LORENZETTI, Ambrogio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LORENZETTI, Ambrogio

Michela Becchis

Non si conosce la data di nascita di questo pittore senese, documentato tra il 1319 e il 9 ag. 1348, quando, durante la pestilenza che infuriò in tutta Europa, fece testamento.

Nella scritta apposta sotto i perduti, ma a lungo celebri e decantati, affreschi con le Storie della Vergine, eseguiti sulla facciata dello spedale di S. Maria della Scala si leggeva "Hoc opus fecit Petrus Laurentij et Ambrosius eius frater", come trascrisse nel 1649 Ugurgieri Azzolini. Con questa firma era dichiarata non solo la parentela fra i due, ma anche la maggiore età di Pietro, nonché la probabile responsabilità di capo bottega di quest'ultimo. L'iscrizione fu tuttavia ignorata tanto da Ghiberti, quanto da Vasari.

Del L. non rimangono molti documenti relativi ad attività e vita privata; gran parte delle opere che lo fecero ammirare anche in epoche poco inclini all'arte medievale sono perdute o ridotte a frammenti. La prima data certa a lui riferibile è il 1319 scritta, con la dedicatoria, sotto la Madonna col Bambino proveniente da Greve in Chianti, ma ritrovata da De Nicola a Vico l'Abate (ora San Casciano Val di Pesa, Museo d'arte sacra).

In quest'opera il L. mostra di aver già avviato la sua coerente e lunga riflessione sull'arte fiorentina, sugli esiti della pittura di Giotto, pur proponendo una Vergine in posa arcaicamente frontale, in cui la monumentale e luminosa corposità si appella direttamente ad Arnolfo di Cambio. Che in quegli anni il pittore fosse a Firenze lo testimonia anche un documento, datato maggio 1321, in cui, per un debito non saldato, gli venne sequestrato un abito da donna, forse della moglie (Rowley, p. 129).

Di poco precedente alla Madonna di Vico l'Abate potrebbe essere la Madonna già in coll. Cagnola (Milano, Pinacoteca di Brera), in pessimo stato di conservazione e con la rara iconografia del Bambino strettamente fasciato, datata dalla maggioranza della critica intorno al 1315, sia per indicazioni tecniche, quali la centinatura e l'uso di punzoni presto abbandonati dal L., sia per l'indubbia affinità con la Madonna di Monticchiello del fratello Pietro.

A Siena il L. doveva essere sicuramente nel gennaio del 1324, quando vendette un terreno (ibid.). In questo periodo possono collocarsi il rovinato Crocifisso proveniente dalla chiesa del Carmine di Siena (Siena, Pinacoteca nazionale), la Madonna Blumenthal (New York, The Metropolitan Museum of art) e il Crocifisso della chiesa di S. Lucia a Montenero sull'Amiata (Carli, 1965, p. 212). Queste opere, di un periodo ancora relativamente giovanile dell'attività del pittore, mostrano solo echi della pittura di Duccio di Buoninsegna, in quegli anni, invece, ancora ben presente nell'arte del fratello. Ciò sembrerebbe dare forza all'ipotesi secondo la quale, pur ammettendo la presenza del L. nella bottega del vecchio Duccio nell'importante, estremo momento della creazione della splendida Maestà della cattedrale di Massa Marittima (Bartalini), in realtà il suo vero, primo maestro fu il fratello Pietro, dalla cui pittura il L. sembra in parte distaccarsi durante il suo primo avvicinamento all'ambiente fiorentino per poi riaccostarsi sul finire del terzo decennio del secolo. Per parte della critica (Péter; Rowley; Volpe, 1960; De Benedictis) a questi anni andrebbero ricondotti anche gli affreschi nella sala capitolare e nel chiostro di S. Francesco a Siena, questi ultimi riemersi in frammenti nel 1978.

Il successivo documento relativo al L. è la sua immatricolazione a Firenze all'arte dei medici e speziali, avvenuta dopo il 1327, verosimilmente tra il 1328 e il 1330 (Mather, p. 57; Hueck); l'opera più vicina a questa data, eseguita per Firenze, è il polittico per S. Procolo (Firenze, Galleria degli Uffizi) ricordato tanto da Ghiberti (p. 89), che lo vide sull'altare maggiore, quanto da Vasari (p. 522), e sotto cui Bocchi lesse "Ambrosius Laurentij de Senis MCCCXXXII"; del polittico rimangono la Madonna col Bambino e gli sportelli con S. Procolo e S. Nicola. Nella stessa chiesa, sempre secondo Vasari, che c'informa anche della grandissima attenzione che queste opere ricevettero tra i pittori fiorentini, il L. dipinse degli affreschi, perduti, e, per la cappella di S. Nicola, un dossale che doveva avere nella tavola centrale una figura intera del santo eponimo e, ai lati, storie della sua vita.

Di queste rimangono quattro piccoli pannelli (Firenze, Galleria degli Uffizi). Perduti, oltre alla tavola centrale, sono invece i laterali con il Battista e il S. Giovanni Evangelista e la predella con Storie di s. Procolo certamente ancora in situ nel 1755 (Richa, pp. 240 s.). Nelle tavolette il L. compose, per la prima volta, quei paesaggi, cittadini e costieri, che sarebbero diventati un suo tratto specifico.

Dopo il soggiorno fiorentino, il L. dovette far ritorno a Siena e risiedervi in maniera più stabile, anche se più che probabili possono ritenersi altri viaggi a Firenze.

Il quarto decennio del secolo dovette essere contraddistinto, per il pittore, da un'attività molto intensa: infatti, benché la critica ancora oggi non sia per nulla concorde sullo svolgimento della vicenda artistica del L., è comunque in questo decennio che, insieme con la maggior parte dei documenti, vengono a sistemarsi la gran parte delle sue opere pervenuteci. Ai primi di questi anni sembrano riferibili i due affreschi che si trovavano nella sala capitolare di S. Francesco a Siena, che furono ritrovati, come quelli del fratello Pietro, nel 1855, e, nel 1857, staccati e trasportati all'interno della chiesa; di questi dovrebbe far parte anche il frammento con gli splendidi volti di clarisse ora a Londra (National Gallery).

Le due scene rappresentano S. Ludovico davanti a Bonifacio VIII e il Martirio dei francescani a Ceuta. Quest'ultima iconografia appare piuttosto dubbia (Carli, 1981, p. 183) e da ultimo è stato proposto di considerare questa scena come rappresentazione di un martirio non avvenuto in Marocco, ma sulla strada della Cina - e di cui si è forse persa la cronaca -, come ben dimostrano la varietà degli abiti e delle fogge dei molti personaggi (Frugoni, pp. 188-190). Sebbene sia indubbia, in particolare nella scena di S. Ludovico, una certa analogia tra la frontale determinazione dei volti di alcuni astanti con quella della Madonna di Vico l'Abate (Volpe, 1960, p. 267), l'opera sembra essere testimone di un momento di ricerche spaziali e volumetriche che i due fratelli condussero quasi in parallelo, forse già nella stessa bottega, che per Pietro culmina nella predella della Pala del Carmine (1329 circa) e nel L. si perfeziona ulteriormente proprio in questa scena con la suddivisione dello spazio in quattro piani successivi mediante la sistemazione dei presenti. Vi è inoltre l'ipotesi (Boskovits, p. 8) di una probabile volontà dei committenti di mostrare l'obbedienza di Ludovico in un momento in cui l'Ordine era ancora dilaniato dalla lotta tra spirituali e conventuali.

In anni compresi tra il 1333 e il 1337 si può collocare il polittico (Asciano, Museo d'arte sacra), ricomposto con una sfarzosa carpenteria nel XVI secolo, proveniente da Badia a Rofeno, ma forse dipinto per Monte Oliveto Maggiore dove Vasari ricordava una tavola del pittore. Di quest'opera la parte più impressionante è il S. Michele che uccide il drago in cui l'avvolgersi e lo stravolgersi frenetico delle linee compositive, che pure hanno l'efficacia di rappresentare un corpo verissimo, danno vita a un'opera di un gotico così esplosivo da aver tratto in errore qualche critico che l'ha pensata opera di XV secolo avanzato (Rowley).

Approfittando di quest'abbaglio critico è opportuno ricordare come il costante sperimentalismo del L., il suo spostarsi dalle esperienze senesi di Simone Martini a quelle fiorentine del "Maestro di Figline", la sua personale ricerca gotica, che in alcune opere sembra messa a tacere (Volpe, 1951), nonché la sicura presenza di una bottega ben avviata, probabilmente gestita col fratello, e capace di creare una gran quantità di opere di grande e piccolo formato sempre di alta qualità (Laclotte - Frank), hanno fatto spesso moltiplicare il suo catalogo in una moltitudine ingiustificata di ipotetici "maestri" (Previtali). Dopo il S. Michele, possono sistemarsi una serie di tavole raffiguranti la Madonna col Bambino in cui il L., ponendo il piccolo sempre in pose vivaci, sperimenta da un lato il rapporto tra corpo e luce, tra la tridimensionalità dell'agitata figuretta e quella delle mani della madre sempre impegnate a stringere, a trattenere; dall'altro una inesauribile serie di espressioni e atteggiamenti volta al totale coinvolgimento dell'osservatore. Tra queste opere debbono citarsi la Madonna col Bambino proveniente dalla chiesa di S. Eugenio a Siena (Boston, Museum of fine arts), la Madonna col BambinoLehman (Washington, National Gallery of art), la Madonna col Bambino di Budapest (Museo nazionale) e il bellissimo trittico della parrocchiale di Roccalbegna (Grosseto) in cui la parte centrale, malamente segata, è affiancata da due pannelli con S. Pietro e S. Paolo raffigurati con una massività così "architettonica" da aver fatto evocare, ancora una volta, il nome di Arnolfo (Carli, 1981, p. 214).

Di poco successivo deve essere il polittico ancora nella chiesa senese di S. Pietro alle Scale, o in Castelvecchio, sulla cui facciata Tizio ancora ammirava un'Annunciazione affrescata sempre dal Lorenzetti. Il polittico, nonostante l'altissima qualità, è stato spesso sottratto all'autografia del pittore (Sinibaldi, 1933; Rowley), ma in realtà recava la sua firma, letta dall'erudito senese Benvoglienti prima che la tavola centrale con la Madonna col Bambino fosse tagliata quasi per metà (Cateni). Vicina nel tempo a questo polittico deve essere una delle opere più celebri del pittore: la Madonna del Latte del seminario agostiniano di Lecceto (Siena, palazzo arcivescovile).

L'ellisse che delimita le due figure fuoriesce dalla cornice a cui la Madonna si appoggia con la spalla destra per aiutarsi nella fatica di trattenere la vivacità del Bambino che guarda con interesse l'osservatore. Convergono quindi dati lineari, cromatici, espressivi e devozionali per costruire una perfetta articolazione spaziale delle figure. A questi anni si riferiscono anche i Ss. Caterina, Romualdo, Francesco e Maddalena (Siena, Museo dell'Opera del duomo) che, ritenuti da alcuni opera di collaboratori (Rowley; De Benedictis), vanno probabilmente ricondotti allo stesso L., seppur con il normale aiuto di bottega.

Nel 1978 sono riemersi frammenti del ciclo di affreschi nel chiostro di S. Francesco a Siena che Ghiberti (p. 56) definì "meravigliosa cosa", in particolare per l'ammiratissima scena di tempesta, ritenuta da Mancini (p. 176) la prima rappresentazione credibile di un fenomeno atmosferico.

La datazione e l'iconografia degli affreschi sono state ricostruite da Seidel (1979) sulla base del testo di Ghiberti, dei resoconti agiografici e della cronologia interna di altri interventi artistici nel chiostro: raffiguravano in sette riquadri le scene del martirio di quattro francescani avvenuto nel 1321 in Oriente e dovettero essere compiuti non prima del 1336.

In questo periodo documenti e fonti parlano di molte altre opere condotte dal L. per Siena e i suoi possedimenti; a tal proposito va tenuto presente che sicuramente il L., dopo la partenza di Simone Martini, avvenuta entro il 1336, diventò l'artista ufficiale del Comune e degli ordini più influenti della città, interlocutore dotto e sapiente del potere, al punto che fu tramandato un suo intervento in qualità di membro del Consiglio dei paciari, nel 1347, per l'importanza dei suoi "sapientia verba" (Arch. di Stato di Siena, Deliberazioni del Concistoro, 1347, c. 91r).

Un documento del 1334 lo dichiara presente a S. Galgano in qualità di testimone per un atto di alienazione di possedimenti di una dipendenza dell'abbazia. Era quindi già presente laddove si sarebbe recato anni dopo per un'importante committenza (Luchs).

Nel 1335 ricevette un pagamento per un intervento sulla "Nostra Donna di Duomo" (Milanesi, 1854, p. 195). Allo stesso anno risalgono i citati affreschi, compiuti col fratello, sulla facciata dello spedale. Nello stesso anno, secondo Vasari, fu chiamato a Cortona (in possesso dei Senesi fin dal 1258) per eseguire affreschi, la tecnica in cui eccelse, in S. Margherita; in quella città rimangono più opere del fratello, ma nulla di suo.

Nel 1337, secondo la Cronaca senese di Agnolo di Tura del Grasso (p. 518) il L. affrescò sulla facciata del palazzo pubblico delle Storie romane probabilmente quelle dipinte, secondo Vasari, a monocromo, a imitazione dei rilievi romani.

Nella chiesa di S. Agostino a Siena, forse prima del 1338, anno in cui si tenne un capitolo generale dell'Ordine per discutere problemi dottrinari interni, il L. affrescò Le Storie del Credo, Storie di s. Caterina d'Alessandria e una Crocifissione.

La chiesa tuttavia subì un rifacimento quasi completo nel XVI secolo e solo nel 1944, spostando un altare del Sodoma (Giovanni Antonio Bazzi), riapparve un affresco, una splendida Maestà (Niccoli) proprio nel luogo dove, fino al XV secolo, era ubicata la sala capitolare (Seidel, 1978). Era riapparso così l'unico resto del complesso ciclo di affreschi descritto con alti elogi da Ghiberti, Bernardino da Siena, Vasari. Le difficoltà allegoriche e dei rimandi teologici del perduto ciclo sono intuibili anche nella Maestà: i ss. Caterina, Agata, Bartolomeo e Apollonia offrono i simboli dei loro supplizi; s. Agostino offre tre libri; una bella ed elegante Maddalena porge un vaso da cui appare un serafino; l'arcangelo Michele osserva la malinconica Madonna seduta su un trono formato dalle ali di altri serafini e che sorregge un Bambino impaurito dal cardellino - simbolo della Passione - che ella stessa gli porge. È chiaro che il complicato programma dovette essere fornito dall'Ordine, ma appare anche evidente che l'incarico fu affidato all'unico artista ritenuto capace, non solo di creare scene di grande e concisa potenza narrativa attraverso una perfetta localizzazione di spazi e personaggi, ma anche di coglierne la complessità.

Al periodo tra il febbraio e l'aprile del 1338 (Maginnis, pp. 13 s.), risale il primo pagamento al L. per la sua opera più celebre: il ciclo delle Allegorie e degli Effetti del Buono e del Cattivo Governo, nella sala della Pace del palazzo pubblico di Siena, che egli firmò "Ambrosius Laurentii de Senis hic pinxit Utrinque". Quest'ultima parola ("da ambo i lati") si riferisce non a due pareti della sala, essendo questa affrescata su tre lati, ma alla bipartizione del contenuto. I pagamenti al L. continuarono fino al maggio 1339, un periodo breve, vista l'estensione degli affreschi, motivato dall'urgenza di restituire rapidamente ai Nove la sala dove essi si riunivano, ma, soprattutto, davano udienza e dove si sarebbero celebrati, proprio con quegli affreschi, i cinquant'anni di potere sulla città dell'oligarchia borghese.

Due livelli compongono il tessuto teorico-iconografico del ciclo: quello allegorico-simbolico e quello esemplificativo-descrittivo i quali, di fatto, secolarizzano quanto già Simone Martini aveva espresso con la sua Maestà, sempre in palazzo pubblico, ovvero che l'interesse privato deve essere sempre subordinato alla giustizia e al bene comune, perché solo da quelli reso possibile (Rubinstein, 1958; Id., 1995). Il ciclo inizia sulla parete di fondo con l'allegoria del Buon Governo dominata dalle figure della Giustizia, con ai suoi piedi la Concordia, e del Vegliardo che è insieme simbolo del bene comune e del Comune di Siena, seduto tra le splendide figure femminili che incarnano le Virtù civiche. Sulla contigua parete di destra si snodano gli Effetti delBuon Governo negli straordinari paesaggi, panorami e vedute della felice, operosa Siena e del suo dolce contado, giù fino al mare; su tutto dispiega le ali la Securitas. La terza parete, la più rovinata e lacunosa, rappresenta le Allegorie e gli Effetti del Cattivo Governo: domina la figura diabolica della Tirannide, seduta tra i Vizi, con ai suoi piedi la sofferente personificazione della Giustizia legata; e crolli, abbandoni, stupri, rapine e omicidi scandiscono cupamente gli effetti su cui grava, terribile, la figura del Timor. Indispensabile complemento delle grandi scene sono le fasce decorative con le Stagioni, i Pianeti, gli emblemi del potere papale e imperiale, le Arti del Trivio e del Quadrivio, i tiranni dell'antichità. Anche in questo caso, come per S. Agostino, fu la committenza a organizzare il piano iconografico, ma la straordinaria inventiva tutta pittorica impegnata dal L. nella sala della Pace non può essere offuscata dalla complessità concettuale del ciclo (De Benedictis, p. 882). D'altro canto va considerato che questo insieme morale ed estetico ha imposto a storici di ogni disciplina, letterati, filosofi, politologi di misurarsi, ancora adesso, con questa pittura politica, che non fu l'unica, ma che certo rimane la più famosa del Medioevo (Donato, 1995; Id., 2002). Sono infinite le soluzioni che il L. trovò per rendere in immagini le idee: dallo splendore di ogni singola donna-personificazione del Buon Governo, alla perfetta scansione di ogni spazio negli Effetti che, come già egli aveva sperimentato nelle Storie di s. Nicola, si rende rasserenante filum narrativo; dalla ricercata monumentalità delle personificazioni, che sembrano essere il passo successivo alle Allegorie giottesche degli Scrovegni, a un'accuratezza fisionomica che precipita il concetto nella vita quotidiana, nel suo bene e nel suo male. Ma errato sarebbe vagliarle e isolarle una a una, tanto l'insieme risulta alla fine artisticamente compatto.

Mentre forse il L. lavorava in S. Agostino, nacque il grandioso progetto di raddoppiare le dimensioni del duomo e l'idea di esporre alla diretta visione dei fedeli le reliquie dei quattro santi patroni della città, da sistemarsi in altrettanti altari nella chiesa.

Le pale che sarebbero andate a ornare gli altari avrebbero avuto al centro fatti legati alla vita di Maria, alla quale la città era stata consacrata, mentre nei laterali e nelle predelle sarebbero state raffigurate immagini e storie dei protettori. Nel 1335 fu commissionata a Pietro la Pala di S. Savino; nel 1337 venne comprato, dall'Opera del duomo, il legname per le tavole, la predella e i pinnacoli della pala di S. Crescenzio, affidata al Lorenzetti. Il lavoro del L. si sarebbe, però, protratto a lungo, concludendosi solo nel 1342, proprio come quello del fratello, secondo quanto si legge sotto la tavola centrale della pala con la Presentazione al tempio (Firenze, Galleria degli Uffizi): "Ambrosius Laurentii fecit hoc opus anno Domini MCCCXLII". Perduti sono i laterali con S. Crescenzio e S. Michele Arcangelo. La tavola, pervenuta agli Uffizi nel 1913, è un'opera che ha rivestito un'importanza fondamentale per la pittura, non solo senese, del XIV e del XV secolo. La raffinata complessità dell'iconografia carica di significati tratti dalle Scritture, associata ai cartigli di Mosè, di Malachia e della Profetessa Anna, rende l'opera uno straordinario congegno pittorico che in ogni sua pennellata si fa anche testo di dottrina, risultando impossibile la separazione fra fatto artistico e significato. Lo spazio dentro cui il L. pone i larghi e monumentali personaggi è l'esito finale di un percorso iniziato a S. Procolo, il punto più alto della rappresentazione prospettico-spaziale della pittura del Trecento e in questo luogo, e intorno ad esso, il L. mette in atto un'incredibile sequenza di attenzioni di tipo naturalistico, giocate su precisi rapporti luministici, spiegati attraverso una gamma cromatica preziosissima (Bellosi). Connessa dalla critica (Beateson - Muller - Steinhoff) alla Presentazione al tempio è la cosiddetta Allegoria della Redenzione (Siena, Pinacoteca nazionale); infatti le due opere provengono entrambe dallo spedale di Monna Agnese a Siena, dove la grande pala fu trasferita nel 1620 e dove Vasari (p. 523) ricorda un affresco del Lorenzetti. L'Allegoria è un'opera purtroppo molto rovinata e difficilmente accostabile allo splendore mantenuto dalla Presentazione, ma si intuisce ancora il suo alto valore pittorico, e inoltre la complessità del suo argomento potrebbe accordarsi con il tema della pala centrale.

Nel 1335 Massa Marittima passò definitivamente sotto il dominio di Siena e gli agostiniani di quella città commissionarono al L. e ad altri pittori gli affreschi di una cappella e una tavola, di cui danno notizia Ghiberti (p. 38) e Vasari (p. 523). Degli affreschi non rimane nulla, la tavola realizzata dal L. è la grandiosa Maestà (Massa Marittima, Museo civico) circondata da schiere angeliche, santi, patriarchi e Virtù teologali (Norman; Frugoni, pp. 156-161).

La composizione della Maestà di Massa si articola orizzontalmente, in superficie; l'avanzarsi verso lo spettatore, quasi a coinvolgerlo, dei gradini del trono, su cui siedono le "ellenistiche" virtù, diviene sperimentazione cromatica e la profondità del trono stesso si costituisce tramite lo spiegarsi per toni delle ali degli angeli. L'assieparsi di santi e aureole si dispone in modo tale da non rendere pura suggestione l'idea di un tardivo ed elaborato omaggio a Duccio e forse proprio alla Maestà del maestro che ancora era visibile nella sua interezza nel duomo cittadino.

La fiducia degli agostiniani nell'arte del L. è ulteriormente confermata da un'opera ricordata da Ghiberti, realizzata dal L. per la chiesa di S. Spirito a Firenze.

Dopo i lavori a Massa Marittima e per S. Agostino a Siena, dovrebbe porsi la Madonna col Bambino proveniente da S. Lorenzo di Serre di Rapolano (Siena, Pinacoteca nazionale) in cui il Bambino con aria triste stringe consapevolmente il cardellino e la Madonna indossa un sottovelo sgargiante e quasi zingaresco in contrasto con il rosa eburneo dei volti.

Non avendo ancora consegnato la Presentazione al tempio, il L. nel luglio del 1339 venne pagato dall'Opera per aver dipinto un angelo per l'altare maggiore del duomo e un candeliere da porre, forse, davanti alla Maestà di Duccio (Maginnis, p. 17).

Agli inizi degli anni Quaranta risale il polittico proveniente dalla distrutta chiesa del convento di S. Petronilla, già chiesa degli Umiliati, come dimostra il cartiglio tenuto in mano dal Bambino nella tavola centrale (Siena, Pinacoteca nazionale); nei laterali sono dipinte la Maddalena, S. Dorotea e, con interventi più nutriti della bottega, S. Giovanni Evangelista e il Battista. Ritenuta dalla maggioranza della critica pertinente all'opera è la predella con il Compianto sul Cristo morto, dove il L. conduce al punto più alto il suo studio sui volumi dei corpi resi attraverso sperimentazioni cromatiche (Torriti, pp. 110-112).

A conferma ulteriore del ruolo del L. in qualità di pittore ufficiale del Comune esiste un pagamento piuttosto consistente per "più pitture" eseguite nel 1340 (Rowley, p. 98; Maginnis, p. 19); una di queste pitture dovrebbe essere la Maestà con le quattro Virtù cardinali, citata sempre da Agnolo di Tura come dipinta in una loggia del palazzo pubblico e oggi frammentariamente conservata al suo interno. Scomparse le Virtù, il carattere civico di quest'opera è palesato dal globo bianco e nero, i colori della città, che la Madre tiene in mano e che il Figlio benedice, tenendo anche, nella mano sinistra, un cartiglio che invita alla concordia (Carter-Southard, pp. 314-316).

Nonostante il lunghissimo dibattito critico possono assegnarsi alla produzione del L. di questo periodo i due stupefacenti panorami (Siena, Pinacoteca nazionale), con ogni probabilità facenti parte di un armadio (Torriti, pp. 113-116) in cui venivano custodite le carte relative ai possedimenti senesi, poiché da Carli (1981) i due paesaggi sono stati convincentemente identificati con Talamone il primo, e con il castello sul lago di Chiusi o sul Trasimeno il secondo, in quegli anni presidi di confine. La composizione dei due riquadri risulta essere così geometricamente e pittoricamente perfetta da aver indotto Zeri (1973) ad attribuire i due frammenti alla pala dell'arte della lana eseguita dal Sassetta (Stefano di Giovanni) fra il 1423 e il 1426, con una datazione risultata inaccettabile anche dopo i rilievi tecnici.

Difficilmente attribuibili al L., ma piuttosto riferibili alla sua bottega, sono le copertine di Biccherna del 1340 e quella, con la rappresentazione del Vegliardo-Comune, del 1344.

Da un documento del 1340 sappiamo anche che il L. si impegnava ad affrescare la cappella del cimitero dello spedale di S. Maria della Scala e, come conseguenza, gli veniva abbattuta la restituzione di un prestito (Milanesi, 1854, p. 195).

Nel 1340 Vanni Forgia dei Salimbeni fece testamento ordinando che venisse edificata una cappella presso la chiesa di S. Galgano e che tale cappella fosse anche "bene picta" in memoria sua e del giovane figlio premortogli. È, quindi, dopo questa data, intorno al 1342, che si debbono datare gli affreschi della cappella di Montesiepi sulla collina sopra l'abbazia di S. Galgano.

Gli affreschi, oggi fortemente deteriorati (Borsook, 1969; Dunlop), sono dedicati alla Leggenda di S. Galgano, il cavaliere che fattosi asceta piantò la sua spada in una roccia, e alle Storie di Maria, che apparve al giovane Galgano per indicargli la vera vita. A Montesiepi, ancora una volta, bisogna misurarsi, oltreché con la straordinaria inventiva pittorica del L., con la sua ampiezza intellettuale che però, in questo caso, non dovette essere totalmente apprezzata. Entrando il visitatore vedeva subito nella lunetta una Maestà e, al di sotto di questa, un'Annunciazione; nella Maestà, simile a quella di S. Agostino per la disposizione della Madonna e dei personaggi, la Madonna fu posta più in alto obbligando le altre figure a volgere le teste verso l'alto, dando vita, così, a una teoria di volti abilmente scorciati. In primo piano alla destra e alla sinistra della Madonna sono raffigurate le due personificazioni della Carità (Amor Dei, Amor proximi), ai piedi della Vergine compare la voluttuosa figura di Eva che sdraiata regge un cartiglio in cui la Madonna è chiamata Regina. Infatti, il L. aveva raffigurato la Madonna coronata, con scettro, globo e senza Bambino: un'iconografia inaccettabile per le volontà del committente e quindi rapidamente corretta nella più devozionale Vergine Madre. La correzione ha dato vita a un palinsesto in cui ancora oggi si vede bene una Madonna a tre mani. L'Annunciazione sotto la Maestà fu pensata dal L. sfruttando con sapienza, ai fini della costruzione spaziale della scena, la finestra posta al centro della parete e il suo sguancio. Durante i restauri, effettuati nel 1966, staccato l'affresco, comparve una sinopia importante non solo per la sua altissima qualità, di molto superiore ai pur belli affreschi e che permette di ipotizzare un notevole intervento della bottega successivamente al momento dell'ideazione del ciclo, ma anche per l'inconsueta iconografia. Infatti, il L. aveva tratto dai Vangeli apocrifi, e anche dalle cronache di Terrasanta a lui coeve, l'immagine di una Madonna così atterrita dall'annuncio da doversi sorreggere disperata e accasciata a una colonna. Anche in questo caso il ritocco dovette essere immediato per lasciare, sull'affresco, il posto a una Annunciazione più rasserenante (Frugoni, pp. 148-156).

Intorno agli anni di esecuzione degli affreschi di Montesiepi il L. dovette eseguire il piccolo trittico forse proveniente dal convento di Monteoliveto presso porta Tufi a Siena, composto dalla Maestà, preziosa come un'oreficeria e anticipatrice di perfette prospettive (Siena, Pinacoteca nazionale), L'elemosina di s. Nicola (Parigi, Musée du Louvre), proveniente dallo spedale di S. Maria della Scala, e il S. Martino e il povero (New Haven, Yale University Art Museum; Moran - Seymour, 1966-68). Stessa provenienza ha il frammento di vetrata con il S. Michele (Siena, palazzo pubblico), l'unico resto di vetrata del XIV secolo in città.

Camerlengo era un monaco di S. Galgano quando, nel 1344, fu commissionata al L. un'altra Annunciazione: la tavola da porre nell'Ufficio della gabella e che reca la scritta "[X]XVII dece[m]bre MCCCXLIIII fece Ambruogio Lore [n]çi questa tavola" e, a seguire, i nomi del camerlengo e degli ufficiali di Gabella.

In quest'opera, non esente da ridipinture che hanno dato vita a un minuzioso esame della critica in particolare sulle ali di Gabriele e sulle lettere delle parole pronunciate dalla Madonna e dall'arcangelo, il L. concluse matematicamente le ricerche spaziali condotte durante tutta la sua attività, e il precisissimo unico punto di fuga della composizione, sottolineato dal convergere delle mattonelle geometriche del pavimento, sembra si infranga volontariamente contro il metafisico fondo oro che avvolge l'angelo e la Madonna con le loro solitudini.

La conclusione della carriera del grande inventore di paesaggi fisici e mentali, spetta al Mappamundus volubilis rutundusque (Tizio, c. 182) eseguito nel 1345, che secondo Ghiberti (p. 56) rappresentava una cosmografia e di cui a parte l'enorme fortuna, testimoniata dal nome che ancora oggi porta la sala Maggiore del palazzo pubblico, e i segni che il suo ruotare ha lasciato sulla parete della sala, non rimane nulla. Secondo confronti con pitture più tarde eseguite per il palazzo pubblico, doveva essere una tela o una pergamena, posta dentro un'armatura il cui perno avrebbe centrato con fedeltà e con esattezza Siena.

Non si conosce l'esatta data di morte del L. che dovette tuttavia avvenire a Siena a causa della pestilenza del 1348. Risulta infatti morto nel 1349 e con lui anche la moglie e le tre figlie, e i suoi beni furono venduti dalla Compagnia della Vergine Maria (Wainwright, p. 544).

Il testamento del L. fu redatto di suo pugno con precisione e in buon volgare, anziché in latino, come egli stesso sottolinea. Il documento quindi conferma quanto i contemporanei, ma soprattutto Ghiberti (p. 89) e Vasari (p. 524) scrissero: che fosse, cioè, uomo colto, dotto, avvezzo a vivere più da filosofo che da artista.

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