GITAI, Amos

Enciclopedia del Cinema (2003)

Gitai, Amos (propr. Gitai Weinraub, Amos)

Daniela Turco

Regista cinematografico israeliano, nato a Haifa l'11 ottobre 1950. Regista anomalo, inquieto, apolide per necessità e per vocazione, G. ha fatto del suo cinema, nell'arco di quasi trent'anni, uno strumento politico efficace e profondo di conoscenza e di pensiero. Il suo sguardo si è sempre situato su quel confine fertile tra documentario e finzione, focalizzandosi sulla complessità del quadro mediorientale di cui ha indagato le radici umane, culturali, filosofiche, economiche, in un ininterrotto work in progress. La valenza politica dei suoi limpidi piani-sequenza, i lunghi, estenuanti carrelli in camera car, le dissolvenze in nero e le sovrimpressioni, il métissage costante fra le arti che attraversa morbidamente le sue immagini hanno sostenuto il suo lavoro, fondato sull'urgenza e sulla necessità, sulla ricerca etica sempre rinnovata di identità e utopia.

Di origini ucraine e russe ‒ suo padre, nato in Ucraina, fu uno degli architetti del Bauhaus; sua madre, insegnante di teologia ebraica e studiosa di psicoanalisi, era nata in Palestina da padre di origine russa ‒, G. studiò architettura al Technion di Haifa e si laureò nel 1979 a Berkeley, in California. Nel 1973 aveva cominciato a girare i primi film in super 8; nell'ottobre dello stesso anno scoppiò la guerra dello Yom Kippur e si arruolò come volontario in un corpo di soccorso. L'esperienza devastante della guerra fu per G. determinante nella scelta del cinema come mezzo espressivo privilegiato. Nacque così Ahare (1974, Dopo), suo primo cortometraggio a soggetto che ottenne una menzione speciale al New York Film Festival nel 1975 e il premio Eisner dell'università di Berkeley: nel film l'autore mostra semplicemente cose, oggetti inanimati, la sua tuta da combattimento strappata e ancora macchiata di sangue. Con Charisma (1976, Carisma), ispirato al poema di B. Brecht A worker reads history, G. ottenne il premio Eisner e quello dell'Istituto del cinema israeliano. Dal 1977 iniziò a lavorare per la televisione realizzando servizi e documentari, l'ultimo dei quali, Bayt (noto anche con il titolo House, 1980), non fu mandato in onda per la sua posizione critica nei confronti della politica di Israele. È un film intimo e politico che, raccontando i vari passaggi di proprietà di una casa araba di Gerusalemme, sintetizza e anticipa il cinema futuro di G., la sua ostinata, coraggiosa ricerca della verità, l'attenzione appassionata e paziente ai disegni, ai cambiamenti e alle stratificazioni del tempo, la cura e il rispetto per le singole storie. Furono censurati anche Political myths (1977) e Yoman sadeh (noto con il titolo Journal de campagne, 1982) girato durante la guerra del Libano. Centrale in quest'ultimo è la tematica della violenza, e la sua forza profetica consiste nell'aprire una serie di interrogativi dolenti e irrisolti sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Bayt, Yoman sadeh e Wadi (1981, primo di una serie di tre documentari girati da G. con cadenza decennale, di cui l'ultimo è Wadi. Grand Canyon, 2001, nell'ambito del quale vengono rimontati anche i due precedenti) iniziarono a circolare in vari festival, contribuendo a conferire al regista notorietà internazionale. In quegli anni G. viveva a Parigi, a causa delle difficoltà che il suo lavoro, caratterizzato da uno spirito fortemente indipendente, incontrava in Israele. Costretto a filmare lontano dal proprio Paese, realizzò nel 1984, tra Hawaii, Estremo e Medio Oriente, i due documentari Bangkok-Bahrein e Ananas (noto anche con il titolo Pineapple), che anticipano lo sguardo critico sul cinismo delle multinazionali nei loro modi di sfruttamento indiscriminato del lavoro.Presentato al Festival di Cannes del 1986, vincitore al Festival di Torino nel 1987, Esther (1985) è stato il suo primo lungometraggio di finzione e ha inaugurato una trilogia dedicata ai temi dell'esilio, dell'emigrazione e della diaspora ebraica. Esther è basato filologicamente sul testo biblico, attraverso una morbida, fluida struttura data dall'uso del piano-sequenza e da un raffinato lavoro sul colore. Il film stabilisce degli agganci cruciali con la contemporaneità sociale e politica di Israele che irrompe e si mescola alla circolarità del tempo e del testo biblico, mostrando un'inesauribile e generosa ricchezza di interpretazione. A Esther seguì Berlin-Jerusalem (1989), film lucido, anche grazie al lavoro di Henri Alekan che ne ha curato magistralmente la fotografia, e che mostra attraverso la storia parallela di due donne, la poetessa E. Lasker-Schüler e la rivoluzionaria russa M. Sochat, il violento insorgere del nazismo in Europa e la fondazione dei primi kibbuz in Palestina. Golem ‒ L'esprit de l'exil (1992; Golem ‒ Lo spirito dell'esilio) fu l'ultimo della trilogia che proseguì idealmente con Le jardin pétrifié (1993), noto anche come The petrified garden.Nel 1991 G. ha ottenuto il Gran premio al Festival dei popoli di Firenze dedicato al documentario con Wadi 1981-1991. Nell'ambito del suo lavoro il regista non ha mai abbandonato la realizzazione di documentari che hanno costituito una sorta di contrappunto alla realizzazione di film di finzione. Nel 1992 G. si è misurato per la prima volta con il teatro, mettendo in scena a Gibellina lo spettacolo Metamorfosi di una melodia, dall'opera dello storico Giuseppe Flavio, con brani dell'Ecclesiaste e di altri autori (R.M. Rilke, O. Wilde), cui hanno preso parte attori-icone abilmente decostruiti quali Samuel Fuller, Hanna Schygulla, Jerome Koenig. Come prolongement di questa singolare operazione ha allestito l'anno seguente nel ghetto di Venezia, in apertura della Biennale d'arte, La guerre des fils de lumière contre les fils des ténèbres, ispirato ai manoscritti del Mar Morto.Dopo il suo ritorno in Israele, nel 1993, G. ha realizzato più di una decina di film, lungometraggi e documentari, tra i quali Dans la vallée du Wupper, su un episodio di grave antisemitismo in Germania; Nel nome del Duce (1994), girato in Italia durante la campagna sostenuta da A. Mussolini come candidata a sindaco di Napoli, opera che, insieme alla precedente, costituisce un dittico allarmante sul ritorno dei 'fascismi' in Europa; e Give peace a chance ‒ Au pays des oranges, del 1994, intenso documentario in quattro parti, sottratto a ogni banalizzazione, che fa ancora una volta il punto sul conflitto israeliano-palestinese. Milim, conosciuto anche con il titolo Words, e Zirat Ha-rezaḥ, noto con il titolo The arena of murder, entrambi del 1996, sono testimonianze dolenti della situazione in Israele dopo l'assassinio di I. Rabin; mentre Tsion, autoemancipatcie (1999), attraverso un meticoloso lavoro di ricerca, testimonianze e riscoperta di testi, risale fino alle radici del sogno sionista, là dove nacque l'idea stessa dello Stato di Israele. Nel 1995 G. ha dato inizio a una nuova trilogia dedicata alle tre grandi città israeliane: Devarim (L'inventario, su Tel Aviv), tratto dall'omonimo romanzo di Y. Shabtai, e Yom Yom (Giorno per giorno, su Haifa) ‒ presentati al Festival di Venezia rispettivamente nel 1995 e nel 1998 ‒ e Kadosh (dedicato a Gerusalemme), in concorso al Festival di Cannes nel 1999. Con la trilogia su Israele, G. si è accostato all'essenza più profonda del suo Paese, mostrato criticamente e con grande amore fino alle radici delle sue contraddizioni, percorso nelle modulazioni della sua accecante luce mediterranea e declinato attraverso riferimenti stilistici diversi, quello del dramma (Devarim), della commedia (Yom Yom), e del mélo (Kadosh). Ogni film è un capitolo a sé stante e nello stesso tempo risulta parte di un unico testo attraversato da segrete corrispondenze, analogie, rispecchiamenti.

Nel 2000 G. ha realizzato Kippur, presentato al Festival di Cannes: intenso e drammatico film bellico, elabora, a ventisette anni di distanza da quella guerra, l'episodio autobiografico che spinse G. a diventare un cineasta. Il film procede con l'implacabile calma di lunghi piani-sequenza che accompagnano le attese di mezzi incolonnati, la reazione impotente all'attacco di un nemico invisibile, la pioggia e il fango che mescolati ai corpi e ai pianti trasmettono la disperata insensatezza, l'inutilità di ogni guerra. Tra la fine del 2000 e l'inizio del 2001, G. ha avviato il progetto di un'ulteriore trilogia sul nodo irrisolto del 1948, l'anno di fondazione di Israele, di cui Eden, girato tra Israele e gli Stati Uniti, in concorso alla Mostra di Venezia del 2001, è stato il primo 'capitolo'. Nel film, ambientato in Palestina tra il 1939 e il 1946, segnato dalla presenza attoriale e metaforica di Arthur Miller, lì chiamato "a difendere l'idea della diaspora" (D. Turco in Amos Gitai, 2002, p. 90), il paesaggio, prima e più ancora che i corpi, acquista un peso e una forza radicale cominciando a fornire, andando alle radici della questione della terra, qualche risposta alle ragioni di un conflitto senza fine in quei luoghi. Kedma (Verso Oriente ‒ Kedma), in concorso al Festival di Cannes del 2002, estremizza il filo teorico inaugurato da Eden e mostra l'aspra, fragile bellezza di una terra sacra non solo per un popolo. Bloccato nell'intreccio plastico dei piani-sequenza che ne costituiscono lo scheletro, il film risuona dell'intreccio complicato delle lingue: l'ebraico, il polacco, lo yiddish, il russo, che spesso si sciolgono in canto. Kedma è l'alba disperata che sorge su uno Stato non ancora nato e su due popoli, gli ebrei e i palestinesi, disperati e in fuga entrambi da qualcuno. Ha inoltre collaborato al film collettivo 11′ 09′′01 ‒ September 11 (2002; 11 settembre 2001), con un episodio caratterizzato da un unico lungo piano-sequenza.

Bibliografia

Amos Gitai, a cura di A. Farassino, Mostra Internazionale Riminicinema, Rimini 1989; The films of Amos Gitai: a montage, ed. P. Willemen, London 1993; Amos Gitai. Cinema forza di pace, a cura di D. Turco, Recco 2002.

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