PIZZORNO, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani (2020)

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PIZZORNO, Alessandro

Gian Primo Cella

Nacque a Trieste il 13 luglio 1924, figlio di Giuseppe Pizzorno (di origine sarda) e di Maria Filiberta Colombini (di origine trentina). Il padre, militare di carriera, raggiunse il massimo grado dell’esercito italiano come capo di Stato maggiore nel 1952-54.

Seguendo gli spostamenti della famiglia, dovuti alla carriera militare del padre, trascorse gli anni dell’infanzia e i primi dell’adolescenza in diverse città, oltre a Trieste: Firenze, Modena, Torino, Padova. Alla fine degli anni Trenta, all’inizio dell’istruzione liceale, si trovò nelle colonie africane, dove il padre comandava reparti di truppe coloniali. Dall’inizio della guerra fino alla fine del 1945 visse all’Asmara, in Eritrea, dove frequentò il locale Liceo classico. Fu quello un periodo difficile in cui Pizzorno si trovò giovane e solo dopo che il padre, nel 1941, venne fatto prigioniero dall’esercito britannico (all’Amba Alagi), mentre la madre (allora in Italia per ragioni familiari) si trovò tagliata fuori dalle colonie per l’interruzione bellica di tutte le comunicazioni.

Quel lungo periodo fu molto importante per la sua formazione, come si può apprendere dai suoi numerosi scritti autobiografici. La riflessione e il ragionamento sulla propria vita, la riscoperta del proprio passato, furono una caratteristica costante, e non comune, dell’esperienza di Pizzorno, non solo per ragioni di introspezione, ma anche per le esigenze connesse al suo modo di concepire il rapporto tra filosofia e scienze sociali. L’oggetto della conoscenza non venne mai separato dalle trasformazioni del soggetto della conoscenza stessa. La stesura dei contributi autobiografici fu favorita dalla disponibilità di memorie diaristiche riferibili a molte fasi della sua vita.

Il Liceo a L'Asmara

Gli anni in Eritrea non furono solo quelli della formazione liceale, ma anche di scoperta della politica e delle prime forme di partecipazione all'organizzazione militare e ad altre iniziative di mobilitazione sociale. Il padre, fedele al re ma non al regime, si oppose alla formazione della milizia fascista e favorì l’ingresso del figlio in formazioni volontarie dell’esercito. In quei frangenti Pizzorno conobbe e frequentò Amedeo Guillet, una leggendaria figura di ufficiale, perfetto conoscitore dell’arabo, poi diplomatico italiano negli anni della Repubblica. In seguito, sotto l’occupazione britannica, si inserì in altre organizzazioni, anche per ragioni di sopravvivenza, fra cui una curiosa compagine per la lotta alle locuste dove, come 'Locust Officer', avvicinò le diverse popolazioni indigene. Fu il primo contatto con quella diversità, che divenne oggetto e ispirazione di molti contributi della sua ultima fase di ricerca. La formazione filosofica fu favorita da una straordinaria figura di insegnante, Gustavo Minella, che univa a grandi doti culturali la capacità di dialogo con gli studenti. Da questo insegnante apprese a leggere non solo Marx, Sorel, Freud, ma anche Sergio Corazzini e Karl Michelstädter. In quegli anni entrò in contatto con i gruppi di Giustizia e Libertà (attraverso la sede del Cairo) e sostenne la formazione di una sezione giovanile di un embrione di Comitato di liberazione nazionale (CNL) che si costituì all’Asmara dopo l’armistizio. Alla fine del 1945 riuscì a tornare in Italia con la prima nave in partenza da Massaua.

L’università, Vienna, Parigi

Tornato in Italia si iscrisse all’Università di Padova e poi, dopo il primo anno, seguì lo spostamento della famiglia e si trasferì all’Università di Torino per conseguire la laurea in filosofia. Discusse una tesi in estetica con un giovane e brillante professore, Luigi Pareyson, che ebbe poi negli anni successivi altri prestigiosi allievi (Umberto Eco fra questi). Il titolo della tesi, di non nascosta critica alla tradizione crociana, fu Il problema della comunicazione nelle poetiche contemporanee. La discussione della tesi fu molto animata e rappresentò una delle prime occasioni per esprimere quei fondamenti filosofici e conoscitivi che non lo abbandonarono mai nel corso della sua lunga esperienza di scienziato sociale. Nella tesi sostenne come fossero le esigenze di comunicazione con un uditorio, e le modalità di ricezione dello stesso, a spiegare la natura della produzione artistica, e non tanto le motivazioni o i sentimenti degli autori. Furono queste le origini filosofiche lontane delle riflessioni più recenti sul riconoscimento, come ammise lo stesso Pizzorno nel suo ultimo, e postumo, scritto autobiografico: «l’azione individuale può diventare un oggetto della spiegazione sociologica non attraverso la ricostruzione delle motivazioni che l’hanno ispirata, ma attraverso l’effetto che essa provoca sul suo pubblico [audience, NdA])» (2019, p. 466). Una visione (quella dell’ 'interesse' per il riconoscimento da parte degli altri) che gli permise anche di risolvere la contrapposizione fra interessi e solidarietà nel fondamento delle convivenze sociali che per molti anni caratterizzò le sue riflessioni di teoria sociale, comunque sempre lontane dalle impostazioni atomistiche o individualistiche.

Gli anni dell’università furono il tempo in cui si chiarirono le disposizioni di Pizzorno rivolte al coinvolgimento nell’attività propriamente politica, verso la quale mostrò subito grande attenzione, dopo il periodo di forzato isolamento nelle colonie africane. Manifestò una vicinanza al Partito d’Azione che non si tradusse in una vera e propria iscrizione, e che poi si consumò rapidamente per la dissoluzione dello stesso Partito. Da allora assunse, specie nel ventennio 1950-70, un atteggiamento verso la politica come 'intellettuale di sinistra' diffidente nei confronti delle ideologie, votato a sostenere il cambiamento economico-sociale richiesto dalla società industriale ma distante, e in taluni momenti aspramente critico, verso la cultura e la politica del Partito comunista italiano (PCI).

Dopo la laurea intraprese un periodo di formazione e di scoperte culturali a Vienna e a Parigi, una sorta di grand tour a direzione invertita, sud-nord. Si trattenne a Vienna per più di un anno svolgendo lavori per l’Istituto italiano di cultura, frequentando soprattutto gli ambienti artistico-letterari e stringendo rapporti con molti giovani intellettuali, fra i quali l’architetto Friedensreich Hundertwasser, uno degli anticipatori del movimento della bioarchitettura. Negli obiettivi del soggiorno ci fu quello di perfezionare il tedesco studiato al liceo, e appreso fin dall’infanzia con una governante tedesca. In quell’ambito ebbe un incarico di consulente editoriale per l'editore Einaudi con il compito di suggerire traduzioni di testi in lingua tedesca, fra i quali ebbe la ventura di consigliare, pur fra qualche incertezza, la versione italiana di Der Mann ohne Eigenschaften (L'uomo senza qualità) di Robert Musil.

Ma l'attrazione maggiore fu per Parigi e la cultura francese, dove Pizzorno riuscì, all’inizio degli anni Cinquanta, a ottenere il posto di lettore di italiano in due famosi licei del centro cittadino, l’Henry IV e il Louis le Grand. Si gettò nella vita culturale parigina con una grande passione per il teatro (Pirandello era allora molto rappresentato) e per la danza, ma percorrendo ancora le strade della formazione filosofica ed etno-antropologica. Fra gli incontri con importanti personalità ci fu quello con Maurice Merlau-Ponty, che gli propose di condurre sotto la sua guida una Thèse d’État sulla teoria dell’azione, anche per sviluppare i temi della laurea torinese. Progetto che poi non si realizzò.

Ma il vero passo decisivo dalla filosofia alla sociologia, con la mediazione dell'antropologia, fu l’ingresso in un gruppo di studio all’École pratique des hautes études guidato dallo psico-etnologo di origine ebreo-polacca Ignace Mayerson. Il gruppo fu un'esperienza di grande ed effervescente crescita intellettuale, non solo per la personalità della guida e per il valore dei giovani partecipanti (fra i quali il famoso storico dell’antichità classica Jean-Pierre Vernant) ma anche per le modalità di conduzione degli incontri, totalmente liberi e ben diversi dai rigidi seminari delle università italiane.

Fu in quell'atmosfera, tra le riflessioni etno-antropologiche dell’École pratique e le stagioni teatrali parigine con i drammi pirandelliani, che nacque l’ispirazione per la stesura, nel 1952 nelle sale del Musée de science de l’homme, del lungo saggio sulla maschera, un vero piccolo capolavoro che, pubblicato a Parigi su iniziativa di Edgar Morin in una versione parziale su una rivista teatrale nel 1960, venne riscoperto e pubblicato in Italia più di mezzo secolo dopo (2008). Uno scritto che ricevette, al ritorno in Italia, l’ammirazione di Bobi Bazlen, il famoso critico e consulente editoriale. Sul saggio e sull’esperienza parigina di quegli anni la sociologa Roberta Sassatelli condusse una lunga e vivace intervista a Pizzorno nel 2005 (ora in appendice al volume Il velo della diversità, 2007). Fu questo saggio giovanile che, partito dall’idea della maschera «che nasconde» per giungere alla conclusione sulla maschera «che  rappresenta» e che rivela ruoli e identità, a fondare molte delle intuizioni di Pizzorno su identità e riconoscimento, e sul conflitto tra 'foro interno' e 'foro esterno' delle persone, poi sviluppate nei decenni successivi (2019, p. 470).

Il lavoro all'Olivetti

Nel 1953 il periodo parigino volse al termine. Pizzorno in quegli anni sposò Anne Biron, una giovane ingegnere, da cui ebbe poi due figli, ma le esigenze di sopravvivenza, una volta terminati gli incarichi di lettore ai licei parigini, imposero un ritorno in Italia. In quel frangente accettò di recarsi, su suggerimento di un'amica degli anni universitari, a Ivrea per a un colloquio di assunzione all’Olivetti che, in quei primi anni Cinquanta forte dei successi imprenditoriali, si impegnava non solo nella costruzione di un nuovo modello di industria, ma anche in un'ampia rete di politiche culturali e urbanistiche, condotte e animate da un sorprendente gruppo di intellettuali, critici letterari, poeti, economisti, sociologi. Il colloquio con Adriano Olivetti ebbe luogo con successo nell’estate del 1953. Iniziò così un'esperienza triennale che ebbe una grande importanza per la formazione di Pizzorno e a cui dedicò il suo scritto autobiografico forse più bello (2000). In questo scritto giunse a definire quell'esperienza come la sua «seconda università»» e si comprese perché: l assunzione per i suoi meriti (anche letterari) e la collocazione come responsabile dell’Ufficio studi relazioni sociali; l’eccezionale rilievo dell’ambiente intellettuale in cui fu accolto (con figure come Geno Pampaloni,  Franco Fortini, Franco Momigliano, Roberto e Armanda Guiducci); la prima concreta occasione, dopo il rituale periodo di lavoro manuale in azienda, per procedere alla conduzione di ricerche sociologiche sul campo, sia nell’azienda sia nel territorio. I primi contatti con la ricerca avvennero su temi tipici di sociologia industriale, in particolare sul ruolo dei capi intermedi. In seguito il rifiuto di occuparsi del movimento Comunità, la creatura diretta di Adriano Olivetti, e la scelta di presentarsi nella lista della Cgil alle elezioni del Consiglio di gestione lo collocarono in una posizione difficile nell’azienda. L’ 'eccezionalismo olivettiano' e il suo 'strano illuminismo'  si potevano tradurre in forme nascoste o implicite di paternalismo. Pizzorno fu licenziato alla fine del 1956. L’esperienza finì, ma lasciò un segno profondo.

Le riviste di cultura politica

Il periodo olivettiano coincise con una fase di avvicinamento intenso ai temi della cultura politica, sia pure senza un ingresso esplicito in un partito della sinistra. Furono gli anni dello sviluppo economico e della diffusione dei consumi di massa, della entrata rapida della società italiana nei percorsi tipici della società industriale, in quegli assetti politico-economici che allora si cominciarono a definire con il termine evocativo di neo-capitalismo. Gli intellettuali olivettiani che Pizzorno continuò a frequentare strinsero subito rapporti e collaborazioni con gli intellettuali usciti dal PCI dopo la rivolta d’Ungheria (1956), da Antonio Giolitti a Fabrizio Onofri. La polemica con la politica culturale comunista, specie nella versione togliattiana della combinazione fra Croce e Gramsci, diventò aspra e Pizzorno non si risparmiò in interventi fortemente critici, talvolta con ricercate coloriture ironiche. Il gruppo si definì di 'sinistra critica', e si collocò alla sinistra del Partito socialista italiano (PSI), dentro e fuori il Partito stesso.

Verso la fine del 1955 il gruppo, specialmente per l’impegno dei due Guiducci e di Fortini, aveva dato vita alla rivista Ragionamenti. Pizzorno e Momigliano entrarono nella redazione dopo i primi numeri e subito si dedicarono a reagire contro il dogmatismo delle analisi marxiste dominanti nella cultura comunista, una cultura, fra l’altro, restia a misurarsi con gli apporti più rilevanti degli studi economico-sociali che si diffondevano sulla scena internazionale. La rivista destò nella sinistra, fra la sorpresa dei suoi redattori, un'attenzione che non si registrava dai tempi de Il Politecnico di Elio Vittorini. La rivista e le sue posizioni attrassero anche l’attenzione della sinistra non comunista francese, soprattutto per il tramite di Edgar Morin, espulso dal Partito comunista francese nel 1951, che propose un'iniziativa comune discussa con Pizzorno in un incontro al III Congresso mondiale di sociologia ad Amsterdam nell’estate del 1956. Nacque la rivista francese Arguments (un titolo diverso da quello italiano che suonava troppo simile alla rivista comunista Raison) alla quale Pizzorno subito collaborò.

In seguito il gruppo milanese di Ragionamenti  (Guiducci, Momigliano, Pizzorno) confluì nella nuova rivista Passato e Presente fondata da Antonio Giolitti e da altri intellettuali usciti dal PCI, come Luciano Cafagna, Alberto Caracciolo, Carlo Ripa di Meana. La rivista apparve per un triennio, ebbe un taglio meno eretico e polemico rispetto a Ragionamenti, si orientò verso una maggiore rispettabilità accademica, e iniziò a ospitare i primi risultati delle ricerche di scienze sociali. Il decennio degli anni Cinquanta si chiuse per Pizzorno con la partecipazione a un progetto dei sociologi francesi (fra cui Alain Touraine e Michel Crozier) sul tema Loisir et classes sociales pubblicato in un numero speciale dalla rivista Esprit (giugno 1959).

L’Università e le ricerche sociologiche

Il decennio degli anni Sessanta vide l’ingresso di Pizzorno nell’insegnamento universitario e l’inizio di una pratica sempre più intensa di ricerche sociologiche sul campo, che talvolta non si tradussero in vere e proprie pubblicazioni, secondo uno stile di incompiutezza che si ripresentò in molte fasi della sua vita. Fu il decennio più squisitamente 'sociologico' nella sua lunga esperienza di studio e ricerca. Entrò in ritardo nell’accademia, ma in compenso la sua fu una carriera anomala e rapidissima, caratterizzata nei decenni da tappe di indiscutibile prestigio. Una carriera cosmopolita, segnata dall’irrequietezza e dalla curiosità di scoperta. Non è un caso che il primo passo fu un incarico di sociologia all’Università di Teheran, un anno che fu speso anche per la conduzione di un'indagine sulla emergente realtà industriale iraniana. Nel frattempo, su invito di Norberto Bobbio, Pizzorno si presentò con successo alla commissione per la libera docenza in sociologia, a cui seguì il primo incarico nell’Università di Urbino, nella sede della nuova facoltà di economia ad Ancona. La carriera proseguì rapidamente e nel 1962-63 Pizzorno partecipò al primo concorso bandito per una cattedra in sociologia, dove venne ternato insieme a Franco Ferrarotti e Giovanni Sartori.

La competizione concorsuale era allora limitata, tipica della fase iniziale di affermazione di una disciplina nuova, almeno per gli ambienti accademici italiani, ma il riconoscimento proveniente da una commissione giudicatrice composta in prevalenza da filosofi ed economisti fu di certo significativo. La diffidenza verso la sociologia, per ragioni varie, era tuttavia persistente nell’università italiana e Pizzorno non riuscì a ottenere una posizione a Milano, la città dove allora risiedeva con la famiglia (la moglie Anne e i due figli, Silvia e Luca). Fu chiamato allora nella facoltà di economia di Ancona, la creatura di Giorgio Fuà che si avvalse non solo di economisti ma anche degli apporti di brillanti giovani studiosi nell’ambito delle discipline storico-sociali e giuridico-politiche.

Nell’Ateneo milanese giunse solo nel 1976-77, dove per un triennio diresse il Dipartimento di sociologia nella facoltà di scienze politiche. Nel frattempo, seguendo le sue propensioni errabonde, ottenne a Harvard una posizione di insegnamento annuale secondo il programma Lauro De Bosis. Era il 1968 e Pizzorno ebbe occasione di assistere e di partecipare, come professore amato e rispettato degli studenti, alle ribellioni (fra sanctuaries e sit-in) innescate dalla opposizione alla guerra in Vietnam ma orientate anche verso più ampi obiettivi ideologici. I dibattiti universitari, in quella fase di effervescenza collettiva, furono molto animati e Pizzorno si misurò con il realismo conservatore di George Homans e il moderato progressismo di Stanley Hoffman. Ma la qualità di 'sociologo dei due mondi' riservò altre sorprese, come quando all’inizio degli anni Settanta lasciò l’Università di Ancona per diventare Senior research fellow al Nuffield College di Oxford. Una posizione di prestigio indiscutibile, in una sede di grande confortevolezza, che lasciava molto tempo per lo studio e la ricerca ma che non destò, a eccezione del rapporto intenso con John Goldthorpe, molti stimoli intellettuali. Il formalismo dei verdi prati di Oxford non incontrò gradimento e partecipazione nell’irrequieto Pizzorno.

Per tutto il decennio e poi nei primi anni Settanta Pizzorno svolse, più di ogni altro sociologo italiano, un ruolo di osservatore critico della realtà italiana attraverso ricerche sul campo, senza sovraccarichi ideologici e abbandoni alla retorica. Fu uno sviluppo coerente, fondato su un approfondimento continuo delle scienze sociali, della posizione di 'sinistra critica' maturata nel decennio precedente. La ricerca iniziale più importante fu sicuramente l’indagine di comunità condotta in un Comune della cintura industriale milanese, Rescaldina, coinvolto in un rapido processo di industrializzazione attraverso la produzione tessile (in particolare della Bassetti SpA). La committenza della ricerca provenne dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale (CNPDS), il centro studi nato nell’ambito della magistratura che per merito del suo presidente e fondatore, Adolfo Beria d’Argentine, ebbe un ruolo fondamentale per l’affermazione delle scienze sociali italiane. La ricerca si collocò nell’ambito delle iniziative per il congresso su Il progresso tecnologico e la società italiana (che si tenne a Milano nell’estate del 1960). Fu una tipica ricerca di comunità, per la quale Pizzorno si ispirò alla famosa Yankee City indagata nei volumi del sociologo americano William Lloyd Warner, inserita in un insieme di indagini sociologiche caratterizzante allora la nascente sociologia italiana, costituendone forse il prodotto più rilevante. Fu, con il titolo Comunità e razionalizzazione, anche uno dei primi libri sociologici pubblicati (1960) dalla casa editrice Einaudi nella collana La nuova società. Nello stesso periodo, sempre su iniziativa del CNPDS, fu commissionata a Pizzorno una ricerca sui fattori e le condizioni dello sviluppo nella società israeliana. Pizzorno soggiornò in Israele ed ebbe la possibilità di studiare vari kibbutzim, rimanendo colpito dalle loro modalità di organizzazione sociale. In questo caso ne trasse un saggio che, fra qualche critica degli osservatori più di sinistra, venne pubblicato sulla rivista Passato e Presente (1959, n. 11-12). In quegli attivissimi anni condusse anche, commissionata dalla Svimez, in collaborazione con Salvatore Cafiero, una ricerca sui problemi dell’ 'industrial management' nelle zone di nuova industrializzazione del Mezzogiorno.

In quei primi anni Sessanta Pizzorno entrò a far parte del comitato scientifico dell’ILSES (Istituto lombardo di studi economico-sociali)diretto da Angelo Pagani, dove diresse un'importante ricerca sul decentramento amministrativo del Comune di Milano e sui temi connessi della partecipazione politica e associativa. La ricerca fu presentata al Comune in cinque volumi policopiati nell’ottobre del 1964, per opera di un vasto numero di sociologi, fra i quali Guido Martinotti, Massimo Paci, Vittorio Capecchi. Di questa ricerca non fu pubblicato molto, ma alcuni risultati e i lavori teorici preparatori comparvero in un fascicolo speciale dei Quaderni di sociologia (n. 3-4), la rivista fondata e diretta da Ferrarotti, nel quale il lungo saggio di Pizzorno Introduzione allo studio della partecipazione politica  (poi ripreso nel volume Le radici della politica assoluta, 1993) si qualificò come un classico incontestato degli studi politici italiani.

Fra ricerca e intervento riformatore si collocò l’incarico che Pizzorno ricevette dal governo per partecipare alla commissione destinata a proporre vie di soluzione ai problemi di ricostruzione dei centri travolti dal disastro della diga del Vajont (ottobre 1963).

La commissione, alla quale partecipavano l’architetto Giuseppe Samonà e l’economista Beniamino Andreatta, condusse un'indagine sul campo e concluse sostenendo (secondo l’opinione di Pizzorno e Andreatta) l’opportunità della ricostruzione nelle stesse località dei centri abitati prima del disastro. Una soluzione che, pur fra qualche resistenza, venne accettata dal Ministero.

Nel 1966-67 Pizzorno, su committenza della Regione Sardegna, diresse una ricerca sulla struttura del potere locale nella città di Sassari, una città che mostrò una rilevanza non comune nella politica italiana, avendo dato i natali, e le prime occasioni di protagonismo politico, a personalità di tutto rilievo nelle vicende del dopoguerra, da Antonio Segni a Francesco Cossiga a Enrico Berlinguer. Fra i collaboratori di questa ricerca, non pubblicata, si collocarono figure che nei decenni successivi raggiunsero come ministri i vertici dell'attività di governo, da Antonio Pisanu ad Arturo Parisi a Laura Balbo.

Negli anni successivi Pizzorno comprese l’importanza decisiva che assumevano le lotte sindacali, nel risorgere inatteso dei conflitti di classe sugli scenari europei. L’Italia con il grande ciclo di lotte 1968-72 costituì l’osservatorio privilegiato di questo risorgere e Pizzorno ottenne la committenza, dall’ISSOCO (Istituto per lo studio della società contemporanea) di Lelio Basso, con il contributo del Consiglio nazionale delle ricerche, per una ricerca sui conflitti sindacali a livello di fabbrica. Iniziò una ricerca su numerosi insediamenti industriali dell’area milanese, condotta da un gruppo di sociologi destinati a una brillante carriera, fra i quali Marino Regini, Emilio Reyneri, Ida Regalia. Questa volta, pur con qualche scetticismo da parte dello stesso Pizzorno, i risultati furono pubblicati in sei volumi dall’editore Il Mulino (1974-75).  Il volume conclusivo dovette aspettare ancora un triennio e apparve nel 1978, con il titolo Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia. Pizzorno non rinunciò a condurre un'indagine sull’insorgenza conflittuale nelle altre esperienze europee, e durante il periodo al Nuffield College ottenne dalla Ford Foundation un finanziamento per questo scopo. La ricerca, con la partecipazione di un'ampia schiera di affermati sociologi europei, fu coordinata con la collaborazione di Colin Crouch, e apparve in inglese (The Resurgence of class conflict in Western Europe since 1968, Londra 1978) e in Italiano nel 1977. Fu questa ricerca forse a qualificarsi come il più famoso, e citato, contributo di Pizzorno nel panorama internazionale, anche per gli apparati teorici utilizzati, dal concetto di scambio politico a quello di identità collettive. Ma importante fu anche per il collegamento che essa favorì con l’attività e le riflessioni dei trent’anni successivi, per alcuni aspetti caratterizzati da un ritorno alla dimensione filosofica del primo periodo della sua lunga esperienza di studio. Gli anni che furono caratterizzati dagli studi su razionalità e riconoscimento, a cui venne condotto, come lui stesso ammise in un successivo saggio chiarificatore (2000), percorrendo una curiosa «via sindacale». Attraverso la ricerca Pizzorno scoprì che le lotte potevano distinguersi in due tipi, le «lotte per il contratto» e le «lotte per il riconoscimento» (p. 200). Nel vortice conoscitivo che sempre lo caratterizzò, suggerì che la spiegazione delle prime poteva essere condotta risalendo fino a Hobbes, la seconda direttamente al riconoscimento di impronta hegeliana. Ecco come si presentò, nell’attività dello spiegare e nella ricerca dei suoi significati, quell’intreccio fra sociologia e filosofia che fino da allora si qualificò come uno degli aspetti più significativi dell’opera di Pizzorno.

Inoltre, partendo dai risultati delle ricerche e dalle vicende del sistema politico italiano, dagli anni Settanta in avanti per almeno un ventennio, Pizzorno non disdegnò una rilevante (forse sottovalutata dai sociologi) attività giornalistica, pubblicando articoli sui principali quotidiani e settimanali, da La Stampa a la Repubblica a L’Espresso fino a Panorama.  Articoli che furono un segno del costante interesse per la realtà italiana, alimentato anche dalle riflessioni e dalle indagini su temi come la mafia, la corruzione politica, la riforma della magistratura.

La teoria sociale e politica

La costante attenzione per la realtà sociale e politica, e il dovere di rispondere alle 'sorprese' suscitate dalle trasformazioni di questa stessa realtà e di controbattere alle interpretazioni correnti, non impedirono a Pizzorno di dedicare una continua riflessione ai contributi teorici classici. Numerosi sono i saggi che dedicò, specie negli anni Sessanta e Settanta e poi nell’ultimo periodo della sua vita, ai grandi della teoria sociale e politica, da Émile Durkheim a Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca per risalire poi fino a Thomas Hobbes. Forse il contributo più rilevante fu quello dedicato a Pareto nella Storia delle idee politiche economiche sociali diretta da Luigi Firpo (1972), un autore per il quale mostrò una singolare attrazione, pari a quella, più scontata, per Durkheim. Ma non furono tanto contributi di storia del pensiero, quanto sforzi di utilizzazione teorica di quel pensiero. Come scrisse in uno dei contributi dedicati a Hobbes (2013), per lo studio dei classici non seguiva tanto una «lettura di tipo contestuale», rivolta a ricostruire il contesto nel quale le opere furono scritte, quanto una «lettura di tipo riteorizzante» (p. 17) orientata a una scoperta degli argomenti teorici seguiti dagli autori studiati, per un loro impiego nel dibattito teorico contemporaneo o, ancor di più, come fondamento o ispirazione degli sforzi analitici sulla realtà. Una riprova di questo secondo tipo di lettura fu seguita nella prefazione, con ampi riferimenti hobbesiani, alla traduzione italiana (2017) del famoso testo di Hanna Pitkin The concept of representation (1967). È l’ultimo scritto pubblicato di Alessandro Pizzorno.

Harvard e l'Istituto universitario europeo

La terza fase della vita di Pizzorno fu più tranquilla e ricostruibile. L’impegno nelle ricerche sul terreno si concluse. L’attenzione e la riflessione si concentrarono sui temi della razionalità, dell’identità, del riconoscimento, sempre accompagnati da riflessioni sui significati soggettivi e oggettivi dell’attività dello spiegare. Temi che resero possibile apprezzare l’insieme delle critiche condotte da Pizzorno nei confronti delle varie versioni dell’individualismo metodologico, attraverso una riscoperta progressiva dei significati della socialità (la simmeliana Vergesellschaftung). Gli scritti, come sempre sparsi in varie sedi, furono raccolti, in parte rivisti e arricchiti da nuove introduzioni, in due volumi distanziati da quasi un quindicennio, Le radici della politica assoluta (1993) e Il velo della diversità  (2007).

L’irrequieta mobilità accademica comunque non venne meno. Alla fine degli anni Settanta lasciò l’Università di Milano per una chiamata come full professor alla Harvard University, dove strinse un forte legame con Daniel Bell, un prestigioso intellettuale ritenuto un poco eccentrico dalla maggioranza della comunità sociologica americana. Gli impegni didattici si presentarono gravosi e i rapporti con i colleghi del Dipartimento, divisi dalla separazione canonica fra 'quantitativi' e 'teorici storico-sociali', furono spesso conflittuali. Inoltre, negli anni bostoniani, Pizzorno (dopo la scomparsa della prima moglie) si risposò con una giovane studiosa di letterature comparate, Patrizia Grimaldi, dalla quale ebbe un figlio, Eugenio, nel 1984. Sono questi alcuni dei motivi che spinsero Pizzorno a una scelta di certo non scontata, ovvero quella di lasciare Harvard e tornare in Italia accettando, su suggerimento di Philippe Schmitter, una posizione all’European University Institute (EUI), dove giunse nel 1986-87. Era una posizione dedicata ai soli studenti di dottorato, che gli permise ampi spazi di tempo da dedicare agli studi e alle riflessioni teoriche. Un cambiamento che si concretizzò anche con l’acquisto di un casale in campagna sulle colline a nord di Firenze (Casa Nuova - Le Palaie), che doveva diventare non solo la residenza famigliare ma anche un luogo di incontro e discussione con amici e colleghi, le relazioni che Pizzorno più di altre amava. Un rilevante progetto collettivo lo vide all’opera nel coordinamento di un volume degli Annali Feltrinelli (2010) dedicato alle difficoltà della politica moderna, con il titolo La democrazia di fronte allo stato. Alcuni dei temi di questo volume furono esposti in uno sferzante articolo apparso sulla rivista Il Mulino (2012, n. 2) con l’eloquente titolo In nome del popolo sovrano. Pizzorno non risparmiò nulla agli studiosi e ai politici italiani, almeno a quelli disponibili ad ascoltarlo. Gli ultimi anni come professore emerito dell’EUI lo videro ancora dedicato allo studio e ai colloqui con i suoi studenti, che spesso incontrava alla mensa dell’Istituto.

Dopo una lunga malattia si spense nella sua casa il 3 aprile 2019.

Fonti e Bibliografia

L’archivio personale di Pizzorno non è ancora ordinato, ma è ricco di documenti e manoscritti su cui si sono fondate le opere di natura autobiografica: Seconda università o primi passi nella realtà?, in Identità, riconoscimento, scambio, a cura di D. della Porta - M. Greco - A. Szakolczai, Roma-Bari 2000, pp. 246-298; Amici, riviste, idee negli anni del disgelo e del consumo, in L’ospite ingrato, II (1999), pp. 33-64; Tra accademia e movimento negli anni sessanta (Amarcord la sociologia), in L. Balbo et al., Il piacere della sociologia, a cura di R. Siebert, Soveria Mannelli 1998, pp. 15-42; Autobiography of an Italian sociologist, in Rassegna italiana di sociologia, LX (2019), n. 3, pp. 455-501. Oltre alle opere citate nel testo, si riprendono qui, nella vasta opera di Pizzorno, i contributi più significativi apparsi in volume, in lingua italiana: Comunità e razionalizzazione, Torino 1960; Sviluppo industriale e imprenditori locali, Milano, 1962 (con S.Cafiero); Sistema sociale e classe politica e Il pensiero sociologico, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, VI, Torino 1972, pp. 13-68, 609-664; Conflitti in Europa, Milano 1977 (opera curata con C. Crouch); Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna 1978 (con E. Reyneri -  M. Regini - I. Regalia); I soggetti del pluralismo, Bologna 1980; Le radici della politica assoluta, Milano 1993; Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Roma-Bari 1998; Risposte e proposte, in Identità, riconoscimento, scambio…cit., pp. 197-245; Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Milano 2007; Sulla maschera, Bologna 2008; La democrazia di fronte allo stato, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a cura di A. Pizzorno, XLIV (2010); Hobbes: dalla rappresentanza allo stato, in Lavoro, mercato, istituzioni,  a cura di L. Bordogna - R. Pedersini - G. Provasi, Milano 2013, pp. 17-35.

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