ANACREONTE

Enciclopedia Italiana (1929)

ANACREONTE ('Ανακρέων, Anacreon)

Angelo TACCONE
Ferdinando NERI

Nacque in Teo una delle dodici città della confederazione ionica dell'Asia Minore assai probabilmente circa l'olimpiade LII (572 a. C.). Il nome del padre di lui ci è tramandato sotto varie forme: Partenio, Eumelo, Aristocrito, Scitino: la più verisimile sembra essere quest'ultima, anche perché in epoca più tarda troviamo in Teo un giambografo di tal nome. Strabone ci narra che ai tempi di A. gli abitanti di Teo espatriarono e andarono a fondare la colonia di Abdera sulle coste della Tracia: ora la cosa avvenne, secondo Erodoto, in seguito all'invasione persiana condotta da Arpago nell'anno 3° dell'olimpiade LVIII (545 a. C.); il poeta lasciò dunque nel fiore degli anni la dolce terra d'Asia per l'aspra costa della Tracia. In quell'occasione probabilmente, o più tardi in Tracia, il giovine poeta prese parte a fatti d'arme in cui crede taluno che, come già prima Archiloco ed Alceo e poi più tardi Orazio, egli pure abbandonasse lo scudo. Le relazioni stabilite fra A. e Saffo durante la dimora del primo sulle coste della Tracia non sono che invenzioni di tardi scrittori (Ermesianatte, Cameleonte), cui diede appiglio un'arbitraria interpretazione di qualche luogo del poeta stesso. È certo invece che durante la tirannia di Policrate (533-522), A. fu in Samo, se anche non quale precettore del figlio di Policrate (la cosa è attribuita pure ad Ibico) o addirittura consigliere del tiranno in cose di grande importanza, certo come incaricato di allietare coi suoi canti quella splendida corte. A questo periodo della vita del poeta appartiene senza dubbio la maggior parte di quella sua produzione che esalta i bei giovinetti, come Smerdi, Cleobulo, Megiste, Simalo, Pitomandro, ecc.; Batillo non ricorre nei frammenti autentici. Ma i begli anni samî trascorsero rapidi: Policrate fu ucciso nel 522. Non mancò tuttavia così presto al poeta la protezione d'uno splendido principe: il pisistratide Ipparco, che già aveva avuto modo di conoscerlo e d'apprezzarlo, lo mandò a prendere con grande onore (per mezzo di una nave a cinquanta remi, secondo lo pseudo-platonico Ipparco) e se lo tenne carissimo, finché nel 514 non cadde egli pure sotto il pugnale d'Armodio. Se A. rimanesse ancora in Atene sino d'Ipparco, non sappiamo. In Atene egli strinse dimestichezza con Laso d'Ermione e Simonide e con cittadini insigni ed opulenti quali Santippo, il padre di Pericle, e Callia, il nonno di quello che fu uno dei trenta tiranni. Dall'Attica sembra sia passato alla corte di qualcuno degli Alevadi in Tessaglia: certo, però, dopo la dimora ateniese d'Anacreonte, di sicuro non si riesce più a sapere sul conto suo gran cosa. La notizia tramandata da Suida che circa il 500 egli abbia, in seguito alla rivolta ionica, lasciato di nuovo Teo per Abdera, appare assai dubbia ed ha tutta l'aria di una inopportuna reduplicazione del primo, ben più sicuro, viaggio. Un epigramma, attribuito a Simonide, ma certamente spurio, sarebbe stato fatto per la tomba di Anacreonte in Teo: del resto, anche a voler prendere sul serio quell'epigramma, non ne consegue che la vera tomba del poeta fosse in Teo: si sarebbe anche potuto trattare d'un cenotafio. Una statua riproducente le sembianze di Anacreonte in Teo è ricordata da Teocrito in uno dei suoi epigrammi. La morte lo avrebbe raggiunto assai tardi, a ottantacinque anni, per soffocazione prodotta da un acino d'uva (motivo novellistico che s'incontra pure a proposito della morte di Sofocle). Certo visse a lungo, perché egli stesso parla sovente, nei frammenti a noi giunti, della sua vecchiaia e dei suoi bianchi capelli. Gli Ateniesi l'onorarono con una statua posta sull'Acropoli accanto a quella dell'amico suo Santippo; quei di Teo ne impressero l'immagine sulle loro monete; a noi sono giunte figurazioni sia plastiche sia pittoriche (si tratta, naturalmente, di pitture vascolari) che pretendono riprodurre le sembianze del poeta: notevole in particolar modo il busto del Palazzo dei Conservatori che lo rappresenta nel pieno vigore degli anni, con barba e capelli inanellati, e che risale certo, per le sue particolarità stilistiche, ad un originale del sec. V a. C.

Le poesie d'Anacreonte furono dagli Alessandrini, che presto si occuparono di lui (Zenodoto, Aristofane di Bisanzio, Aristarco), distribuite assai probabilmente in cinque libri, di cui tre di componimenti propriamente lirici, uno di elegie, uno di giambi. Come scrittore d'elegie A. continua la tradizione ionica di Mimnermo, sebbene la rappresentazione dell'amore differisca alquanto nei due poeti: come giambografo (trimetri giambici, tetrametri trocaici, composizioni asinartetiche, trimetro giambico seguito da un trimetro dattilico o da un dimetro trocaico catalettici) si riattacca ad Archiloco e ne ha qualche volta davvero la mordacità e la violenza: così nei versi in cui se la prende col neo-arricchito Artemone o con Euripile, versi che probabilmente appartennero al primo periodo dell'attività di lui. È, quello della giambica virulenza, un lato della poesia d'A. che di solito il gran pubblico non conosce, come non conosce quello che mostra un A. esaltatore delle opere della guerra. Ma è vero che gli argomenti preferiti da A. furono il vino e l'amore (anche quando egli sembra intonare, nei suoi carmi melici, un inno in onore di qualche divinità, lo spunto erotico in generale vi fa capolino: così nell'inno a Dioniso). E di ciò tratta in particolare nei carmi melici, dov'egli si riattacca in massima alla tradizione eolica d'Alceo e di Saffo. Non ne riproduce tuttavia le strofe caratteristiche: egli preferisce soprattutto una strofetta composta di tre gliconei e d'un ferecrateo, la quale talora si amplia in una strofa costruita di due periodi, il primo composto di due gliconei chiusi da un ferecrateo, e il secondo costituito di quattro gliconei seguiti da un ferecrateo. Il ferecrateo è anche adoperato da solo; talora poi s'incontra il verso formato dal gliconeo unito col ferecrateo (priapeo); talora versi coriambico-logaedici; talora infine (anzi, spesso) serie di ionici a minori (dimetri e tetrametri, anaclastici o no, catalettici e acatalettici). E in questi svariati e spesso originali metri A. canta, come dicevamo, il vino, le etère, ma in particolar modo i bei giovinetti come Megiste dalla dolce indole, Smerdi dalle belle chiome. Si racconta, a proposito di questo oggetto dei canti di A., un assai significativo aneddoto: essendogli stato un giorno domandato perché la sua poesia, invece di glorificare gli dei, celebrasse giovani garzoni, si dice ch'egli rispondesse: "questi sono i nostri dei".

Ma la poesia amorosa di A. è ben lontana dall'avere la forza di quella di Saffo o anche d'Alceo: A. ha una straordinaria dolcezza, urbanità, semplicità, grazia, ma non profondità di sentimento. La sua lingua è il dialetto ionico con qualche traccia d'eolismo dovuto all'influsso della tradizione letteraria.

La fama d'A. fu assai durevole nell'antichità. I suoi carmi vennero ritenuti più adatti di quelli d'ogni altro poeta a rallegrare i simposî: egli trovò un numero strabocchevole di imitatori. Il giudizio che l'antichità diede di lui è compendiato assai bene in due epigrammi attribuiti a Simonide, ma certamente apocrifi. Nel primo il poeta domanda che una vite, piantata sulla tomba di A., fornisca ancora sotterra il vino all'amabile bevitore dai dolci canti nel secondo egli dice tra l'altro che ad A. sceso all'Ade non rincresce già l'esser morto, ma di non poter più amare Smerdi o Megiste.

In appendice all'Antologia Palatina di Costantino Cefala (v. antologia greca) ci sono giunte 62 poesiole di stile anacreonteo, che vanno appunto sotto il nome di Anacreontee. Si ritenne a lungo che, se non tutte, in parte almeno fossero genuine; ma la critica odierna le considera tutte quante spurie. Cantano il vino e l'amore (delle etère e, più, dei giovinetti: qui s'incontra Batillo), ma con una uniformità di tono e di metri che non sono davvero caratteristiche d'A. Sono quasi tutte in dimetri giambici catalettici o in dimetri ionici a minori anaclomeni. Di più, esse sono ignorate dagli scrittori eruditi che spesso citano qualche frammento degli scritti genuini del poeta; ancora, più d'una dice apertamente che vuole imitare A., o fa una graduatoria dei poeti mettendo A. alla pari di Saffo, e Pindaro al disopra d'entrambi, oppure ci mostra esteriore palesa la non appartenenza ad A. Se ne distinguono parecchi gruppi, a seconda dell'età cui sembrano appartenere. Una dozzina delle prime, in metro giambico, sembrano appartenere all'inizio dell'era volgare o ad epoca di poco anteriore; un altro gruppo mostra evidenti gl'influssi della seconda sofistica; alcune altre paiono di poco posteriori a Nonno di cui sembrano subire l'influsso metrico; una ventina e più, come dimostrano particolarità linguistiche e metriche, sono certamente bizantine. Con Sinesio di Cirene, poi, Sofronio di Damasco, Elia e Michele Sincello di Gerusalemme, ed altri infiniti, fiorisce l'anacreontica cristiana.

Per i frammenti d'Anacreonte cfr. Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci, 4ª ed., Lipsia 1882, III, pp. 253-95; Diehl, Anthologia lyrica, IV, Lipsia 1923, pp. 446-75; L. A. Michelangeli, I frammenti della melica greca (ediz. e trad.), IV, Bologna 1893; A. Taccone, Melica greca, Torino 1904, pp. 152-79; per le Anacreontee, cfr. Th. Bergk, op. cit., III, pp. 296-338; Hiller-Crusius, Anth. lyr., Lipsia 1897, pp. 344-64; C. Zuretti, Anacreonte ed Anacreontee, Torino 1893, pp. 24-69.

Bibl.: Oltre le pagine relative delle grandi storie letterarie come quelle di Christ-Schmid-Stählin, dei fratelli Croiset, del Geffcken, del Wilamowitz, ecc., cfr. O. Crusius, Anakreon, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. classischen Altertumsw., I, col. 2035 segg.

La fortuna postclassica di Anacreonte.

Il Petrarca, nel Trionfo d'Amore, nomina "Anacreonte, che rimesse ha le sue muse sol d'Amore in porto"; ma non conosceva del vecchio poeta se non il nome: le poesie che gli si attribuiscono furono scoperte nel sec. XVI dal filologo francese Henry Estienne, che ne pubblicò 53 odi nel 1554; il Ronsard cantò la scoperta e imitò le odicine, che furono tradotte in versi francesi da Rémy Belleau: si può anzi affermare che i caratteri di quell'antica poesia divennero fra i più evidenti di tutta la scuola della Pléiade, e che di qui ebbe a derivarli il Chiabrera insieme con la sua riforma metrica (prevalenza di versi brevi, alternamente piani, tronchi e sdruccioli in sedi fisse della strofe). Ancora nel Cinquecento, la "suaviloquia Musa Anacreontica" fu imitata dai poeti fidenziani (specialmente da Ercole Fortezza), da Claudio Tolomei, Benedetto Guidi, Torquato Tasso, Giuliano Goselini, Filippo Alberti; e la tradizione si proseguì col Cavalier Marino, il Redi, il Magalotti, il Menzini, nel Seicento, e nel Settecento con l'Arcadia: "il solo Zappi" fra tutti i poeti, dava al Leopardi una "sensazione" uguale a quella che egli provava nella lettura di Anacreonte; ma l'anacreontica, cioè l'odicina, la canzonetta amorosa e bacchica, di spiriti leggieri, di metri brevi, di stile vezzoso, fu una delle espressioni tipiche della poesia del Settecento, e non v'è rimatore d'Arcadia che non ne abbia dato qualche saggio: il Metastasio, il Crudeli, il Rolli, il Bertòla; Iacopo Vittorelli legò il suo nome alle Anacreontiche a Irene e a Dori, canti agevoli e leggiadri, alquanto ammanierati. Un Poemetto anacreontico diede il Monti, oltre l'ode All'amica e il Cespuglio delle quattro rose; ed altre odicine Diodata Saluzzo, Gabriele Rossetti (Ad Amor pittore), Felice Romani.

Traduttori numerosi, e non sempre felici, s'ebbero in Italia: nel sec. XVII, Michelangelo Torcigliani, F. A. Cappone e Bartolomeo Corsini, oltre al Régnier Desmarais che vi si provò per esercizio della nostra lingua (Parigi 1696); nel sec. XVIII, Alessandro Marchetti, F. Catelano (sotto lo pseudomino di Cidalmo Orio), Paolo Rolli, Cesare Gaetani, F. Saverio de' Rogati, Giuseppe Pagnini; nel sec. XIX, Carlo Majneri, Antonio Winspeare, Giovanni Caselli, Paolo Costa, Giovanni Marchetti, Giuseppe Bandini (in sonetti), Vincenzo di Fede, Iacopo d'Oria, il p. Bonaventura Viani, G. B. Maccari, Gius. Sapio, Gherardo Nerucci, Andrea Maffei, L. A. Michelangeli, Gaetano Pelliccioni, Domenico Menghini, Vittorio Taccone. Fra tutte queste versioni, ebbe fama quella del De Rogati, infedele, ma "cantabile", ed è pregiata, per la fedeltà, quella moderna del Michelangeli. Alcune odicine tradussero sparsamente il Tolomei, il Tasso, Saverio Mattei, il Parini, il Monti, il Foscolo, il Leopardi giovinetto, ed altri minori.

Molte traduzioni ebbe anche la Francia dopo il sec. XVI: di M.me Dacier (in prosa) e del Longepierre (in versi) nel Seicento; poi di Fr. Gacon, Poinsinet de Sivry, Moutonnet-Clairfons, J. B. Gail, P. H. Anson, Mérard de Saint-Just, e con la fine del Settecento, in quel ritorno all'antico ch'ebbe a campione André Chénier, la vena anacreontica riprese un grande favore; si noti anche una versione in versi provenzali di L. Aubanel (1802), che chiamarono l'"Anacreonte della Linguadoca".

In Inghilterra, risentono dell'influsso pseudo-anacreontico Robert Greene nell'Orpharion (1589), Michael Drayton, Thomas Lodge, Robert Herrick, Ben Jonson, Th. Carew; fra le traduzioni, insigne quella di Th. Moore (1800). In Germania, A. ebbe grande fortuna intorno alla metà del Settecento, con Hagedorm Gleim, Götz, Chr. Ewald, j. P. Uz e col Lessing ne' suoi esordî; il Wieland deplorò quella fanciullaggine poetica, ma il Goethe non disdegnò di riprendere, fra altro, l'odicina "Alla cicala".

Riassumendo, i due momenti più significativi della moderna poesia "anacreontica" stanno nella seconda metà del Cinquecento, in Francia ed in Italia, e nel Settecento arcadico, per quel suo carattere diffuso in tutta l'arte europea di "semplicità" ricercata preziosa e voluttuosa, che s'avvolge di ritmi eleganti e leggieri.

Bibl.: L. A. Michelangeli, Anacreonte e la sua fortuna nei secoli, Bologna 1922; S. Ferrari, Di alcune imitazioni e rifioriture delle "Anacreontee" in Italia nel secolo XVI, nel Giornale storico della letteratura italiana, XX (1892); F. Neri, Il Chiabrera e la Pleiade francese, Torino 1920; per la Germania, Withowski, Die Vorläufer der anakreont. Dichtung in Deutschland u. F. v. Hagedorn, Lipsia 1889; F. Ausfeld, Die deutsche anakreontische Dichtung des XVIII Jahrhunderts, Lipsia 1907, in Quellen und Forschungen, 101; A. Pick, Zur Geschichte d. deutschen Anakreontiker, in Studien zur vergleichenden Literaturgeschichte, VII (1907) e IX (1909).

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