Allocuzione ad un magistrato

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Allocuzione ad un magistrato

Jean-Jacques Marchand

Breve discorso anepigrafo (il titolo è editoriale) scritto in occasione dell’insediamento di un magistrato fiorentino.

Non contiene alcuna informazione che possa permetterne la datazione; in base alle peculiarità grafiche, il manoscritto ha potuto essere datato attorno al 1520.

L’autografo è conservato nel codice Banco rari 29 (antica segnatura; Magl. Cl. VIII, 145 bis), cc. 211-14, della BNCF. Il manoscritto uscì probabilmente piuttosto presto dalle carte di M., poiché non venne registrato né trascritto da Giuliano de’ Ricci (→) nel suo Copiario della fine del Cinquecento. In una data indeterminata, il manoscritto giunse alla Biblioteca Strozziana. Quando quest’ultima fu messa in vendita, il codice venne acquistato, con altri, dal granduca Leopoldo e consegnato alla Biblioteca Magliabechiana.

Il nome dell’autore è stato raso e sostituito da quello di Amadio Nieccolucci (anagramma di Niccolò Machiavelli). Il testo venne pubblicato per la prima volta nel 1797 dal Poggiali (N. Machiavelli, Opere, Filadelfia [Livorno], 6° t., pp. 377-80).

Il discorso è ascrivibile al genere delle protestationes de iustitia. Si tratta di un’antica tradizione, come ricorda lo stesso M., di cui esistono testimonianze fin dal Duecento a Firenze, ma anche in altre città italiane. Gli Ordinamenti di giustizia del 1293 e del 1295 descrivevano già la procedura di entrata in funzione delle autorità, ma non veniva fatta menzione di un discorso pronunciato in quell’occasione. Un cerimoniale più preciso compare invece negli Statuta populi et comunis Florentiae del 1415, in cui vengono descritti i particolari della cerimonia d’insediamento della Signoria e le caratteristiche dell’allocuzione che deve essere pronunciata.

Quindici giorni dopo l’inizio dell’attività, un gonfaloniere di Compagnia era incaricato di rivolgersi ai suoi colleghi e alle massime autorità con una protestatio de iustitia. Rubriche particolari stabilivano che il discorso doveva essere tenuto in volgare, con citazioni tratte dalle Sacre Scritture, dai poeti o dalle leggi, in lode dei magistrati uscenti e a esortazione di quelli entranti in funzione, e che doveva incitare, con proclami, citazioni e moniti, ad amministrare correttamente, a rispettare la giustizia e a osservare gli statuti e le leggi della città. Nel periodo umanistico il genere ebbe notevole successo: una ventina di codici conservati nelle biblioteche fiorentine contengono allocuzioni di autori come Donato Acciaiuoli, Bernardo Canigiani e Filippo Pandolfini che si cimentarono in questo genere. Con l’Allocuzione M. mostra perciò d’inserirsi in una tradizione oratoria codificata dell’umanesimo civile. Il nome della persona a cui è stata rivolta l’allocuzione è in bianco nel manoscritto, di modo che ne ignoriamo il destinatario.

Ciò indica che il testo non celebra un magistrato o una funzione precisa, ma costituisce un invito al funzionario che entra in carica a ispirarsi ai maggiori ideali civili.

Nell’esordio l’oratore, con una excusatio propter infirmitatem che ricorda le dediche del Principe e dei Discorsi, confessa la propria incompetenza nel parlare di giustizia davanti a magistrati che l’amministrano quotidianamente, aggiungendo che solo averne ricevuto l’incarico lo scagiona dall’esserne indegno; la brevità del suo discorso renderà comunque tollerabile la debolezza delle sue parole (§§ 1-5). Rifacendosi al mito dell’età dell’oro, l’autore cita gli Antichi (i «Gentili») per affermare che un tempo gli dei vivevano tra gli uomini tanto questi erano virtuosi e che poi, con il corrompersi del genere umano, essi risalirono in cielo, lasciando per ultima la Giustizia sulla terra (§§ 6-8). Quando quest’ultima fuggì, scoppiarono le guerre e fu solo il suo ritorno in alcune città e in alcuni Paesi a determinarne la grandezza e la felicità: è il caso della Grecia e della Roma dell’antichità, e di alcuni regni e repubbliche dei secoli più recenti, come Firenze nei momenti più fiorenti della sua storia (§§ 9-10). Segue un’ampia esaltazione dei benefici della giustizia per gli Stati (§ 11) e un’illustrazione del rispetto di Dio per la giustizia, che lo ha indotto, per intercessione di san Gregorio, a porre l’imperatore pagano Traiano fra i suoi eletti (§ 12).

Il fatto viene corroborato dalla citazione di sette terzine dantesche riferite alla giustizia e alla pietà di Traiano rappresentate nel Purgatorio X 73-93 (§§ 13-21). Il testo si conclude con una perorazione in cui il gonfaloniere invita i magistrati a un’amministrazione della giustizia senza concessioni: chiedendo loro di chiudersi gli occhi, turarsi gli orecchi, legarsi le mani, quando dovranno giudicare cause di amici e parenti, quando verranno rivolte loro richieste irragionevoli o saranno tentati dalla corruzione (§ 22); solo se agiranno in questo modo, la Giustizia tornerà fra gli uomini (§§ 23-24). A ciò dovrà impegnarsi solennemente il nuovo magistrato nel suo giuramento (§ 25).

Bibliografia: Edizioni: Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 131-37; L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 607-11.

Per gli studi critici si vedano: J.-J. Marchand, Una ‘protestatio de iustitia’ del Machiavelli: l’Allocuzione ad un magistrato, «La bibliofilia», 1974, 76, pp. 209-21; A.J. Parel, Machiavelli’s notions of justice, «Political theory», 1990, 18, pp. 528-44; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol. Milano-Napoli, 1997, pp. 269-87.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Ordinamenti di giustizia

Donato acciaiuoli

Purgatorio

Umanesimo

Traiano