MARGOTTI, Anacleto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARGOTTI, Anacleto

Francesca Lombardi

– Nacque a San Potito di Lugo di Romagna il 2 ag. 1895, ultimogenito di Francesco, operaio, e di Filomena Bertuzzi.

A causa delle modeste condizioni economiche della famiglia sin da bambino iniziò a lavorare come bracciante agricolo e garzone, entrando poi come apprendista nella bottega di un decoratore, dove iniziò a impratichirsi nelle tecniche della tempera e dell’affresco. Parallelamente, mosso da una precoce vocazione artistica, incoraggiato dal sacerdote P. Rambelli, si dedicò al disegno e allo studio delle opere custodite nelle chiese dei dintorni. Tredicenne realizzò un Autoritratto (Imola, Raccolta d’arte Margotti) che, inviato al concorso indetto dalla Cassa di risparmio locale, ottenne il primo premio, consentendogli di continuare gli studi.

Nel 1914 realizzò per la cappella battesimale della chiesa arcipretale di Alfonsine un Battesimo di Cristo a fresco (ripr. in Solmi, p. 153). Anche grazie al discreto successo riscosso in quella occasione sulla stampa locale, il M. conobbe alcuni artisti e intellettuali romagnoli, come il musicista F. Balilla Pratella e il pittore G. Vespignani, venendo in contatto in tal modo con la poetica futurista. Chiamato alle armi nel 1915 in fanteria, nel 1917 il M. riuscì a ottenere, durante una licenza, l’abilitazione all’insegnamento del disegno presso l’Accademia di belle arti di Bologna. Nello stesso anno perse il fratello Luigi Mario, caduto sul Carso; rimasto egli stesso ferito in combattimento, venne ricoverato in ospedale a Venezia, ove l’incontro con il pittore E. Notte lo incoraggiò nella propria determinazione di tentare la carriera artistica. Dopo la guerra il M. si stabilì a Imola, dove abitò sino alla morte insieme con la compagna Elvira Martelli. Nel dopoguerra pubblicò i romanzi Sfiducia (Bologna 1919) e Ombre di vita (Bologna-Imola 1922) nei quali appare partecipe della crisi vissuta in quel momento da gran parte della cultura europea. Non smise tuttavia di dipingere, realizzando nel 1919 la Vergine appare a s. Casciano per la chiesa di Rocca San Casciano e, insieme con Vespignani e N. Pasi, alcuni dipinti e decorazioni per il palazzo Ginnasi a Imola. Nel 1920 esordì, all’annuale rassegna bolognese dell’Associazione Francesco Francia, con uno Studio di Cristo, confermando negli anni successivi il suo interesse per l’arte sacra con una serie di opere destinate ad alcune chiese della zona: la Beata Teresa del Bambin Gesù del 1924 e il Sacro Cuore del 1925, entrambe a Imola, rispettivamente, nella chiesa del Carmine e in quella dei Servi; e ancora S. Pietro risana lo storpio del 1925 per la chiesa di Casola Canina.

Accanto alle opere di soggetto sacro, segnate da ascendenze classiche su cui s’innestano note di acuto realismo, prevale nella prima produzione del M. una predilezione per il ritratto, genere che poi non abbandonò mai del tutto, testimoniata da dipinti quali Monello del 1919 e Autoritratto del 1925 (conservati a Imola nella Raccolta d’arte Margotti), caratterizzati da una raffinata sensibilità formale e cromatica. Difatti, nonostante il contesto provinciale e appartato in cui avvenne la sua formazione da autodidatta, gli esordi del M. evidenziano già nelle prime prove note un linguaggio aggiornato e nutrito di suggestioni oscillanti fra la tradizione del verismo ottocentesco e la cultura postimpressionista, testimonianza del progressivo ampliarsi dei suoi riferimenti culturali, cui contribuirono, senza dubbio, anche i soggiorni a Vienna (1921) e a Parigi (1926).

Nel corso degli anni Venti il M. raggiunse una certa notorietà partecipando a diverse mostre regionali, fra cui quella allestita nel 1926 a Modigliana in commemorazione di S. Lega, in cui espose sette dipinti che attirarono l’attenzione di C. Carrà il quale, l’anno seguente, lo presentò nella sua prima personale, tenutasi a Milano presso la galleria Celentano, sottolineando la vocazione «popolare» e realistica della sua pittura, espressa con accenti particolarmente felici soprattutto nelle scene ispirate alla vita e al lavoro contadino. Il consenso critico ottenuto dalla mostra, salutata favorevolmente anche da M. Sironi, venne confermato dalle successive personali tenute dal M. a Milano nel 1929 e nel 1931 (sala del Giornale dell’arte, sempre con presentazione di Carrà) e da quelle allestite a Roma nel 1928 e nel 1933 nello spazio di A.G. Bragaglia, che concorsero all’affermazione dell’artista su scala nazionale. A questi anni risalgono anche le prime partecipazioni alle maggiori rassegne dell’epoca: ammesso per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1930, vi partecipò ancora nel 1934, nel 1940 e nel 1942; mentre nel 1943 prese parte alla sua prima Quadriennale romana. Parallelamente a questa fitta attività espositiva, destinata negli anni seguenti a intensificarsi ulteriormente, il M. non abbandonò la pratica della scrittura, avviando, già dagli anni Venti, diverse collaborazioni come critico d’arte con varie testate, quali, fra le altre, Il Resto del carlino, La Stampa, Il Popolo d’Italia. Nel 1936, inoltre, iniziò a insegnare storia dell’arte al liceo classico di Imola, ottenendo, dopo la Liberazione, il posto di ruolo per titoli.

Già dalla fine degli anni Venti il M. cominciò a orientarsi sempre più decisamente verso soggetti ispirati ai paesaggi della Romagna, alla vita agreste e al lavoro contadino resi mediante un linguaggio pittorico in cui, gradualmente, la vena veristico-naturalistica degli esordi tende a coniugarsi con un sintetismo di ascendenza novecentista, evoluzione cui certo non fu estranea la meditazione sulla lezione di Carrà e di Sironi, evidente in opere quali Antica aratura o Tre lavandaie (ambedue del 1936: Imola, Raccolta d’arte Margotti). Nei numerosi dipinti di questi anni la celebrazione del mondo contadino si traduce difatti in composizioni sintetiche, dai volumi squadrati, rese con larghe stesure di colore in cui, tuttavia, sovente le figure appaiono animate da un’interna componente dinamica, riconducibile forse alla matrice futurista. Grazie anche a tale ricchezza di suggestioni ravvisabile nella sua pittura, fra cui una genuinità di umori e un’antiretorica non distante da quella propugnata da Strapaese, i decenni fra le due guerre furono caratterizzati da un consenso crescente e diversi dipinti del M. entrarono a far parte di importanti collezioni pubbliche e private: fra questi La battaglia del grano, acquistato in occasione della personale tenuta presso la galleria Grande di Milano nel 1941 per la Galleria d’arte moderna della città, e Autunno in Romagna, selezionato per la Galleria nazionale d’arte moderna nel 1942 nell’ambito di una collettiva presso la Galleria di Roma. Al 1943 risale la piccola monografia dedicatagli da Carrà che, nell’accurata bibliografia, testimonia la non indifferente fortuna critica ormai raggiunta da Margotti. Il vasto successo, tuttavia, non portò il M. – pur intensamente coinvolto nei dibattiti dell’epoca anche grazie all’attività di critico – a rivedere la propria posizione di pittore indipendente da ogni movimento, «fedele a un mondo bucolico e fatalmente straniato dal presente» (Solmi, p. 9), che diverrà un topos fondamentale nella letteratura sul Margotti.

Fra il 1944 e il 1945 il M. lasciò Imola e si rifugiò sulle colline limitrofe, realizzando in questo periodo una serie di disegni dal segno marcato e sintetico che, grazie all’incoraggiamento di R. De Grada, verranno pubblicati dopo la guerra. Dalla fine degli anni Quaranta, ripresa l’attività di insegnante e di critico, il M. tornò a presentare le sue opere nelle maggiori mostre nazionali, partecipando alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950 e a tutte le Quadriennali di Roma dal 1948 al 1959 (nella VI edizione la sua opera Vendemmia venne acquistata dal presidente della Repubblica L. Einaudi); tuttavia, in questo contesto, ormai mutato il clima culturale, la sua pittura iniziò a riscuotere minori consensi, come testimoniato anche dal carteggio con F. Bellonzi, direttore della Quadriennale, a cui il M. chiederà invano un maggiore spazio nell’ambito della rassegna romana.

Il M. partecipò anche a molti dei premi indetti in quegli anni, vincendo, fra gli altri, l’edizione del 1949 del premio Suzzara, una delle roccaforti dei fautori del realismo, e nel 1955 il Michetti di Francavilla a Mare. Nel 1946, inoltre, in accordo con Carrà, A. Soffici e De Grada, nell’intenzione di promuovere nuove occasioni di confronto artistico il M. diede vita alla Mostra nazionale di arte figurativa di Imola, manifestazione di cui fu l’animatore sino agli ultimi anni di vita.

Anche nel secondo dopoguerra il M. rimase, secondo Solmi, fedele alla propria poetica di interprete di un «mondo georgico», confermando, nel clima fortemente ideologizzato di quegli anni, il suo orientamento verso il realismo con una pittura animata, come sempre, da una profonda adesione sentimentale più che da istanze di carattere sociale. Nel corso dei decenni successivi, difatti, il M. continuò ad arricchire il consueto repertorio di motivi (fra cui, particolarmente ricorrente, il tema della raccolta dei fragoloni) con opere di corposa vitalità caratterizzate da un ductus sintetico e da stesure cromatiche larghe e pastose, indirizzandosi, già a partire dalla fine degli anni Quaranta, verso soluzioni di sempre maggiore dinamismo compositivo e intensa vivacità cromatica, come testimoniano dipinti quali Raccolta dei covoni del 1949; Tre romagnole del 1959; Ortolane del 1968 (Imola, Raccolta d’arte Margotti). Tale ricerca, approfondita nel corso dei decenni successivi, portò il M. a una strutturazione sempre più sintetica e dinamica dell’immagine, arricchita da un cromatismo brillante, talvolta quasi dirompente, come illustrato dalle tele realizzate nei primi anni Settanta, quali Donne che riposano e L’ombrellone rosso (ambedue del 1970 e conservate nella Raccolta d’arte Margotti).

Dopo il 1960, anno in cui la città di Firenze gli dedicò una prima importante antologica, numerose altre personali celebrarono l’artista e contribuirono a tenerne viva la notorietà (1962, Milano; 1963, Torino; 1968, Roma; 1971, Imola; 1983, Bologna). Fra i numerosi riconoscimenti tributati in questi anni al pittore e alla sua ormai pluridecennale attività – rievocata dallo stesso M. nell’autobiografico Vita d’arte (Bologna 1967) – si ricorda inoltre il documentario Un uomo che dipinge, girato nel 1969 da E.G. Laura, direttore della Mostra del cinema di Venezia, e ambientato fra lo studio del M. a Imola e le campagne limitrofe che, come sempre, continuavano a offrirgli inesauribili spunti d’ispirazione. Nonostante l’avanzare dell’età, il M. continuò a dipingere con tenace passione sino agli ultimi anni, realizzando nel 1974 anche una grande pala raffigurante il Battesimo di Cristo, in sostituzione della tela da lui stesso dipinta nel 1914 per la chiesa di Alfonsine, distrutta durante i bombardamenti del 1944. Nel 1975 il M. donò un nucleo consistente della propria produzione (250 dipinti e 150 disegni) alla Cassa di risparmio di Imola, affinché restasse nella sua città d’adozione, istituendo in tal modo la Raccolta d’arte Margotti; mentre nel 1981 una serie di opere a soggetto sacro, genere che il pittore non aveva mai abbandonato del tutto, furono donate al Museo diocesano della città; nello stesso anno un suo Autoritratto (1925) entrò a far parte della Galleria degli Uffizi.

Il M. morì a Imola il 3 maggio 1984.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. Biblioteca della Fondazione La Quadriennale di Roma; V. Giglio, A. M., Milano 1941; C. Carrà, M., Rovereto 1943; M. Borghi, A. M. pittore e critico d’arte, Roma 1958; A. M. (catal., Firenze), Imola 1960; M. Sessanta disegni (sulla linea gotica), a cura di R. De Grada, Bologna s.d. [ma 1962]; Lavoro e natura nell’arte di M. (catal., Roma), Bologna 1968; Raccolta d’arte Margotti, Imola 1975; M. (catal., galleria Delfino), Rovereto 1977; F. Solmi, A. M. (catal., Bologna), Casalecchio di Reno 1983; La pittura in Italia. Il Novecento/1, 1900-1945, Milano 1992, I, p. 362; II, pp. 954 s.; A. M. (catal., Lugo), a cura di A. Savini, Faenza 1995 (con bibl.); A. Castronuovo, A. M. e Francesco Meriano nella traccia di un epistolario, in Studi romagnoli, LIII (2002), pp. 686-692.

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