e le tragedie, si era sostanzialmente valso della lingua poetica offertagli dalla tradizione; ma scrivendo la prosa del romanzo, nel quale per la prima volta in Italia il realismo romantico investe i dominî dell'alta letteratura, gli si pone concretamente il problema della lingua. Partì dall'idea che una lingua letteraria "comune" a tutta l'Italia potesse essere quella costituita dall'incontro tra i varî dialetti italiani, in particolare tra il milanese e il toscano; ma poi piegò sempre più verso la concezione che la lingua comune dovesse essere basata sull'uso, e quest'uso non potesse essere che quello d'una determinata regione, cioè della Toscana; considerando poi che anche nell'interno della Toscana c'erano discrepanze tra l'una e l'altra parlata, finì col sostenere la necessità di adottare il fiorentino parlato (ma quello, per così dire, epurato, delle persone colte) come lingua comune. A questa tesi fiorentina giunse esplicitamente e pubblicamente in una lettera a G. Carena del 1847; quando già, almeno dall'indomani della pubblicazione della prima edizione del suo romanzo, egli si era volto ad approfondire il problema sia correggendo in senso fiorentino i Promessi sposi per l'edizione definitiva, sia lavorando, per tutto il resto della sua vita, a un trattato sulla lingua, che non condusse mai a termine, e del quale ci restano numerosi abbozzi e frammenti (uno di essi fu pubbl. nel 1923 col titolo Sentir messa).
Tra le edizioni contemporanee, fondamentale è l'ed. critica, avviata da