Alighieri

Enciclopedia Dantesca (1970)

Alighieri (Alaghieri)

Arnaldo D'addario

Delle origini della sua famiglia parla più volte (If XV 73-78, Pd XV 91-96, 130-148, XVI 1-9, 34-35) lo stesso D. per bocca di Brunetto Latini e di Cacciaguida. Con le parole di Brunetto intende riferirsi a ideali scaturigini romane dei suoi avi, la pianta... / in cui riviva la sementa santa / di que' Roman, in consonanza con le ambizioni di tutta la città. Origini che D. presenta come storicamente illustri, confermate dalla nobiltà personale di Cacciaguida, armato cavaliere dall'imperatore e caduto per la Fede, probabilmente consanguineo dei potenti e antichi Elisei, certamente loro vicino, per esser nato nelle case poste presso il Mercato Vecchio, nel nucleo della città romana. Il Boccaccio, preso dalla sua viva ammirazione per l'Alighieri, non esita a far discendere Cacciaguida dagli Elisei, venuti a Firenze con i ricostruttori della città, a loro volta derivati dai Frangipani di Roma. Tesi fantastica, questa, quantunque rispondente all'ideale di originaria nobiltà quirite che la cronistica fiorentina, la poesia, la tradizione popolare riecheggiata dallo stesso D. (Pd XV 124-126) mantenevano viva fra i cittadini, ma che il Bruni - il quale conobbe documenti oggi perduti - respinge, concedendo solo che gli A. fossero esistiti prima degli Elisei. Nell'antica storia cittadina, del resto, gli antenati di D. non sono mai ricordati fra i protagonisti; la loro condizione economica e sociale, come appare dai documenti a noi noti, non autorizza ad accettare criticamente la visione ideale prospettata dalla Commedia e accolta dal Boccaccio.

I documenti sicuramente assegnabili agli A. (Piattoli, Codice, con successive integrazioni) parlano di Cacciaguida solo indirettamente, ricordandolo come il padre ormai defunto di Preitenitto e di Alaghieri, i primi personaggi della famiglia che appaiano (9 dicembre 1189) nella concreta realtà dei loro interessi economici e delle loro azioni giuridiche. In un altro documento fiorentino del 28 aprile 1131 (Davidsohn, Storia I 651) un Cacciaguida è citato, insieme a suo padre Adamo, come testimone in un atto di concessione livellaria fatta in località prossima alla chiesa di San Martino del Vescovo, la stessa presso la quale, nel testamento del 1189, si dicono ubicate le case di Preitenitto e di Alaghiero. Tuttavia, mentre alcuni dantisti come il Barbi e lo Zingarelli hanno ricononosciuto in questo Cacciaguida il trisavolo di D., il Piattoli non accoglie il documento in questione fra quelli del suo Codice. Il Bruni scrive che Cacciaguida era nato e aveva abitato con i fratelli quasi " in sul canto di Porta San Piero, dove prima s'entra da Mercato Vecchio ", nelle case che ancora nel secolo XV erano dette degli Elisei " perché a loro rimase l'antichità ". Egli lasciò la dimora dei suoi maggiori quando si sposò e venne a stare presso la chiesa di San Martino, " in sulla piazza " - dice ancora il Bruni - " dietro San Martino, dirimpetto alla via che va a casa Sacchetti e dall'altra parte si stende verso le case de' Donati e de' Giuochi ", nelle case che furono poi di " quelli di messer Cacciaguida, detti Aldighieri ".

Solo D. ci dà notizia (Pd XV 136) dei due fratelli di Cacciaguida, Moronto ed Eliseo. In quest'ultimo, ma con argomentazioni di incerta consistenza, si è cercato di vedere la linea di unione fra gli A. e gli Elisei, per avvalorare la tesi dell'origine quirite degli antenati di D., magari forzando l'interpretazione del verso dantesco, quasi che Cacciaguida avesse voluto dire che Moronto, suo fratello, aveva conservato l'originario cognome della sua schiatta, mentre lui, sposando la donna... di val di Pado, aveva assunto il nuovo sopranome di Alighieri. In Eliseo, più verosimilmente, si può riconoscere il capostipite di un ramo minore della prosapia di D., che il Villani annovera fra i " grandi ", e che ebbe case e torri in via degli Speziali e possessi terrieri in val Rubbiana. Un suo discendente; Arrigo di un altro Eliseo, figura insieme ai figli Bonaccorso ed Eliseo fra gli sbanditi ghibellini del 1268, ai quali non fu più concesso il ritorno in patria. Nel 1280, invece, risultano tornati Guidotto e Bonaccorso figli di Eliseo; questo Bonaccorso sposò una Ravenna di Catello de' Nerli e morì nel 1303. I suoi figli, Iacopo e Leonardo, sono anch'essi citati in diversi documenti; si sa, anzi, che il secondo sposò una Ademari, fece testamento nel 1372 e lasciò due eredi, Bonaccorso ed Eliseo. A loro volta, morendo circa l'anno 1400 senza prole, essi lasciarono erede l'ospedale di Santa Maria Nuova.

Le fonti cronistiche e archivistiche non ci dicono nulla a riguardo di Moronto; ma forse ebbe anch'egli una discendenza, se possono ricondursi a lui - come afferma il Passerini - i " filii et nepotes Morunci de Arcu " citati nelle carte della badia fiorentina.

Cacciaguida, secondo il calcolo delle rivoluzioni di Marte (Pd XVI 34-49; v. il conteggio fatto dallo Zingarelli), nacque fra il 1099 e il 1101, fu armato cavaliere da Corrado III di Hoenstaufen, e lo seguì nella seconda crociata - ma è conclusione controversa - insieme a molti personaggi venuti da ogni parte della penisola e a Fiorentini come Pazzino de' Pazzi, il cardinale Guido di San Crisogono, il conte Guido Guerra seniore (Pd XVI 139-144). Morì in battaglia in Terrasanta (Pd XV 145-148), aureolato del martirio per la fede di Cristo, che era motivo religioso di esaltazione della sua personalità accanto a quello terreno della dignità cavalleresca conferitagli dall'imperatore.

Il matrimonio di Cacciaguida con la donna... di val di Pado fu alle origini della distinzione fra la cognazione della stirpe di D. e gli altri rami della famiglia (Pd XV 92), perché alla sposa piacque - come scrive il Boccaccio - " in uno [dei figli], siccome le donne sogliono esser vaghe di fare ... di rinovare il nome de' suoi passati e nominollo Aldighieri ".

Questa circostanza ha indotto gli eruditi e i moderni studiosi di cose dantesche a prendere in esame le diverse casate ‛ de Adegheriis ' o degli ‛ Aldighieri ' esistite in Ferrara, a Parma, a Bologna, a Verona, alle quali potrebbe essere appartenuta la trisavola di D.: ricerca, questa, resa difficile dalla genericità del termine geografico val di Pado usato per indicare la località da cui essa proveniva.

Ai bolognesi ‛ de Adigheriis ' pensò Iacopo della Lana, e per Bologna indurrebbe a concludere la considerazione dei rapporti intercorsi alla fine del Duecento fra i parenti di D. e un Aldighiero da Sala, studiati dal Livi. Ai ferraresi ‛ Aldighieri ' si riferirono già l'Ottimo, il Boccaccio e il Bruni, intendendo in senso più ristretto l'ambito geografico sottinteso nelle parole di D., come se egli avesse voluto indicare le valli della foce del Po, ove è situata Ferrara (v. gli studi del Cittadella - che individua in un Aldighiero degli Aldighieri di Ferrara, vivente nel 1083, il suocero di Cacciaguida - e del Catalano; ma anche le riserve del Barbi in proposito). Altri dantisti, con argomenti meno validi, pensano a famiglie parmensi e veronesi.

Il problema è connesso con l'altro della forma del cognome di D.: lo Zingarelli ne ha riconsiderato sistematicamente i termini esaminando dal punto di vista storico e linguistico le origini e lo svolgimento di ciascuna delle nove forme desunte dai documenti e dalla tradizione dei manoscritti danteschi (Alagheri - Alaghieri - Alageri - Aleghieri - Alighieri - Allaghieri - Alleghieri - Allighieri - Adegherii - Aldighieri - Aldigherri) e arrivando alla conclusione che il cognome con il quale D. volle farsi chiamare e si presentò è quello di ‛ Alaghieri ' (Alagerius, Alagherius), attestato da numerosi documenti autentici (v. Codice, cit.), mentre la forma oggi usata apparve più tardi, nel testamento della suocera di D. (1315; Codice 113), appartenendo piuttosto all'uso della parlata comune. Esso trionfò sulle altre forme perché fu divulgato dal Boccaccio. Non è certo vera - ma le prestò fede il Carducci - l'ipotesi di un'etimologia germanica, che trarrebbe con sé l'altra, di un'ascendenza tedesca o longobarda della stirpe del poeta.

La questione del cognome e i problemi connessi con la storia genealogica della famiglia di D. sono resi più complessi dal fatto che in Firenze si trovavano, contemporaneamente a quella del poeta, altre casate dal cognome quasi simile. Il Barbi ha studiato accuratamente la genealogia di certi Aldighieri abitanti nel popolo di San Remigio, nel sesto di San Piero Scheraggio, famiglia dalle tendenze politiche ghibelline, e ne ha potuto seguire le ramificazioni a Pistoia, a Pisa e nel contado fiorentino. Proprio nel sesto di Porta San Piero avevano case altri Alighieri, detti " del Bargese "; e ancora una terza famiglia dello stesso cognome dimorava nel popolo di Santa Maria in Campidoglio, nel sesto di Porta del Duomo.

Dei figli di Cacciaguida, Preitenitto (v.) è ricordato solo in un documento del 9 dicembre 1189 (Codice 1); il Passerini e lo Scartazzini gli attribuiscono un figlio, Bonareddita, citato come teste in un atto del 1215; ma il Piattoli non accoglie il documento nel suo Codice e ciò rende molto dubbia l'ipotesi dei due dantisti suddetti. Alaghiero, invece, è citato come testimone - insieme a un figlio del quale, però, manca il nome nel testo - ancora in una quietanza rilasciata nel 1201 da un Iacopo di Rosa al podestà di Firenze e a due consiglieri agenti in suo nome (Codice 2). Si imparentò con alcune delle maggiori consorterie fiorentine sposando una figlia di Bellincione Berti de' Ravignani, sorella della Gualdrada che nel 1180 andò sposa in seconde nozze al conte Guido Guerra IV, e di altre due giovani, entrate per matrimonio fra gli Adimari e i Donati. Non a caso, un figlio di Alaghiero e un figlio di Ubertino Donati furono chiamati Bellincione dal nome dell'avo, e un altro Bellincione si trova in casa Adimari nello stesso periodo di tempo. La notizia di questa parentela ragguardevole è dovuta a Pietro, il quale la dà nel commento alle parole dette da Cacciaguida a proposito delle più antiche famiglie di Firenze e, in particolare, degli ascendenti del conte Guido Guerra IV e degli altri personaggi che avevano derivato il nome dal vecchio Bellincione de' Ravignani (Pd XVI 94-99) .

Oltre a Bellincione, Alaghiero ebbe un altro figlio, Bello (accorciativo di Gabriello), dal quale trasse origine un ramo degli A. parallelo a quello al quale appartenne D., e che da lui fu detto " del Bello degli Alaghieri ". Solo il Passerini, ma con argomenti poco probanti, attribuisce ad Alighiero un terzo figlio, Salvi (o Consalvo), che avrebbe avuto, tuttavia, breve discendenza.

Sia Bello che i suoi figli e nipoti sono citati nel Codice. Egli fu tra gli Anziani del comune nel 1255, e figura tra gli esuli guelfi dopo Montaperti, insieme a suo fratello. Anche suo figlio Geri fu coinvolto nelle lotte politiche cittadine e parteggiò, come tutti gli A., fra i guelfi; e le sue case furono danneggiate dagli avversari. D. ne ricorda (If XXIX 18-36) la morte violenta.

Poco si sa del secondo figlio di Bello, Gualfreduccio, che appare solo in un giuramento prestato nel 1237 ai consoli dell'Arte di Calimala, mentre è meglio documentata la biografia del fratello Uguccione (detto Cione), che fu membro del consiglio del Capitano nel 1283 e morì avanti il maggio 1306, quando ne sono ricordati già gli eredi. Dei figli di Cione conosciamo una Simona (v.), che dopo la morte del padre andò a stare (fra il 1306 e il 1310) a Bologna, e, infine, quel Lapo (v.) al quale si attribuisce la vendetta della morte di Geri. Da questo Lapo, che fu bandito da Firenze nel 1295 e servì come mercenario al soldo di alcuni comuni dell'Italia settentrionale, si è detto che nascessero quattro figli maschi (Pepo, Guglielmo, Bindo e Manno), ma di essi, tuttavia, nulla ci dicono i documenti.

Quarto figlio di Bello fu un Lapo, che morì in Firenze avanti il 1276 e fu a sua volta padre di un Bellino, dal quale derivò un altro ramo degli A. fiorito in Bologna nel Trecento. Bellino dimorò in Firenze fino al 1288, poi si trasferì a Ferrara (dal 1289) e quindi a Bologna (dal 1295), ove sposò una Guccia di Guccio del Monte San Savino, e morì nel 1299. La biografia dei suoi sei figli (Francesco, Giovanna, Margherita, Isabetta, Francesca e Simona) ci è nota negli aspetti essenziali dai documenti compresi nel Codice. Dell'unico maschio, Francesco, non ci è nota la discendenza, se mai egli ne abbia avuta.

Il ramo al quale appartenne D. deriva dall'altro figlio di Alaghiero, Bellincione. Questi fu vivacemente impegnato nella lotta politica cittadina. Guelfo al pari del fratello, fu esiliato dal 1248 al 1251 e ancora dal 1260 al 1267; dopo il primo ritorno in patria, fece parte nel 1251 del consiglio che approvò la stipulazione della lega tra Firenze, Lucca e Genova. Morì, probabilmente, nel 1269. Si occupò attivamente di affari, insieme ai sei figli Alaghiero, Brunetto, Drudolo, Bello (o Belluzzo), Gherardo e Donato, e suo maggior teatro di operazione fu Prato. Tra i suoi figli, tutti impegnati nell'attività paterna, Brunetto sembra sia stato il più attivo, specialmente in Prato, ove tra il 1246 e il 1275 - insieme al padre e ai fratelli, oppure da solo - lo troviamo testimone e garante alla concessione di mutui, e anche prestatore egli stesso. Da lui nacque un altro Uguccione (detto Cione, v.), che in un documento del 1322 è ricordato come " lanaiolo ", e compare in tal veste ancora in altri atti; sposò una monna Tessa e ne ebbe tre figli.

I pochi documenti che riguardano questi prossimi parenti di D. li mostrano anch'essi interessati nella vicenda quotidiana degli affari domestici, magari in contrasto fra loro per beni di non grande valore venale.

Alle condizioni sociali ed economiche relativamente mediocri dei suoi familiari corrispondono quelle personali del padre di D., Alaghiero di Bellincione. Anch'egli fu, come il fratello Gherardo, un " campsor ", o, comunque, impegnò le disponibilità finanziarie del suo patrimonio in prestiti di non grande entità e in affari di non grande rilevanza.

La biografia di Alaghiero è sicuramente documentabile attraverso la lettura di una dozzina di atti, la maggior parte datati fra il 1246 e il 1247, che riguardano affari conclusi in Prato da lui, solo o insieme col padre e coi fratelli. Nel 1283 era già morto se il suo nome compare dopo quello del figlio D. accompagnato dal " quondam " caratteristico dei defunti. Egli non fu un giureconsulto, come intesero, fra gli altri, il Gargani, il Passerini e il Livi, traendo indicazioni da documenti che il Piattoli non accoglie nel Codice. Fu, piuttosto, uomo dalla personalità comune, sulla quale si sarebbe riverberata la fama del figlio, come osservò il Boccaccio asserendo che " più per la futura prole che per sé dovea essere chiaro ". Alla sua condizione sociale allude anche Forese Donati nella celebre tenzone con D. - per la cui utilizzazione ai fini della biografia di Alaghiero si veda lo studio del Barbi -, quando ricorda " l'aguglione ched'e' cambiò l'altr'ieri ", ossia le vecchie monete imperiali usate dai cambiavalute. Il cambio, insieme ai prestiti, gli procurò una certa agiatezza, come mostra l'insieme dei beni immobili che lasciò per indiviso ai figli, e che i nipoti Iacopo e Pietro divisero con lo zio Francesco il 15 maggio 1332; essi consistevano, oltre che nella casa avita in Firenze, in due grossi poderi con le dipendenze, terra lavorativa, vigna, bosco, prati, posti presso Fiesole, l'uno in località Camerata e l'altro nel popolo di San Miniato a Pagnolle, e in due appezzamenti più piccoli, di terra lavorativa - o, meglio, aree fabbricabili - posti appena fuori della seconda cerchia delle mura di Firenze, nel popolo di Sant'Ambrogio. Era ciò che bastava per vivere agiatamente del proprio grano, del vino delle proprie vigne, della legna dei propri boschi, allevando per di più bestiame grosso e minuto.

Immerso nei suoi affari, Alaghiero non prese parte alla vita politica, o, almeno, non parteggiò con la medesima passione del cugino Geri. Forse protesse lui guelfo dalle angherie degli avversari il fatto di aver sposato in prime nozze - probabilmente fra il 1259 e il 1260 - una Abati, se proviene da quella potente consorteria magnatizia ghibellina del sesto di Porta San Piero la " domina Bella olim mater... Dantis... et uxor domini Alagherii... ", della cui dote maritale si parla negli atti del 1332 stipulati da Iacopo e Pietro di D. da una parte e lo zio Francesco dall'altra, e se sono giuste le considerazioni avanzate da alcuni dantisti - fra i quali autorevolissimo lo Zingarelli - per convalidare quell'ipotesi. Anche il nome di battesimo del poeta - Durante - sembrò riconducibile a quello di messer Durante di Scolaio degli Abati. Forse, invece, gli evitò l'esilio nel 1260 il non aver parteggiato apertamente e il non essere fra gli avversari più in vista degli Uberti e dei ghibellini, così da venir annoverato tra i ‛ sospetti ', tollerati in città anche dopo Montaperti.

La permanenza di Alaghiero in Firenze anche negli anni della rotta guelfa rese possibile la nascita di D. nelle case di Cacciaguida e dei suoi discendenti, nel 1265.

Leonardo Bruni - come si è detto - scrisse che quella casa era situata sulla piazza " dietro " la chiesa di San Martino; punto topografico che oggi è difficile individuare, perché attualmente di piazze ve ne sono due, la più piccola fra la torre della Castagna e la chiesetta di San Martino (oggi appartenente alla Compagnia dei Buonuomini di San Martino fondata nel 1441 dall'arcivescovo sant'Antonino Pierozzi), e una seconda dalla parte opposta, verso la via dei Cimatori. San Martino, infatti, come ci informa la storiografia erudita fiorentina, in età più recente mutò la posizione della facciata e dell'abside da levante a ponente. Il Bruni si riferiva certo a una " platea " posta dietro l'abside di allora, quella che oggi si chiama di San Martino e che si trova davanti all'attuale facciata della piccola chiesa.

Mentre Preitenitto era andato a stare altrove, dopo il matrimonio, Alaghiero di Cacciaguida aveva continuato ad abitare la casa paterna. Una nuova separazione era poi avvenuta tra i figli di Alaghiero, Bello e Bellincione. Conosciamo, infatti, dall'estimo della casa del guelfo Geri del Bello (1268), che essa confinava da un lato con l'abitazione dello zio Bellincione e che, quindi, era una casa diversa dall'altra. Tuttavia, nonostante la separazione, i figli di Bello e di Bellincione sarebbero stati in seguito indotti dal comune interesse derivante dalla contiguità delle loro abitazioni a stare (1277) in giudizio nel processo intentato dagli abitanti della zona contro i frati della Badia e il rettore di San Martino per vietare loro di costruire intorno alla chiesa, in luogo ritenuto pubblico, là dove lo stesso Bello qualche tempo prima era stato costretto a rinunciare a un analogo tentativo.

La casa di Bellincione si trovava certamente all'altezza di San Martino, nella piazzetta oggi prospiciente all'ingresso di quella chiesa. Ne descrive i confini nel 1323 un documento col quale un creditore di Cione di Brunetto di Bellincione A. e del figlio di lui, Giorgio, ne chiede l'espropriazione e ne specifica l'ubicazione. Nove anni più tardi, nel lodo del compromesso tra i figli di D. e lo zio Francesco, essa è citata ancora con i medesimi confini. La piazza è indicata per la prima volta fra questi confini, invece della via, nel testamento col quale Pietro di D. lascia la sua parte di eredità paterna alla Compagnia di Orsanmichele e alla Misericordia (1346), là dove è scritto " super platea ", così come è detto anche nel libro dei testamenti di Orsanmichele. Sulla base di un esame critico della documentazione e di una serrata critica delle conclusioni precedenti, il Barbi e il Piattoli hanno precisato l'ubicazione della casa di D., individuandola " nella sezione dell'edificio fronteggiante la... piazzetta [di San Martino], che ha per base l'ingresso della trattoria del Pennello e l'andito contiguo ".

Nell'arco di tempo di circa due secoli, le condizioni sociali degli A. avevano subito un mutamento profondo. Cacciaguida è un cavaliere prode e pio, degno di stare al seguito dell'imperatore; gli Elisei che ne derivano sono nobili per dignità personale e per parentela; Alaghiero sposa una donna dei Ravignani; Bello è detto " dominus " nei documenti, con allusione alla dignità equestre di cui era investito; Geri di Bello è impegnato nelle contese fra le consorterie e muore nel corso di una faida tra magnati. Gl'immediati ascendenti di D. appartengono già a un ceto diverso, di minore importanza sul piano sociale; sono cambiatori, prestatori, piccoli - per quanto agiati - proprietari di case e di terre. La nobiltà cittadinesca degli avi, sostanziata di valore militare e di pietà religiosa, è venuta trasformandosi in anonima condizione borghese e rivive ormai solo nell'idealizzazione che D. ne fa attraverso le parole di Cacciaguida. La parabola discendente degli A. è assunta nella Commedia come paradigma della decadenza cui soggiace l'intera società fiorentina, divisa e corrotta dalla lotta politica, profondamente mutata nelle sue componenti a causa dell'inurbamento conseguente all'ampliamento territoriale e alle fortune economiche della città.

D. fu il solo figlio maschio nato dal primo matrimonio di Alaghiero di Bellincione con donna Bella. Forse, ne trasse vita anche la donna dal nome sconosciuto che alcuni studiosi identificano con quella giovane e gentile... di propinquissima sanguinitade congiunta, della quale il poeta parla in Vn XXIII 11-12. Essa - ci informa il Boccaccio - sposò Leone di Poggio, banditore del comune, fra il 1279 e il 1299. Da queste nozze nacquero - scrive ancora il Boccaccio - diversi figli, uno dei quali, Andrea, " meravigliosamente nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della persona, e così andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea, e fu uomo idioto ma d'assai sentimento naturale ". Andrea fu " dimestico " del Boccaccio e gli parlò " più volte... de' costumi e de' modi di Dante ".

Il secondo matrimonio di Alaghieri può essere datato del quinto o del sesto anno di vita di D.; la " noverca " del poeta fu Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da lei nacquero Francesco, detto anche ser Geri, e Tana (accorciativo di Gaetana), detta familiarmente Trotta nei libri di conti del marito.

Francesco è citato in molti atti datati fra il 1297 e il 1340, che ne documentano la vita aliena da impegni politici e assorbita piuttosto dagli affari. Ne è incerta la data della morte, che sarebbe avvenuta secondo il Passerini nel 1348, secondo altri nel 1340 o 1341; come pure vi è discussione a proposito della sua discendenza. Si conosce la data (circa il 1297) del suo matrimonio con Piera di Donato Brunacci, da cui non ebbe figli; gli si attribuisce, tuttavia, una figlia, Martinella (v.), cui si riferiscono due atti stipulati nel maggio 1360 (Codice 207, 208).

La sorellastra di D., Tana, andò sposa al cambiatore Lapo di Manno di Iacopo Riccomanni, il quale la ricorda più volte nei suoi libri contabili. Da essa nacquero tre figli; è indicata come vedova in un documento del 1317 ed è citata come ancora vivente in un atto di tre anni dopo.

Ampia è stata - ed è ancora - la discussione a proposito dei figli di D., che, com'è noto, appena dodicenne, fu unito il 9 febbraio 1277 con il vincolo degli " sponsali " a Gemma di messer Manetto di Donato Donati, appartenente alla famiglia che abitava presso San Martino del Vescovo come gli Alighieri. Forse, questo matrimonio rafforzò la parentela - se pure era tale - esistente fra le due famiglie, che pare risalisse alla comune discendenza dalle figlie di Bellincione Berti de' Ravignani e faceva di Gemma la cugina di terzo grado di Piccarda, di Corso e di Forese Donati. Chi siano stati, e quanti, i figli di D. è questione controversa. Tutti i dantisti concordano circa Pietro e Iacopo, la cui biografia è ampiamente documentata. Alcuni hanno accolto la dubbia notizia data dal Filelfo, che attribuisce al poeta anche un Alighiero e un Eliseo, dicendoli morti in giovanissima età, di pestilenza. Altri ancora, come il Pelli e il Balbo, aggiungono a Pietro e a Iacopo un Gabriello e un Bernardo, ma il Passerini ne critica fortemente le conclusioni. Il Fraticelli, invece, aggiunge ai due primi un Gabriello e una femmina che chiama Imperia, unitamente al Litta. Altri ancora concludono diversamente, così che la discendenza diretta di D. è stata descritta in modo vario circa il numero e il nome dei figli, secondo l'interpretazione delle scarse fonti documentarie e narrative disponibili.

La critica porta oggi ad assegnare a D., oltre a Pietro (v.) e a Iacopo (v.), una Antonia (v.), che la tradizione identifica con la suor Beatrice citata in atti posteriori, e un figlio maschio, Giovanni (v.). Ampia discussione ha sollevato infatti l'identità di quel Giovanni " fili[us] Dantis Alagherii de Florentia ", che fa da testimone in un atto di cambio stipulato in Lucca il 21 ottobre 1308, scoperto da F.P. Luiso nel 1901. Nel Codice questo documento è collocato nell'appendice, fra quelli attribuiti con una certa probabilità agli A. di San Martino del Vescovo. Ma altri dantisti, fra i quali lo Zingarelli, non esitano a vedere in questo Giovanni un figlio di D., anzi il primogenito, che, per il fatto di esser citato in qualità di teste nel 1308, avrebbe dovuto avere in quell'anno un'età non inferiore ai quattordici o quindici anni - quella minima richiesta per simili negozi giuridici - e sarebbe nato, perciò, al più tardi nel 1293 o precedentemente: così da poter essere rampollo di una coppia quale quella formata da D. e da Gemma che, se nel 1277 comprendeva un bambino di dodici anni e una fanciulletta di appena dieci, si può ragionevolmente ritenere che fosse feconda vari anni più tardi, verso l'ultimo ventennio del Duecento. Né è pensabile che questo Giovanni appartenesse a un altro Dante Alighieri di Firenze, perché non ci sono noti altri personaggi di quel nome usciti di Firenze ai primi del Trecento; così che egli può ben essere il figlio del fuoruscito, che la dura legge del tempo aveva bandito insieme al padre al compiersi del quindicesimo anno di età e che molto probabilmente aveva seseguito D. a Lucca, ove molti indizi concordano nel mostrare il poeta presente appunto nel 1308.

Con la rassegna dei problemi concernenti i diretti discendenti di D., la storia familiare degli A. esce dalle difficoltà derivanti dalla scarsa documentazione e dall'ambito proprio della critica dantesca per divenire vicenda genealogica di relativa importanza.

La personalità di Iacopo è abbastanza nota nei suoi contorni essenziali. Egli si dedicò, al pari del fratello, alla celebrazione dell'opera paterna. Compreso nel bando del 1315, egli aveva seguito il padre nell'esilio e aveva ottenuto dalla protezione di Cangrande della Scala un canonicato in Verona, con benefici nella pieve di Valpollicella e in Sandrà, i quali gli assicuravano un reddito annuo di sessanta lire veronesi. Rientrò a Firenze alla fine del 1322, insieme a Pietro suo fratello, e ottenne (ottobre 1325) la piena riabilitazione accettando le conseguenze del decreto di sbandimento emanato dal comune. Nel 1332 era avvenuta la divisione dei beni, lasciati " pro indiviso " a D. e al fratellastro Francesco, tra quest'ultimo e i nipoti. Iacopo tenne per sé i beni di campagna, mentre a Pietro toccava la parte paterna della casa avita presso San Martino del Vescovo. Alcune divergenze insorte successivamente tra i due fratelli furono risolte nel 1341. La sua condizione di tonsurato - il 9 ottobre 1326 aveva ricevuto in Firenze dal vescovo di Fiesole i primi due ordini minori e la tonsura - gli rese impossibile il matrimonio; ma dalla convivenza con Iacopa (Teresa per il Litta) di Biliotto degli Alfani nacquero Bernardo (n. fra il 1341 e il 1345, m. dopo il 1370, e padre a sua volta di un Antonio) e Alighiera (n. 1346), sposata ad Agnolo di Giovanni Balducci di Volterra. Tuttavia, se la discendenza di D. rimasta a Firenze si esaurisce ben presto, molto più numerosa e duratura fu quella derivata dall'altro figlio, Pietro.

Anche Pietro (o Piero) fu colpito dal bando e seguì il padre nell'esilio, divenendo, com'è noto, apologeta e illustratore dell'opera dantesca. Lo troviamo a Ravenna titolare di due benefici ecclesiastici in Santa Maria in Zenzanigola e in San Simone de muro, ma non assunse lo stato clericale. Ritornò a Firenze dopo la morte di D., come attestano alcuni documenti fiorentini del 1323 e 1324, ma, diversamente da quanto faceva il fratello, non accettò le condizioni poste dal comune nel 1325 per revocare il bando contro gli A., e si stabilì dapprima a Bologna (ove è ricordato come " scolaris in iure civili ", nel 1327) e successivamente a Verona, dopo essersi addottorato in diritto.

Molto probabilmente, fu la protezione di Cangrande a facilitare il passo definitivo col quale gli A. rompono i legami con Firenze e si fanno nel giro di una generazione veronesi, acquistando case nella città scaligera (nella " guaita ", in un primo tempo, e poi nella contrada di San Giovanni ad forum) e terre in Gargagnago, là dove ancora oggi sono conservati ricordi degli ultimi discendenti di D., nella villa dei di Serego Alighieri. Niente, del resto, tratteneva più Pietro in Firenze, dopo che nel 1332 era avvenuta la divisione dei beni tra lui, Iacopo e lo zio Francesco. Nel 1341 erano state risolte anche le controversie derivanti da quella divisione, e cinque anni più tardi, nel 1346, egli donò la casa paterna alla Compagnia di Orsanmichele e alla Misericordia.

Se, tuttavia, Pietro rompeva i legami di interessi con la città di origine, egli non interruppe i rapporti affettivi con l'ambiente toscano e fiorentino. Tra il 1330 e il 1335 circa aveva, infatti, sposato Iacopa di Dolcetto de' Salerni, di una famiglia originaria di Pistoia, ma anch'essa trapiantatasi in Verona come tante altre casate della diaspora conseguente alle lotte politiche comunali toscane. Anche la figlia Elisabetta (n. 1332) avrebbe sposato un Rustichino o Butizone degli Ebriachi o Obriachi, di famiglia esule da Firenze, e l'altra figlia, Antonia (n. c. 1338), avrebbe preso per marito un Angelo degli Uberti, rampollo della ben nota consorteria ghibellina.

Le altre figlie di Pietro, Alighiera, Gemma e Lucia, si fecero monache nel monastero di San Michele in Campagna. A Pietro il Filelfo assegna anche un terzo figlio maschio, Iacopo (v.), che sarebbe morto a venti anni, anch'egli poeta e chiosatore della Commedia, ma la sua asserzione - del resto unica - è, come le altre, di attendibilità piuttosto sospetta.

Noti, invece, sono i figli Bernardo e Dante. Il primo nacque probabilmente illegittimo, fu notaio del capitolo di Verona, morì nel 1406 lasciando un solo figlio, Niccolò, che, dopo essersi sposato, andò a stare a Zagabria. La sua discendenza, se mai ne ebbe, esce, quindi, dal quadro della genealogia degli Alighieri.

Dante II (1339 circa - luglio 1432) ebbe una figlia (Antonia, maritata dapprima ad Antonio da Persico e quindi a Ubaldo da Broilo) e due maschi (Pietro, del quale si sa molto poco, e Leonardo, che continuò la famiglia) dal matrimonio con Costanza di Leonardo Maccaccaro.

Leonardo, vissuto tra la fine del Trecento e il 1439, sposò Iacopa di Gabriele Verità. Ebbe relazioni con la cultura fiorentina intenta al culto di D. e nel 1430 fu ospite di Leonardo Bruni a Firenze, nonostante che fosse sempre in vigore il bando contro i discendenti del poeta. Ma se in quella circostanza la repubblica si limitò a ignorare la condanna, il governo fiorentino compié un passo ancor più significativo sulla via della riparazione quando, nel 1467, dopo che il Filelfo ebbe dedicato al figlio di Leonardo, Pietro III, la biografia del poeta, Cosimo de' Medici invitò addirittura Pietro a riportare la famiglia nella città di origine. L'invito, però, non fu accolto. Pietro contava qualcosa nella città di Verona, ove era membro del consiglio e aveva sposato Esterina (o Caterina) di Facino Monselice; vi restò, quindi, e vi morì nel 1476.

Con lui la stirpe degli A. continua e trapassa nel secolo XVI, mentre si esaurisce nell'altro figlio di Leonardo, Giovanni (1427 - ante 1443), e nelle tre sorelle di quest'ultimo, note solo per essere state citate dal padre nel suo testamento.

Anche Pietro di Leonardo ebbe numerose figlie femmine e due figli maschi, Iacopo III e Dante III (v.). Il primo fu poeta e letterato; morì nel novembre 1545 senza aver avuto figli. Il secondo, poeta anche lui, fu amico di Marin Sanudo e servì fedelmente la repubblica di Venezia, fuggendo da Verona nel 1511 per evitare di servire ai suoi nemici; sposò nel 1491 Lucia di Lodovico Lanfranchini. Fu l'ultimo degli A. al quale Firenze offrì la cancellazione definitiva del bando trecentesco, dopo che il Consiglio Generale ebbe votato (il 31 dicembre 1494 e il 3 giugno 1495) i provvedimenti opportuni in tal senso, insieme alle proposte riparatrici. Tuttavia, nessun legame univa più i discendenti di D. alla città che lo aveva bandito. Per di più, la stirpe del poeta stava per esaurirsi. Delle due figlie femmine di Dante, Paola (1495 - 1547) sposò Gian Nicola Carminati e non ebbe discendenti; l'altra, Ginevra (1497 - 1518), non prese neppure marito. I tre figli maschi appartennero anch'essi al ceto dirigente di Verona, laico ed ecclesiastico. Ludovico (1496 o 1497 - 1547) era un giudice; sposò Eleonora del conte Antonio Bevilacqua, ma morì anch'egli senza figli. Francesco (1500 circa - 12 agosto 1558) fu prete, letterato e traduttore di Vitruvio. Per la sua condizione di ecclesiastico non poteva continuare la famiglia, ma ebbe rapporti affettivi con donne diverse, e ne ebbe tre figlie, Alighiera (n. 1551), Cornelia (n. 1553) e Ortensia (n. 1554). Il terzo figlio di Dante, Pietro IV (1498 - 1546), anch'egli noto come umanista e come esponente del ceto dirigente di Verona, sposò Teodora Frisoni, ma neppur lui ebbe figli maschi. L'unica sua figlia femmina, Ginevra (1532 - 1572), sposò nel 1549 il conte Marcantonio di Serego dal quale ebbe, fra gli altri figli, Pieralvise (1550 - 1577), cui il prozio Francesco, unico superstite degli A., donò per testamento (12 agosto 1558) i beni immobili e legò il cognome. Esso, unito a quello dei di Serego, è ancora vivo nei discendenti di Pieralvise.

Con i matrimoni più recenti, quindi, gli A. erano arrivati a imparentarsi con il patriziato veronese, tendendo a passare dal ceto degli amministratori e degli alti burocrati all'aristocrazia vera e propria.

In quanto storia genealogica, quella degli A. non offre episodi di grande rilievo, ma è piuttosto vicenda di successivi inserimenti dei discendenti di D. negli ambienti in cui le sorti della casata li avevano portati. La fama del poeta si riverberò sui suoi discendenti, che vissero all'ombra di essa e ne ricavarono motivo di orgoglio e di rinnovata importanza sociale. Agli studi danteschi la loro biografia deve in molta parte la salvezza dall'oblio.

Gli A. portarono per stemma uno scudo partito di oro e di nero, alla fascia di argento attraversante. Esso era descritto in un codice araldico del 1302, che nel secolo XIX andò perduto; ma del disegno e dei colori restò, tuttavia, il ricordo in una copia tratta da quel manoscritto ad opera dell'erudito Cosimo della Rena nel 1666. In alcuni codici della Commedia si trova miniata la stessa arma. Gli A. di Verona portarono per stemma un'ala al naturale aperta al volo, in campo azzurro. Sulla tomba di Pietro di D. lo scudo reca due ali a ventaglio invece di una. Le ali, forse, vogliono richiamare alla memoria la fama del poeta, della quale già i figli si sentivano custodi e continuatori.

Bibl. - Oltre alle voci dedicate in questa Enciclopedia ai singoli componenti della famiglia A., per la casata nel suo complesso si vedano gli studi fondamentali citati nelle bibliografie dantesche, e particolarmente: Zingarelli, Dante (soprattutto i capitoli III, IV, XVI, in cui si tratta della storia degli A. fino al secolo XIV in relazione alla biografia del poeta, con discussione e vaglio della complessa bibliografia); M. Apollonio, Dante. Storia della Commedia, Milano 1951, II 1327-1351; S.A. Chimenz, A.D., in Dizion. biogr. degli Ital. II (1960) 443-451. Punto di riferimento indispensabile per un discorso sulla storia genealogica della famiglia di D. è il Codice diplomatico dantesco di R. Piattoli, Firenze 19502, con le due prime Aggiunte pubblicate in " Studi d. " XXX (1952) 203-206, e XLIV (1967) 223-268; due (la IV e la VII) di altre quattro aggiunte sono stampate in " Arch. Stor. It. " CXXVII (1969) 3-108. La critica del Piattoli obbliga a considerare per molta parte superati parecchi degli scritti pubblicati sulla storia familiare degli A.

Tra le opere meno recenti, possono tuttavia essere di una qualche utilità: L. Passerini, Della famiglia di D., in D. e il suo secolo, Firenze 1865, 53-78; P. Fraticelli, Storia della vita di D., ibid. 1861; F.X. Kraus, D., sein Leben und sein Werk, sein Verhältniss zur Kunst und Politik, Berlino 1897; G. Guerrieri, Gli antenati di D., Teramo 1910; F. Schneider, D., sein Leben und sein Werk, Weimar 1947. Si vedano inoltre alcuni studi in Barbi, Problemi I e II (particolarmente: La condizione economica di D. e della sua famiglia, I 157 ss. ; e Nuovi accertamenti sulla parentela di D., II 329 ss.).

Inoltre: M. Barbi, Un altro figlio di D.?, in " Studi d. " V (1922) 22-32. Sugli A. o ‛ Aldighieri ' di altre città d'Italia: A.G. Spinelli, Gli Aldighieri... del modenese, in " Mem. Accad. sc. e lett. Modena " s. 3, IV (1902) 187-212; M. Cevolotto, D. e la marca Trevigiana, Treviso 1906; P. Rajna, Il casato di D., in " Studi d. " III (1921) 59-88; G. Livi, D. e Bologna, Bologna 1921; E. Carli, D. e gli A. in Verona, Verona 1965.

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