MARSILI, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARSILI, Alessandro

Federica Favino

– Nacque a Siena il 26 dic. 1601 da Ippolito di Alessandro e da Faustina Bulgarini, primo di quattro figli (Alfonso, Cesare e Leonardo). La famiglia, originaria di Corsignano (poi Pienza), vantava illustri natali. Fin dal 1345 i Marsili detenevano la signoria del feudo di Collecchio, nella Maremma senese. Dal XIV secolo, inoltre, è attestata la presenza di membri della famiglia nelle file del ceto dirigente municipale.

Il M. compì gli studi universitari a Siena, dove ebbe per maestro Alcibiade Lucarino. Nel 1621 conseguì la laurea in utroque iure; nel 1623 si laureò anche in filosofia e nello stesso anno iniziò a insegnare logica nello Studio senese.

Della formazione universitaria resta testimonianza nei Theoremata ad doctrinam Aristotelis (Siena 1626), il rarissimo testo a stampa delle conclusioni filosofiche discusse pubblicamente dal M. in occasione del conseguimento del grado, stese sotto la guida di Paride Biringuccio, come lui membro dell’Accademia dei Filomati, e dedicate al cardinale Pietro Maria Borghese, allora vescovo della città. Si tratta di un sintetico compendio di filosofia, intesa come regno di assoluta libertà in cui l’uomo si emancipa dalle passioni dell’anima bestiale e dal carcere del corpo. L’esposizione segue la dottrina di Aristotele, accogliendo l’interpretazione proposta da Francesco Piccolomini, che il M. sceglie come guida anche per ragioni di conterraneità. Ne risulta un amalgama di Aristotele e Platone, in cui il cosmo è presentato secondo un ordine emanatistico e la filosofia è articolata in metafisica, fisica e matematica, non secondo l’oggetto – che è sempre la cosa, implicata o meno con la materia – ma secondo la particolare attitudine conoscitiva con la quale all’oggetto si guarda.

All’attività nelle magistrature cittadine, occupazione prediletta dagli uomini della sua famiglia, il M. preferì l’insegnamento universitario, meno remunerativo e prestigioso. Grazie all’appartenenza all’aristocrazia cittadina – che egli rinsaldò sposando entro il 1634 Margherita Bichi, sorella del cardinale Alessandro – la sua remunerazione fu buona. Dalla prima terziaria del 1626 alla seconda del 1628 fu lettore sulla cattedra di logica con lo stipendio iniziale di 874 scudi (674 ne percepiva il più noto e anziano Teofilo Gallaccini sulla cattedra di matematica); dall’autunno 1628 all’estate 1637 resse la cattedra straordinaria di filosofia con lo stipendio fisso di 1475 scudi, pari solo alla metà della cattedra di diritto civile.

Nel luglio-dicembre 1633 si colloca l’incontro del M. con Galileo Galilei, il quale scontava gli arresti domiciliari presso la residenza di Ascanio Piccolomini, arcivescovo di Siena. I due si intrattennero a lungo in conversazioni di fisica. Malgrado la divergenza di vedute, Galilei trasse un giudizio assai positivo sul M., considerandolo, come confidò a F. Micanzio, «nella scolastica dottrina non inferiore a qualsiasi de’ più celebri dell’età nostra, ma ben superiore a molti nella trattabilità ed inferiore a tutti nella petulanza e nella ostinazione» (Ed. nazionale delle opere di G. Galilei, XVI, p. 506). L’incontro fu assai fruttuoso per il M., il quale scriveva allo stesso Galilei «haver più imparato in pochi mesi dal mio Sig. Galileo, che non ho fatto poi in tutte le mie fatiche da altri, che non haverei maggior fortuna che poter più a longo haver campo di esserli ossequente discepolo» (ibid., p. 502). Negli anni successivi egli continuò infatti a interessarsi ai lavori di Galilei (nel 1639 chiese e ottenne una copia dei Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze), a perseguire gli insegnamenti ricevuti da lui (nell’autunno 1636 compiva osservazioni telescopiche sulla Luna in compagnia, forse, di Gallaccini), a professarsi ammiratore di Galilei oltre che seguace di molte sue opinioni. Per queste ragioni, nel marzo 1640 Galilei indicò a Leopoldo de’ Medici il M. come canale utile a ottenere l’assenso dei professori di Pisa sulla teoria del candore lunare opposta da Galilei al Litheosphorus, sive De lapide Bononiensi di Fortunio Liceti (Udine 1640).

Fu in virtù della stima maturata nei mesi trascorsi a Siena, ma anche delle forti protezioni delle quali il M. godeva – il cognato cardinale Alessandro Bichi, l’arcivescovo Piccolomini, Fabio Chigi (il futuro papa Alessandro VII), con il quale era imparentato per parte di madre – che Galilei si adoperò attivamente allo scopo di ottenere per il M. una cattedra più prestigiosa e remunerativa di quella senese. Nell’autunno 1636 egli raccomandò il M. all’auditore e al provveditore dello Studio di Pisa e perfino al granduca Ferdinando II, affinché gli fosse assegnata la cattedra di filosofia presso quell’ateneo, vacante per il trasferimento di Scipione Chiaramonti. Inoltre patrocinò la candidatura del M. per la medesima cattedra, vacante presso l’Università di Padova. Furono soprattutto preoccupazioni relative al suo status sociale a guidare le scelte del M.: assai tiepido di fronte alla proposta patavina, scomoda e lontana dalle protezioni granducali, negoziò con avvedutezza il trattamento economico che avrebbe ricevuto a Pisa. Nell’estate 1637 ricevette dal granduca la nomina con lo stipendio iniziale di 600 scudi l’anno. Alla fine di ottobre si trasferì a Pisa con la famiglia. Il 10 novembre tenne la prolusione inaugurale e il 12 iniziò le lezioni.

Resse la cattedra ordinaria di filosofia dal 1637-38 al 1662-63. Nulla è noto del suo insegnamento e delle «curiose lezioni» che tenne nel 1656 alla presenza, tra gli altri, di Cosimo Galilei. D’altra parte, malgrado il suo professo aristotelismo, non risulta alcun coinvolgimento del M. nel conflitto che a Pisa nel 1670 oppose i docenti di fede atomista che intendevano insegnare filosofia «a la galileista» e la gerarchia accademica più tradizionalista schierata dalla parte dei peripatetici G.A. Moniglia, L. Terenzi e G. Maffei.

Malgrado il trasferimento a Pisa, il M. rimase sempre in contatto con la sua città, dove risiedeva spesso, e con l’ambiente culturale senese. Fu membro delle principali accademie cittadine, dei Filomati e degli Intronati. Nel 1641, quando era già da alcuni anni lettore a Pisa, fu tra i membri delle conversazioni erudite – insieme con Pandolfo Spannocchi, Bartolomeo de’ Vecchi e Giulio Piccolomini – che intrattennero Lucas Holstein allorché questi dimorò a Siena per i suoi interessi di bibliofilo e bibliotecario.

Nel 1657 il M. fu invitato da Leopoldo de’ Medici a unirsi al gruppo della nascente Accademia del Cimento. La presenza di un peripatetico convinto, sebbene non ottuso, come il M., si spiega con il disegno perseguito di Leopoldo di conferire ai resoconti finali delle esperienze maggiore credibilità in ragione dell’approvazione di uomini di diverso orientamento. In effetti, insieme con Carlo Rinaldini, il M. vi svolse sempre la funzione di freno di fronte agli esperimenti i cui esiti apparivano più palesemente antiaristotelici, innescando arroventate polemiche sui principî di filosofia naturale con i meccanicisti, i quali mal tolleravano la sua presenza in Accademia. È quasi certo, infatti, che a lui si riferisse G.A. Borelli quando scriveva a Paolo Del Buono di un ambizioso accademico, il quale «essendo Peripatetico marcio e muffo, vuol comparire con una toga tolta in prestito di filosofo libero» (Targioni Tozzetti, II, p. 440), non facendo invece altro che ostacolare la ricerca collettiva in direzione di un’intepretazione geometrico-meccanica dei fenomeni naturali fondata su una concezione corpuscolare della materia.

Nel corso di queste dispute il M. e Rinaldini contestarono tanto l’esistenza del vuoto quanto della pressione atmosferica. Nell’estate 1657, il M. fu probabilmente tra gli accademici che suggerirono i due esperimenti ai quali si allude nel capitolo 31 dei Saggi di naturali esperienze dell’Accademia del Cimento (Firenze 1667).

Il primo esperimento, realizzato il 24 luglio e ripetuto il 4 agosto, consisteva nel coprire il dispositivo adoperato dagli accademici per sperimentare i fenomeni fisici nel vuoto (un cannello barometrico culminante in un vaso concavo coperto) con una campana di vetro sigillata al tavolo sottostante. Nel secondo esperimento (6 agosto), la pressione dell’aria sul mercurio stagnante era ridotta al minimo sigillando con del cemento l’imboccatura del tubo nel vaso sottostante. Si intendeva così provare il ruolo indifferente della pressione atmosferica nel mantenere in equilibrio il mercurio nel cannello, mostrando come questo rimanesse stabile anche dove l’aria ambiente avrebbe dovuto essere assai meno voluminosa e dunque assai meno pesante. I sostenitori della pressione risposero a queste obiezioni sperimentali spiegandole nei termini della loro stessa teoria. Secondo loro, infatti, la ragione per cui il mercurio veniva violentemente spinto e mantenuto all’altezza di 1 braccio e 1/4, non era il peso dell’aria superincombente ma, al contrario, la compressione prodotta da questo peso nell’aria esterna ai contenitori.

Sicuramente al M., invece, si deve l’ideazione di un esperimento volto a dimostrare che il tubo barometrico non rimaneva vuoto, come la maggioranza degli esperimenti accademici tendevano a rilevare, ma pieno delle esalazioni liberate dal mercurio sottostante, secondo una linea adottata allora anche dai gesuiti per negare la possibilità del vuoto in natura.

L’esperimento consisteva nel collocare una vescica intorno all’estremità libera del cannello barometrico. La vescica saldata al tubo veniva introdotta in un vaso di vetro di cui si sigillava l’imboccatura, mentre il vaso e il tubo venivano collegati da due tubicini a mo’ di maniglie, uno per lato. Quando erano pieni sia la vescica sia il tubo fino all’attaccatura delle «maniglie» laterali, il mercurio cominciava a fluire nel vaso attraverso le maniglie, fino a riempire completamente sia il vaso sia il tubo barometrico. Infine, otturando l’estremità del tubo e rivoltandolo nel catino, il vaso veniva capovolto e, insieme con la vescica, vuotato del mercurio – la vescica direttamente attraverso il tubo, il vaso attraverso le «maniglie» – fino al livello abituale di 1 braccio e 1/4. L’esperimento aveva lo scopo di rilevare eventuali rigonfiamenti della vescica, i quali, in tali circostanze, non potevano dipendere che dagli aliti insensibili di esalazioni tenuissime che si dovevano levare dalla colonna di mercurio. E tuttavia, nell’esecuzione dell’esperienza, la vescica rimaneva sgonfia, proprio come se fosse stata nel mezzo dell’aria aspirata.

L’esperimento fu realizzato una prima volta il 13 ag. 1660 e ancora il 21 agosto, con risultati incerti. Criticato sia da V. Viviani sia da Borelli, perché non teneva conto della permeabilità della vescica agli eventuali vapori di mercurio, l’esperimento fu escluso dalla pubblicazione nella versione definitiva dei Saggi accademici.

Nell’autunno-inverno 1657, nel corpo delle discussioni sollevate dagli esperimenti condotti sulla natura e gli effetti del raffreddamento e del riscaldamento, il partito Marsili - Rinaldini contrappose pervicacemente la teoria aristotelica del caldo e freddo come qualità alla spiegazione atomista e meccanicista proposta da Borelli. È difficile distinguere le responsabilità personali del M. nelle iniziative polemiche, assai veementi, di Rinaldini. È noto però che, nel gennaio 1658, egli collaborò a ideare l’esperimento – poi fallito – per provare l’esistenza e la proponibilità della «leggerezza positiva». Di certo il M. coadiuvò Rinaldini anche nell’attenta sorveglianza che questi esercitò sulla «neutralità» filosofica dei resoconti sperimentali consegnati ai Saggi di naturali esperienze dell’Accademia del Cimento.

Nell’estate del 1663, in virtù della stima accordatagli da Ferdinando II, alla morte di Giovan Battista Quadratesi al M. fu conferita la carica di priore della chiesa conventuale dell’Ordine di S. Stefano, carica che comprendeva quella di provveditore dello Studio generale. Già nel marzo 1652 e ancora nel 1657, del resto, egli era stato membro delle commissioni triumvirali di lettori anziani che avevano sostituito i provveditori assenti. Avendo abbracciato lo stato ecclesiastico una volta rimasto vedovo, in quanto «cavaliere sacerdote nobile» egli possedeva i requisiti per essere eletto alla carica. L’abito gli fu conferito il 13 sett. 1663, la nomina in novembre.

Il M. morì il 21 genn. 1670 a Siena, dove fu sepolto.

Con la moglie Margherita Bichi ebbe Leonardo, poi arcivescovo di Siena; Alfonso, cavaliere di S. Stefano e lettore di filosofia a Pisa; Giovanni, anch’egli cavaliere di S. Stefano e pensionario ecclesiastico anche per interessamento di Galilei; Filomena, sposata Petrucci; Faustina, sposata Corsini; Giulia e Laura, che andò sposa al docente di diritto civile Ludovico De’ Vecchi.

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