Alessandro Manzoni: Opere - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1953)

Alessandro Manzoni: Opere – Introduzione

Riccardo Bacchelli

Una recente, da sperarsi non ultima, fortuna editoriale dei Promessi sposi all’estero, il successo inglese, propiziato bensì da una nuova traduzione del capolavoro, ma imprevisto e improvviso ben cento e trentacinque anni dopo la prima sua comparsa in Italia, non ci farà ripetere le meraviglie che il cosiddetto «mondo moderno» sia ormai e sempre più tardo e restio a riconoscere, non che un capolavoro, tutti, e tutta quanta insomma la letteratura e la poesia di tradizione e valore più propriamente italiano.

Non ce le farà ripetere, nemmeno per rilevare in cotale tardità e renitenza, e nell’inevitabile avversione, un segno d’elezione, uno scandalo necessario, e la prova che quella tradizione e quel valore sono di qualità classica: o ignota o invisa dunque a un «mondo» nelle cui lingue il titolo stesso del gran libro manzoniano trova difficile traduzione, e, smarrendovisi il colorito e il timbro e il tono della nobile e familiare, forte e vereconda, nitida ed affettuosa discrezione stilistica manzoniana, ha concorso in più luoghi e in più lingue a far credere che si tratti di un racconto edificante per educandati, e per di più cattolici, anzi «papistici».

Tanto è vero che anche adesso, in proposito, si poté cogliere, così a caso su un giornale inglese, il candido stupore che l’autore di un curato come don Abbondio e di una monaca e monacata come Gertrude e d’un quadro storico e sociale come quello della Lombardia sotto il dominio di Spagna, non fosse passato al protestantesimo.

Ad un’ingenuità di questa sorte, verrebbe voglia di rispondere che, però, l’autore fu tinto di giansenismo, e ch’era stato impeciato di giacobineria e volterianesimo; ma sarebbero malizie sprecate, in attesa che un sempre auspicabile successo dei Promessi Sposi in paesi di «democrazia progressiva», susciti altro stupore: che l’autore d’un quadro economico e sociale come quello della carestia e della guerra e della peste, non abbia aderito al Manifesto dei Comunisti. E meno male ancora, perché in un’epoca tanto seriosamente applicata alla «problematica» freudiana e sessuologica e sociologica e neomaltusiana, ed esistenzialistica sadica, con l’omosessualità correlativa, non sappiamo, o sappiamo troppo bene, quali interpretazioni potrebbero ricevere i Promessi sposi. E come si tradurrebbe il titolo nel linguaggio dei teorici del «matrimonio di prova»?

Ma s’è detto che la sorte del poema in prosa di romanzo di Alessandro Manzoni, benché esemplare e storica, e forse la più scabrosa e singolare, ha smesso anche di insuperbirci. E questo che s’è detto non vuol esser polemica, ma chiarimento.

Fatto è che implicazioni e preoccupazioni più o meno confuse e confondenti, sorgono; sorgono dalla riflessione critica sull’opera di una tanta fantasia poetica creativa, condotta alla sua perfezione di forma da una così diamantina chiarezza e purezza d’arte. Sicché verrebbe fatto di trascorrere colla mente nell’estremo opposto delle preoccupazioni e implicazioni suddette, proponendo il dubbio che proprio tanta purezza e chiarezza di poesia e d’arte, quasiché insostenibili, preoccupino gli animi ed implichino le menti. Sempre e fin dai primordi, e nei più vari ed opposti modi ed intenti critici e polemici e moralistici e politici e pedagogici e ideologici, venne fatto di cercare di più o di meno, altro insomma, che non il poeta, nel Manzoni: il moralista, il filosofo, il teologo, lo storiografo, il politico, il savio, il pedagogo, il devoto, il polemista, il controversista, e perfino un linguista. Tutto quel ch’egli fu, e volle, e insisté ad essere, generalmente contro il suo genio e con fatica improba ed improbante, sempre e dappertutto che non fu poeta. Il che, certamente, vuol esser tutto conosciuto e studiato, ma non per implicare e preoccupare, sì per chiarire e serenare la comprensione e la definizione di ciò ch’egli fu, sovranamente.

Non certo a Benedetto Croce si può imputare o supporre, per difetto che sia o per eccesso, qual si voglia insofferenza o inappagamento spirituale della purezza e perfezione e chiarezza poetiche ed artistiche. Per altro, un gusto, un’intuizione, una critica, come quelle di un Croce, non brevi anni e non per incidente credettero di ravvisare nell’opera del Manzoni, parole testuali, «una sorta di fusione tra Poesia e Oratoria», pur coi mille riconoscimenti, diremo inevitabili, delle splendenti bellezze, e facendo consistere proprio il gran romanzo in «una bellissima opera oratoria», «parenetica», a specificare il genere di tale «Oratoria». E così il Croce contribuiva, più potentemente d’ogni altro, a porre il problema che le bellezze poetiche dei Promessi sposi siano aggettive e non sostantive, contribuendo a produrre una perplessità, della quale s’è liberato con la «scheda», edita, mentre scriviamo, nel numero di marzo 1952 dello «Spettatore Italiano». Se n’è liberato con la strenua risolutezza e perseveranza critica ed autocritica ch’è in lui magnanima e di carattere eroico, spacciando per erroneo il proprio e gli altrui giudizi precedenti e consonanti, dichiarando insussistente il problema, riconoscendo perfetta e libera ed essenziale «Poesia» quella del gran lombardo.

Aggiunge la «scheda», «il sentimento cattolico del Manzoni risponde ad una concezione morale della vita quale anche un non cattolico ma di alto sentire avrebbe accettata». Mediato, dunque, dalla poesia? Ma tali «mediazioni» sono ciò che crocianamente si definisce e si condanna come «confusione della Poesia con l’Oratoria». E, non ci inganniamo, cotesto assenso del «non cattolico» Croce al «cattolico» Manzoni, viene ancora a considerare l’opera come pratica e moralistica, ed oratoria, se non più di oratoria specificamente «parenetica».

Allora, esaminiamo proprio il sentimento del Manzoni, estraendo ed astraendo dalla sua poesia, senza timore né ritegno d’offenderla e di oscurarla, in sé stessa non già, ma in noi che l’amiamo.

Non che cattolico, cristiano; agostiniano non che giansenistico; e pur muovendo dall’originaria critica razionalistica dell’illuminismo, dalla scettica ed agnostica ed antireligiosa satira volteriana, e dall’infatuazione giacobina, consente altamente con la tradizione di pensiero e d’arte che insieme e di là dai grandi oratori e moralisti e osservatori, specie di Francia, penetra e comprende, coi moralisti latini e i padri della Chiesa, le più severe verità che siano state dette sull’uomo e sul consorzio sociale. Dell’umana debolezza, inanità, infelicità, il Manzoni, poeta, come lui diceva, «sliricato», romantico, se possiamo imitare il motto, diseroicizzato; dell’umana fralezza il Manzoni nei Promessi sposi palesa un sentimento, astraendo dalla «consolazione che non avrà fine» di là dalla meta ultima del «viaggio» terrestre; un sentimento, in quanto tale e terrestre, non che, più che pessimistico, d’ogni e psicologico e moralistico e filosofico e cristiano pessimismo. Nel suo più intimo e profondo, è sentimento tragico, e di una dolorosa disperazione umana, ch’è, della poesia di lui, la segreta e nascosta vena e radice originaria.

Per prendere l’argomento dalla fine, quella «allegrezza raccolta e tranquilla» a cui «il cielo», «co’ travagli e fra le miserie», e tanti e tante, dispone i due «promessi», come conclude? Che la loro, poi, a cose quiete, «fu una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili; di maniera che, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte». In vece di leggervi, col sorriso facilmente melenso del manzonismo facile, un’arguzia, saggiamola come una confessione del sentimento dell’autore. Difficile trovarne una, nella sua dimessità e umiltà, altrettanto sconsolata, e, crediamo, impossibile trovarne una che lo sia di più. Sotto specie psicologica, il sentire umano del Manzoni è nichilistico, alieno da ribellioni e invettive per un di più e un di là dal dolore, sempre parlando terrestremente, in cui si quieta, come la figura biblica di quella che non vuol essere consolata. Quel che chiamiamo gioia, felicità, passioni, azioni, vita, non son, per tale un sentire, altro che «allegrezze turbolente e passeggiere», parole testuali anche queste. E, possiamo aggiungere, divertirebbero; ma non solo e non come il racconto dei travagli e delle miserie. Quest’altro «divertimento» farebbe consentir l’animo alle passioni, in quel modo che il Manzoni vieta e condanna.

Propriamente il sentimento, e più che il ragionamento pur tanto al medesimo fine concludente con ingegnosità tenace e diversa, e come insaziabile; proprio il sentire più che il ragionare del Manzoni, nulla salva, se sia lecito esprimersi così, fuor che la Grazia operante a difesa di un’innocenza, e di una sola, in quanto essa sola è del tutto inerme, remissiva, non ragionante, non agente, illuminata ma ignara, da tutto e da tutti, in terra, abbandonata, abbandonata anche e specialmente da sé medesima a una piena abnegazione, rinuncia, consegna di sé alla Grazia e al volere di Dio.

Certo, non la si volendo, non la si dovendo, reale, vivente, esatta com’è nella sua figura umana, Lucia Mondella; non la si volendo né dovendo chiamarla un miracolo della Grazia efficace, né, più ottusamente, un personaggio edificante, esemplare; certo Lucia è, mirabile anzitutto d’artistica sobrietà, la mirabile incarnazione di un’idea poetica e religiosa sublime.

Attorno a lei, gli altri, il mondo: e tutti di fronte a lei son altri, sono mondo; il poeta nulla salva e non conferisce grazia o missione salutare a nessuno veramente del tutto. Degli iniqui, dei vili, dei fiacchi, dei presuntuosi, dei bislacchi, non importa dire. Ma le migliori intenzioni, come, per loro verso, l’affetto di Renzo, e le pensate di Agnese; ma il Cardinal Federigo che la affida a donna Prassede, fra Cristoforo che la manda insomma nel convento di Monza e in mano di quell’Egidio, che è, così di scorcio, il più infernalmente laido fra gli scellerati del romanzo; tutte infine le migliori intenzioni e più sante riescono insufficienti, non che a salvare Lucia, anche a condurla a «quella consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura d’alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore» inevitabilmente. La stessa volontà forte, d’un possente suscitato da Dio a salvare Lucia dal pericolo supremo, nel momento cruciale, la volontà dell’Innominato convertito, non basta; e un’altra verità poi è che a lui quel risparmiare alla poverina l’ultimo tracollo e la più turpe ingiustizia, a lui, e praticamente e moralmente, costa poco. Ed è una verità ardita ed amara, mortificata e mortificante in significato spirituale, poiché una simile illuminazione poetica vale pure altrettanto come lume di una coscienza religiosa e morale altamente, terribilmente ascetica. Vogliam rilevarne anche un minuzzolo? Quella perla di bravuomo del sarto, per via d’un zinzino di vanità di «letterato», non c’è verso, deve finire a far figura grama e di citrullo anche lui!

Sui «meriti» dell’uomo, e sulla sua capacità, stiam per dire possibilità, di farsene e d’averne, non al Manzoni, e non propriamente alla sua poetica, non al suo sentimento, non che alla sua teologia, gli amici giansenisti avrebber potuto imputare d’inclinare al pelagianesimo!

Ciò che conduce a salvezza e a quel tantino di consolazione la tribolata innocente, è la Provvidenza, «co’ travagli e tra le miserie»; che potrebb’essere, così di per sé, una generalità della dottrina cristiana comune, ma la rincalza e la precisa e l’amplia nei Promessi sposi, dalle minuzie più fuggevoli ai maggiori fatti di una rappresentazione del mondo che sta fra le sintetiche più vaste e possenti; la rincalza e la precisa, inflessibile, imprevedibile quanto irreparabile e inevitabile nei suoi segreti disegni ed affetti palesi, l’idea, il dogma di tal Provvidenza che vuole salvezza e consolazione, l’eterna e la temporale, in tutto, e relativamente e in assoluto, procurate ed operate dagli errori e dalle colpe e dai delitti, dalla malvagità e malizia dell’uomo, dalle sue viltà come dalla sua superbia, dai ridicoli stessi delle sue presunzioni e dei suoi ingegni, i minimi e i massimi, più ingannevoli questi e più ingannati, e spesso, nel romanzo, più ridicoli ancora. E vuole la salvezza affidata proprio alla insufficienza d’ogni buona e migliore ed ottima intenzione, anche santa. Il mondo deve, perché vengano salvezza e consolazione, chiamare con le sue virtù, produrre colla sua sapienza, la guerra, la peste conseguente, i flagelli di Dio. Ma già al castello dell’Innominato, a quella catartica notte, tremenda per lui e per lei, di terrore e di rinascita, sublimatrice, Lucia è condotta dalla potenza del male, e dalla impotenza dei buoni.

«Può esser gastigo, può esser misericordia»: una grande parola, ma fra Cristoforo tra gli appestati sarà stato chiamato a risolvere il nodo del voto di Lucia, e a riunire i due tribolati, solo quando tale risoluzione divenne ovvia, naturale, già fatta. E allora, il santo è chiamato a compiere nient’altro che una formalità di giurisprudenza ecclesiastica; e perfino essa facoltà, vedi, gli vien dalla peste, come conferita ai «deputati alla cura dell’anime» nel lazzaretto. Anzi, più veramente che a sciogliere quel voto, tanto perché s’intenda che meriti può aver l’uomo stesso il più buono e più caritatevole, fra Cristoforo è chiamato a pronunciarne l’invalidità e la nullità, a riconoscerlo e dichiararlo illecito, perché Lucia non poteva disporre «della volontà d’un altro», e ciò che valse nel suo voto, tanto perché si veda quanto l’uomo sia creatura essenzialmente fallibile, fu solo «l’intenzione del cuore afflitto». Ma anche e soltanto a questo, il frate sarà stato chiamato quando il santo zelo della sua carità sarà fallito, e da tempo, e onninamente.

Ed è ancora la peste, che lo designa, sì, anche, ad additare salutarmente a Renzo il suo miserabile persecutore sulla paglia del lazzaretto, ma senza che la severa, la terribile poetica del Manzoni, anzi la sua tragica Musa, conceda al frate e al poeta ed a noi, nemmeno di sapere se «l’infelice» abbia ripreso coscienza per quell’«ora di ravvedimento», per quel minuto, per quell’infinitesimo istante, che gli pregan da Dio fra Cristoforo e il raumiliato Tramaglino.

«Può esser gastigo, può esser misericordia»: su tutt’altro tono, riecheggerà questa la parola di quello a cui il più acuto indagatore dei segreti e dei sottintesi, e ideali ed ideologici, del Manzoni, Angelandrea Zottoli, assegna, giustamente, le conclusioni pratiche, quasi la «morale» del romanzo: «È stata – dice don Abbondio fregandosi le mani – un gran flagello questa peste: ma è anche stata una scopa»; addirittura, «quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione». Teniamoci al «quasi», poiché porre in termini spogli e logici il quesito di se e fin dove e come, sentimento e ragione dell’autore acconsentano, sarebbe una forzatura, un quesito in sé falso e sfalsato. Ma i «mirallegri», le «disinvoltura e parlantina», le «bubbole» di don Abbondio; «E, – ancora e sempre, – e poi la peste, la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste»; ma l’allegrezze nuove e l’impenitente «faccia tosta» di don Abbondio, son la più lepida e la più malinconica cosa di questo mondo, e dell’umanissima conclusione terrestre del poema romanzesco.

Del resto, è ben anche un fatto, né il Manzoni lo cela, a don Abbondio, di quel coraggio che «uno non se lo può dare», non gli ce ne sarebbe bisognato poco, nelle sue condizioni di povero curato di campagna all’ombra trista del castello di don Rodrigo. Il suo torto originario è di non essere un eroe, ma se per compiere i più regolari e ordinari doveri, se il mondo, per andare alla meglio o alla meno peggio, abbia bisogno di eroi, in che termini sta il mondo? Precisamente in quelli che gli assegna la poetica del Manzoni. Il quale, dagli Sposi promessi ai Promessi sposi, ha diminuiti e limitati e genericizzati i coloriti e i particolari e le specificazioni storiche: ciò che in don Rodrigo sarebbe abuso e corruzione dell’autorità e del sistema feudale, ciò che nel Conte del Sagrato è corruzione ed abuso di uno spirito di ribellione e indipendenza nazionale e di un «grande», di un «forte», contro la conquista e l’oppressione e la tirannia. Li ha di tanto diminuiti, il Manzoni, non tanto per economia e convenienza d’arte, quanto perché appaiano abuso e corruzione, quali finalmente sono al sentimento ed al pensiero di lui: non di un sistema e di un tempo e di una storia e di un mondo, ma del mondo e della storia, del tempo e dei sistemi umani e terrestri, nati da una corruzione, del peccato originale, e corrotti e corruttori per natura. Ché il pessimismo del sentimento manzoniano, non che teologico, è psicologico e naturalistico: in ciò anche più triste e pungente. E, passando dagli Sposi promessi ai Promessi sposi, quella grande ed eroica rielaborazione concettuale, linguistica, poetica di cui, oltre che i testi in sé, son buona spia le osservazioni dell’amico Ermes Visconti, conferisce al romanzo, oltre tutto, un’armonia e bellezza di forma misurata e serena, ma non ne attenua né raddolcisce il segreto fondo.

Son queste le illazioni che una lettura attenta e sensibile alle premesse e conseguenze implicite, propone ad ogni passo del libro. È superfluo dire che bisogna affrontarle e chiarirle, non per oscurare o distruggere la comprensione estetica di esso, in quanto opera di poesia, ma per affinarla e confermarla, andando fino in fondo.

Intanto, ebbe torto l’impetuoso e disdegnoso Tommaseo, quando credette di scorgere una parzialità del Manzoni in favore degli umili, dei poveri, dei poveri diavoli, come si dice. La loro, e molto relativa, e molto anche ironica, innocenza, è piuttosto innocuità, che non innocenza. Gli impotenti umili, non tanto son migliori, quanto men cattivi, principalmente in ragione della loro impotenza, dei superbi potenti. Non converrà andare a contare quante volte Renzo sarebbe disposto e voglioso di render male per male, di far giustizia, ossia vendetta, e, sempre, uno «sproposito».

Ma quella «forza d’animo», opposta, non sistematicamente ma inflessibilmente, con infallibile necessità poetica, alla «passione»; alla «passione» che, nel «romantico» Manzoni, un tutt’altro che «romantico» asceta morale cristiano giudica e condanna quale corrotta e corruttrice, e che della forza usurpa per più d’inganno le fattezze; ma quella «forza d’animo» appare essa stessa, e rispettata, nel solo Innominato, poiché in fra Cristoforo è trasfigurata e consacrata in sacerdozio di penitenza, e nel Cardinal Federigo in missione sacerdotale. E sono pure, rispetto agli umili, rispetto a quell’umile ch’è anche don Abbondio, poveretto, e di contro ai «potenti», sono pure, l’«abito» del cappuccino, la «porpora» del cardinale, forze e sostegni secondo il mondo e la sua potenza. Convien poi ripetere che né a quella né a queste «forze d’animo» e forze umane è conferito e concesso di salvare e di consolare l’innocenza: tutt’al più, d’aiutarla, e scarsamente in effetti.

Tutti gli altri si sperdono, volontieri anche derisi con satira ch’è più sottile e severa dove appar più blanda e stiam per dire insidiosa. Si sperdono, o benintenzionati illusi, o traviati, o ipocriti, o iniqui, o goffi o gaglioffi; sempre, servi di passioni, la cui naturale e teologale qualità è d’esser maligne.

A dirne una, fra le minori e fuggevoli, è passione anche quella d’Agnese, che parrebbe bonariamente perdonabile, di credersi testa fina, che la sa lunga. Ma, nel sommo della tragedia, passione è che tragicamente travia e travolge e inganna e perde Gertrude; passione, in basso, fra le plebi, commette loro quelle «giustizie» e «provvisioni» ch’esse fanno in proprio nei tumulti della carestia, e commettono al tribunale della Sanità in occasione della peste, e impongono ai giudici degli untori; in mezzo, fra onesti privati e amministratori della cosa pubblica, è passione che ostina nelle sue «provvisioni» Antonio Ferrer, e nelle sue la Sanità; che detta la pratica legale di Azzeccagarbugli, così come la procedura e la sentenza della Colonna infame, le sozze soperchierie di don Rodrigo e l’infallibile trivialità delle furberie di Attilio, appaiate, così come sono appaiati i goffissimi machiavellismi del conte zio con l’acquiescenza del padre provinciale, fra quelle due «potestà» e «canizie» ed «esperienze consumate» un politico anche lui. Ma in alto, fra i grandi, fra gli autori dei fatti storici, passione è quella che ve li esalta, a precipizio delle cose del mondo, a distruzione e tribolo della poca quiete e del poco bene, che altrimenti potrebbe anche talvolta esserci; passione, e più rovinosa ed essenzialmente fallace e colpevole e mala, li illude a credersi e li mena a farsi arbitri, in quei fallaci loro atti, del bene e del male: peccato senza perdono. La politica e il senno, la stoltezza e il fato del «governatore e capitano» don Gonzalo, sono predestinati a condurre il mondo dalle guerre alle pesti, in un supremo ed ultimo mistero di colpa e d’errore, di vanità e d’impotenza. Ma dall’uno imparali tutti: sentimento e poetica del Manzoni nei Promessi sposi non lasciano eccezione né scampo. Ancor facessero poco, non facessero nulla, quei «grandi», forse sarebbero, non innocenti, ma innocui. Son tutti come «il superbo Romano», che vuol dir «grande» e giusto e giustiziere secondo il mondo e la storia; tutti come quel «deliro potente», in quanto tutti come lui «fanno stima» che «giovi col sangue innocente La lor vil sicurtade comprar»: tutti, coscienti o meno, tragici, ridicolmente tragici, nella poetica del Manzoni ed al suo sentimento. Conseguiti i tre flagelli delle litanie, la conclusione, se si potesse dire storicistica, è che «quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione»...

Infine, la parallela vicenda dei «promessi» separati, compendia in Lucia la verità che non c’è salute, non c’è verità, fuor che in un atto, disperato d’ogni altro soccorso ed atto e fatto, di piena abnegazione; compendia in Renzo l’errore di chi cerca giustizia non solo dal proprio fare e dal proprio buon diritto, mere inezie sperdute e impotenti, ma pure da un qual si sia buonvolere umano, ma dagli uomini ed istituti alla giustizia ordinati, consacrati, anche dai bene e meglio intenzionati. E, se ve ne fosse bisogno, c’è l’esplicita e rigorosa e in sé assoluta chiosa al grido di passione: «a questo mondo c’è giustizia, finalmente», colla sentenza: «tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica»: categorica, e non mica riferibile alle condizioni sociali e politiche ed economiche e giuridiche della Lombardia sotto il dominio di Spagna! Come un dei soccorsi più necessari ed efficaci, in una distretta mortale, viene a Renzo dal carro dei cadaveri pestiferati e dai monatti che lo cantano untore, «untorello», così lo scampo e l’impunità in quel di Bergamo, in «terra di san Marco», gli son porti dalla saggezza dei Signori veneziani che vuol attrarre filatori di seta in quelle «terre»: come giustizia, come giustizia storica immanente, ben grama, scarsa assai. Anche se una lettura avvertita e com’egli disse della critica di Giovita Scalvini, «fra le righe», scoprisse che superstiti e tenaci predilezioni illuministiche influiscono nell’antipatia del Manzoni per il Seicento in genere, e in particolare per quello «spagnuolo» in Lombardia, dettandogli preferenze ed avversioni varie in fatto d’economia politica e d’usi e costumi, esse non si estendono fuori di cotesto terreno, e non investono altri e maggior fatti ed idee. Il Seicento fornì colori più sgargianti e più tetri, e più grotteschi, all’artista, ma un concetto idealistico della storia fu, piuttosto che estraneo, ignoto ed incompreso e incomprensibile al Manzoni, non solo al dottrinario e al religioso, ma al filosofo, al poeta stesso: non solo perché incompatibile colla sua mente, ma per averlo ignorato. E la parallela vicenda, tragica d’alta tragedia religiosa in Lucia, è in Renzo tragicomica di terrestre ed umana tragicommedia.

Nei rispetti della Chiesa cattolica, come istituto storico, nel romanzo considerato come confessione del sentimento e del pensiero di lui, il magistero sacramentale della Chiesa stessa, la efficacia attiva e morale di essa, sono limitati, circoscritti, operanti sopra tutto come eroico sacrificio di carità, sopraffatta, malmenata, sovente malintesa dal mondo. Quasi intimidito dal rimorso delle proprie empietà giacobine e illuministiche, quasi intimorito dalle proprie ed altrui critiche storiche e morali e disciplinari, il riserbo manzoniano di fronte a Roma è tanto reverenziale e prudente, da riuscire perfino evasivo. Della Morale cattolica tutto si potrà dire, ci sembra, non che sia un saggio di apologetica decisa e risoluta.

Di fronte a Roma soltanto? Ma Dio, nella poesia del Manzoni, è tanto misterioso e remoto e imperscrutabile nel Regno dei Cieli, promesso dal Vangelo ai «pacifici» verso il mondo, ma ai «violenti» verso di esso Regno, che, nel poema, una sola volta aggredito con santa violenza, quella sola volta sembra che Dio acceda alla chiamata della disperata preghiera: sembra, perché in ultimo il voto di Lucia risulta un errore risolubile, come s’è detto, giuridicamente, e perché quand’ella lo pronuncia, il pericolo è già rimosso, non che dal rimorso, anzi solo dal fastidio dell’Innominato per le proprie scelleraggini; e la grazia, quand’ella pronunzia il voto, era già fatta.

Non c’è dunque miracolo. Il sentimento religioso, e in una la squisita sensibilità estetica del Manzoni, erano troppo discreti e intelligenti, umili ed illuminati, per inventar miracoli di ragion poetica e fantasiosa. Miracoli per lui potevano essere soltanto canonici, reali, e, s’intende, proclamati dalla Chiesa; per lui, che fonda la fede molto più sulla ragione che non sull’esperienza mistica, premessa la Rivelazione una volta, e promessa la Grazia sempre nel segreto delle anime. La religione del Manzoni, in profonda, vitale consonanza con la concreta intuizione creatrice d’un mondo di poesia in cui s’avvera e si necessita e vive il portato in atto di una creativa sintesi a priori estetica che è delle più potenti e perfette, innalza la negativa d’ogni pessimismo a positiva pietà, attinge nell’ironia ad una forma d’alta verecondia veggente; e di fronte alle ultime cose, morte e giudizio, di fronte alle verità teologiche ed alle virtù teologali, fede e carità, Dio e suo mistero, anima e creato, la religione del Manzoni tiene quella sobrietà di spirito, che si potrebbe chiamare paolina, agostiniana, magari salesiana e rosminiana, e di tant’altre origini ed insegnamenti, se non fosse evangelica senz’altro, e come religione, e come «poetica».

Sopra tutto è sobria e ritenuta nel romanzo: perché opera di letteratura profana? No: perché è la più profonda confessione, e poetica, dell’animo di lui religioso, trepido, temente, rimesso, adorante con taciuto terrore.

C’è un mistero, che gli Inni sacri affrontano direttamente, il mistero della creatura nel mondo, abbandonata a sé stessa, nel mondo perduto e dannato. Ciò il Manzoni conosceva, non che da Agostino, per esperienza propria. Cotesto mistero nei Promessi sposi è implicato in un’ombra, nella reticenza d’un timore reverenziale e sacro, nascosto, e potente proprio nella reticenza.

Parrà bizzarro il rilievo: c’è una persona del mondo soprannaturale e della religione cristiana, che nei Promessi sposi e in genere in tutta l’opera, diresti nel pensiero manzoniano, non compare mai, o appena di straforo. È l’angelo caduto, l’antagonista, il nemico di Dio, il tentatore, il diavolo. E sì, che se don Rodrigo è troppo stupido per meritare palese un simile patronato, in casa del padre di Gertrude e in quella di Egidio, nel convento di Monza e nel castello dell’Innominato, sotto il portone del vicario di provvisione e fra le orde dei lanzichenecchi e coi monatti, e per un altro verso nella casa del conte zio, e magari un po’ nella testa di donna Prassede, il seduttore delle anime tiene, e ben di lontano, tutti i fili, e meriterebbe le grandi entrate e le più accreditate credenziali.

Gli è che di lui, veramente, non c’è bisogno. Nel sentimento, nella rappresentazione, nella fantasia del Manzoni, alle funzioni del tentatore e dell’ingannatore, del sofista e del seduttore, adempie adeguatamente e senza difetto il mondo, con le passioni e le debolezze, cogli inganni e i sofismi, adempiono i «grandi», proprio gli uomini grandi, se, come dice il passo degli Sposi promessi, «un sì magnifico epiteto», grande, «potesse stare con un sì misero sostantivo», uomo. E v’adempie la storia, che per il Manzoni significa quel che «mondo» nei Vangeli. V’adempie con tanta saggezza, la saggezza del mondo; con tanto inflessibile logica, con quella, per esempio, del padre di Gertrude e di Gertrude stessa giù per i gradini della perdizione, che non occorre la presenza del maestro e principe, «Princeps huius mundi».

Tutto questo per dire, che, riducendo la poetica all’ideologia, estraendo da una tanto poetica realtà le astrazioni di principii sistematici, le formole di un sentimento avulse dalla forma piena e concreta e vivente e vocale, si ricaverebbe la teoria di un pessimismo singolarmente deserto e desolato, e, anche, filosoficamente, indigente e squallido; tanto che la maggior tristezza potrebbe scaturire dalla riflessione che possa aver ragione, al mondo, don Abbondio, col suo utilitaristico sistema dello «scansar tutti i contrasti». In fine, verrebbe fin il dubbio che l’ironia manzoniana possa sdrucciolare verso una professione di buonsenso: basterebbe non poi tanto di buonsenso, di moderazione, di prudenza, di sana ragione, per risparmiare tanti mali e tenere il mondo in carreggiata, e i galantuomini fuor dei guai. Ci vorrebbe tanto a don Gonzalo a far meno guerra «ai tetti di Casale» assediata, e a curarsi di più della carestia e della peste? Suppergiù quanto a don Rodrigo, secondo l’immortale soliloquio di don Abbondio sulla mula, l’astenersi dal «mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere». Vogliam dire, che lo sdrucciolo dal tragico e religioso pessimismo in uno scetticismo pratico, renderebbe questo un ben malinconico e inappagante esito di quello. E s’avrebbe gran torto, perché tale sdrucciolo avviene soltanto se si riduce il mondo poetico concreto del Manzoni in un sistema ideologico astratto e moralistico e pedagogico, e sopra tutto se non s’intende o non si accetta la verità dell’alta tragedia del suo spirito, che poteva vivere sua vera vita soltanto nel creare, proprio in quel creare, parola da lui tanto aborrita e condannata, che è della poesia. Appunto per questo vivere e poter vivere unicamente in poesia e di poesia, lo spirito del Manzoni, uno dei meno appagabili e meno disposti alla logica filosofica o all’abnegazione mistica, era necessitato a trovar la vita in quella che sola era sua: a poetare per non morire; e quanto l’avidità di vita del suo spirito era delle grandi, tanto delle grandi è la sua poesia.

S’è citato don Gonzalo, ed ecco Fausto Nicolini, in una delle sue revisioni critiche della storiografia, in quanto tale, del Manzoni, dimostrarci non soltanto che il don Gonzalo della storia fu tutt’altro da quel melanconico e testardo zimbello della disdetta e delle proprie ubbie, e delle invenzioni poetiche manzoniane, ma metterci in sospetto che una più oculata e critica indagine avrebbe potuto e dovuto illuminare il Manzoni stesso storiografo. E il sospetto si estende più o meno su tutti i punti toccati e trattati da lui come storico «ex professo».

Tralasciandone la più parte, ce n’è uno scabroso, benché di primo acchito poco appariscente. La monaca di Monza, quella storica, Virginia de Leyva, si sa che si convertì e fece penitenza, sì che «la sua vita», dice il Nostro, fu «un supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo». Con che, il Manzoni chiude la «trista storia», aprendo un quesito per noi.

Come gli vien fatto e si contenta di chiamar «trista» la «storia», nel punto in cui insomma essa registra il ritrovamento di quella fra le cento pecorelle, della quale il cielo sente gioia quanto di tutte le altre novantanove insieme? Gratuito, oltre che indiscreto sarebbe il dubbio d’un certo scandalo farisaico nell’animo del Manzoni; per altro, vien da chiedersi che bisogno ci fosse, nel capitolo XXXVII e penultimo, quando nessuno l’aspetta più, di richiamare la «storia» lacrimevole di Gertrude, con una notizia fredda, monca, sbrigativa, anche sintatticamente impacciata ed involuta; e che non riguarda la Gertrude poetica, ma la storica Virginia. Infatti un quasi scontroso rimando bibliografico, in nota, rimanda al cronista Ripamonti, non solo inutile nota, ma dannosa. Dannosa stilisticamente al fine poetico, mentre per la storia, chi non curi il Ripamonti, rimane stabilito che la monaca di Monza si sia data a una severa ma nient’altro che severa, e quasi sterile, mortificazione, anzi «supplizio»; laddove suor Virginia de Leyva venne in odor di santità ed ebbe grazie e lumi tali che il Cardinal Federigo preparò i documenti per un processo di beatificazione. Il Manzoni, se non tanto, poteva sapere abbastanza, dal Ripamonti stesso e dal fatto in sé di tanto pentimento d’una tanta peccatrice, per aprire l’animo a un senso di giubilo e carità, dopo essersi tanto e con tanta poesia costernato e impietosito delle sue sventure e dei suoi falli. Diremo, la poesia ha ceduto il luogo a una fredda citazione, per scrupolo e obbligo edificante; diremo, al poeta, non gli importava più; ma sarebbe dir poco e male. Come che si giustifichi il fatto, che magari non si giustifica per niente, il poeta aveva con tanta intensità ed altezza tragica esemplata e incarnata nella sua Gertrude, non nella storica Virginia de Leyva, la fatale e perditrice debolezza della passione, come dimostra l’analisi dello Zottoli, che non seppe, non ebbe forza di ammettere alla poetica creazione la penitente, la graziata, l’eroica, la risorta. Occorreva promuoverla tra i forti. E allora, veda, «chi volesse conoscere un po’ più in particolare questa trista storia», il Ripamonti. È sconcertante e scabroso, per il credente, per chi, al par del Manzoni, tale una storia di pentimento e di Grazia è tenuto a considerar sacra: per il critico letterario conferma che della Virginia de Leyva il poeta avrebbe fatto meglio a sbarazzarsene fin da principio della tragica «storia», senza preoccupanti residui storiografici e cronistici.

Come nel caso di don Gonzalo Hernandez de Cordoba, di fatto uomo di grande animo e di alte capacità militari e politiche, si potrebbe dubitare che la storia impacciasse il Manzoni, laddove è vero per contro che lo impacciava anche troppo poco, ch’egli non spingeva le sue indagini e la sua critica oltre e talvolta nemmen fino al sospetto che potessero intralciare, non che distruggere, l’invenzione fantastica, il creato poetico, e le tesi dell’ideologo anche.

Il poeta, in Manzoni, fa costante violenza allo storiografo; e laddove egli è poeta, ciò è parte essenziale della sua genialità di poeta; dove è moralista o storiografo, e, più e peggio, dov’è o vuole o s’illude d’essere e storiografo e moralista, è un limite, talvolta un difetto, a volte una stortura; sempre, mancanza di metodo critico. Il Nicolini, storiografo, n’ha data la dimostrazione tecnica. Mentre s’apriva l’età eroica delle grandi teorie e scoperte e del rinnovamento della filologia e delle scienze storiche, il Manzoni, aperto alle novità del romanticismo, ma letterario; il Manzoni, non ostante l’ammirazione per il Vico e l’amicizia per Fauriel e l’entusiasmo per Augustin Thierry, non ostante la vasta notizia di libri e fatti di coltura, ignaro per altro, o men che sbrigativamente sprezzante, della filsofia moderna; il Manzoni in tale un’età rimase informato ai concetti, sì della storia e sì della storiografia, propri del razionalismo illuministico, anche quando, e forse sopra tutto quando li accolse e li ripiegò sotto la tutela della dottrina cattolica. Né sembra che l’esser passato, poniamo, dal Cousin al Rosmini, sia stato un progresso della mente critica d’un Manzoni filosofante, con tutto che l’amicizia e il discepolato del milanese col roveretano abbiano costituito quel fatto intellettuale e religioso e umano di alta nobiltà nella storia della coltura italiana e manzoniana. Fatto sta che quell’assiduo e vasto lettore, quell’acerrimo, e anche sofistico e sottilizzante ragionatore, l’uomo di gusto finissimo e squisito, l’artista d’una tanta maestria artistica, non aveva mente critica originale ed autonoma. Ciò si vede pur bene nel discepolato, appunto, di lui sotto l’autorità del Rosmini, la quale, non senza sollievo dal timore di possibili dubbi e tormenti religiosi, fornendogli un’apologetica che gli parve infallibile ed aggiornata, sopraggiungeva, come una grazia, la parola è sua, a sollevarlo, a liberarlo dalla filosofia. Con tutto che, va ripetuto, quell’amicizia sia un nobile e umanissimo fatto, molto serio, e di profonda convinzione spirituale. In omaggio alla quale, il volume nostro accoglie la limpida scrittura, pur non originale, dell’Invenzione.

Ma, insomma, tenendoci a quel che gli ispirava e comandava il suo genio, quello libero, quello vero, quello davvero geniale, tanto comico nel pranzo al castello di don Rodrigo, tanto sarcastico nel ritratto del conte zio, tanto satirico nella figura di don Gonzalo, e temperato di tutte coteste qualità nel ritratto di don Ferrante; stando a questo suo tanto festoso e fertile genio, vediamo che le cose che lo fanno più ridere, più gaiamente e genialmente, sono la politica e la storia e il sapere e la scienza. E proprio in don Ferrante la malizia satirica si fa sopraffina, poiché, come ha notato il Croce, Manzoni mica lo fa spropositare, anzi, nel suo sistema d’aristotelico, lo fa ragionare bene e correttamente, e lo fa dotto e maestrevole in tutte quelle altre sue scienze, che hanno il torto d’essere state vive in altri tempi, e di riuscire risibili nel loro stesso linguaggio e titoli, ora che non lo sono più. Ma è una sorte che attende per il Manzoni le scienze, così come le politiche, e ogni filosofia, e ogni cosa mondana.

Lo stesso egli pensa dell’estetica, in cui sono caratteristici i suoi giudizi orali tanto avventati e indisciplinati, e solo in questo congruenti; lo stesso pensa della dialettica, dato che ogni questione, «al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, potrebbe durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non fa che replicare il suo proprio argomento», ove non fosse stanchezza dei disputanti; ove non fosse che le mode, anche del pensare, cambiano, come quelle del costume. Lo stesso, vorrebbe pensare, non che della storiografia, della storia, salvo che la religione ovviamente, e la coscienza, gli impongono di distinguere fra la storia, operato del Dio rivelato, e la storiografia, fallibile scienza umana. Di razionalità della storia, non è nemmeno il caso di parlare, nemmeno in senso teologale o finalistico. Essa è un assurdo e una prova, in cui Dio cela un fine, che a Lui solo appartiene.

Davanti al teologico problema del male, il Manzoni ha una posizione caratteristica, ancor più che di pietà, d’orrore; e per tutto quanto riguarda l’uomo e il mondo limitatamente, di disperazione.

Terminata la giovanile scalmana dell’ottimismo illuministico e «filosofico» settecentesco, se astraiamo dal poeta, scorgiamo una volontà multiforme e tenace, volontieri celata, colla sua disperazione umana e filosofica, sotto l’ironia, di evadere dal problema del male, o di porlo in quei termini ultimi, dove la soluzione, per lui, non è razionale, ma mistica e teologale: nella remissione, nell’«ignoramus», nel silenzio, nell’«adoremus» dell’atto di fede: «adorare e tacere», con le parole del maestro suo Rosmini.

Ma, prima, e lungamente, tenacemente, ingegnosamente, proprio il Manzoni storiografo, ancor più che il moralista, si travaglia a far quanto più larga ed insieme più futile può, la parte del mondo, dell’uomo, insomma della libertà del volere, nel male conseguibile dall’uomo. Futile, e futilmente iniqua.

Conseguente col suo principio morale, che il molto male del mondo venga dalla debolezza delle passioni subite, e il poco bene dalla forza d’animo e dal dovere ubbidito, attaccato a cotesto principio come ad un ideologico salvagente nel naufragio delle ideologie; sentendovi ancora, del resto, una coerenza e consonanza con la forma ed informazione mentale e morale razionalistica, il Manzoni si fa di tal principio un sillogismo, un sistema, con pertinacia loica e sottilizzante, normativa e giuridicizzante.

La disposizione, del tutto contraria ai principii metodologici, alla forma mentale, alla stessa scienza storiografica, la disposizione a spiegare i fatti con le leggi, anzi che queste con quelli ed in quelli, che regge il ragionamento del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, che influisce nelle «osservazioni comparative» fra La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, a traviare la storiografia fino ad una sorta di istruttoria e di requisitoria per violata procedura costituzionale a carico della rivoluzione e dei rivoluzionari francesi; cotesta disposizione, che gli fa accettare come certa e dimostrata, nelle Notizie storiche sul Carmagnola, un’innocenza del condottiere, la quale gli stessi testi dal Manzoni esaminati dimostrano per lo meno problematica; e che volge e governa a simil fine, a scoperta d’infrazioni alle leggi, tutto ciò ch’è propriamente e strettamente storiografico nel romanzo; cotesta disposizione si fa umana e dolorosa, e come tale ben grave, nel ragionamento sul processo degli untori, nella Storia della Colonna infame.

Dice l’Introduzione: «Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla». Illazione gravissima, ben angosciosa, che porta ad accusare o negare Dio, ove non si trovi o non si possa dimostrare che nel male fatto da uomini a uomini, le «vere ed efficienti cagioni» degli «atti iniqui» furono «passioni perverse», «malignità e furore», «menzogna, abuso del potere, violazion delle leggi e delle regole», «ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano», «un trasgredir le regole ammesse anche da loro»: e, «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa».

Ci guarderemo accuratamente da esaminare cotale illazione secondo teologia morale e teologia dogmatica; e anche da criticarla filosoficamente e storicamente. Stando stretti alla «poetica» del Manzoni, lirica negli Inni sacri e nei cori dell’Adelchi e nelle parole e pensieri di Adelchi stesso, quella illazione non ha luogo, perché «una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto: la man degli avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno Coltivata col sangue; e omai la terra Altra messe non dà». Da quando, se non dal Peccato originale; e fino a quando, se non al Giudizio finale? Risposta dottrinale e catechistica, a cui non certo negherebbe il suo assenso il Manzoni, salvo che a tal sentenza sulla storia, la «poetica» «sliricata» del romanzo aggiungerebbe che l’iniquità della storia è ben anche ridicola.

Né vogliam pure indagare che cosa produrrebbe quella illazione, ove non sempre, anzi, dove un caso solo d’iniquità e d’ingiustizia non potesse essere dimostrato e sentenziato quale prodotto da «quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere», ma da quella per cui Cristo in croce pregò: «Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt».

Tanto per non uscir dai termini, che cosa accadrebbe ove si dimostrasse che la pratica delle «unzioni», pur fatta di «certi ritrovati sciocchi non men che orribili», esisteva, magari sciocca, ma criminosa e sacrilega; che gli imputati n’erano colpevoli; che la procedura non fu violata, se nelle accuse di veneficio e sacrilegio e stregoneria, l’imputato era soggetto alla condizione legale di schiavo? Ma la dimostrazione è stata data.

Basta porre tali dubbi e lasciarli in forma dubitativa. Proprio spogliata e purgata d’ogni illazione e riferimento sì teologico che filosofico, e pure storico e storiografico, la Colonna infame, nella sua spoglia e terribilmente sobria qualità artistica e documentaria di un fatto orrendo, è una forte opera d’arte. Come tale vuol esser letta in questa scelta, e come potente testimonianza, a suo modo poetica, a suo modo lirica, e in quanto tale soltanto, delle gravi angoscie manzoniane, nobilissime e umanissime.

A questo punto ci corre l’obbligo di dichiarare che questa «introduzione» ha significato in quanto è la doverosa giustificazione della scelta e del criterio cui s’è informata e attenuta la scelta, conforme l’indole e l’assunto della collezione in cui il volume compare, e mentre d’altronde ancor si fa desiderare, e non è bello, un’edizione vera e propria di tutto Manzoni, organica e compiuta. Il quale tutto, superfluo a ridirsi, è da studiare e conoscere.

Scelta dunque dovendo essere, il criterio è stato di comprendere la miglior parte dell’artista, e tutto il poeta, con esclusione di quel che proprio poeticamente è fallito o impoetico, come il puerile Trionfo della Libertà, che interessa soltanto la preistoria critica del Nostro.

Così sono chiarite le omissioni, alcune delle quali vistose, e da molti, per diverse ed opposte ragioni, lo prevediamo, condannande. A noi importa e compete affermare che non involgono né dipendono da giudizio di valore, intorno al valore proprio delle opere escluse, ma puramente e semplicemente dal non ravvisarle appartenenti e pertinenti all’opera poetica, né conferenti alla cognizione estetica di essa in senso esplicito e stretto, per così dire, personale.

Sono le Osservazioni sulla morale cattolica, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, i saggi sulle due rivoluzioni, e Dell’indipendenza dell’Italia, e, con la Lettre à M. C.*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, tutto ciò che abbia od ambisca d’avere, negli scritti estetici romantici, più che un significato d’esperienza e personale. Lo stesso dicasi degli scritti sulla lingua italiana, fra cui sono stati esclusi quelli più filologici e linguistici, più teorici e pedagogici.

Dunque: nulla dell’apologeta religioso; e dello storiografo, del teorico estetico, del linguista, soltanto le opere più strettamente legate all’esperienza dell’artista e del poeta, le più autobiografiche e aderenti alla di lui autobiografia spirituale. Nulla delle cosiddette «testimonianze» epistolari e aneddotiche, le quali attendono pubblicazione compiuta e vagliata ed organica e critica, stabilendo preliminarmente quella distinzione, ch’è profonda e caratteristica, fra il Manzoni della poesia, e quello delle teorie, delle polemiche, delle arguzie, dei paradossi, e anche dell’ozio suo di poeta esaudito, e anche esaurito, quanto splendidamente! dal capolavoro.

Consequente, ed anche consequenziario, il Manzoni della «questione della lingua», mosso ed impulso, più che dalla «questione» e dalle discussioni, da una istanza imperiosa personalissima, vigorosamente confessata in quel passo, «E ci sarebbe forse da farvi più pietà ancora», dell’Appendice alla relazione sulla lingua, fu condotto a figurarsi che i suoi lessicali e linguistici tormenti, di lombardo francesizzato, e latinizzato, e, anche, italianizzato nei modi linguistici italiani classici, originassero da una carenza lessicale, da una mancanza d’esempio e di norma, sanabili con un lessico e una norma. I quali si persuade d’avere reperti in quell’uso fiorentino, nel quale, tanto per dire, il titolo stesso del romanzo suonerebbe ricercato, arcaizzante, appartenente alla lingua nobile, alla lingua scritta, alla lingua poetica: e altre, se ci son altri idoli mentali contro cui il Manzoni in proposito combatta, linguista, filologo, estetico, pedagogo.

Come tale, ad altri giudicarlo. Ma negli scritti sulla lingua, in quel che hanno di più personale e autobiografico, s’intende nella sua biografia spirituale, sembra che il giacobino e razionalista e radicale d’una volta, castigato dal pensiero e dalla coltura e dal confessionale e dal catechismo, insorga a rivalsa contro la lingua e tradizione e letteratura classiche d’Italia; a rivalsa, anche, di ciò che la sua adesione alla polemica e poetica romantiche ebbe di castigato e di moderato rispetto alla rivoluzione romantica. Castigatezza e moderazione certamente luminose e salutari, e a lui necessarie e naturali: in quanto gli pesarono, sfogò nella «questione della lingua», cogliendo l’occasione di fare gli sberleffi al «volgare illustre» del padre Dante, e finendo in molte freddure e affettazioni.

Ma, intanto, linguistica e pedagogia linguistica vere e proprie, e del tutto spiegate, sono posteriori e postume alla creazione poetica, che nessuno vorrà stentare a riconoscere piena e trionfante nella stesura dei Promessi sposi del ’27, rispetto alla quale la «risciacquatura dei panni in Arno» vale positivamente, e non proprio sempre, come lima linguistica, ma sopra tutto sintattica. E in fin dei conti non aggiunse e non aveva d’aggiungere nulla d’essenziale.

La ribellione, che fu di un temperato e moderato romantico in fatto di critica e di estetica, di un intemperante radicale in fatto di lingua, era prodotta da una necessità potentemente individuale di liberazione e di rinnovamento. Importava, con varie necessità anche polemiche e violente, dunque ribelli, la creazione di un suo linguaggio poetico. E accompagna la ricerca e il bisogno, la creazione di quel linguaggio: è essa stessa creativa. Solo dopo, diventerà quella pedagogia normativa, di cui s’è detto.

Che sia riuscita, la creazione, ci sta la lingua del romanzo, precisa, melodiosa, luminosa, splendida e frugale, raggiante di quieta potenza, tutta forza e salute estetica e linguistica. Ma l’ammirazione, ch’è pur pacata e contenta, quasi ovvia e naturale, si scalda e si esalta riflettendo e riconoscendo quanto sia, cotesta creazione d’una lingua tutta sua e tutta poetica, e d’una poesia così nitida di forma, pura d’espressione, tanto complessa di motivi originari; quanto sia stata prodotto individuale, originale, personale, di una rivoluzione e costruzione appunto originale, individuale. Fu violenza e potenza, in sé e negli effetti, spirituale, da segnare fra le più rare e geniali.

Ben più d’ogni teorica e polemica linguistica, n’è testimonianza parlante e tormentata e felice, l’opera nel suo sviluppo.

C’è un Manzoni classicista e classicheggiante, che nei versi dell’Adda, e In morte di Carlo Imbonati, e dell’Urania, ha perfezione di valori formali classici, secondo le esigenze e nella lingua della tradizione e della scuola letteraria classica italiana. Se al poeta non dovette presto più bastare cotesta poesia d’idillio e di sermone e di mitologia, al convertito che vi leggeva empietà ed errori religiosi e filosofici, le une e gli altri dovettero apparire la materia, la dannabile condizione di quella forma e perfezione. Quella nitida lingua era la lingua dell’empietà e della fatuità, senza dire, da storici della sua poesia, che questa n’era tanto assente, da far dedurre che proprio da quella perfezione e da quella lingua fosse esclusa, non vi potesse capire.

Negli Inni sacri, e nelle altre religiose, nel Cinque Maggio, nell’Adelchi, concetto e immagine ed espressione poetica non vengono a luce e vita dalla perfezione della lingua e della forma, anzi, come lavoro di scalpello e di sbalzo, sorgono faticosamente dal contrasto e dal tormento, da una forma di continuo raggiunta e ripersa, in travaglio perpetuo.

Negli Inni, insieme con l’immissione violenta di concetti e immagini biblici ed evangelici e teologici, c’è la costrizione rigida e ritrosa di una appassionata poesia, nei metri e ritmi e stile e lingua che tengono dello scolastico parenetico, innografico, didascalico. C’è l’impeto romantico affettivo, in una strofa arcadica; c’è concetto potente e nuovo, in espressione consueta e debole; c’è una poesia religiosa e una letteratura devota; c’è del forzato, dell’inadeguato, anche dell’improprio, della rudezza; e precisamente in ciò ch’è rude, dal contrasto e quasi dal vivo d’una doglia spirituale, sbalza, non si dirà il meglio, ma il più caratteristico dello stilo degli Inni, si scioglie e balza al canto e alla luce liberata della grande epica religiosa nella Pentecoste, nella lirica effusione del Natale del 1833, commovente pur nell’incompiutezza sigillata dalla nota in calce «cecidere manus»; mentre la poesia religiosa sorge al sublime del pianto, della pietà e del canto nella «morte d’Ermengarda», e con che lingua, con che stile!

Il contrasto si prosegue, o piuttosto si rinnova e riprende da capo, fecondamente, in tutto l’Adelchi. Ma a proposito delle due tragedie, come opere di teatro dialogiche e drammatiche, occorre riconoscere che quanto v’è di timidezza scolastica, di linguaggio nobile ed aulico, insomma manierato, concorre a farvi difettare la forza diretta, immediata, della passione e dei conflitti. Mentre le locuzioni tecniche e storiche, indispensabili in ogni opera drammatica o narrativa, riescono più archeologiche che vive, i personaggi, e specie il più poetico, Adelchi, tendono e esprimersi in parole meditate e definitorie, che li isolano in belli e bellissimi frammenti d’alta lirica morale, a scapito della forza drammatica. Il patetico della figura di Adelchi sovrasta e fa risaltare la minor forza del suo contrasto con Desiderio; il racconto del diacono Martino fa parere più deboli, e gran forza non hanno, l’ansia dei franchi di là dalle Alpi, la rotta dei longobardi alle Chiuse; così come la morte d’Ermengarda, drammaticamente un episodio, anzi un fuor d’opera, fa sbiadire il regio furore di Desiderio contro papa Adriano, la missione imperiale e sacra di Carlo, l’eroismo di Adelchi, grande, ma più elegiaco che drammatico. Gli elementi attivi e passionali, piuttosto che agenti, sono citati e narrati.

In ogni modo l’Adelchi, se non un capolavoro drammatico, è un grande lavoro poetico e letterario. Non diremo altrettanto del Conte di Carmagnola, dove l’arbitrio storiografico, di quell’innocenza del Carmagnola assunta e data sommariamente per certa, si traduce in una elusione della sostanza drammatica. Dovrebbe consistere e spiegarsi nel conflitto tra l’eroica innocenza e la iniquità della ragion di stato, fra un orgoglio marziale e una superbia politica: ma non è nemmeno chiaro se doge e senatori credano davvero a un tradimento vero o possibile del condottiere, e se non obbediscano invece a un ripicco dispettoso, e criminoso, per la liberazione dei prigionieri di Maclodio: che non sarebbe una forza che esige che tutto obbedisca alla sua autorità, ma una debolezza inquieta, tratta dall’incertezza al delitto. Ma anche come perfidi, i Signori veneziani sono sbiaditi, e il Carmagnola, troppo facilmente caduto nel tranello veneziano, è lontano da fronteggiarli con la forza dell’eroe e con gli accenti dell’innocente di fronte al trionfo dell’iniquo. Manca la sublimità tragica, e più che conflitti vi sono discussioni, così fra i soldati e fra i politici, come degli uni cogli altri. Ove si eccettui una generica ma sensibile simpatia romantica e patriottica del Manzoni per il carattere più militaresco e prode del condottiere, e l’espressione dolorosa del rimorso e dell’acquiescenza di Marco; ove sopra tutto si eccettui questa lontana prefigurazione dei ricatti cui soggiacciono l’immortale pauroso don Abbondio, e Gertrude la «sventurata» immortale, la tragedia è Tunica opera di quel rigorosissimo e lucido intelletto d’artista, che sia incongruente e insufficiente nell’impianto e nel concetto.

Confessando che, non fosse stato timore reverenziale, l’avremmo esclusa, ci sia lecita un’altra confessione. C’è stata in noi, quasi in un punto e giorno determinati, una sorta di illuminazione critica, quando, dopo molto travaglio nel proposito di affiancare ai capolavori manzoniani poetici, un’antologia del Manzoni teoreta, gnomico, critico, polemista, magari conversatore, dopo aver distinti e ordinati gli elementi del pensiero, della psicologia, delle letture, della religione, della filosofia, della coltura di lui, numerosi tanto e diversi, concludemmo che in parte, s’intende, sono elementi e premesse del poeta, ma che d’essi non piccola parte fu dal poeta respinta, rinunciata, rifiutata, sempre e in ogni caso ricreata «ex novo» nella poesia; quando ed in quanto non siano stati i lunghi e talvolta ozianti e divaganti paralipomeni di lui, pur pieni di tante ricusazioni e rinuncie anch’essi.

Ed ecco: dove l’animo suo religioso? Negli Inni sacri e nella poesia religiosa. Dove il politico e il patriota? Nel Marzo 1821. Dove il savio? Nelle sentenze incorporate viventi, nell’opera fantastica; e altrettanto dicasi del moralista. E dove lo storico, poiché, dopo che l’intelletto glien’ha negata la qualità, gode l’animo di riconoscergliela? Nel Cinque Maggio, che d’un fatto e individuo di storia com’è Napoleone, ha fatto, ha colto un ritratto, e storico e poetico, cattivante, potente anche nelle sprezzature e quasi incongruenze formali e logiche d’una fulminea e veramente ispirata ispirazione, davvero pindarica.

E dov’è, vorremmo dire, il linguista, teorico e artista in uno, fuorché in quel poeta che si creò, attraverso la fatica e l’industria e il travaglio degli Sposi promessi, la lingua dei Promessi sposi? Con quel mirabile orecchio per ogni timbro e colore e particolarità anche idiomatica e gergale, con quella facoltà di cavarne ogni più vario effetto, dai più risibili e caricaturali ai sublimi, con quella felicità e potenza di stile, con quella veramente poetica lingua!

Quanto alla scelta, se il valore, qual che sia, storiografico del Discorso sulla storia longobardica in Italia, non ci ha convinti ad accoglierlo, poiché l’impegno di dimostrare scientificamente una tesi non consente che lo si interpreti come un momento autobiografico ideale, prefigurante, nella tesi sui conquistati e i conquistatori, la poetica degli umili e potenti, per contro il saggio Del romanzo storico, e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, che per rigore logico non vale il Discorso, né, di gran lunga, per importanza, la Morale cattolica, e gli scritti romantici, pure è voluto entrare nel volume come testimonianza di quel carattere pertinace, strenuo, estremo, di contraddire, contrariare, quasi distruggere sé medesimo. Vi si aderisca o no, esso mostra che vaglio analitico era quello, infaticabile e insaziabile, di lui ragionatore. Simile quello dell’artista e del poeta; ma quante e preziose e luminose sintesi da questo, e non da quello, sono uscite!

A noi, rivolgendoci indietro a riguardare la scelta, ci appare che dia il corpo poetico dell’opera manzoniana, convenientemente contrappuntata, opera per opera, da quelle note di autobiografia intellettuale che ad ognuna più stringatamente si addicono. E vuol parerci che dalla stessa giustapposizione organica delle opere accolte e riunite in corpo, venga un rilievo, un’evidenza, una luce armoniosa, che certamente erano note a tutti, ma alle quali la scelta conferisce disposizione e proporzione di termini esatti.

La parte filologica, bibliografica ed erudita, nelle note introduttive ed in quelle esplicative, è lavoro particolare del dottor Guido Bézzola, il quale pertanto firma la «nota critica» sul testo. Con ciò egli per altro non intende di escludere o limitare la propria adesione al criterio informatore della scelta, alla quale ha partecipato con le attive discussioni sul lavoro.

Del che dandogli atto, lo ringrazio.

AVVERTIMENTO – Ai propri componimenti in versi il Manzoni non appose note, ad eccezione degli Inni sacri, ove si limitò però a riferimenti biblici, tutti riuniti alla fine degli inni stessi; le note che nel presente volume si leggono a piè dì pagina delle opere poetiche manzoniane sono quindi tutte nostre. Per le opere in prosa invece, taluna delle quali il Manzoni annotò, abbiamo racchiuso le nostre postille tra parentesi quadre, al fine di meglio distinguerle dalle note dell’autore.

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