AMALASUNTA

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 2 (1960)

AMALASUNTA

Paolo Lamma

Figlia di Teodorico e di Audefleda, sposò nel 515 Eutarico, da cui ebbe un figlio, Atalarico, e una figlia, Matasunta. Dal 526,dopo la morte di Teodorico, resse il regno ostrogoto per il figlio Atalarico.

Questa forma di reggenza richiama assai più la tradizione bizantina e romana che non quella gotica e, in realtà, A. ci viene presentata come una continuatrice di una Galla Placidia o di una Eudossia piuttosto che come una regina barbara. Procopio ci ha lasciato di lei un ritratto schizzato sul modello di medaglioni classici e ci parla della sua intelligenza e della sua giustizia, della sua bellezza e del suo carattere virile (De bello Gothico, ed. Haury, pp. 10 ss.; Anecdota, pp. 100 ss.). Quando lo storico greco esalta la nobiltà della sua razza e la sua dignità regale, non solo la vuole contrapporre a Teodora, ma ci conferma quanto, in parte obbedendo agli stessi procedimenti letterari, ci narra di lei Cassiodoro. A. parlava latino e greco, conosceva bene la sua lingua e sapeva apprezzare le raffinatezze della cultura romana.

Le grandi linee del programma politico di A. durante il periodo della reggenza dall'agosto del 526 al 2 ott. 534 e durante il breve tempo in cui, associata a Teodato, ebbe direttamente il potere col titolo di regina sembrano corrispondere a quello che Giordane vuol far passare come il testamento di Teodorico, quando il vecchio re avrebbe detto, nel designare a succedergli il nipote Atalarico, di onorare il re, di amare il senato e il popolo romano e di ricercare sempre la pace e l'amicizia dell'imperatore d'Oriente dopo quella di Dio. Ma queste direttive d'azione non vennero applicate sempre nello stesso tempo e allo stesso modo. Era necessario ammonire i Goti di onorare il re, perché era possibile pensare a correnti di opposizione al modo con cui Teodorico aveva disposto la successione - e a talune di esse accenna anche Cassiodoro (Variae,VIII, 9), - ma iGoti mostrarono la loro diffidenza soprattutto nei riguardi dell'attività di governo affidata a una donna, che effettivamente tentò subito di allentare la tensione che si era stabilita negli ultimi tempi tra i Goti e i Romani. Procopio ci dice che la reggente restituì i beni ai figli di Boezio e di Simmaco e si impegnò a non colpire né nelle sostanze né nelle persone i Romani (De bello Gothico, p. 11). Anche Cassiodoro concorda sostanzialmente nei documenti ufficiali, che egli come magister officiorum con funzioni di questore continuò a redigere durante i primi due anni del nuovo regno, con l'interpretazione di Procopio: accordo con la Chiesa, pace col senato e coi provinciali, giuramento reciproco dei Goti e dei Romani verso il nuovo re, ricambiato da autorevoli personaggi goti a nome del piccolo sovrano, disposizioni per tutelare, per quanto era possibile, i mediocres dalle oppressioni dei grandi, Goti e Romani, nomine degli elementi moderati alle principali cariche dello stato. Ma in tutti questi atti di governo la reggente non figura neppure di nome nei documenti cassiodoriani. E in realtà non si vede come nella difficile situazione politica e costituzionale d'Italia si sarebbe potuto trovare un posto ufficiale per questo potere femminile.

Uno dei provvedimenti più notevoli del periodo di reggenza è la nomina di Tuluin, goto già vicino a Teodorico, come praepositus sacri cubiculi, a patricius praesentalis con il comando effettivo delle forze militari gotiche, ma con una dignità che lo faceva entrare in senato e assumere la cittadinanza romana (Variae, VIII, 8, 9). C'era bisogno di una direzione militare sia per le minacce che provenivano dai Vandali, dopo la morte di Amalafreda, la sorella di Teodorico che era stata uccisa da Ilderico, successore del di lei marito Trasamondo, sia perché non si conosceva l'atteggiamento del vecchio imperatore d'Oriente, Giustino, che era negli ultimi mesi di vita sempre più sotto il controllo del nipote Giustiniano. Quello che pare molto probabile contrariamente all'opinione più diffusa, è che l'ossequio all'imperatore orientale, così importante nella prospettiva di Giordane, non fu reso subito e comunque fu reso in forme che potevano mantenere libera la via a manifestazioni d'autonomia e anche di ostilità: come mostra da un lato la ferma reazione contro le minacce a Sirmio da parte dei Gepidi guidati da Mundo, destinato poi a far carriera nelle armate imperiali e a partecipare alla campagna anti-gotica come magister militum, e dall'altro l'ostentazione della nobiltà dinastica amala, che si contrapponeva alle origini oscure e recenti della famiglia illirica di Giustino e Giustiniano (Variae, VIII, 1; XI, 1). In realtà, quando Procopio ripete fermamente che la reggente aspirava ad avere il potere sui Goti e sugli Italioti, potere che più tardi sarebbe stata disposta a cedere all'imperatore, dimostra come a Bisanzio si avesse coscienza che questa monarchia ereditaria (in cui il re, rivestito di poteri militari e civili, indossava le insegne imperiali e, anche in condizioni di crisi, poteva continuare a reggere e governare con prerogative talvolta più ampie degli stessi imperatori) era qualche cosa di più che l'esercizio di una potestà delegata attraverso il conferimento di una magistratura e di un comando militare. Procopio stesso ci dice che l'ideale di A. era quello di educare il figliolo come un principe romano e che questo programma condiviso da alcuni Goti era sospetto alla maggioranza dei giovani guerrieri timorosi di vedere snaturata la forza militare del loro sovrano dall'educazione dei maestri di scuola e tradita l'autentica eredità di Teodorico (De bello Gothico, pp. 12 s.). Indubbiamente ci fu un'ostilità di elementi goti più estremisti agli atteggiamenti della reggenza, che aveva dimostrato molta cedevolezza nei riguardi dei Vandali (Variae,IX, 1) e dei Visigoti, nel cui regno Amalarico aveva cominciato a esercitare le prerogative sovrane dopo la morte di Teodorico, e soprattutto aveva rivelato intenzioni troppo accomodanti nei riguardi del mondo romano. Nel 527-28 ci fu una prevalenza di Romani goticizzanti, come Opilione e Cipriano, che successe probabilmente a Cassiodoro come magister officiorum (Variae,VIII, 16-22). Erano Romani che avevano portato le armi, combattuto con i Goti, imparato la loro lingua, indossato i loro abiti e anche questo rappresentava un modo di vivere e di governare non certo in armonia con il rispetto e la deferenza verso l'impero d'Oriente. Del resto Procopio stesso non ci parla di un avvicinamento e di una ricerca di protezione di A. da parte di Giustiniano, se non dopo che la reggente si rese conto della minaccia degli oppositori gotici che le avevano strappato l'educazione del figlio (De bello Gothico,p. 13). A. avrebbe reagito cercando di allontanare i più pericolosi tra i capi gotici, tre personaggi di cui Procopio non ci dà il nome, verso posti di comando periferici. Nel timore di venire travolta, A. tuttavia avrebbe chiesto segretamente a Giustiniano di potersi trasferire nell'impero portando con sé il tesoro, la somma enorme di 2.880.000 soldi d'oro. Procopio spesso nella sua ricostruzione del mondo e dell'atmosfera che circondavano gli avvenimenti della sua età confonde e fonde, talvolta con intenzione, dati obbiettivi con voci e interpretazioni tendenziose. L'offerta di A. sarebbe avvenuta nel 532, forse subito dopo la liquidazione della rivolta del Nika che sembrò travolgere Giustiniano e Teodora durante le trattative della pace eterna dell'impero con la Persia. Non è impossibile che A. avesse anche pensato all'eventualità di un inserimento più profondo nella vita dell'impero fino addirittura, come insinua Procopio negli Anecdota, a far pensare che ella volesse sostituirsi a Teodora (Anecdota, pp. 100-104): in questo modo curioso A. avrebbe realizzato quel progetto che i Goti malevoli le attribuivano, di volersi cioè cercare un altro marito e di sbarazzarsi del figliolo per esercitare direttamente il potere sui Goti e sugli Italiani (De bello Gothico, p. 11). Della diceria si fa eco anche Gregorio di Tours, che, pieno di ostilità per la perfida ariana, che aveva così malamente macchiato il nobile sangue franco della madre, sa persino dirci il nome del barbaro eretico con cui A. avrebbe voluto unirsi in matrimonio. Sono pennellate di colore, ma, in realtà, accanto alla prosa retorica di Cassiodoro, così preoccupato di abbellire la situazione effettiva con gli ornamenti della sua letteratura e con la speranza di una tradizione ufficiale, queste testimonianze ci mostrano l'elemento personale e psicologico, che pure ha il suo peso nella storia, di una donna che deve combattere contro insidie d'ogni genere e, forse, contro quelle del suo stesso carattere pieno d'ambizione e nello stesso tempo di oscuri timori. Dal 528 Cassiodoro non parla più: le testimonianze che abbiamo fino al suo ritorno al potere, come prefetto del pretorio alla fine del 533, oltre a quelle già ricordate di Procopio, si riferiscono alla situazione romana.

Felice IV, il papa creato da Teodorico negli ultimi giorni della sua esistenza contro l'opposizione di una forte corrente del clero, del senato e del popolo romano, era sempre rimasto in buon accordo con il governo di Ravenna e alla fine della sua vita aveva pensato di designare il suo successore per impedire che torbidi e lotte si rinnovassero e i beni della Chiesa andassero dispersi nelle competizioni elettorali. Questo, almeno, è quanto viene detto nel praeceptum del papa, il quale afferma di aver informato della sua intenzione "i regnanti". La designazione al plurale sembrerebbe far credere che a quell'epoca (agosto 530) la reggente avesse assunto poteri effettivi, come dal 533 anche la penna ufficiale di Cassiodoro riconosceva (Variae, XI, 1).Malgrado la designazione, Bonifacio II, ricco ecclesiastico di origine germanica, fu eletto solo da una parte, e non dalla maggiore, del popolo, del clero e del senato romano.

Gli fu opposto un diacono che era venuto profugo da Alessandria, il greco Dioscoro, già amico di Simmaco e collaboratore di Ormisda ai tempi della pace del 519con la Chiesa costantinopolitana. Solo la sua morte avvenuta dopo pochi giorni lasciò libero il potere a papa Bonifacio che, come del resto il suo predecessore, dovette più volte intervenire per sopperire alle difficoltà annonarie di Roma travagliata dalla carestia. Nel 531 papa Bonifacio intervenne rivendicando i suoi diritti contro il patriarca di Costantinopoli, Epifanio, dichiarando illegittima un'elezione episcopale a Larissa, in Tessaglia: e questa disputa ecclesiastica facilmente ridesta echi che vanno al di là delle contese di competenza tra i due patriarcati e possono richiamare anche urti politici tra l'impero e il regno occidentale. In occasione dello scisma il senato romano, con formule che contemperavano tanto la dipendenza dal papa quanto quella dal regno gotico, emise un senatus consultus nel quale si promulgavano sanzioni contro chi, durante la vita del papa, avesse osato aprire tractationes elettorali. Nello stesso tempo, si presero provvedimenti contro i tentativi di corruzione. Il papa riuscì ad ottenere il 27 dic. 530 una condanna contro Dioscuro anche da parte di coloro che lo avevano sostenuto, ma non gli riuscì di far eleggere un successore nella persona del diacono Vigilio. In un primo momento un sinodo romano aveva accettato la designazione e giurato di considerare Vigilio come successore di Bonifacio, ma in un secondo tempo il clero prese un atteggiamento diverso anche per l'influenza del senato, e il papa, di fronte a un nuovo sinodo, annullò la sua precedente decisione e dovette ammettere di aver oltrepassato le sue prerogative. Quando Bonifacio morì il 17 ott. 532 si rinnovarono torbidi e lotte e solo il 2 genn. 533 venne eletto il successore nella persona del prete Mercurio, che cambiò il nome in quello di Giovanni II.

Se a Roma continuavano i torbidi e i segni di disagio in una situazione che forse aveva delle profonde radici locali e che a torto, troppo facilmente, si cerca di collegare con gli eventi della politica contemporanea, la monarchia franca attraverso le iniziative dei figli e dei nipoti di Clodoveo veniva continuando la sua espansione in modo da minacciare e da comprimere ai confini la stessa sicurezza del regno ostrogoto. Nel 531 Teodorico e Clotario uccisero Ermanfredo e distrussero il regno dei Turingi; Amalberga, sorella di Teodato, dovette fuggire in Spagna (De bello Gothico, p. 72). Nell'autunno del 531 Childeberto attaccò i Visigoti e Amalarico, cugino di Atalarico, dopo la sconfitta fu ucciso presso Barcellona da soldati inrivolta. La successione fu raccolta da Teudi che dovette cedere ai Franchi altre parti del regno visigoto. Nel 532 Childeberto e Clotario attaccarono il regno burgundo e gli Ostrogoti si limitarono a dimostrazioni senza conseguenze, anche se furono esaltate con la solita retorica da Cassiodoro (Variae, IX, 1) e non poterono impedire la distruzione di questo stato. A., isolata da quel complesso di alleanze barbariche che era stata la grande fatica di Teodorico, non si curò dell'appoggio dei suoi e venne cercando nuovi contatti e nuovi accordi con Giustiniano. Così dice Procopio (De bello Gothico, p. 16) e Giordane lo conferma, attribuendo implicitamente la causa di questo atteggiamento alle insidie e alla potenza dei Franchi (Getica, p. 136), ma non lo fece con decisione e in maniera lineare come i due scrittori, legati per diversa via a una particolare interpretazione, potrebbero lasciar credere. Dal 532 A. cercò un avvicinamento con i Romani e con Cassiodoro e i suoi. Nel 533Cassiodoro ritornò prefetto del pretorio e cercò di ristabilire rapporti cordiali con il senato e con la Chiesa; per il 534fu designato console un membro della famiglia dei Deci, mentre negli anni precedenti non c'erano stati consoli in Occidente. Liberio divenne patricius praesentalis, probabilmente al posto di Tuluin (Variae, XI, 1). Nell'editto di Atalarico (Variae, IX, 18) si cercano di colpire abusi e prepotenze da parte dei Goti, ma non c'è solo quest'atteggiamento favorevole ai Romani e alla Chiesa, perché in tutto il programma di governo di Cassiodoro, quale emerge dai libri XI e XII delle Variae,c'è un tentativo di tener ferme le istituzioni nel difficile equilibrio di forze così eterogenee e contrastanti; non solo, ma nei confronti dell'impero non mancano accenni a una politica in qualche modo di prestigio che avrebbe dovuto accostare alla reggente le simpatie di coloro che male vedevano la preminenza greca (Variae, XI, 1).Forse a questi atteggiamenti si deve l'interpretazione di Procopio secondo cui A., dopo aver progettato la fuga in Oriente, cambiò indirizzo quando con l'uccisione dei tre Goti a lei avversi - che prima aveva cercato di allontanare - credette di aver rafforzato la sua posizione. In realtà - e Procopio stesso ce lo conferma in più di un luogo - una svolta decisiva nei rapporti tra A. e Giustiniano si ebbe dopo la campagna d'Africa. Forse per la vecchia rivalità di famiglia dopo la morte di Amalafreda, forse nella speranza di negoziare da una posizione di forza, perché nessuno si poteva attendere, neppure a Costantinopoli, da parte degli oppositori di Giustiniano, una così rapida soluzione del problema vandalico, A. cercò di favorire, anche contro il parere dei suoi consiglieri goti e romani, le operazioni della flotta di Belisano. Alla fine, dopo la distruzione del regno vandalico, magro compenso per l'affermazione della potenza imperiale, ci fu la rioccupazione di Lilibeo, che era stata la dote di Amalafreda. Ma anche questo successo, che forse fu strappato più dall'iniziativa dei capi locali che dalle direttive di Ravenna, non venne riconosciuto a Bisanzio e, prima da parte di Belisanio, si reclamò la restituzione della fortezza con parole che, nel racconto procopiano, stanno a indicare l'intenzione di una riconquista anche dell'Italia. A. chiese di negoziare direttamente con l'imperatore e qui comincia quella rete di intrighi, di trattative private che si contrappongono e contrastano con quelle pubbliche, di accordi personali che Procopio cerca di esporre con un malcelato senso di critica nei riguardi di Giustiniano che, in condizioni tanto favorevoli, per debolezza o per gusto di complicati raggiri, forse anche per voler mescolare problemi religiosi con problemi politici, non seppe sfruttare a pieno e che, invece di un successo, che appariva ancor più facile di quello africano, portò una lunga guerra durata più di vent'anni.

Comunque il racconto di Procopio è sempre, in qualche modo, più un'interpretazione che una narrazione, ed è vano cercare in lui una cronologia rigorosamente esatta e ancor più inutile sciupare tesori di esegesi per mettere d'accordo i suoi dati con gli atti di Cassiodoro. Una cosa è certa: nel giugno del 533 Giustiniano inviò una lettera a papa Giovanni per chiedergli l'approvazione della formula di fede teopaschita (una persona della Trinità ha patito per noi) e la condanna dei monaci acemeti, che a questa formula rigidamente si opponevano. Due vescovi vennero inviati a Roma e forse tardarono a partire per le vicende della guerra africana. Comunque a Roma ottennero dal papa una risposta soddisfacente, ma la lettera che fu scritta in data 25 marzo 534 sollevò obiezioni del gruppo dei senatori del concistorio di Ravenna, tra cui Cassiodoro, Avieno, Opilione, Liberio, Ampelio e altri.

Giovanni ebbe qualche imbarazzo a rispondere e a spiegare il suo atteggiamento a questi fedeli cattolici e buoni sudditi di A. che forse rimpiangevano i tempi in cui, in occasione dello scisma acaciano, una collaborazione di fatto si poteva mantenere tra papi come Gelasio e Simmaco e Teodorico. Questi i documenti ufficiali; d'altra parte il racconto di Procopio accenna come con questi vescovi bizantini entrò in rapporto Teodato, cugino di A., e nello stesso tempo parla di trattative che il senatore e comes Alessandro, inviato da Giustiniano, avrebbe svolto con Amalasunta. Ufficialmente oggetto dei negoziati sarebbero stati i punti di attrito tra Bisanzio e i Goti, Lilibeo, l'accoglienza di disertori dell'esercito africano a Napoli e le mosse gotiche verso il Danubio. E su questi punti A. risponde ufficialmente con controproposte che mostrano tutta la coscienza della dignità dello stato gotico e che potrebbero benissimo, con altro stile, figurare nelle Variae, ma segretamente si dichiara pronta a consegnare l'Italia all'imperatore, qualora con la morte, ritenuta imminente, di Atalarico la sua situazione si fosse resa insostenibile. È difficile stabilire i limiti delle concessioni segrete che A. sarebbe stata pronta a fare a Giustiniano; probabilmente poteva trattarsi di una revisione dell'accordo fino allora vigente e una rinuncia a certe manifestazioni di indipendenza più accentuata e di pretese imperiali, quali apparivano nelle intenzioni e nelle parole di Cassiodoro. Parallelamente ai rapporti tra A. e Alessandro, Procopio ci parla di quelli di Teodato e i vescovi orientali. Teodato si era costituito un largo dominio nella Tuscia e contro di lui già Teodorico aveva potuto prendere provvedimenti per impedirgli un'attività che non doveva avere solo un significato di violenza privata, ma poteva costituire una forma di opposizione politica. Anche A. si era resa conto della forza del cugino e sembrò chiederne la collaborazione quando gli fece riconoscere il possesso dei beni di Amalafreda. Certo la posizione di questo principe amalo che forse, con la madre Amalafreda, aveva passato i giovani anni alla corte di Bisanzio, amante della cultura e della filosofia platonica - come, con qualche ironia, dichiara Procopio (De bello Gothico, p. 15) e conferma, del resto, Cassiodoro (Variae, X, I, 3, ecc.) - imbevuto anche di dottrina teologica, signore di possedimenti tali da farlo chiamare "re di Tuscia" (Hist. Franc., III, 61), era veramente singolare e poteva costituire un elemento importante nell'intricato momento italiano. Secondo Procopio egli avrebbe offerto all'imperatore i suoi domini personali al centro della penisola in cambio di un posto al senato di Costantinopoli e di grandi ricchezze nell'impero. Se si pensa che in quello stesso periodo, o poco prima, un generale vittorioso come Vitige veniva cercando di intessere fila di rapporti personali nella capitale greca (Variae, V, 23), non si può mancare di notare in quali differenti modi venisse considerata la possibilità di continuare una partecipazione alla vita bizantina da parte dei Goti.

In quest'intrigo di offerte e controfferte, la morte di Atalarico il 2 ott. 534, quando ancora A., secondo Procopio, avrebbe dovuto attendere la risposta delle sue proposte segrete a Giustiniano, portò a una svolta inaspettata degli avvenimenti. Presa tra il timore dei Goti dissidenti, le difficoltà di un accordo soddisfacente con l'impero, la perplessità dei suoi stessi sostenitori, A. chiamò a sé il cugino, che poco prima aveva trascinato in giudizio per le sue usurpazioni terriere, e se lo associò al trono con l'intesa di tenere per sé la sostanza del potere e di lasciare a lui solo l'apparenza.

Era una situazione estremamente confusa e nella stessa comunicazione che Teodato fece al senato della sua nuova dignità (Variae, X,4) ci sono accenni molto trasparenti alla volontà del nuovo assodato al trono di far valere gli antichi diritti e di dar significato a una politica di pretese dinastiche già da tempo perseguita. Vennero mandati due ambasciatori goti a Giustiniano per dar notizia con qualche ritardo del nuovo assetto italiano. Ma non molto tempo dopo - e non è facile precisare quando - la pressione dei Goti avversi ad A. avrebbe indotto Teodato ad allontanare la regina, che ora si chiamava così anche ufficialmente, dal trono e a relegarla in un'isola del lago di Bolsena.

Secondo Agnello questo sarebbe avvenuto il 30 apr. del 535; secondo Procopio certamente prima, anche se non precisa quando. Comunque nel racconto di Procopio c'è qualcosa di non chiaro. Egli infatti narra di due incontri in due luoghi diversi, di Pietro, ambasciatore di Giustiniano, una prima volta, con i legati goti, prima dell'associazione al trono di Teodato; e una seconda volta con Liberio e Opilione, messi di Teodato, che annunziarono l'allontanamento di Amalasunta. Schematizzazione e, a un tempo, complicazione della realtà. Pietro è colui che poi Procopio negli Anecdota accusa di essere l'anima nera di Teodora e che divenne, come diplomatico e scrittore, uno dei più interessanti personaggi dell'èra giustinianea.

Ma anche qui è difficile accordare e chiarire questioni così complesse; quello che è certo è che la figlia di Teodorico cadde vittima della sua incapacità di fronteggiare e di conciliare forze diverse in urto tra loro, di superare l'antitesi religiosa tra Goti e Romani, di trovare una linea coerente di fronte all'impero, anche se - e un esame attento delle fonti, soprattutto in Cassiodoro, potrebbe dimostrarlo - ci fu un tentativo di appianare i contrasti. Giustiniano comunque riconobbe il regime di Teodato. Quando Pietro giunse in Italia nel marzo del 535,A. era già prigioniera nell'isola del lago di Bolsena e ivi, a opera dei parenti dei Goti che ella aveva fatto assassinare, fu strangolata, forse il 30 apr. 535.

Da allora il nome di A. divenne una bandiera per giustificare da parte di Giustiniano il suo intervento in Italia e per tentare, dietro quel ricordo, di comporre in un compromesso le difficoltà italiane. Ma neppure da morta A. servi a quello scopo: e la terribile guerra gotica ne fu la dimostrazione.

Fonti e Bibl.: Iordanis Romana et Getica, a cura di T. Mommsen, in Monumenta Germ. Hist., Auctores antiquissimi, V, 1, Berolini 1882, pp. 48, 77, 122, 135, 136, 137; Cassiodori Senatoris Variae, a cura di T. Mommsen, ibid., XII, Berolini 1894, passim (cfr. Index personarum); Procopii Caesariensis De bello Gothico, a cura di I. Haury, in Procopii Caesariensis Opera omnia, II, Lipsiae 1905, passim (cfr. Index nominorum); Id., Anecdota, ibid., III, 1, Lipsiae 1906, passim; Gregorii episcopi Turonensis Libri Historiarum XV, a cura di B. Krusch e W. Levison, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Merovingicarum, I, 1,Hannoverae 1937-42, pp. 96, 126, 127; T. Hodgkin, Italy and her invaders, IV, London 1885, pp. 527-648; A. Gaudenzi, Sui rapporti tra l'Italia e l'impero d'Oriente tra gli anni 476 e 554, Bologna 1888, pp. 73-93; T. Mommsen, Ostgothische Studien, in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, XIV (1889), pp. 225 ss., 453 ss.; L. Ginetti, Il governo di A. e la Chiesa di Roma, Siena 1901; G. Sundwall, Abhandlungen zur Geschichte des ausgehenden Römertums, Helsingfors 1919, pp. 259-279; J. B. Bury, History of the later roman Empire, II, London 1923, pp. 159-167; R. Cessi, Le vicende politiche dell'Italia medioevale, I, La crisi imperiale, Bologna 1938, pp. 90-101; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 97-115; E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, Paris 1949, pp. 262-264, 328-337; cfr. anche Encicl. Ital., II, p. 744.

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