ALMOHÀDI

Enciclopedia Italiana (1929)

ALMOHÀDI (in arabo al-Muwaḥḥidūn)

Francesco Beguinot

Nome di una dinastia berbera che nella seconda metà del sec. XII e nella prima metà del secolo successivo dominò nell'Africa settentrionale, estendendo in qualche periodo il suo impero dall'Atlantico alla Grande Sirte e comprendendo anche la Spagna musulmana. Tale impero può considerarsi nella storia dei Berberi come l'avvenimento più notevole, che rivelò anche in qualcuno dei capi attitudini alla civiltà e capacità organizzative. La sua origine è da ricercarsi in un movimento religioso destatosi presso la tribù berbera dei Maṣmūdah dell'Alto Atlante per opera di Muhammad ibn Tūmart, fervido spirito di apostolo che vide nella forma assunta dall'Islām nel Maghrib gravi imperfezioni da emendare. Egli, vivendo presso i suoi confratelli Maṣmūdah, si dedicava ancor giovane allo studio e a rigide pratiche di pietà; quindi, per meglio istruirsi nella religione, verso il 1105 intraprese un lungo viaggio, recandosi a Còrdova, alla Mecca, a Baghdād, e seguendo gl'insegnamenti di celebrati dottori. Dopo alcuni anni si accinse a ritornare nella sua patria traversando a piedi e in condizioni di estrema povertà varie regioni e trattenendosi a Tripoli, ad al-Mahdiyyah, a Bugia, e in altre città, ove predicava contro i cattivi costumi, l'uso del vino e degli strumenti musicali, e spesso rivolgeva biasimi alle autorità dominanti. In qualche località fu ben accolto e ascoltato; da altre, come Tripoli, scacciato a furore di popolo. In questo primo periodo della sua attività si unì a lui come allievo ‛Abd al-Mu'min ibn ‛Alī, della tribù berbera dei Kūmīyah, che divenne suo ardente seguace e che in seguito ebbe una parte preponderante nella fondazione dell'impero almohade. Al Marocco Ibn Tūmart continuò in varie città la sua predicazione, mettendosi in aperto contrasto con gli Almoravidi (v.); scacciato e minacciato, si rifugiò nel suo paese natale sull'Atlante, presso i Masmūdah, ove si raccolsero intorno a lui numerosi seguaci, determinandosi così il consueto fenomeno della formazione d'una comunità religiosa, che si considerava in possesso della vera fede e si preparava ad imporla con la forza alle altre popolazioni. Ibn Tūmart assunse il titolo di Mahdī, (v.) e organizzò la sua comunità, creando un consiglio di 10 membri, a cui furono chiamati i suoi più antichi discepoli, e che trattava le questioni più importanti; e un altro consiglio di 50 (detti Ait Khamsīn), composto dei rappresentanti delle varie tribù berbere. Tutti i seguaci di Ibn Tūmart chiamavano sé medesimi al-Muwaḥḥidūn cioè "i professanti l'unità di Dio", "i monoteisti", poiché accusavano gli altri musulmani loro compatrioti di essere "politeisti" a causa delle loro superstizioni e dei loro usi riprovevoli dal punto di vista dell'islamismo puro. Oltre che censurare i costumi e richiamare all'esatta osservanza delle prescrizioni religiose, Ibn Tūmart aveva un complesso di idee riguardanti la teologia e il diritto, che si contrapponevano a quelle dominanti nel Maghrib. Qui fin dalla metà del sec. XI si era totalmente imposta la scuola giuridica mālikita, i cui seguaci nel Maghrib reputavano ormai perfetta l'elaborazione del rituale e del diritto fatta nei trattati della scuola, e quindi trascuravano lo studio del Corano e dei ḥadīth (v.); esaurivano la religione nell'osservanza meticolosa di precetti rituali, respingevano in modo assoluto la teologia speculativa e l'interpretazione allegorica oppure razionalistica dei passi antropomorfici del Corano, negando sì il loro carattere antropomorfico, ma tenendosi a loro riguardo in un'attitudine agnostica. Queste concezioni erano state favorite dagli Almoravidi e avevano quindi quasi un carattere ufficiale. Ibn Tūmart, che nel suo soggiorno in Oriente aveva conosciuto ed apprezzato il sistema teologico ash‛arita (il quale dà gran peso alla speculazione intellettuale combinata coi dati positivi della rivelazione) e il sūfismo (v.) moderato d'al-Ghazālī, in pieno contrasto con la grettezza dei mālikiti del Maghrib, proclamò la necessità del ritorno allo studio del Corano e dei ḥadīth, quali fonti della religione, del rituale e del diritto, senza ritenersi vincolati in modo ferreo dal tardo svolgimento del sistema mālikita. Circa i passi coranici di cui si discuteva se dovessero essere interpretati allegoricamente o letteralmente, come quelli circa alcuni attributi di Dio, sosteneva che l'interpretazione letterale porta necessariamente all'antropomorfismo e quindi all'idolatria; e che all'interpretazione allegorica, d'altra parte, doveva partecipare tutto il popolo e non i dotti soltanto.

Da tali dottrine egli deduceva che i sovrani almoravidi erano fuori della retta via della fede e che contro di essi doveva proclamarsi la guerra santa. Essi ebbero coscienza del grave pericolo che li minacciava e cercarono di opporvisi; non riuscirono a debellare le forze degli Almohadi annidate nelle montagne dell'Atlante, ma le sconfissero in una grande battaglia quando esse tentarono di assalire la città di Marocco. Poco dopo, cioè nel 1128, il Mahdī moriva lasciando un forte nucleo di ardenti seguaci, ma senza aver visto il trionfo armato della sua propaganda. Questo era riserbato al grande e geniale Abd al-Mu'min, che già aveva capitanato le operazioni militari degli Almohadi e che raccolse l'eredità di Ibn Tūmart, designato, sembra, da lui stesso. Il nuovo capo, che assunse il titolo di khalīfah (successore) del Mahdī e l'epiteto, proprio dei califfi, di amīr al-mū' minīn (capo dei credenti), attemiandosi così a solo rappresentante legittimo dell'ortodossia e dichiarando eretici e usurpatori i califfi ‛abbāsidi di Baghdād, intraprese alla testa delle sue truppe varie spedizioni e nel 1139 iniziò una campagna che durò sette anni e che portò alla distruzione degli Almoravidi e alla fondazione di un grande impero almohade. Spiegano tali rapidi successi, da un lato le sue capacità di condottiero, e le virtù guerriere dei rudi montanari berberi dell'Atlante, che formavano il nerbo dell'esercito, al quale si aggiungevano altre schiere mano a mano che il successo si delineava; dall'altro il logoramento degli Almoravidi e l'incapacità degli ultimi loro sovrani. ‛Abd al-Mu'min sottomise le zone meridionali del Marocco, poi risalì verso il Rīf e il Maghrib centrale; Orano, Tlemcen, Fez, Ceuta, Salé e altre città caddero in suo potere, e dopo lungo assedio fu presa la stessa città di Marocco, ove l'ultimo principe almoravide trovò la morte. In questo stesso periodo un esercito mandato in Spagna a sostegno di musulmani ribelli agli Almoravidi riportava vittorie e conquistava varie città. In seguito le operazioni si estesero verso l'est: fu presa Bugia, ponendosi fine al regno ḥammūdita. Alcuni anni più tardi furono conquistate Tunisi, al-Ma diyyah e altre città, e tutta l'Ifrīqiyah obbedì agli Almohadi, la cui autorità si affermò anche in Tripolitania e in Cirenaica. ‛Abd al-Mu'min, oltre che attitudini militari di prim'ordine, rivelò anche capacità di uomo politico, di amministratore e di organizzatore della vita civile nel suo immenso impero; sì che appare come una delle più grandi e nobili figure della storia nord-africana, una specie di Carlo Magno berbero. In mezzo all'anarchia che dominava in quelle regioni, fra i piccoli deboli principati e le tribu̇ in lotta fra loro, nel caos determinato dall'invasione hilāliana, egli seppe creare un'unità statale, ristabilì l'ordine, la sicurezza delle vie, riattivò i commerci, fondò città e università, fece fare una specie di catasto per accertare le imposte, attese a lavori portuali e creò una flotta, stabilì relazioni con la repubblica di Genova. L'impero così fondato ebbe ancora periodi di splendore dopo la morte di ‛Abd al-Mu'min (1163), coi due primi successori, cioè il figlio Abū Ya‛qūb Yūsuf (1163-1184) e il nipote Abū Yūsuf Ya‛qūb, detto al-Manṣūr (1184-1198), i quali tutti, come il loro capostipite, s'intitolarono califfi. Durante il regno di Abū Ya‛qūb gli Almohadi ebbero dei successi in Spagna, pur subendo alla fine la disfatta di Santarem, ove il sovrano stesso fu mortalmente ferito. Abū Yūsuf lottò vittorissamente contro la grande e lunga rivolta dei Banū Ghāniyah, famiglia strettamente legata agli Almoravidi e che dopo la caduta di questi aveva conservato il dominio delle isole Baleari. Di qui partì un tentativo di restaurazione del dominio almoravide, che s'iniziò con l'occupazione improvvisa di Bugia (1185) e si svolse, attraverso varie fasi e complicate vicende e con l'intervento del famoso avventuriero curdo Qarāqūsh, per circa 40 anni, avendo per teatro l'Ifrīqiyah e la Tripolitania. Il principe almohade, trasportatosi in Tunisia, riuscì a domare, in una prima fase, la rivolta; come pure in seguito ebbe successi in Spagna, ove, intervenuto contro il re Alfonso VIII di Castiglia, vinse la grande battaglia di Alarcos. Abū Ya‛qūb Yūsuf e Abū Yūsuf Ya‛qūb, continuando le tradizioni di ‛Abd al-Mu'min, oltre che attendere alle imprese guerresche, protessero gli studî e le arti e costruirono una quantità di splendidi edifici in Spagna e al Marocco. L'impero almohade era così giunto al culmine della sua potenza militare e della sua fioritura di civiltà, ma anche a questo stato, come ad altri fondati dai Berberi, si preparava rapida decadenza. I sovrani che si succedettero dopo la morte di al-Manṣūr furono quasi tutti inetti; e mancando una mano abile e ferma che reggesse il vasto impero, gli elementi disgregatori ebbero libero giuoco: spirito particolaristico delle popolazioni, ambizioni di capi, disgregazione prodotta nella massa berbera dall'infiltrarsi in mezzo ad essa degli Arabi hilāliani, varietà di ambiente fisico che impedendo nell'Africa del Nord l'unità geografica rendono difficile anche la formazione di una compatta unità statale. L'impero degli Almohadi, come quello precedente degli Almoravidi, sorge e si afferma per il momentaneo prevalere di una tribù, che, condotta da abili capi, riesce ad imporsi ad altre popolazioni; finché, logoratasi, deve cedere il posto ad una nuova tribù che si avanza sulla scena e aspira al potere. Per tale complesso di fenomeni, nel sec. XIII lo stato almohade si disgrega: la Spagna è tolta loro in seguito alla battaglia di Las Navas de Tolosa (1235); l'Ifrīqiyah si rende indipendente con la dinastia degli Ḥafṣidi; nel Maghrib centrale si forma il regno degli Ạbd al-‛Aāditi col suo centro a Tlemcen (Tilimsān), al Marocco i Banū Marīn s'impadroniscono a poco a poco del potere, nel 1248 occupano Fez e nel 1269 la città di Marocco, presso la quale l'ultimo sovrano almohade trova la morte. Un nucleo di fedeli all'antica dinastia si rifugiò sull'Atlante con l'intento di continuare la resistenza; ma alcuni anni dopo fu distrutto, iniziandosi così nel Maghrib occidentale il periodo del dominio merīnida.

Bibl.: Ibn Khaldūn, Histoire des Berbères (trad. De Slane), Algeri 1852-1856 (nuova edizione, Parigi 1925 e segg.); Ibn al-Athir, Annales du Maghreb et de l'Espagne (trad. Fagnan), Algeri 1901; Abd el-Wahid el-Merrakechi, Histoire des Almohades, trad. Fagnan, Algeri 1893; E. Mercier, Histoire de l'Afrique septentrionale, Parigi 1888-1891; I. Hamet, Histoire du Maghreb, Parigi 1923; I. Goldziher, Le livre de Mohammed Ibn Toumert, Algeri 1903.

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